L'albero della storia è sempre verde

L'albero della storia è sempre verde

"Teniamo ben ferma la comprensione del fatto che, di regola, le classi dominanti vincono sempre perché sempre in possesso della comprensione della totalità concettuale della riproduzione sociale, e le classi dominate perdono sempre per la loro stupidità strategica, dovuta all’impossibilità materiale di accedere a questa comprensione intellettuale. Nella storia universale comparata non vi sono assolutamente eccezioni. La prima e l’unica eccezione è il 1917 russo. Per questo, sul piano storico-mondiale, Lenin è molto più grande di Marx. Marx è soltanto il coronamento del grande pensiero idealistico ed umanistico tedesco, ed il fondatore del metodo della comprensione della storia attraverso i modi di produzione. Ma Lenin è molto di più. Lenin è il primo esempio storico in assoluto in cui le classi dominate, sia pure purtroppo soltanto per pochi decenni, hanno potuto vincere contro le classi dominanti. Bisogna dunque studiare con attenzione sia le ragioni della vittoria che le ragioni della sconfitta. Ma esse stanno in un solo complesso di problemi, la natura del partito comunista ed il suo rovesciamento posteriore classistico, individualistico e soprattutto anti- comunitario" Costanzo Preve da "Il modo di produzione comunitario. Il problema del comunismo rimesso sui piedi"

sabato 20 luglio 2019

Crisi isterica della Lega, la politica ha delle regole e i leghisti ne sono affranti

POLITICA
Venerdì, 19 luglio 2019 - 17:56:00
Conte difende Toninelli, Salvini irritato.E scatta l'affondo di Molinari-Romeo

di Alberto Maggi


"Io sono soddisfatto della mia squadra, stanno lavorando tutti bene" ha detto Giuseppe Conte in conferenza stampa a Palazzo Chigi. Peccato che tra i ministri ci sia anche quel Danilo Toninelli che, dopo il no alla Gronda di Genova (goccia che ha fatto traboccare il vaso), Matteo Salvini vuole cacciare il più presto possibile dal governo. Ed ecco che, passate meno di due ore, il leader leghista chiede a suoi due capigruppo di sparare alzo zero sul presidente del Consiglio. Prima Riccardo Molinari, Camera, poi Massimiliano Romeo, Senato, rialzano il tono dello scontro. Non siamo alla crisi di governo ma ormai è iniziata la partita del rimpasto. Toninelli il primo nel mirino.

LE PAROLE DI RICCARDO MOLINARI - "No alla Tav. No alla Tav veneta. No alla Pedemontana. No al Piano crocieristico della laguna di Venezia. No al nodo Firenze alta velocita'. E ora anche con il No alla Gronda, la misura e' davvero colma. Toninelli e' il ministro del No ed e' incomprensibile che il premier Conte prenda le sue parti quando sa bene che il Paese ha bisogno di ripartire e non di essere bloccato per paura di sbagliare. Questo modo di agire non fa bene alla nostra Italia che ha bisogno invece di slancio, di cantieri aperti, di opere e di persone che lavorano. Se nella vita la paura di sbagliare ti attanaglia e la tua decisione sara' sempre no quello del ministro non e' il tuo ruolo migliore". Lo dichiara il capogruppo della Lega alla Camera Riccardo Molinari.

LE PAROLE DI MASSIMILIANO ROMEO - "Le parole del Presidente Conte lasciano esterrefatti: l'azione di governo e' innegabilmente frenata da incomprensibili no e continui pareri ostativi. Difficile comprendere, dunque, le ragioni della soddisfazione del Presidente del consiglio, soprattutto nei confronti di alcuni ministri che bloccano vitali opere necessarie a far ripartire con slancio il nostro Paese e che creerebbero posti di lavoro e benessere per molti cittadini". lo afferma il capigrippo della Lega al Senato, Massimiliano Romeo, che aggiunge: "Questo governo ha ragione di esistere se fa le cose che chiedono i cittadini: la Lega e' il partito del fare, del progresso, che vuole rendere l'Italia quel paese moderno che tutti noi auspichiamo; diversamente non saremo disponibili a farci corresponsabili di chi non ha a cuore gli interessi delle imprese, della nostra economia e delle nostre comunita'", conclude.

http://www.affaritaliani.it/politica/conte-difende-toninelli-salvini-irritato-e-scatta-l-affondo-di-molinari-romeo-616842.html

Diritto internazionale fottiti - La Francia e la Germania chiedono l'immediato rilascio della nave iraniana sequestrata dalla Gran Bretagna a Gibilterra

Iran, Francia e Germania chiedono immediato rilascio petroliera

di MAD20 luglio 2019

Parigi (Francia), 20 lug. (LaPresse/AFP) - La Francia ha invitato le autorità iraniane a "rilasciare al più presto" la petroliera britannica sequestrata. "Chiediamo alle autorità iraniane di rilasciare la nave e il suo equipaggio il prima possibile, e di rispettare i principi di libertà di navigazione nel Golfo", ha detto in una nota il ministero degli Esteri francese. Stessa richiesta è giunta negli stessi minuti all'indirizzo di Teheran anche da Berlino.

Roma - basta alla prebenda che il corrotto euroimbecille Pd ha dato a casaPound

DOSSIER

Roma, la prefettura: 23 gli immobili da sgomberare ( dal 2020). Raggi: «Ci sarà anche CasaPound»

Il bilancio reso noto dal Viminale. Vanno ad aggiungersi ai due di Tor Marancia e Tor Pignattara prossimi allo svuotamento. L’elenco completo
di Redazione Roma

19 luglio 2019 | 11:35


Sono 23 gli immobili della Capitale occupati e sui quali gravano decreti di sgombero contenuti nel Programma degli interventi approvato dal Prefetto di Roma in seguito al «Decreto Sicurezza». A renderlo noto sono fonti del Viminale. Gli edifici vanno ad aggiungersi ai due per i quali la Prefettura ha già in corso le attività propedeutiche allo sgombero, a Tor Marancia e Tor Pignattara.

«Freno all’illegalità»

«In un territorio - afferma il Viminale - dove il fenomeno delle occupazioni abusive presenta dimensioni di notevole entità, con 82 immobili occupati abusivamente da più di 11.000 persone di diversa nazionalità, e con evidenti criticità di ordine e sicurezza pubblica oltre che sociali, è stato posto così un importante tassello per il ripristino di condizioni di legalità e sicurezza a beneficio di tutta la collettività».

Dalla primavera 2020

«Gli sgomberi contenuti nel programma - si prosegue - partiranno dalla primavera del 2020, tenendo conto che, nei prossimi mesi, occorre procedere con i due sgomberi già in fase di predisposizione: uno per il quale l’amministrazione dell’Interno è stata condannata ad un cospicuo risarcimento del danno di circa 260.000 euro al mese, con pignoramento dei fondi di 23 milioni di euro, e l’altro per il quale il prefetto di Roma si è già insediato come commissario ad acta, dopo il provvedimento del giudice amministrativo».

Nella lista non è presente CasaPound

Nella lista non è presente l’immobile di via Napoleone III dove ha sede CasaPound. La Prefettura precisa che «l’elenco potrà essere aggiornato, in relazione al sopravvenire di ulteriori provvedimenti dell’autorità giudiziaria o di eventi in grado di incidere sull’incolumità pubblica e la sicurezza ovvero in presenza di formali offerte da parte dei proprietari di adeguate soluzioni alloggiative, in grado di supportare l’attività assistenziale di Roma Capitale». La lista non cita Casapound, ma la sindaca della Capitale, Virginia Raggi, precisa che l’iter per lo sgombero del movimento di estrema destra dallo stabile storico dell’Esquilino è già stato avviato dall’agenzia del demanio: «Finalmente, questa situazione non è più tollerabile. Basta privilegi sulle spalle dei cittadini», tuona dai social. Fonti del Viminale fanno sapere che è stato dato particolare rilievo, nell’ordine, alle occupazioni in cui la mancata esecuzione del provvedimento penale è stata sanzionata con una condanna al risarcimento del danno, alle occupazioni gravate dall’ordine di rilascio, a quelle gravate da sequestro preventivo.

L’ex Cinodromo di via della Vasca Navale

. In lista c’è anche l’ex manicomio di Monte Mario, in piazza Santa Maria della Pietà, sede dell’associazione antagonista `Ex Lavanderia´, che organizza attività culturali: nel padiglione 25 sono presenti 7 nuclei familiari. Presa di mira anche la sede della `Casa delle donne Lucha Y Siesta´, in via Lucio Sestio, occupata l’8 marzo 2008, nella giornata internazionale delle Donne. Ci sono poi le sedi dei centri sociali `Strikers´ (in via Umberto Partini 21, occupato 18 ottobre 2002), `Spazio 32´ (in Piazza dei Sanniti, occupato il 15 aprile 2011), `BAM - Biblioteca Abusiva Metropolitana´ (in via dei Castani, occupato il 25 settembre 2008 e che attualmente ospita 10 esponenti di area anarchica), `Acrobax´ (l’ex cinodromo in via della Vasca Navale 6, di proprietà del Comune di Roma occupato il 20 novembre 2002, con 50 occupanti stabili).

La lista completa

La lista nel dettaglio: Via Prenestina 913 (Mun. V) di proprietà «Ca.Sa. SrL» occupato il 27 marzo 2009; Via Torrevecchia 158 (Mun. XIV) di proprietà «Casa di cura Valle Fiorita SrL» occupato il 6 dicembre 2012; Viale delle Province 196/198 (Mun. II) di proprietà «Investire Immobiliare SGR SpA» occupato il 6 dicembre 2012; Via Prenestina 944 (Mun. V) di proprietà Unicredit Leasing s.p.a. occupato il 6 dicembre 2012; Via Collatina 385 (Mun. V) di proprietà «IDEA FIMIT SGR SpA» occupato 12 ottobre 2004; Via Umberto Partini 21 (Mun. IV) di proprietà della RCS Pubblicità di Parma occupato 18 ottobre 2002; Via Tiburtina 1099 (Mun. IV) di proprietà «BAMI SrL» occupato il 12 ottobre 2013; via Roccagiovine 267 (Mun. IV ) in curatela fallimentare per conto della società Lanciostory occupato il 28 giugno 2013; Piazza dei Sanniti 9/a (Mun. II) di proprietà «Area Domus SrL» affittato alla «Camene SpA» occupato 15 aprile 2011; Via del Policlinico 137 (Mun. II) di proprietà «Cammeo Azzurro SrL» occupato il 4 dicembre 2009; Via Mattia Battistini 113/117 (Mun. XIV) di proprietà «Enasarco» occupato il 28 giugno 2013; Via dei Castani 42-44-46 (Mun. V) di proprietà Eredi di Attili Roberto occupato il 25 settembre 2008; via Tiburtina 1064 (Mun. IV) di proprietà ICMT SrL occupato il 6 aprile 2013; Via della Vasca Navale 6 (Mun. VIII) di proprietà Comune di Roma occupato 20 novembre 2002. Ancora: Via delle Sette Chiese 186 (Mun. VIII) di proprietà «Daunia srl» occupato il 30 ottobre 2003; Piazza Santa Maria della Pietà 5 pad. 25 e 31 (Mun. XV) di proprietà ASL RM E occupato 15 ottobre 2004; Via Gian Maria Volonté (Mun. III) di proprietà Cooperativa Sociale «Urania 2000» occupato il 3 novembre 2007; Via Lucio Sestio 10 (Mun. VII) di proprietà Società ATAC occupato 8 marzo 2008; Via Vittorio Amedeo II 16 (Mun. I) di proprietà «INPS» occupato il 9 novembre 2008; Via dei Radiotelegrafisti 44 (Mun. IX) di proprietà «COTRAL SpA» occupato il 27 novembre 2008; Locali commerciali siti al piano terra dell’immobile in Via Aldo Capitini 57 (Mun. VI) di proprietà «Gestim SrL» occupati il 5 dicembre 2013; Via Tor de Schiavi 101 (Mun. V) di proprietà «ACEA Distribuzione» occupato il 26 ottobre 2013; Corso d’Italia 108 (Mun. II) di proprietà Inps ex Inpdap occupato il 16 febbraio 2007.


Diritto internazionale fottiti - Stena Impero armatore britannico si trova in un porto iraniano

Iran cattura petroliera britannica, prezzi greggio in ascesa

20 Luglio 2019 - 11:17 

Cresce ancora la tensione fra Iran e potenze occidentali, dopo che è stata catturata una petroliera britannica nello stretto di Hormuz per presunte violazioni


Sale la tensione nello Stretto di Hormuz. L’Iran ha catturato una petroliera britannica per presunte violazioni del codice marittimo e ha permesso ad un’altra di procedere dopo un avvertimento. A dare la notizia sono stati gli stessi media iraniani.

Iran cattura petroliera britannica

La nave arrestata dalle Guardie Rivoluzionarie è la Stena Impero, lunga 183 metri e con una ventina di persone dell’equipaggio, nessuna delle quali di nazionalità britannica. La seconda nave batte bandiera liberiana ed è anch’essa proprietà di un armatore britannico. Secondo i media ufficiali di Teheran, la Stena Impero avrebbe compiuto tre violazioni: spento il GPS, attraversato lo Stretto nel tratto sbagliato, e ignorato gli avvertimenti. Oggi è stato precisato che la nave si sarebbe scontrata con un peschereccio. Adesso la Stena Impero è arrivata nel porto di Bandar Abbas, nella provincia iraniana di Hormozgan.

Il ministro degli Esteri del Regno Unito Jeremy Hunt ha giudicato “inaccettabile” l’operato di Teheran, ma sta provando a risolvere la situazione senza l’uso della forza. Intanto Londra ha detto alle proprie navi di non avvicinarsi allo Stretto di Hormuz.

Sale tensione fra Iran e Occidente

Ma si tratta solo dell’ultimo episodio in un’escalation internazionale di tensioni fra Iran da una parte e Stati Uniti dall’altra. I Paesi europei, nel settembre 2018 avevano promesso una mediazione, che secondo la Repubblica islamica non è mai avvenuta. Il Regno Unito, in particolare, tempo fa aveva sequestrato a sua volta nei pressi di Gibilterra una petroliera iraniana, atto cui l’ayatollah Ali Khamenei aveva promesso risposta decisa.

I media ufficiali hanno più volte detto di recente che l’Iran non si fida più dell’Europa. Ma gli atti delle ultime ore contro le petroliere britanniche o l’abbattimento del drone USA potrebbero non essere semplici dimostrazioni di forza. Potrebbero infatti far parte di una strategia più ampia per innalzare il prezzo del petrolio e, contemporaneamente, spingere l’Europa a prendere posizioni più nette. Si stima che attualmente le vendite di oro nero iraniane siano al 10 o al 15% rispetto all’era pre-sanzioni di Trump. Una tattica già rischiosa, combinata all’arricchimento di uranio oltre la soglia prevista dal patto del 2015.

Il Poliscriba razza in estinzione - le classi dominanti vincono sempre perché sempre in possesso della comprensione della totalità concettuale della riproduzione sociale, e le classi dominate perdono sempre per la loro stupidità strategica, dovuta all’impossibilità materiale di accedere a questa comprensione intellettuale

Macchine che producono pauper [Il Poliscriba]


Il Poliscriba
19 luglio 2019

Ho dedicato 15 anni a studiare l’opera di Marx, ho scritto 4 volumi di commento alle relazioni del Capitale e mi sono fatto la convinzione che Marx non sia uno scrittore del passato ma del futuro
Enrique Dussel

Papa Francesco, per molti cristiani integralisti, l’Anticristo, ha sostenuto e indicato i poveri come una categoria teologica. (io l’anticristo me lo figuravo più bello e affascinante ...)
Nemmeno il Messia si è sognato di esprimere un concetto più astruso, astratto e disumano di così.
Come giustamente fa notare il Dussel, di cui ho citato uno stralcio dal suo saggio Il Dio del sistema, infatti, quando Egli rovesciò le bancarelle dei mercanti davanti al Tempio di Gerusalemme, si comportò da politico e non da religioso, in quanto proveniente da un lignaggio regale, la casa di David, e non sacerdotale della stirpe levitica. Quindi integralmente laico.
In questo blog, oltre che cercare di analizzare i fatti storici, perché siamo sempre in una prospettiva di tempo passato e non possiamo altro che ipotizzare/profetizzare scenari futuri o futuribili, fate un po’ voi, si cerca di dare una risposta al Che fare?, vista la carente volontà e quindi di concerto, l’impotenza di cambiare lo stato di cose attuali, sprofondate nel più abietto degrado politico, economico, sociale ed etico.
Pauper significa povero nel senso più negativo della condizione umana, di una condizione materiale e di conseguenza spirituale, ma solo nel senso che, se non è data condizione positiva umana, impossibile è uno sviluppo di coscienza razionale che non sia una mistica riparatrice (oppio dei popoli), ritualizzata e riproducente sistemi di classe (gerarchie socialiste, fasciste, burocratiche, ecclesiastiche).
Marx nei Grundrisse scriveva: “Prima di qualsiasi contratto c’è un possessore del denaro e un possessore del lavoro. Il possessore del lavoro, negativamente, è un povero”.
Marx usa proprio il termine latino pauper nella frase Pauper ante festam, tradotta e intesa come: povero prima della festa orgiastica e cannibalistica del capitale.
In Marx e prima di lui in Engels nella sua “conversione” da figlio di capitalista ad accusatore del sistema capitalistico in La situazione della classe operaia in Inghilterra(scritto nel 1845), c’è una forte critica imbevuta di etica alla non etica dell’economia politica e più in generale della visione economicista e di mercato dei pensatori classici.
L’economia in generale non tratta di etica e soprattutto non cita il pauper come un errore del sistema, l’errore più grave, quello che il mercato che si autoregola dovrebbe essere in grado di evitare.
Nemmeno il pauper viene additato come un incidente di percorso lungo la via dell’infinita crescita.
Il dio-mercato, di cui l’immensa bibliografia favoleggia, è soltanto un gioco d’azzardo al rialzo per chi possiede denaro e pauper.
L’economia delle cattedre universitarie si rivolge a chi ha denaro e non a chi non ne ha.
Il pauper è merce senza valore perché in essa, come merce appunto, non si oggettivizza il lavoro.
Ma è proprio così?
Il pauper non è un prodotto costruito da macchine?
Dussel sostiene, e io sono d’accordo su questo, che Marx non assume come punto di partenza della sua monumentale critica all’economia politica e più largamente del suo intero pensiero, la lotta di classe, ma la povertà e di contro, la ricchezza, aggiungo io, proprio per quella sua minuziosa vivisezione analitica del saggio di riferimento degli economisti classici della sua epoca La ricchezza delle nazioni di Adam Smith.
Tutta la demolizione di Marx, a mio modesto avviso, sta qui: il voler accusare Marx di non aver compreso che la povertà è una condizione naturale e non storica, mentre la ricchezza è un potere/atto/fatto divino, teleologico prodotto di una minoranza superiore, sola in grado di dare direzione e senso alla storia umana.

La Chiesa, ma in fondo tutte le confessioni religiose, hanno assunto a loro volta questo principio naturale della povertà che si appaia all’inferiorità razziale.
La prima implicita forma di razzismo è proprio quella che divide i pauper dai ricchi.
Per convincere i poveri di essere una categoria naturale e non storica, perché i poveri non fanno la storia, in quanto vinti e non vincitori, occorre trasformarli in una categoria teologica che, attraverso la consolazione e la ghettizzazione (caste indù, reincarnazione) li induca a pensare all’ineluttabilità della loro condizione di schiavi.
Non solo, purtroppo anche gli intellettuali e gli artisti trasformano in categorie astratte poveri e povertà.
Ora, la risposta alla domanda precedente, "Il pauper non è un prodotto costruito da macchine?", non può che essere negativa.

Il pauper è dalla nascita pauper ed è quindi un prodotto di uteri pauper.
Macchine biologiche che producono macchine biologiche, un prodotto terreno, un frutto spontaneo che la genetica obbliga alla replicazione e che il possessore di denaro e di pauper può cogliere quando, come e nelle quantità che più soddisfano la sua sete di profitto.
Il possessore di denaro si sente invece una sorta di demiurgo, un creatore ed è per tale motivo che tenderà il più possibile a conservare il suo stato, a legarsi solo con possessori di denaro e in quanto tali appartenenti a un consesso quasi esobiologico, ultraterreno, mistico.

Se Papa Francesco ha affermato che i poveri sono una categoria teologica, è perché esiste una classe di ricchi e super-ricchi, di esseri divinizzati, che si credono dei disincarnati ed è quindi inevitabile rendere astratto l’unico pericolo fisico e non virtuale al loro dominio: i pauper.
Maggiore è la distanza che questi ricchi creano con i pauper, più irreale e inaccessibile diviene il loro status olimpico.
La distanza fisica e mentale dei ricchi nei confronti dei pauper deve essere assicurata da una netta separazione spaziale e temporale, garantita dalla tecnologia e dalla sicurezza militare.

Perché i pauper non attaccano direttamente i ricchi, ma i loro simulacri e i loro simboli, se e quando questo accade?
Perché la ricchezza e quindi il denaro sono il desiderio supremo.
Come sosteneva a tal proposito William Jevons quattro anni dopo l’uscita de Il Capitale, invertendo il pensiero di Marx su desiderio, lavoro, merce e valore:
“Il lavoro non è l’origine del valore della merce, ma il desiderio del compratore”.

Oggi è la produzione artificiale, illimitata del desiderio del consumatore da parte dei costruttori di simboli e consenso commerciali, quanto politici o religiosi, anch’essi divenuti merce/desiderio.
I pauper vogliono essere come coloro che li dominano o almeno gli si è insegnato, come macchine replicanti, che l’unico modo per non essere terreni/finiti, è aspirare all’eternità della giovinezza, della bellezza e all’immortalità che, solo la popolarità contro l’anonimato, dona agli eroi o ai santi del narcisismo.
I pauper come classe salariata, operaia e proletaria può essere strategicamente rivoluzionaria?
In questo momento storico non lo è.
Mentre un tempo l’intoccabilità era considerata una qualità dispregiativa delle caste inferiori, oggi è una qualità positiva di quelle “superiori” in quanto a detenzione del potere.
Ma è pur vero che esiste comunque un’intoccabilità totalizzante che frammenta la coesione sociale in forme di connessioni a-sensoriali.
Il primo passo, la prima risposta al Che fare? perché i pauper diventino una classe rivoluzionaria è quello di ricongiungerci come corpi reali anche perché i pauper sono già macchine al servizio dei dominatori che li considerano senz’anima, pensieri, desideri, ma concedono loro, per sopravvivere, la servitù fino alla loro sostituzione per difetto, eccesso di manodopera o estinzione.
È il passo più traumatico e difficile, perché richiede di riprender possesso della naturale inclinazione dell’uomo alla socializzazione fisica, l’unica via per la distruzione del sogno/incubo in cui la virtualità della comunicazione ci ha addormentati e addomesticati rendendoci sonnambuli.

Ma chi ha ancora voglia di essere un corpo fisico, di desiderare una connessione con altri corpi, quando i bordolls, i bordelli con bambole di plastica, in ascesa costante di aperture e clienti, hanno di fatto declassato a masturbazione aumentata il sesso tra umani?

Oggi più di ieri le bugie hanno le gambe corte

19 LUGLIO 2019 23:17
LʼIran diffonde un video che "smentisce" Trump sullʼabbattimento del drone

Il presidente americano lancia un avvertimento a Teheran: "Spero per il loro bene che non facciano nulla di stupido, altrimenti pagheranno un prezzo che nessun altro ha mai pagato". Ahmadinejad apre a negoziati diretti con Trump


La tv di stato iraniana ha trasmesso un video della Guardia Rivoluzionaria che mostra come la nave da guerra americana Uss Boxer non avrebbe abbattuto alcun drone di Teheran sullo Stretto di Hormuz, smentendo quanto dichiarato invece dal presidente americano, Donald Trump. "Spero che l'Iran non faccia nulla di stupido, altrimenti la pagherà cara", ha tuonato il tycoon. Le immagini mostrano le operazioni della Boxer e di altre cinque imbarcazioni.

Teheran insomma nega tutto e ipotizza che il drone sia stato abbattuto da "fuoco amico". Da mesi la tensione nella regione di Hormuz è incandescente, dopo la scintilla nel 2018 del ritiro di Washingon dall'accordo sul nucleare e la conseguente ricaduta delle sanzioni economiche.

A giugno le forze iraniane hanno abbattuto un drone degli Usa, scatenandone l'ira. Da parte sua Trump ha dichiarato che una nave della sua flotta ha distrutto un drone di Teheran: "Nessun dubbio, l'abbiamo abbattuto". Gli ha risposto un portavoce dell'esercito iraniano, il generale Abolfazl Shekarchi: "Frasi infondate, tutti i dispositivi sono tornati intatti alle loro basi. Non ci sono notizie di scontri con la nave Uss Boxer".

Il caso del drone - Per il Pentagono, però, la Uss Boxer "era in acque internazionali" quando un drone si è avvicinato, quindi ha "agito in difesa" contro il dispositivo che "minacciava la sicurezza" di mezzo ed equipaggio. Per il ministro degli Esteri iraniano, Abbas Araghchi, gli Stati Uniti potrebbero però aver abbattuto un loro mezzo: "Sono preoccupato che la Uss Boxer abbia abbattuto per errore un suo drone". Quando era stato l'Iran a distruggere il mezzo statunitense, in risposta Trump aveva fatto sapere di aver deciso di bombardare, comunicando poi di averci ripensato all'ultimo minuto.

Ahmadinejad apre a negoziati diretti con Trump - Intanto emergono le prime divisioni tra i "falchi" iraniani. Mentre la Guida suprema Ali Khamenei e il comandante dei pasdaran Qassem Soleimani hanno escluso ogni colloquio con gli Stati Uniti, l'ex presidente Mahmoud Ahmadinejad ritiene che sia il momento di sedersi e risolvere 40 anni di animosità con gli Usa parlando direttamente con Donald Trump. Ma prima, ha precisato, il tycoon dovrebbe allentare le sanzioni. In tal caso, a suo avviso, Khamenei potrebbe approvare i negoziati con gli Stati Uniti.

La questione delle petroliere - Ma non si tratta solo di tensione legata ai droni. L'Iran ha anche rimandato al mittente le accuse di essere responsabile dei sabotaggi ad alcune petroliere al largo degli Emirati e del golfo di Oman. E più lontano, a Gibilterra, dal 4 luglio è sotto sequestro una petroliera iraniana accusata di portare greggio in Siria violando le sanzioni di Usa e Ue. La Corte suprema di Gibilterra proprio venerdì ha stabilito che la Grace 1 resti sotto sequestro per altri 30 giorni. Iran ha parlato di "pirateria", mentre colloqui sono in corso. E i Guardiani della rivoluzione hanno dichiarato giovedì di aver sequestrato una "petroliera straniera" - forse la Riah battente bandiera panamense - accusandola di contrabbandare petrolio iraniano.

La tensione resta alta - Nel Golfo Persico passa un terzo di tutto il petrolio movimentato su acqua a livello mondiale, e anche per questo motivo il timore di un conflitto regionale è alto. I Pasdaran dicono di non voler "iniziare una guerra", ma affermano anche che risponderebbero alle ostilità. Nel frattempo, gli Stati Uniti hanno annunciato di volere che una coalizione internazionale garantisca "la sicurezza" della navigazione nelle acque del Golfo, chiedendo ai partner internazionali di collaborare.

E' guerra vera è guerra totale, niente illusioni. Huawei con la sua forza si impone nonostante i dazi per fermare la tecnologia cinese all'avanguardia sul 5G

Huawei può fare a meno dei fornitori Usa. Parola di Huawei

20 luglio 2019


Al Mobile World Congress di Shanghai i colossi cinesi Huawei e Zte hanno mandato un monito piuttosto esplicito agli Usa e ai loro alleati. L’articolo di Ugo Barbara di Agi

Quello che tutti aspettavano che accadesse, sta succedendo davvero: i big della tecnologia cinese hanno deciso di fare a meno dei fornitori statunitensi. Lo ha detto con estrema chiarezza Huawei e lo ha lasciato intuire Zte. L’occasione l’ha fornita il Mobile World Congress di Shanghai, da dove i manager delle aziende di telecomunicazioni hanno deciso di mandare un messaggio piuttosto esplicito alla Casa Bianca (e indirettamente ai suoi alleati europei): noi siamo pronti a fare a meno di noi, ma voi siete pronti a fare a meno di noi?

Le rivelazioni del New York Times, secondo cui la fornitura di microprocessori con tecnologia americana a Huawei è continuata (e a ritmi ancora più intensi) nonostante il bando imposto da Donald Trump, sono la prova che il passo deciso dall’amministrazione statunitense è stato piuttosto indigesto per aziende che rischiano di vedere sparire dal proprio portafoglio un cliente da milioni di pezzi ogni anno. Le dichiarazioni di Ken Hu, presidente di Huawei, e di Xu Ziyang, ceo di Zte, a Sanghai sono la dimostrazione del contraccolpo (che non poteva essere inatteso) della politica dei dazi, nel momento in cui dà impulso a colossi con risorse pressoché infinite a rendersi indipendenti.

“Lavoriamo da una decina di anni alla realizzazione di chipset proprietari” ha detto durante un incontro con la stampa Zhang Whanchun, vicepresidente di Zte, responsabile per i prodotti wireless, “abbiamo diversificato la catena di approvvigionamento, rivolgendoci a fornitori da tutto il mondo, non solo per garantirci i prodotti migliori, ma anche per assicurarci stabilità e continuità. Mantenendo due o tre fornitori per ogni prodotto”.

Quando accenna all’importanza di garantire la stabilità della catena di approvvigionamento, Zhang sa bene di cosa parla: appena due anni fa Zte finì in ginocchio per l’embargo imposto dalla Casa Bianca all’azienda di Shenzhen, colpevole di fare affari con l’Iran, con il risultato di dover sottostare a un umiliate e oneroso accordo (1,4 miliardi di dollari) per poter tornare a rifornirsi di processori negli Stati Uniti.

All’epoca si combatteva una guerra diversa da quella di oggi: nel mercato degli smartphone ancora in espansione le aziende cinesi si affacciavano determinate a conquistare quote erodendole a protagonisti consolidati ma a corto di idee come Apple e Samsung. Forti di una capacità produttiva senza rivali, nomi come Huawei (con Honor), Zte e Oppo, ma anche – e sempre più – OnePlus e Xiaomi, mettevano a disposizione degli operatori di telefonia e delle rivendite online device per tutte le tasche, dall’entry level al top di gamma. Allora il bando Usa paralizzò per qualche tempo la produzione di telefoni, ma Zte fu abile a gestire la crisi (anche se a caro prezzo) e a tornare sul mercato recuperando in fretta le quote perdute.

Oggi lo scontro è su un campo diverso e nessuno può permettersi il lusso di restare fermo nemmeno per un secondo, figurarsi per qualche mese. Quel campo si chiama 5G e, a prescindere dalla fondatezza o meno dei timori (o delle paranoie) in termini di cibersecurity, si tratta di uno degli elementi che più contribuiranno a delineare gli equilibri geostrategici in un’epoca in cui è il controllo dei potenziali scenari di crisi a determinare l’influenza di un Paese (e di un governo) ancora di più della quantità di armi di cui può disporre.

Dal riconoscimento facciale al dispiegamento di droni in tempo reale, il 5G – e, più in generale, la gestione dell’Iot l’Internet delle Cose – permetterà di controllare e contenere le conseguenze e la portata di incidenti, disastri naturali e, perché no, sommosse.

Quello della disponibilità del sistema operativo Android è solo uno dei problemi che il bando Usa sta causando a Huawei. La fornitura di processori Qualcomm (e forse presto Intel) è un altro e ben più grave e potrebbe paralizzare la produzione e quindi la consegna delle antenne del 5G nei Paesi in cui l’azienda ha siglato contratti.

Huawei, ha detto Ken Hu, controlla da sola il 50% del mercato mondiale dell’infrastruttura 5G, seguita da Nokia, Ericsson e Zte. Dei 50 contratti che Huawei ha in giro per il mondo 5G, quasi la metà – 28 per l’esattezza – sono in Europa, 11 in Medio Oriente, 6 in Asia, 4 in America Latina e 1 in Africa. Le antenne già consegnate sono 150 mila e l’obiettivo è di arrivare a 500 mila. Zte da parte sua ha siglato 25 contratti – più della metà in Europa e in Italia ha in corso una sperimentazione con Wind 3 a L’Aquila e Prato – e ha 100 mila stazioni base in consegna quest’anno.

Con questi numeri, l’ipotesi di restare a secco di componentistica non è nemmeno contemplata.

“Abbiamo realizzato molte piattaforme di applicazione del 5G, per il pubblico e l’industria” ha detto il ceo di Zte, Xu Ziyang all’Agi “su queste piattaforme possiamo gestire appieno la capacità di rete e collaborare con i partner industriali. Abbiamo già valutato un ampio spettro di scenari con circa 200 partner in tutto il mondo per portare l’innovazione e I modelli di business a un nuovo livello di successo”.

Quello che nelle parole di Zhang suona come un invito all’apertura, in quelle di Hu ha invece la durezza del monito: Huawei può fare a meno dei fornitori statunitensi, ma è pronta a continuare a lavorare con loro se il bando varato dalla Casa Bianca dovesse essere revocato. “Abbiamo assunto iniziative concrete e trovato alternative ai fornitori americani così da essere in grado di garantire le consegne di 500 mila stazioni base per il 5G da qui alla fine dell’anno” ha detto incontrando la stampa a Shanghai, “Non abbiamo motivo di ritenere che la fornitura di componenti da produttori giapponesi come Toshiba e Sony debba subire contraccolpi dalla situazione che si è venuta a creare per via del bando, perché tutto avviene nel pieno rispetto della compliance. Inoltre con questa nuova componentistica registriamo livelli di performance anche superiori a quelli precedenti. Questo non significa che vogliamo fare a meno dei fornitori americani, ma che se dovessimo essere costretti, non avremmo problemi a farlo”.

L'Euro è un progetto Criminale. O hai una strategia per uscirne o bypassarlo nel frattempo giochi. Chi pensa di cambiare l'Unione europea è un falso ideologico


Fase due e basta litigi al Governo 

20 luglio 2019 di Gaetano Pedullà


Prima bisognava avere pazienza, perché c’erano le elezioni europee e in campagna elettorale ogni forza politica tira acqua al suo mulino. Poi c’era da arrivare a questo benedetto 20 luglio, ultimo giorno utile per sperare di votare prima della sessione di bilancio. Inevitabile che il nervosismo dilagasse, amplificato da due netti errori politici di Salvini su Russiagate e alleanze in Europa. Nel primo caso, il rifiuto di rispondere in Parlamento ha aggiunto petrolio al fuoco di un’inchiesta oggettivamente inquietante. Il secondo disastro è invece l’isolamento a Bruxelles, dove la Lega ha reso del tutto inutili milioni di voti degli italiani, facendo l’opposizione a tutto, dalla neo presidente della Commissione, von der Leyen, a governi sovranisti come l’Ungheria di Orban, che invece la tedesca uscita dal compromesso con la Merkel l’ha votata. Ora dal Carroccio possono strillare che solo loro non fanno accordi con chi ha interessi distanti dall’Italia, ma nell’Europarlamento non toccheranno palla, al contrario dei Cinque Stelle che potranno imporre qualche punto del proprio programma. Le forze euroscettiche, sia ben inteso, avrebbero avuto il sacrosanto diritto di rivoltare i tavoli in cui si è decisa l’austerità che ci massacra da anni se però i cittadini europei con il loro voto non avessero deciso diversamente. La Lega però ha fatto la sua mossa, sacrificando persino il commissario in pectore, Giorgetti, ora legittimato a unirsi alla fronda dei capibastone leghisti più incazzati, con in testa Zaia e Fontana, convinti di potersi scrivere una legge sulle autonomie peggiore della pessima riforma del Titolo Quinto. Scavallata la giornata di oggi e svanite le urne, almeno fino a primavera, non ci sono però più scuse per giustificare le degli ultimi mesi. Di cose da fare ce ne sono tante e i risultati prodotti nel primo anno di Governo – occupazione ai minimi dal 1977, debito pubblico per la prima volta in calo a giugno, forte riduzione del precariato, i mutui al tasso medio più basso di sempre, crollo degli sbarchi di immigrati e molto altro ancora – dimostrano che quando 5S e Lega si occupano delle loro competenze sanno fare cose da grandi. I capricci lasciamoli ai piccini.


Il governo che doveva mettere in sicurezza l'Italia ci faccia sapere quello che vuole fare


Di Maio scopre il bluff del Capitano. Tregua armata nel governo. Retromarcia di Salvini. La crisi può attendere 

20 luglio 2019 di Francesco Carta


La quiete dopo la tempesta. Sono state 48 ore al vetriolo, trascorse tra continue schermaglie tra Lega e Cinque stelle. Tanto che l’idea di una crisi di Governo non era così peregrina. E invece, proprio nel momento in cui non erano pochi coloro che, calcolatrice alla mano, ragionavano sui tempi utili per salire al Colle e far cadere il Governo, tutto – ancora una volta – si è dimostrato una bolla che si gonfia, cresce, diventa gigantesca. Fino a esplodere e non lasciar nulla dietro di sé. “Escludo la crisi, solo dinamiche tra forze diverse”, ha detto ieri Luigi Di Maio ospite in tv, ad Agorà estate, su RaiTre. “È auspicabile che oggi (ieri, ndr) ci parliamo e ci vediamo: è giusto che ci incontriamo, ci chiariamo e andiamo avanti, perché c’è il Consiglio dei ministri ed il tavolo sull’autonomia”.

Alla fine, esattamente come Matteo Salvini aveva detto, nessun incontro c’è stato: il vicepremier leghista ha disertato sia il Consiglio dei ministri che il vertice sulle Autonomie. Ma ieri ha comunque fatto intendere che anche nelle intenzioni del Carroccio c’è il desiderio di continuare. A patto, però, che ci sia un mini-rimpasto (leggi articolo a pagina 2): “Con Di Maio mi vedrò sicuramente. Il problema non è lui. C’è un evidente e totale blocco sulle proposte, iniziative, opere, infrastrutture da parte alcuni ministri 5S che fa male all’Italia. Niente di personale, Luigi Di Maio è persona corretta e perbene, ma sono inaccettabili i ‘no’ e i blocchi quotidiani di opere e riforme da parte dei 5S.

Ieri Toninelli (con centinaia di cantieri fermi) che blocca la Gronda di Genova, che toglierebbe migliaia di auto e di tir dalle strade genovesi; oggi Trenta che propone di mettere in mare altre navi della Marina, rischiando di attrarre nuove partenze e affari per gli scafisti”. E non sono pochi, d’altronde, tra le file dei pentastellati coloro che ritengono che, dopotutto, la richiesta leghista sia ineludibile: “Dopo il risultato elettorale delle europee – spiega una fonte – era inevitabile che la Lega avanzasse prima o poi richieste di questo tipo. L’importante, ora, è gestire al meglio quest’eventualità”. Insomma, non è detto che alla fine il rimpasto ci sia e che non venga accolto dagli stessi pentastellati.

TERRENI CALDI. L’importante, dicono in maggioranza, è che si trovi nuovamente la quadra per continuare a lavorare. E su questo inevitabilmente potrebbero giocare brutti scherzi le partite ancora aperte, a cominciare dalle Autonomie su cui la discussione continua e i governatori leghisti hanno mostrato la propria insoddisfazione. C’è, poi, l’affaire sui presunti fondi russi alla Lega, tra le ragioni che ancora tengono in fibrillazione l’Esecutivo. “Se avessi sospetti su Salvini non sarei al Governo”, sostiene Di Maio ricordando che il segretario del Carroccio ha annunciato di voler andare in Parlamento anche prima del 24 luglio, giorno nel quale è previsto l’intervento del premier Giuseppe Conte al Senato proprio su Moscopoli. Quindi ribadisce di voler istituire una Commissione di inchiesta sui fondi avuti da tutti i partiti, “incluso il nostro”, precisa.

Altro terreno di scontro, il salario minimo, specie dopo le parole del sottosegretario al Lavoro, il leghista Claudio Durigon che ha fortemente criticato la norma. Subito zittito da Di Maio: “Mi permetta di dire che è semplice affermare ‘non facciamo una legge per chi guadagna 2 o 3 euro l’ora’ se si guadagnano 13 mila euro al mese. Ma il salario minimo è anche nel programma della Lega. Io dico solo facciamo la legge di bilancio con il salario minimo e la riduzione del cuneo fiscale”. Le schermaglie, dunque, continuano. Ma Di Maio e Salvini sono intenzionati a proseguire. In attesa di un loro personale incontro, dovranno riuscire a tenere a bada i loro fidi colleghi di partito. Se ci si pensa: la vera ragione, in un caso e nell’altro, degli scontri tra i due vicepremier gialloverdi.

venerdì 19 luglio 2019

2019 crisi economica - Il globalismo ha voluto la banca universale eliminando la separazione tra banca commerciale e quella d'investimento. Oggi ne cogliamo il frutto con la Deutsche Bank

Derivati: Volker Rule, DFA, Basilea, Deutsche Bank: cronaca di un disatro annunciato

venerdì 19 luglio 2019

All'origine di tutte le grandi crisi economiche, da Wall Street 1929, a 2007/8: i "Derivati" e la necessità di separare le banche commerciali da quelle di investimento come fece Roosevelt con lo Glass Steagall Act che portò al New Deal


Di nuovo una grande crisi che attanaglierà l'economia mondiale. Come nel 1929, nel 2008. Questa volta però l'epicentro non è Wall Street, non è Lehmann Brothers bensì Francoforte ed il colosso Deutsche Bank: è già pronta una purga senza precedenti, di 70.000 dipendenti 18.000 andranno a casa.

Se l'epicentro questa volta è diverso, le origini della crisi sono sempre le stesse, i Derivati Bancari, o, semplicemente Derivati e dunque il discorso, già sollevato all'indomani della crisi del 1929, della separazione delle banche commerciali da quelle di investimento. In vista della prossima crisi Padre Gael Giraud SJ, economista rampante della Compagnia di Gesù e tra gli economisti di riferimento della “Laudato sì” ha di recente invitato i risparmiatori ad investire nei beni rifugio di sempre: oro ed argento.

"Tout compt fait" la posizione di Padre Giraud ha più di qualche comunanza con la concezione socio liberista del fondatore dell'economia politica moderna Adam Smith in "La ricchezza delle nazioni" di cui però considera anche il pensiero sociale di solito ignorato dai liberisti contemporanei. Il suo punto di riferimento è tuttavia quello acquisito dall'economia del Novecento all'indomani del Grande Crollo di Wall Street del 1929: la necessità di dividere le banche commerciali da quelle di investimento. Posizione che lo accomuna ad Occupy Wall Street, al rev. Seamus Finn, a Paul Volker ex Presidente della Federal Reserve ed a tanti altri (tra cui chi scive).

Negli USA, ciò fu imposto per legge nel 1933 con il Glass Steagall Act dal Governo di Franklin Delano Roosvelt. Un concetto dunque tutt'altro che rivoluzionario o marxista, il nome di Roosvelt è associato indissolubilmente a quello del New Deal, ed è comunque un concetto che l'economia successiva avrebbe dovuto dare per definitivamente acquisito. Ronald Reagan e le Reaganomics segnano invece una decisa inversione di tendenza sino al Gramm-Leach-Blealy Act del 1999 con cui si gettano le basi per la libera attività degli intermediari finanziari, perciò dei "derivati" e con ciò della gravissima crisi del 2007/8.

Ovvero dal '79 e segnatamente dal '99 si è tornati a posizioni similari a quelle pre '33 e pre '29. Proprio Paul Volker nel 2010 con il Dodd Frank Act (DFA) ha cercato di reintrodurre la norma dello Glass Steagall Act, che però i nemici della separazione tra banche commerciali e di investimento hanno portato a ben 16 Titoli, 2315 articoli e 2319 pagine per poter consentirne l'aggiramento... Similmente è accaduto con il "Basilea 3" in Europa. A tutt'oggi perciò la separazione tra banche commerciali e di investimento è il più gravido e combattuto degl'oggetti del contendere tra Banche, in primis J.P. Morgan, ed economisti finanziari da un lato ed i loro avversari dall'altro. Insomma: a differenza che nel 1933, il primo passo per una economia più umanista ed attenta al Bene Comune, primo passo per una economia della Casa Comune, quella sostenuta da Padre Gael Giraud SJ e dalla "Laudato sì", è ancora ben lontano dalla realtà e molto occorrerà fare e combattere per poterlo realizzare.

In compenso la spada di Damocle di un nuovo venerdì nero del 1929 o di un nuovo 2007 è più incombente che mai e tutto lascia pensare che la sua prossima concrezione avverrà a Francoforte, dove la Deutsche Bank ha in pancia, secondo le stime al ribasso, almeno 75.000 Mld di Derivati, grazie anche al fatto che nel vecchio continente non si è avuto uno Glass Steagal Act e la Normativa Basilea 3 prima e Basilea 4 poi hanno consentito margini più ampi che il DFA negli USA e proprio grazie anche a ciò – oltre che ad una conduzione avventuristica – la DB ha potuto arrivare dove è.

Va sottolineata inoltre una ben maggiore sensibilità dell'opinione pubblica americana per le vicissitudini economiche, sia negli anni '30 che nel 2008: Paul Volker, il propugnatore della “Volker Rule” l'articolo del DFA che voleva reintrodurre nello stesso il Glass Steagall Act, divenne uno dei beniamini di Occupy Wall Street che in Europa purtroppo non ha avuto emulatori.

Tuttavia il fatto che negli USA l'azione contro la reintroduzione della Volker Rule da parte di J.P. Morgan abbia avuto il risultato di una grande aggirabilità della stessa, dice che la situazione bancaria nel nuovo mondo non sia probabilmente assai migliore di quella della Deutsche Bank, come del resto la recente vicenda di Lehmann Brothers ha evidenziato. “Tutte le previsioni sono al rosso... siamo alla vigilia di una delle più grandi crisi finanziarie ed economiche della Storia” ha dichiarato Padre Gael Giraud nell'ultima sua intervista.

francesco latteri scholten.

Il fanfulla si muove si è mosso come un ubriaco non da affidamento

Il Rubicone di Matteo Salvini

di F.S.
18 luglio 2019

Nessuno meglio di Maurizio Molinari (LA STAMPA 14 luglio 2019: Quei silenzi davanti a Pompeo) coglie il significato eminentemente politico e geopolitico, non spionistico, della vicenda Savoini. Il direttore del quotidiano piemontese paragona infatti l'eventuale premiershipsalviniana a quella di Massimo D'Alema. Francesco Cossiga, politologo di rarissima finezza, ricordava in più interviste come fosse stato proprio lui, intermediario e garante per la protezione degli interessi americani nel Mediterraneo, a farsi portatore dell'affidabilità neo-atlantista dell'ex segretario nazionale della Federazione Giovanile Comunista Italiano. L'intervento italiano in Kosovo mostrava infatti, confermando la previsione cossighiana, l'affidabilità in funzione NATO della vecchia classe dirigente “rossa”, maturatasi appunto nella logica della necessità strategica, per il Mediterraneo, dell'ombrello NATO.

Complottismo e spy stories sono armi di diversione strategica in mano alle elites dominanti dell'alta borghesia supercapitalista della NATO.

Il complottismo di massa, non a caso, per quanto riecheggiato molto spesso dai dominati è lo strumento di dominio politico e ideologico par excellence delle oligarchie neoliberali, superimperialiste, occidentali. Proprio Molinari, con il suo veramente ben ponderato articolo, ce lo fa ben intuire.

Alla funzione immaginaria e astratta dei complotti, che sarebbero sempre realizzati con successo funzionale al potere dominante (dalle “Primavere arabe” all'“Euromaidan”) andrebbero sostituite, se si vuole comprendere la realtà, sempre dinamica e continuamente in atto, le armi teoriche della machiavelliana “congiura politica” tra le élite e quelle della guerra politica di profondità, non strategica, non immediatamente guerreggiata, teorizzata proprio in ambito militare russo già nel secolo scorso, molti decenni prima che Liang Qiao proponesse in Cina il concetto della “guerra senza limite”.

Il Rubicone di Matteo Salvini — ci spiega Molinari — è rappresentato dalle sanzioni alla Russia, che sono tuttora un punto strategico del cosiddetto “contratto di governo” gialloverde, e quindi dalla lotta politica e propagandistica alla Russofobia globale. Dal 2014 in avanti, infatti, il segretario leghista si impose allora coraggiosamente all'attenzione geopolitica internazionale, difendendo la causa del Baath siriano, dei soldati dell'Hezbollah che difendevano le comunità cristiane nel Vicino Oriente, delle migliaia di combattenti antimperialisti e antioccidentali nel Donbass liberato dall’Ucraina a trazione euro-americana.

In tale cornice dunque, ciò che più colpirebbe della trascrizione — ancora presunta e tutta da dimostrare, sino a prova contraria, dato che una conversazione di questo tipo è peraltro facilmente manipolabile — dell'incontro del Metropol pubblicata da Buzzfeed non sono per Molinari gli “ipotetici finanziamenti trasversali”, dei quali peraltro il direttore del quotidiano piemontese pare effettivamente dubitare, ma il pensiero espresso in quel contesto da Gianluca Savoini sulla volontà leghista di legare definitivamente l'Europa a Mosca. In sostanza, trasformare e modificare una direzione strategica vigente con assoluta e totale continuità, dalla Guerra di Crimea (1853-1856) sino alla rivoluzione colorata di Kiev (2014). Giustamente Molinari sottolinea che l'interrogativo più serio che aleggia in questi giorni in ambito NATO è se non vi sia proprio una nascosta volontà di Salvini di modificare la posizione internazionale e geopolitica dell'Italia, allontanandola gradualisticamente dal fronte occidentale.

L'atteggiamento apparentemente filoamericano e filoisraeliano del segretario leghista, sviluppato in questo primo anno di “governo gialloverde”, non avrebbe affatto, a quanto pare, tranquillizzato i guardiani della NATO.

Simone Canettieri, ne Il Messaggero, ben rileva come appena due giorni dopo il ritorno di Salvini dal viaggio a Washington, usciva un rapporto molto duro, proprio di Mike Pompeo, segretario di stato USA, sulla lotta al traffico di immigrati, con cui si declassava la Roma salviniana a "livello 2". Se la questione è geopolitica, non di natura finanziaria o commerciale, come spiega Molinari, ovvero tastare il grado di “fedeltà occidentale” dell'alleato NATO Salvini, allora si impone una riflessione ulteriore. Lo stesso assedio, riservato anni fa a Berlusconi — nonostante la fedeltà atlantista mostrata in più casi da quest'ultimo, come ad esempio nel caso della partecipazione su tutta la linea all'assalto imperialista alla Libia di Muammar Gheddafi — e oggi a Salvini, a causa di una comune ed esplicita apertura alla “democrazia sovrana” postliberale russa, non è stato stranamente riservato al sottosegretario leghista Michele Geraci, al premier Giuseppe Conte, al presidente Sergio Mattarella, accusabili questi ultimi di una sostanziale apertura strategica verso l'Oriente cinese, i cui effetti e le cui conseguenze dovrebbero in teoria essere ben più pericolosi e sovversive di una dichiarazione politica fondata sulla necessaria affinità e vicinanza geo-economica e commerciale con la Russia neo-bizantina putiniana.

Dichiarazione politica la quale, peraltro, non si è tradotta affatto in una cancellazione unilaterale delle sanzioni che colpiscono il mondo economico del capitalismo di stato russo, per quanto sia negli stessi interessi nazionali imprenditoriali italiani.

Cosa nasconde dunque politicamente la vicenda Savoini?

Il primo elemento fondamentale lo si coglie ascoltando quanto dice il politologo putiniano di Russia UnitaS. Markov, intervenendo da Mosca sulla vicenda. Markov ci dice che pur volendo il Cremlino appoggiare in ogni modo (anche finanziandolo) Salvini, non lo può fare per due motivi; anzitutto Putin si relaziona a Stati e non tratta con partiti politici o movimenti, inoltre i russi sanno che Salvini sarebbe continuamente monitorato e attenzionato da apparati israeliani e americani, dunque si guardano bene dal cadere nella trappola. Ciò significa che, come ho scritto da mesi in più casi, l'Italia e più in generale il Mediterraneo sono tornati al centro della contesa globale. Possedere il dominio mediterraneo, in una epoca che si annuncia policentrica, significherebbe essere alla soglia del potere culturale e politico globale. L’Economist, non a caso, ha scritto che Salvini sarebbe l’uomo politico più pericoloso sulla scena globale; le stesse penne, mutatis mutandis, lo scrivevano decenni fa pure di Mattei e Craxi. Il profilo strategico russo sul Mediterraneo — ulteriormente rafforzato dalla posizione tattica antioccidentale della Turchia erdoganista — è il più grande motivo di preoccupazione delle élite strategiche israeliane e angloamericane.

La Russia putiniana è figlia di uno scontro di civiltà; le terribili bombe su Belgrado (1999), percepite dai russi come l’umiliazione finale di un tragico decennio “liberaldemocratico”, per certi versi il più tragico della propria millenaria storia, portarono inaspettatamente alla repentina rinascita sotto la guida moderata ma ferma di Vladimir Putin. Si illude chi crede, come M. Galeotti, che il popolo russo, colpito attualmente da una crisi economica, che altro non è se non una guerra ibrida russofoba messa in moto dalla frazione Clinton e continuata da Trump e dall’UE, brami una nuova stagione liberale. Nulla di più lontano dalla realtà quotidiana russa. La Russia, che non attacca, mai attaccherà, ma al tempo stesso non teme l’eventuale scontro con l’Occidente liberale e sionista, non tornerà di certo indietro rispetto a questa missione centrale mediterranea che si è data, pacificando anche, laddove ha potuto, come ha potuto, la cronica instabilità regionale di questa decisiva fascia strategica mediterranea. Egitto ed Italia sono, per tutte le élite americane (siano esse liberal, dem o conservatrici, siano esse più o meno sioniste), paesi mediterranei a dimensione strategica. Se ancora gli Stati Uniti sono la massima potenza mediterranea, sembrano sentire, sempre di più, al collo, il fiato del tradizionale antagonista russo. Proprio la vicenda Savoini lo mostra.

Alla luce di tutto ciò, si può quindi meglio definire e inquadrare chi ha tutto l’interesse a bloccare l'ascesa di un Salvini, che non appare ancora affidabile come lo era D'Alema nel 1999.

E’ fuori discussione che Salvini non abbia (colpevolmente) curato, come avrebbe dovuto, i compiti e le funzioni di una classe dirigente che sappia essere all’altezza del compito; come francamente fuori luogo e fuori dalla realtà sono parse certe sue sparate da Israele contro i filocristiani mediterranei del “Partito di Dio” libanese, alleati strategici di Mosca. Sbaglierebbe però chi, viceversa, volesse stabilire l’equivalenza tra il Russiagate italiano ed il modesto caso Strache; sbaglierebbe ancora di più chi, tra le file governiste (in particolare tra la sinistra dei Cinque Stelle), credesse di avere il semaforo verde generale per legittimare l’eliminazione politica di Salvini dalla trincea governista, avallando in autunno un “Monti-bis” guidato da un altro tecnico di peso. Cottarelli o chi per lui. Molto difficile che Draghi, con la sua grande esperienza, si presti ad uno sgarbo simile, così aggressivo, verso la Russia. La caduta di Berlusconi ha portato, sul piano politico interno all’UE, ad un rafforzamento su tutta la linea del “populismo di destra”. L’eventuale caduta di Salvini porterà inevitabilmente ad una accentuazione dei poli di lotta sociale (modello Gj francesi ma con una significativa rappresentanza politica), con situazioni potenzialmente fuori controllo. Occorre quindi agire con moderazione e saggezza tattica, seguendo il meno possibile gli istinti bellicosi di Usa e Israele.


L'Euro è un Progetto Criminale e non è riformabile

Cos'è impolitico? Risposta a Senso Comune

di Moreno Pasquinelli
18 luglio 2019


Confesso di essere restato alquanto sorpreso nel leggere che proprio noi di P101 saremmo "impolitici". La critica ci è stata rivolta da Matteo Masi sul sito di Senso Comune in un articolo che perora la necessità di avere un "credibile Piano A" di riforma dell'Unione europea e quindi di averne uno "B" di riserva nel caso l'eurocrazia risponda a pesci in faccia e si sia costretti ad uscire.

Non è l'accusa di "impoliticità" in sé che stupisce, quanto la ragione che ne starebbe a fondamento.

Ma sentiamo quel che ad un certo punto scrive il Masi:
«Sul versante “no-euro” permangono allo stesso modo criticità speculari. Prendiamo ad esempio proprio l’articolo di sollevazione che criticava quello di Cesaratto, verso la fine leggiamo: “Ma tutto ciò avrebbe senso solo a partire da una valutazione positiva sulla riformabilità dell’Unione europea e dell’euro. Riformabilità che invece non esiste, che è pari a zero. Non lo diciamo noi, lo dicono i fatti da tanti anni ormai". Questo atteggiamento, per quanto giustificato dai fatti, risulta impolitico tanto quanto avere il piano A senza credere nella necessità di un piano B». [sottolineatura nostra]

Per il Masi dunque la nostra linea politica — uscire dalla Ue per riconquistare piena la sovranità nazionale e popolare — per quanto giustificata DAI FATTI sarebbe "impolitica".

Questo asserto contiene una sfrontata contraddizione logica: una affermazione e la sua negazione non possono essere ambedue simultaneamente completamente vere. Non posso dire, ad esempio, Senso Comune è un movimento morto ma è vivo. O è morto o è vivo. Per dirla con Aristotele: «È impossibile che il medesimo attributo, nel medesimo tempo, appartenga e non appartenga al medesimo oggetto e sotto il medesimo riguardo».

Quand'è infatti che una qualsivoglia posizione è da considerarsi "impolitica"? Quando essa non poggia sulla "Analisi concreta della situazione concreta (Lenin). Quando, in estrema sintesi, non è realistica e confonde (ci direbbe Hegel) "l'essere col dover essere".

Per dirla col fondatore della teoria politica moderna Niccolò Machiavelli:
«Ma sendo l’intento mio scrivere cosa utile a chi la intende, mi è parso più conveniente andare drieto alla verità effettuale della cosa, che alla imaginazione di essa. E molti si sono imaginati republiche e principati che non si sono mai visti né conosciuti essere in vero; perché egli è tanto discosto da come si vive a come si doverrebbe vivere, che colui che lascia quello che si fa per quello che si doverrebbe fare impara piuttosto la ruina che la perservazione sua: perché uno uomo che voglia fare in tutte le parte professione di buono, conviene rovini infra tanti che non sono buoni». [Il Principe, Capitolo XV. sottolineatura nostra]

Masi riconosce la "verità effettuale" della cosa, la concreta realtà: ammette che l'Unione europea non da segni di riformabilità interna; pur tuttavia considera necessario che si avanzi un "credibile Piano A" per riformarla. La contraddizione qui non è solo logica, diventa una vera e propria assurdità politica: SE UNA COSA NON È RIFORMABILE OGNI "PIANO A" È IRREALISTICO, QUINDI IN QUESTO CASO SÌ DEL TUTTO "IMPOLITICO".

Per farla corta: "Impolitica" è ogni idea campata per aria, che non si appoggia su dati di fatto ed evidenze empiriche — tanto per dire la tragedia greca — ma sui propri desiderata. Discettare di riforme dell'Unione sapendo che data la sua struttura confederativa e oligarchica ciò implica l'unanimità dei 28 governi che la compongono non è solo "impolitico" è tanto fantastico quanto il gesto del barone di Munchausen che immaginò di uscire incolume dalle sabbie mobili tirandosi fuori per i propri capelli.

L'accusa di "impoliticità" è dunque da respingere al mittente.

Ma ascoltiamo come il Masi articola la sua critica:
«I motivi [della "impoliticità" della nostra posizione] sono molteplici, ma vorrei soffermarmi su due aspetti specifici: in primis il fatto che non basta avere ragione o avere una bella idea per fare in modo che questa si faccia strada nella società fino a diventare maggioritaria e applicabile, bisogna far sì che trovi radicamento e far capire alle persone che quella idea, o quel ragionamento, rappresenta effettivamente degli interessi (simbolici o materiali). Questo ci porta direttamente al secondo aspetto e cioè al fatto che la posizione del “no” è troppo spesso vista solamente come ipotesi distruttiva, è necessario, invece, mettere in luce gli aspetti costruttivi prima che quelli distruttivi. Avere un mito da proporre alla collettività, insomma. Come nelle parole di Melenchon: “Ciò che noi proponiamo può essere condiviso da tutti i popoli d’Europa: priorità per l’istruzione pubblica, la sanità e l’ambiente. Il linguaggio dei diritti umani, del progresso sociale ed ecologico è universale”».

Sorvolo per carità di patria su Mélenchon e la sua France Insoumise. Chi ha seguito passo passo Mélenchon, anzitutto la sua indecente campagna elettorale per le europee, sa bene che egli, come un maldestro prestigiatore, ha fatto opportunisticamente sparire ogni riferimento al "piano A Piano B" a favore di un messaggio tutto europeista alla Tsipras e alla Podemos — risultato: ecatombe elettorale.

Sono dunque due postulati politici del Masi.

Il primo è «che non basta avere ragione», non basta «che un'idea sia bella» perché diventi maggioritaria. Occorre che data idea rappresenti «effettivamente degli interessi (simbolici o materiali)».

Mettiamo subito in chiaro una cosa: chi perora e dice di crede al "Piano A" — non entro nel merito, del tutto secondario, delle diavolerie e delle chimere economicistiche: camere di compensazione degli squilibri nelle bilance dei pagamenti (Target 2), bankor europeo di keynesiana memoria, bilancio federale, eurobond ecc. — ci sta proponendo de facto una versione paracula di altreuropesimo. Ci indica anzi la via per un consolidamento dell'Unione europea come entità geopolitica. Per quanti trucchi cosmetici si possano utilizzare, chi dice "Piano A" resta dunque intrappolato dentro l'idea imperiale e imperialistica dell'Unione, solo ne avanza una versione "progressista" e politicamente corretta. Al netto degli stratagemmi e delle tecnicalità economicistiche per riconfigurarla, gli amici pro-"Piano A" non negano che resterebbe una struttura imperialistica, per di più ben salda nelle mani della grande borghesia globalista.

Una brutta idea non diventa bella per il fatto che qualcuno si immagina di poterla sottoporre ad un intervento di chirurgia plastica. Non si capisce quindi perché mai sia auspicabile che i popoli debbano domani innamorarsi di un mostro esteticamente modificato.

Come questa Unione truccata possa infatti rappresentare «effettivamente» gli «interessi (simbolici o materiali)» dei popoli e delle classi subalterne, resta non solo un enigma ma una insensata distopia . Diciamola tutta: la brutta idea di una Ue riformata, se rappresenta «effettivamente degli interessi simbolici e materiali» sono quelli di potenti frazioni della borghesia globalista e liberista che vorrebbero solo moderare il predominio franco-tedesco, quindi di certa sinistra transgenica con la quale evidentemente il cordone ombelicale non è stato ancora rotto.

Ma veniamo al secondo postulato, che qui arriva il bello. Scrive il Masi che
«la posizione del “no” [intende l'Italexit] è troppo spesso vista solamente come ipotesi distruttiva, è necessario, invece, mettere in luce gli aspetti costruttivi prima che quelli distruttivi. Avere un mito da proporre alla collettività, insomma».

Anzitutto: non deve sfuggire che quest'accusa è una fotocopia sbiadita di quella che l'élite ordoliberista dominante rivolge al "campo sovranista". Ma andiamo alla sostanza. Anche l'accusa che vorrebbe attribuirci un'infantile quanto "distruttiva"politica dei "no" è da respingere al mittente.

Accetto che la limpida posizione della sinistra patriottica del rivendicare il ritorno alla piena sovranità nazionale sia condannata dalla grande borghesia (che trema all'idea di un disfacimento della Ue), che non lo capisca certi intellettuali che ostentano tanta sapienza populista faccio fatica ad ammetterlo. Ma forse fanno solo finta di non capire.

Rivendicare la sovranità nazionale perché mai sarebbe un "no distruttivo"? E' invece un gigantesco, positivo e costruttivo sì. Va da sé che ogni affermazione, ogni determinazione è per ciò stesso una negazione. L'Italia sovrana ad un polo, l'Unione europea con suoi vincoli esterni a quello opposto. Per quante siano le diavolerie economicistiche di chi vorrebbe salvare capra e cavoli — camere di compensazione degli squilibri nelle bilance dei pagamenti (Target 2), bankor europeo di keynesiana memoria, bilancio federale, eurobond ecc. — tra i due poli c'è opposizione antagonistica.

Siccome penso che ogni politica ha una base filosofica, ritengo che quella degli altreuropeisti di ogni risma sia la concezione irenica e cosmopolitica di Immanuel Kant, per di più quella manipolata dal restauro di Jürgen Habermas. La nostra base filosofica invece non solo affonda le radici nel realismo politico machiavelliano, si nutre alla fonte marxiana della politica come conflitto, quindi fa sua anche la concezione schimittiana del Politico come campo di tensione e lotta tra amico e nemico. Così mentre la impolitica distopia altreuropeista suppone che non ci siano più antagonismi ma solo agonismi (Chantal Mouffe), il nostro categorico sì alla sovranità nazionale, popolare e democratica è massimamente politico proprio perché identifica nell'Unione il nemico mortale, poiché è quello che ha sottratto la sovranità, che non otterremo senza una lotta senza tregua per il suo abbattimento.

Masi finisce in bellezza tirando in ballo la necessità, suppongo per mobilitare i popoli, di proporre un "mito". Pur egli tenendosi sul generico (non si capisce se parla di "mito" in senso soreliano, schmittiano, o minimalista laclausiano), egli ha ragione. Ma proprio perché ha ragione ha tremendamente torto.

Ma ve l'immaginate voi, rebus sic stantibus, i popoli europei sollevarsi, combattere per il "mito" di un "credibile Piano A" di riforma dell'Unione europea? Ve li immaginati cittadini scatenarsi e scendere per le strade per camere di compensazione degli squilibri nelle bilance dei pagamenti (Target 2), bankor europeo di keynesiana memoria, bilancio federale, eurobond?

Risate oceaniche....

Il Sistema mafioso massonico politico controlla ogni anfratto delle istituzioni

Concorsi truccati all’Università di Catania: indagato anche l’ex sindaco Enzo Bianco

gianfranco.cei 16 Luglio 2019 

Enzo Bianco e Orazio Licandro, rispettivamente ex sindaco ed ex assessore di Catania, sono indagati nell’inchiesta Università Bandita sui concorsi truccati per ottenere un incarico nell’ateneo siciliano.


Enzo Bianco e Orazio Licandro, rispettivamente ex sindaco ed ex assessore di Catania, sarebbero stati coinvolti nell’inchiesta “Università Bandita”. A rivelarlo il quotidiano La Sicilia, secondo cui ieri la Digos ha notificato su disposizione della Procura quattordici nuovi avvisi di conclusione indagine. Tra gli altri, ci sarebbe quello nei confronti dell’ex primo cittadino. Risulterebbe però indagato anche l’ex assessore comunale alla Cultura, Orazio Licandro, ordinario del Dipartimento di Scienze umanistiche dell’Università di Catania, nonché la professoressa Marina Paino, direttore del Dipartimento stesso. Tra gli altri indagati ci sono anche Valerio Pirronello, direttore in pensione del Dipartimento di Fisica e astronomia; Luigi Caranti, ordinario di Filosofia politica nel Dipartimento di Scienze politiche e sociali; Caterina Cirelli, ordinario di Geografia economico politica nel Dipartimento di Economia e impresa; Rosa Alba Miraglia, ordinario di Economia aziendale nel Dipartimento di Economia e impresa. I 14 avvisi di conclusione delle indagini notificati ieri si aggiungono agli altri sessantasei delle scorse settimane che interessano docenti, rettori e personale amministrativo:

ora, però, anche la politica è entrata nell’inchiesta. I reati ipotizzati dalla Procura sono, a vario titolo, quelli di associazione a delinquere, corruzione per l’esercizio della funzione, induzione indebita a dare o promettere utilità, falsità ideologia e materiale, abuso d’ufficio e truffa aggravata nonché turbata libertà di scelta del contraente.

L’inchiesta “Università Bandita” ha travolto per primo il rettore Francesco Basile e altri nove docenti dell’ateneo catanese che, secondo la Procura, avrebbero truccato dei concorsi pubblici dell’Università. Le indagini hanno permesso di accertare 27 concorsi truccati: di cui 17 per professore ordinario, 4 per professione associato e 6 per ricercatore.

Secondo gli inquirenti “il futuro vincitore dei concorsi veniva deciso a tavolino e i concorsi venivano costruiti ad hoc per chi dovesse vincere, stabilendo chi dovessero essere i commissari, i membri esterni, nei casi più gravi era il candidato stesso a elaborare i criteri del concorso”.


Deutsche Bank, il colosso dai piedi d'argilla, per lui le regole non valgono, è il libero mercato bellezza

ECONOMIA
Venerdì, 19 luglio 2019 - 17:01:00
La Bce regala 2 mld a Deutsche Bank. Il M5S: in Europa due pesi e due misure


DEUTSCHE BANK, RADUZZI (M5S): “DA BCE REGALO INCONCEPIBILE. IN EUROPA DUE PESI E DUE MISURE” - “Concedere a Deutsche Bank di abbassare il livello di patrimonializzazione richiesto è un regalo inconcepibile ed è l’ennesima dimostrazione di come in Europa esistano due pesi e due misure a seconda di chi sei. Quando si è trattato delle banche italiane la vigilanza Bce non è stata altrettanto clemente, costringendo le nostre banche a pesanti svalutazioni dei propri crediti deteriorati. La banca tedesca si trova oggi in una situazione di profonda crisi e ha predisposto un massiccio piano di licenziamenti. Grazie allo sconto gentilmente offerto dalla Bce, Deutsche Bank otterrà 2 miliardi di euro che le consentiranno di evitare un doloroso aumento di capitale. È chiaro che un’Europa di figli e figliastri non può andare avanti e sarà compito dei nuovi rappresentati delle istituzioni europee mettere fine a questa gestione iniqua della politica europea”. Lo dichiara in una nota il deputato Raphael Raduzzi del MoVimento 5 Stelle.



“CRU” (Capital Release Unit) è il nome della nuova sezione di bilancio di Deutsche Bank dove verranno parcheggiate le attività soprattutto performing (Level 1, 2, 3: Level 1 sono gli strumenti finanziari che sono più semplici da valutare accuratamente, i Level 3 i più complessi).

Quelle oggetto di vendita, come spiega www.money.it, sono attività valutate come “non strategiche” il cui controvalore si attesta a 74 miliardi (288 miliardi di esposizione leverage).

Nonostante sia stata subito ribattezzata “bad bank”, l’istituto teutonico ha tenuto a precisare che non si tratta di un veicolo fuori bilancio per (s)vendere Npl in perdita o disfarsi di attivi cedendoli a un prezzo sotto il valore di libro.

La nuova sezione del bilancio è piuttosto una “good bank” che nasce con l’obiettivo al 2022 di liberare 5 miliardi di capitale tramite la vendita di attivi ed aree di business che rendono poco e che assorbono risorse. Il target è rappresentato dalla dismissione, nel giro di 18 mesi, di metà degli asset di portafoglio.

La nuova “good bank” rappresenta un tassello cruciale del piano di rilancio “lacrime e sangue” annunciato dieci giorni fa (Deutsche Bank: varato piano di ristrutturazione “lacrime e sangue”).

A livello di divisioni, la CRU si occuperà in primo luogo del business “global equities”, dal quale l’istituto intende uscire. Non tanto a causa del peso in termini di attività ponderate per il rischio, 11 miliardi su 74 fanno riferimento a questa unità, ma perché in questo ambito rientra il 60% dell’esposizione a leva oggetto di cessione.

Sarà ricompresa nella CRU anche l’attività fixed income, che rappresenta altri 15 miliardi (su 74) in termini nominali e 79 a livello di leva (27%).

DEUTSCHE BANK: REGALINO DA 2 MILIARDI DA BCE

Nell’ambito del mega piano di ristrutturazione dell’istituto tedesco, l’abbassamento di mezzo punto percentuale del coefficiente di patrimonializzazione CET1 concesso dalla Banca Centrale Europea permetterà all’istituto di evitare un aumento di capitale.

Dopo esser stato fissato al 13%, la vigilanza bancaria europea ha permesso un abbassamento del coefficiente al 12,5% con uno “sconto”, in termini assoluti, quantificabile in 1,5-2 miliardi di euro.Deutsche Bank: abbassamento CET1, mercato si sentirà tutelato?

“Una grande mano da parte del regolatore è stata di aiuto: la concessione di 50 basis points di CET¬1 è stata vitale perché Deutsche abbia evitato grazie a un’efficace azione di lobbying con i regolatori di ridurre il target di CET¬ ratio di 50 punti al 12,5%”, ha rilevato Adam Terelak di Mediobanca Securities.

Il nuovo livello non è però lontano dall’11,8% del livello minimo di capitale fissato dalla BCE nell’ambito dello SREP (Supervisory Review and Evaluation Process).

Gli Stati Uniti fomentano guerra e odio

L'India non parteciperà alla coalizione anti-iraniana degli Stati Uniti nel Golfo Persico


Le navi da guerra dell'India non si uniranno alla coalizione militare anti-iraniana che gli Stati Uniti intendono formare nel Golfo Persico, dove la tensione è in continuo aumento.

Secondo i funzionari indiani che hanno familiarità con la questione, le due navi indiane che scortano le navi mercantili nelle suddette acque rimarranno dispiegate per lungo tempo, ma non aderiranno alla coalizione marittima che gli Stati Uniti stanno cercando di formare con il pretesto di assicurare la "libera navigazione" nel Golfo Persico.

"Effettueremo da soli le misure di protezione delle navi con bandiera indiana. Finora, quasi due dozzine di navi hanno ricevuto questi servizi di sicurezza ", ha dichiarato un funzionario indiano citato anonimamente, ieri, dall'agenzia di stampa britannica Reuters.

Altri funzionari hanno precisato all'agenzia che New Delhi non si sarebbe unita alla coalizione degli Stati Uniti, in larga misura, perché avrebbe affrontato direttamente l'Iran, un paese con cui l'India ha avuto relazioni storiche nel campo politico e commerciale.

Inoltre, l'India non ha mai fatto parte di alcun blocco militare straniero, preferendo lavorare sotto la bandiera delle Nazioni Unite, ha aggiunto.

Da giugno, quando due navi cisterna hanno subito incendi nei pressi dello Stretto di Hormuz, le navi della Marina indiana hanno scortato navi battenti bandiera indiana dentro e fuori il Golfo Persico e il Mare di Oman.

Già in precedenza, il Giappone ha anche rifiutato di inviare truppe in Medio Oriente per far parte di una coalizione con Washington nell'area contro Teheran.

Fonte: Reuters
Notizia del: 19/07/2019

La Cina ha una visione strategica che manca assolutamente ai paesi occidentali. In primis è globale, secundis sa perfettamente che tutto è legato insieme, non ci può essere benessere di lunga durata in un paese se gli altri non usufruiscono benessere

In Cina la recessione è lontana ma la malattia decisamente rognosa

La guerra commerciale con gli USA potrebbe aiutare Pechino, che guarda preoccupatissimo al suo modello economico che sembra aver finito il gas e alla mucca Europa

DI JETA GAMERRO SU 18 LUGLIO 2019 16:30

Gli ultimi dati mostrano che la crescita del PIL cinese è scesa al 6,2% su base annua nel secondo trimestre, la peggiore performance in quasi tre decenni. Nel primo trimestre la crescita si era attestata al 6,4%.

Un dato che certo problemi alle ambizioni cinesi li crea, ma, per assurdo, secondo alcuni analisti finanziari, un aiuto potrebbe venire niente meno che dalla guerra commerciale con gli USA -alla base, per altro, del rischio di una nuova recessione mondiale, timori europei in primis.

Se è vero che la guerra commerciale USA-Cina lascerà entrambi i Paesi in condizioni peggiori nei prossimi anni, e a guadagnarci saranno tutti gli altri Paesi che beneficiano di cambiamenti nei mercati e nei prezzi mondiali, è anche vero che le industrie statunitensi e cinesi si adegueranno, deviando il commercio verso altri mercati. Il risultato di questa nuova situazione, secondo gli analisti del Peterson Institute for International Economics (PIIE), è che: mentre l’agricoltura in particolare e la produzione statunitense in generale perderanno, la manifattura cinese guadagnerà, espandendo la produzione e il commercio. Le esportazioni statunitensi verso la Cina e le esportazioni totali statunitensi diminuiranno. La diversificazione delle esportazioni statunitensi verso altri mercati compenserà solo parzialmente il declino generale. La Cina, invece, avrà più successo nel dirottare le esportazioni verso altri mercati, aumentando le esportazioni totali. La Cina ha già tagliato le sue tariffe sulle importazioni da tutti i Paesi eccetto USA, probabilmente proprio ipotizzando le stesse conclusioni degli analisti PIIE, che hanno lavorato su più scenari, e in tutti i casi l’ipotesi è un piccolo miglioramento del PIL cinese e un leggero calo del PIL statunitense.

«Le condizioni economiche sono ancora gravi, sia in patria che all’estero, la crescita economica globale sta rallentando, le instabilità esterni e le incertezze sono in aumento, lo sviluppo squilibrato è ancora acuto, e l’economia è sotto nuova pressione al ribasso», ha detto Mao Shengyong, portavoce dell’ufficio nazionale di statistica cinese, in una conferenza stampa, commentando i dati del PIL.

Il resto del mondo sta ignorando le politiche commerciali degli Stati Uniti e sta procedendo con gli accordi di libero scambio all’interno della struttura dell’Organizzazione mondiale del commercio (OMC), e questo di certo sarà di aiuto per la Cina.

Secondo alcuni osservatori, però, proprio il rallentamento al 6,2% del PIL starebbe a dimostrare che il ‘modello di crescita cinese guidato dallo Stato sta finendo il gas’, come sostiene ‘The Wall Street Journal’. Una recessione o una crisi potrebbero non essere imminenti», «il 6,2 è ancora abbastanza buono per un Paese a reddito medio con un prodotto interno lordo pro-capite da $ 14.000 a $ 18.000 all’anno», è uno dei tassi di crescita più invidiabili al mondo, «ma le implicazioni a lungo termine sono altrettanto gravi». 

Innanzitutto, la Cina non è all’altezza delle economie che cerca di emulare: Taiwan, Corea del Sud e Giappone hanno goduto di una crescita superveloce per diversi decenni in simili fasi di sviluppo. La Cina sembra rallentare prima degli altri. La spiegazione, secondo il ‘The Wall Street Journal’, è che «il suo settore statale distorce gli investimenti e deprime la produttività». Potenzialmente la Cina potrebbe essere in grado di sostenere la sua rapida crescita ancora a lungo grazie al momento molto favorevole per la produzione tecnologica. La previsione degli economisti è che, però, la Cina non ce la faccia a mantenere un ritmo degno delle sue potenzialità. «Molto difficile sostenere tassi di crescita superiori al 4% nell’attuale contesto politico», afferma Loren Brandt, esperto di crescita cinese all’Università di Toronto al ‘The Wall Street Journal’. 

Tra le cause delle difficoltà cinesi: la popolazione in età lavorativa ha smesso di crescere; il grande spostamento del lavoro dalle aree rurali alle fabbriche urbane è in gran parte completo; le difficoltà che le imprese private ancora incontrano nel Paese, causa il controllo detenuto dallo Stato, non incoraggia, anzi, gli investimenti; la stragrande maggioranza della crescita economica della Cina è guidata dalla crescita dei consumi di servizi -i consumi hanno contribuito per il 76% e i servizi per il 60% della crescita del PIL-, sospinta dalla crescita delle spese da parte dei consumatori e negli ultimi mesi le vendite sono diminuite drasticamente (in particolare auto e smartphone) e alcune grandi aziende stanno tagliando di posti di lavoro. 

Tuttavia, secondo le previsioni, il consumo cinese dovrebbe crescere di circa $ 6 trilioni da oggi fino al 2030. Questa enorme somma equivale alla crescita dei consumi combinati prevista negli Stati Uniti e nell’Europa occidentale nello stesso periodo, il doppio di quello dell’India e delle economie dell’ASEAN insieme. Il rallentamento di adesso, secondo McKinsey Global Institute, è causato dai cambiamenti dei modelli di consumo, in una società in cui la fascia medio-alta del Paese è in crescita. Ma il problema di fondo è il peso dello Stato nell’economia non più sopportabile dallo Stato stesso. 

Altro fattore che ha determinato il rallentamento dell’economia è la stretta creditizia -dopo dieci anni di incentivi e deleveraging, ai quali ha dato il via la grande crisi, e una serie di misure di stimolo e di liberalizzazione finanziaria, tutto ciò ha determinato una ‘pompa di credito’ che ha creato bolle speculative nell’economia sostenute attraverso l’eccesso di liquidità- che ha iniziato a farsi sentire, in particolare tra le piccole imprese nel settore privato. Poiché l’economia cinese è sempre più dipendente dai consumi e dai servizi, una compressione delle aziende si riflette sui consumi e sulla crescita generale. 

Il rallentamento della Cina, ancora lontana dalla crisi, potrebbe essere l’inizio di una nuova recessione a livello mondiale, e tra le prime vittime l’Europa. E questo sarebbe un grave problema per la Cina. Il Presidente della BCE, Mario Draghi, continua sostenere che le probabilità di una recessione dell’Eurozona nel breve termine rimangono ‘basse’, alcuni economisti non sono della stessa opinione. Di un «rischio considerevole di recessione in Europa entro la fine di quest’anno e all’inizio del prossimo anno», parla, tra gli altri, Mohamed El-Erian, economista, primo consigliere economico del Gruppo Allianz, la UE «ha ‘tra il 50 e il 60 per cento’ possibilità di entrare in recessione quest’anno o poco dopo», ha dichiarato ai media asiatici.

Un grande guaio la ‘consistente’ possibilità di una recessione nell’Unione europea, un rischio maggiore per l’economia cinese rispetto alla guerra commerciale USA-Cina in corso, secondo El-Erian. L’UE, infatti, è il principale partner commerciale della Cina, la terza a livello mondiale per servizi finanziari, la sua recessione significherebbe domanda più debole per le esportazioni cinesi uno dei tanti gravi ostacoli cui devono far fronte i politici di Pechino, che sono stati costretti a mettere in atto una serie di misure di stimolo e hanno sospeso il programma di riforme economiche. 

Il successo dello sforzo di riforma della Cina, e dunque la ripresa del PIL evitando la ‘tempesta’ della recessione, dipenderà in buona parte dalle prestazioni future dell’economia globale, Europa in testa -i cui destini a sua volta sono legati all’andamento del resto del mondo, non ultimo USA.

Sarà possibile evitare la tempesta? C’è da ritenere che la Cina non farà mancare i suoi sforzi alla mucca Europa, più in dubbio -molto- gli sforzi americani, che, anzi, sembrano andare in senso contrario, un elemento positivo perché l’Europa aiuti intanto se stessa, secondo PIIE, è nel nuovo gruppo dirigente UE, definito «capace e pragmatico, impegnato a portare avanti i processi di riforma economica del continente», la revisione delle istituzioni europee e il sostegno alle istituzioni multilaterali globali a partire da quelle che regolano il commercio internazionale.