L'albero della storia è sempre verde

L'albero della storia è sempre verde

"Teniamo ben ferma la comprensione del fatto che, di regola, le classi dominanti vincono sempre perché sempre in possesso della comprensione della totalità concettuale della riproduzione sociale, e le classi dominate perdono sempre per la loro stupidità strategica, dovuta all’impossibilità materiale di accedere a questa comprensione intellettuale. Nella storia universale comparata non vi sono assolutamente eccezioni. La prima e l’unica eccezione è il 1917 russo. Per questo, sul piano storico-mondiale, Lenin è molto più grande di Marx. Marx è soltanto il coronamento del grande pensiero idealistico ed umanistico tedesco, ed il fondatore del metodo della comprensione della storia attraverso i modi di produzione. Ma Lenin è molto di più. Lenin è il primo esempio storico in assoluto in cui le classi dominate, sia pure purtroppo soltanto per pochi decenni, hanno potuto vincere contro le classi dominanti. Bisogna dunque studiare con attenzione sia le ragioni della vittoria che le ragioni della sconfitta. Ma esse stanno in un solo complesso di problemi, la natura del partito comunista ed il suo rovesciamento posteriore classistico, individualistico e soprattutto anti- comunitario" Costanzo Preve da "Il modo di produzione comunitario. Il problema del comunismo rimesso sui piedi"

sabato 3 agosto 2019

Statunitensi bifronte - quello che vale per l'Arabia Saudita non vale per l'Iran. Stati Uniti inaffidabili

Gli Stati Uniti vogliono aiutare i sauditi ad un "programma nucleare civile"



L'Arabia Saudita, che cerca di espandere il proprio portafoglio energetico, è stata impegnata in colloqui con Washington su un accordo bilaterale di cooperazione nucleare che le consentirebbe di perseguire progetti nucleari civili.

Gli Stati Uniti vogliono firmare un accordo con l'Arabia Saudita sulla cooperazione nella costruzione del suo programma nucleare civile. Lo ha dichiarato ieri alla CNBC il segretario all'energia Rick Perry.

“I sauditi si impegneranno in un programma nucleare civile per il loro paese. Chi vuole lavorare con loro? Chi vuole fornire il carburante, la tecnologia? I russi? O i cinesi che non hanno interesse per la non proliferazione. O gli Stati Uniti? Vorrei suggerire che gli Usa hanno tutto il buonsenso del mondo. Se lo faranno, vogliamo un accordo molto forte", ha dichiarato Perry a Joe Kernen della CNBC.

I commenti di Perry seguono un rapporto della rivista Foreign Policy secondo cui una gruppo di legislatori americani si era mossa per bloccare la US Export-Import Bank, l'agenzia ufficiale di credito all'esportazione degli Stati Uniti, dal finanziamento per il trasferimento di tecnologia nucleare statunitense e equipaggiamento per Riyad, a meno che quest'ultimo non si impegni per iscritto a non impegnarsi in attività di arricchimento dell'uranio.

Il progetto di legge, citato dalla rivista, è stato messo a punto un mese dopo che il senatore democratico Tim Kaine ha dichiarato che l'amministrazione Trump ha dato il via libera al trasferimento di competenze tecniche nucleari a Riyad per sette volte.

A febbraio, i democratici del comitato di sorveglianza della Camera degli Stati Uniti hanno dato il via a un'indagine su un piano dell'attuale amministrazione statunitense per trasferire la tecnologia nucleare sensibile in Arabia Saudita.

Il mese seguente, i senatori statunitensi Bob Menendez e Marco Rubio hanno scritto una lettera al generale Gene Dodaro per dichiarare che il Government Accountability Office (GAO) dovrebbe indagare sui negoziati dell'amministrazione Trump con l'Arabia Saudita su un accordo nucleare civile che potrebbe violare la legge federale.

Il Dipartimento dell'Energia degli Stati Uniti ha discusso con Riyad per consentire alle compagnie americane di costruire strutture nucleari nel regno, con l'amministrazione Trump che ha ripetutamente sottolineato che gli accordi con i sauditi sono limitati alla pacifica ricerca dell'energia nucleare.

Fonte: CNBC
Notizia del: 01/08/2019

Sardegna - fare un piano per la mobilità sostenibile dell'intera isola

CRONACA SARDEGNA - CAGLIARI Ieri alle 12:30, aggiornato ieri alle 12:35
Sardegna, altro che Tav: il commento di Paolo Fadda

Nella penisola si parla di alta velocità. Ma in Sardegna ci sono le ferrovie più vecchie d'Europa
Paolo Fadda (Archivio L'Unione Sarda)

A seguire dalla Sardegna il match politico in atto tra no Tav e sì Tav, cioè sull'utilità economica, o meno, dell'alta velocità ferroviaria fra Torino e Lione, o, magari, l'apprendere di un'altra vagonata di miliardi di euro che l'ente ferroviario di Stato destinerà al nuovo corridoio merci fra Milano e Budapest, s'andrebbe formando, più che qualche timida invidia, tanto, ma tanto forte malumore. Perché la nostra rete ferroviaria la si è lasciata, più o meno, a quella realizzata, negli ultimi tre decenni dell'800, dall'ingegner Benjamin Piercy. Quasi che il viaggiare in treno dovesse rimanere come il continuare ad usare, nel far di calcolo, un'addizionatrice meccanica Triumph.

Infatti, se con l'alta velocità del Freccia Rossa si coprono oggi i 576 chilometri tra Roma e Milano in 2 ore e 50 minuti, dai quasi 8 del 1900, ne occorrono invece ben 3 ore e mezzo per coprire, con il Pendolino, i 260 che dividono Cagliari da Sassari (ed ai tempi del Piercy le vaporiere d'allora ne impiegavano solo quattro, di ore). Eppure il treno, un po' dovunque, è considerato l'altro nome della velocità nel viaggiare: in Giappone, ad esempio, può raggiungere i 500 Km/h!

Non diversamente accade nell'isola per le merci, dato che le oltre 8mila tonnellate per chilometro, trasportate nella rete ferroviaria nazionale, qui nell'isola si sono ormai ridotte quasi allo zero. Eppure, secondo l'Osservatorio Eurispes, il trasporto merci su rotaia è molto più conveniente e sicuro di quello su gomma: dovrebbe quindi essere privilegiato nei progetti governativi.

Purtroppo, per riprendere l'osservazione iniziale, tra la nostra isola e le ferrovie c'è stato, da sempre, una sorta di diffidenza o, per meglio dire, una forte incompatibilità socio-politica. Nel senso, chiarisco, che non sarebbe mai maturato un chiaro legame che ne riconoscesse l'utilità economica ed i benefici sociali. E, aggiungo, non per colpa esclusiva di noi sardi. Anche se con le ferrovie non c'è poi stata poi molta consonanza. Tra l'altro ogni investimento ferroviario, da quel primo di fine '800 fino all'ultimo d'un secolo dopo, si andrà sempre con l'alternarsi di strombazzati annunci e di silenziose messe da parte. Tanto da far sì che la nostra rete ferroviaria sarebbe rimasta sempre una grande incompiuta. O, come nel caso dell'elettrificazione avviata ai tempi di Craxi, risoltasi in niente più che un evidente spreco di risorse assai poco comprensibile.

D'altra parte, ancora nell'ultimo ventennio, alla rete sarda sarebbero andate sempre solo le briciole, ed anche il futuro non sembra essere differente, se è vero, come parrebbe certo, che degli oltre 13mila milioni di euro di nuovi investimenti, le ferrovie statali ne investirebbero nell'isola solo 187, contro i quasi 3mila destinati alla Sicilia ed i 900 alla Campania. Ora, per meglio inquadrare il problema, ci sarebbe da domandarsi se le ferrovie sarde siano ancora utili e necessarie. O, meglio, se l'attuale rete ferroviaria risponda, o meno, ai bisogni di mobilità della nostra popolazione. Non sarà certo facile rispondere, considerate le attuali condizioni, non solo di lentezza, dei nostri treni. Attualmente, secondo i dati disponibili, ogni mese utilizzerebbero il treno poco più di 400mila persone per compiere mediamente spostamenti di non più di 40 chilometri.

Mentre sul percorso Cagliari-Sassari e viceversa, ad esempio, risulterebbero neppure 2mila, solo lo 0,5 per cento! Eppure, secondo uno studio recente, sarebbero oltre 25 mila i passaggi mensili fra le due maggiori città dell'isola, di cui circa l'85 per cento compiuti con auto private. Ci sarebbe, quindi, il tanto per avere un collegamento ferroviario veloce, entro le due ore? E verrebbe ritenuto di utilità sociale e d'interesse economico? Sono domande che occorre fare, anche perché di un riordino e di una razionalizzazione dell'intera rete ferroviaria sarda ce ne sarebbe proprio bisogno, dopo circa un secolo di continue dimenticanze. La risposta la si attende dal ministro Toninelli (e per competenza anche dall'Assessore Todde), in quanto la Sardegna, che ha le ferrovie più vecchie d'Europa, ha necessità, ed anche il diritto, di ottenere da parte dell'ente ferroviario di Stato ben più di quei pochi spiccioli - l'1,3 per cento del totale - con cui si vorrebbe solo porre dei frettolosi rammendi ad una rete ormai piena di strappi.

PAOLO FADDA

STORICO E SCRITTORE

La Lega massonica si è incartata a Montecchio

ECONOMIA

Tav: Gruppo Zaia, dopo sblocco del Cipe su Montecchio Toninelli non perda tempo

di AdnKronos
2 Agosto 2019

Venezia, 2 ago. (AdnKronos) - "La notizia dello sblocco del casello di Montecchio Maggiore è un passo decisivo per la continuazione non solo della Pedemontana, ma dell'intero sistema infrastrutturale Veneto. Ora però il ministro Toninelli deve procedere senza indugio con l'alta velocità: i Veneti in coda hanno già aspettato a sufficienza". Commenta con queste parole il capogruppo di Lista Zaia, Silvia Rizzotto, la notizia dello sblocco da parte del Cipe del così detto "nodo di Montecchio", la intersezione tra A4, Pedemontana e Tav all'altezza della cittadina vicentina.

"Con la deliberazione del Cipe, finalmente potranno partire le nuove opere di Montecchio - spiega Rizzotto - almeno per ciò che riguarda la parte non ferroviaria. E' un inizio, comunque, importante, per andare avanti per la realizzazione della Pedemontana che senza l'innesto a Montecchio avrebbe perduto un valore notevole. Ora, quindi, si può procedere, e questa non può che essere una ottima notizia per il Veneto e il suo sistema produttivo", sottolinea.

"Questo comunque non toglie il fatto che l'alta velocità proprio nell'area compresa tra Verona e Padova debba essere realizzata quanto prima, anzi: il Ministro Toninelli dovrebbe comprendere che l'opera è per noi veneti quanto più strategica si possa immaginare ed anzi, si innesta perfettamente con la Pedemontana. Non possiamo aspettare un solo minuto di più, le nostre imprese e le nostre aziende vogliono infrastrutture degne del nostro Paese e non possono più aspettare i dubbi e le perplessità dei grillini su opere tanto importanti", chiude Rizzotto.

NoTav - Le prebende vanno ai francesi


Abbuffata ad alta voracità. Ecco chi si arricchisce col Tav. Appalti d’oro per aziende francesi e austriache. Partecipate da banche e fondi internazionali 

2 agosto 2019 di Francesco Carta


Se non bastassero “l’evidenza empirica dell’inutilità dell’opera”, pensata trent’anni fa e da realizzare forse tra venti, e “gli studi che certificano il rischio di sperperare soldi italiani ed europei”, sarebbe sufficiente seguire i soldi per smascherare “i colossali interessi economici e finanziari in gioco”. E i colossali interessi contro i quali puntano il dito il senatori M5S della commissione Bilancio di Palazzo Madama, presieduta da Daniele Pesco, sono quelli che ruotano intorno al Tav Torino-Lione.

UN POSTO A TAVOLA. “C’è qualche forza politica che dice di non voler fare la cameriera di Macron, peccato però che sostenendo il Tav rischia di diventare direttamente maggiordomo del presidente francese, apparecchiando un banchetto per banche transalpine e internazionali”, accusa la pattuglia parlamentare grillina. “Diciamo le cose come stanno, una volta per tutte – affermano, mettendo il dito nella piaga -. Se si guarda alle società di costruzioni che stanno lavorando ai tunnel esplorativi, e che attendono i nuovi appalti, si scoprono realtà come Spie Batignolles ed Eiffage, partecipate da fondi di investimento di Bnp Paribas, Société Générale, Credit Agricole e dell’americana BlackRock”.

Insomma, roba da fregarsi le mani per le aziende d’oltralpe. E non solo sulla sponda francese. “Poi c’è la società austriaca Strabag, nel cui azionariato ci sono i gruppi finanziari Uniqa, Raiffeisen e una finanziaria cipriota che fa capo al magnate russo Deripaska – prosegue l’impietosa lista dei senatori M5S -. Non c’è che dire, è proprio un’opera sovranista! Noi del Movimento 5 Stelle, sempre coerenti rispetto a chi invece ha cambiato idea mille volte sul Tav, continueremo a opporci all’opera”.

ULTIMA TRINCEA AL SENATO. E proprio sul Tav, la battaglia decisiva si combatterà mercoledì prossimo al Senato dove sono arrivate a cinque le mozioni all’ordine del giorno. Tre per il Sì, due per il No (M5S e LeU) ; quattro dell’opposizione, una della maggioranza (M5S). All’elenco dovrebbe aggiungersi entro lunedì pro-Tav di Forza Italia. Come noto, i Cinque Stelle chiedono “la cessazione delle attività per la realizzazione e la gestione della sezione transfrontaliera del nuovo collegamento” e “una diversa allocazione delle risorse stanziate per il finanziamento della linea al fine di promuovere la loro riassegnazione all’entrata del bilancio dello Stato per essere successivamente destinate ad opere pubbliche alternative, maggiormente utili ed urgenti, sul territorio italiano”. I 5S da soli non hanno i numeri. Ma per il Sì all’opera la Lega dovrà votare insieme alle opposizioni. E non sarebbe la prima volta.

2 agosto 2019 - DIEGO FUSARO: Interventi a "L'aria che tira" (La7)

Gli ebrei si preparano a fare una incursione umanitaria a Auschwitz la prigione a cielo aperto

ISRAELE. IDF si prepara alla guerra su Gaza

agosto 2, 2019

L’Idf si sta preparando alla possibilità di un’escalation significativa nel sud. Il Capo di Stato Maggiore, il generale Aviv Kochavi, quando ha assunto l’incarico, ha dato istruzioni secondo le quali l’Idf aumenterà la sua preparazione per una campagna militare nella Striscia di Gaza.

L’addestramento prevede la cooperazione di tutti i settori dello Stato Maggiore Generale guidato dal comando meridionale. Il processo si concentra sull’aumento dell’ampiezza degli obiettivi dello Stato Maggiore Generale, sul potenziamento dell’intelligence, sul collegamento delle unità sul campo con l’intelligence in tempo reale, sull’organizzazione regionale, sulla formazione e su un ampio sforzo logistico, riporta Arutz Sheva 7.

Il processo di aumento della prontezza è stato portato avanti a diversi livelli. Il primo è la condotta della battaglia; nella prima metà del 2019 il Comando Sud e lo Stato Maggiore sono con tutte le unità sul campo per combattere nella Striscia di Gaza.

Inoltre, nell’ambito della prontezza della campagna, la Divisione Intelligence, in collaborazione con il Comando Sud, ha aumentato la gamma di obiettivi per la guerra, costruendo una serie di piani ad hoc.

Un altro livello è stato sviluppato negli ultimi sei mesi, quando il Comando Sud ha sviluppato un programma di addestramento specializzato per affrontare uno scenario di combattimento nel Sud. Il programma comprendeva esercitazioni di battaglione chiamate “Southern Command Test”, basate su criteri specifici per combattere nella Striscia di Gaza.

Nel corso della prima metà del 2019, sono state condotte 30 esercitazioni di questo tipo. Inoltre, si è tenuto il corso “Coiled Spring”, che ha formato comandanti a livello dei compagnia e non solo, utilizzando una simulazione di realtà virtuale, delle condizioni di combattimento previste nella Striscia di Gaza e sottolineando la preparazione dei nemici.

Circa due settimane fa è stata effettuata un’esercitazione su larga scala che ha esaminato l’efficacia dei comandanti in combattimento. All’esercitazione hanno partecipato otto comandanti di divisione, centinaia di riservisti, forze aeree e navali dell’area di Ashdod.

Negli ultimi mesi, è stato fatto uno sforzo concentrato per organizzare lo spazio civile e militare al confine della Striscia di Gaza, guidato dalle forze ingegneristiche della divisione di Gaza. Gli sforzi sono stati fatti con la consapevolezza che il passaggio dalla routine allo scenario di emergenza nella regione può avvenire molto rapidamente.

Tommaso dal Passo

Gaza la prigione a cielo aperto è Auschwitz - il popolo eletto sono mesi che racconta menzogne

Gaza: in migliaia sul confine con Israele, scontri e feriti

Tv, Israele non restituirà il corpo di un miliziano di Hamas

02 AGOSTO, 17:24


(ANSAmed) - GAZA, 2 AGO - Migliaia di palestinesi provenienti da Gaza si sono raccolti in cinque punti di frizione lungo il confine con Israele, in una nuova manifestazione di protesta contro il blocco israeliano alla Striscia. Le dimostrazioni odierne avvengono in un clima di particolare tensione dopo che ieri un miliziano di Hamas, Hani Abu Salah, è penetrato armato in Israele per compiere un attentato ed è stato poi ucciso da una pattuglia di confine. Secondo la emittente Canale 13 il suo corpo, per il momento, non sarà restituito a Hamas.

Fonti locali riferiscono dal confine che i dimostranti lanciano ordigni esplosivi verso i soldati che rispondono con gas lacrimogeni e proiettili rivestiti di gomma. Sul posto vi sono alcuni feriti. Un incendio è stato appiccato nei campi di un kibbutz di frontiera da un pallone incendiario, mentre in cielo sono stati lanciati dai palestinesi anche palloni legati ad ordigni esplosivi. Fonti locali riferiscono che miliziani di Hamas hanno sparato in direzione di droni militari israeliani.

Secondo le fonti, uno è stato colpito. (ANSAmed).

Si danno 11 pugnalate con un coltello da professionista portato dagli Stati Uniti, e poi nel giro di qualche minuto si alza una rete di depistaggio. La verità deve essere nascosta, le persone non devono sapere

Fini: "Cerciello Rega un incapace e il collega Andrea Varriale buttato a terra"

La polemica è di Massimo Fini, noto per il suo atteggiamento anarchico e le critiche feroci all'Occidente


Un inatteso attacco al vicebrigadiere Mario Cerciello Rega, ucciso una settimana fa dall'americano Fiinnegan Lee Elder e al suo collega carabiniere Andrea Varriale arriva sulle pagine de Il Fatto Quotidiano. L'articolo è di Massimo Fini, uno dei giornalisti più popolari in Italia, conosciuto per i suoi atteggiamenti da anarchico e per le sue feroci critiche all'Occidente. Fini sostiene che il vicebrigadiere Cerciello Rega avendo dimenticato la pistola d’ordinanza in caserma pur essendo in servizio, più che un eroe gli sembra un incapace, e anche il collega carabiniere Andrea Varriale, "sopraffatto e buttato a terra" dal ragazzo americano, come ha dichiarato Francesco Gargaro, comandante provinciale dei carabinieri di Roma, ha dimostrato di non essere all'altezza del ruolo e ha concluso che "Se queste sono le nostre Forze dell'Ordine siamo freschi". 

L'affondo di Fini sorprende e fa male, Mario Cerciello Rega è stato pianto da un Paese intero e a quanto si è saputo svolgeva la sua professione con coraggio e slancio solidale. Probabilmente quella del giornalista milanese è stata una provocazione ma per molti lettori sarà difficle digerirla. Nel corso degli anni hanno fatto rumore alcuni suoi libri e le tesi sostenute. Ricordiamo "Elogio della guerra", "Sudditi. Manifesto contro la Democrazia", "Il Mullah Omar", la biografia del leader dei Talebani, una figura odiatissima in tutto l'Occidente ma per Massimo Fini, un patriota che difende con coraggio il suo Paese.

La 'ndrangheta dilaga in Italia - Pistoia

Commercialista pistoiese "vicino alla 'ndrangheta", confiscati 2 milioni di euro di beni

Lo stesso cinquantatreenne era a capo di un gruppo criminale che operava a Pistoia

Ultimo aggiornamento il 2 agosto 2019 alle 13:19

Guardia di Finanza

Pistoia, 2 agosto 2019 - Dieci fabbricati, sei complessi aziendali, 83 effetti cambiari e un conto corrente per quasi 2 milioni di euro sono stati confiscati dai finanzieri di Pistoia ad un commercialista di 53 anni, secondo gli inquirenti "in contatto con cosche calabresi". Le indagini patrimoniali, svolte dal nucleo di polizia economico-finanziaria sotto la direzione dell'autorità giudiziaria di Firenze, prendono spunto dalle indagini penali condotte dalla procura della Repubblica di Pistoia nei confronti del'uomo, in passato condannato per associazione di tipo mafioso, nonché di altre decine di soggetti, indagati per associazione a delinquere, bancarotta fraudolenta patrimoniale e documentale, riciclaggio, intestazione fittizia di beni e truffe.

Lo stesso commercialista era a capo di un gruppo criminale che operava a Pistoia, dedito al riciclaggio di denaro sporco arrivate dall'usura, dalla bancarotta fraudolenta, dall'esercizio abusivo del credito nonché da reati contro il patrimonio. Le indagini hanno fatto emergere una fitta rete di attività commerciali, beni mobili e immobili nelle province di Pistoia e Firenze intestati a prestanome. Il complesso patrimoniale, del tutto sproporzionato ai redditi ufficialmente percepiti, è stato così confiscato.

Roma - si allo stadio ma dopo l'accordo sulle opere pubbliche necessarie

Stadio della Roma, Virginia Raggi: "Prima le opere pubbliche"

Virginia Raggi, sindaco di Roma, ha parlato a Radio Radio commentando i continui problemi per la realizzazione dello stadio del club giallorosso...

02.08.2019 08:30 di Antoniomaria Pietoso 


STADIO DELLA ROMA - Non c'è pace per Pallotta sulla questione stadio. I rapporti con il Campidoglio sono freddi e dopo le dimissioni del cda di Eurnova, il patron giallorosso ha pensato di spostare lo stadio a Fiumicino.Sulla vicenda si è espressa anche Virginia Raggi, sindaca di Roma, che ieri ha detto ai microfoni di Radio Radio di volere prima la fumata bianca per le opere pubbliche. Ecco le sue parole: “Stadio della Roma? Il nostro giudizio politico lo abbiamo dato. Abbiamo rivisto il progetto in senso sostenibile. Ora è una questione di uffici. Sia i nostri che quelli della Roma stanno lavorando per cui non appena finiranno di mettersi d’accordo sulle opere pubbliche si farà”.

1 agosto 2019 - PERIFERIE, ATAC E RIFIUTI. INTERVISTA ESCLUSIVA A VIRGINIA RAGGI

Roma - Il burocrate Zingaretti ripropone per la capitale una nuova Malagrotta, se questo è il piano dei rifiuti licenziato dalla regione Lazio, possiamo dire che hanno capito tutto, via ai privati

SULL’EMERGENZA

Roma, Regione approva il piano rifiuti. Ma è scontro con Raggi
Autosufficienza della Capitale nella gestione dei rifiuti con impianti per il trattamento e lo smaltimento, ovvero con una discarica di servizio. La sindaca: « Zingaretti minaccia i romani con una nuova Malagrotta?»

di Redazione Roma
2 agosto 2019


Autosufficienza di Roma nella gestione dei rifiuti con impianti per il trattamento e lo smaltimento, ovvero con una discarica di servizio. Lo prevede il Piano rifiuti 2019-2025 approvato venerdì pomeriggio dalla giunta regionale del Lazio. Inoltre è previsto l’innovativo presidio industriale di Colleferro, la raccolta differenziata al 70% nel Lazio entro il 2025, legalità e investimenti regionali per sostenere Comuni e aziende pubbliche nella realizzazione di impianti per il trattamento e lo smaltimento dei rifiuti. Sul piano la sindaca Virginia Raggi twitta polemica: «Abbiamo aspettato la Regione Lazio 7 anni per il piano rifiuti e ora propongono una nuova discarica a Roma, una nuova Malagrotta. Cosa fa Nicola Zingaretti minaccia i romani?».

Il nuovo sito «green»

Nel Piano rifiuti regionale è ricompresa anche la dismissione del termovalorizzatore di Colleferro, assegnando a LazioAmbiente la progettazione di un nuovo presidio industriale, in cui sarà possibile eseguire processi di lavorazione senza alcuna combustione per estrarre materie dai rifiuti in uscita dai Tmb. Il nuovo complesso vedrà la luce nel 2021. Per contribuire a colmare il gap impiantistico, la Regione stanzierà circa 6 milioni di euro, che verranno messi a disposizione di Comuni e aziende pubbliche del settore, attraverso un bando pubblico, per la realizzazione di impianti di trattamento e smaltimento dei rifiuti. È quanto prevede il Piano rifiuti regionale 2019-2025. I 6 milioni, ha spiegato l’assessore ai Rifiuti Massimiliano Valeriani, sono per il solo 2019 e non è escluso che se la risposta da parte dei soggetti pubblici sarà positiva possano arrivare altri fondi. E se Roma non realizzerà gli impianti e la discarica di servizio? «O gli impianti necessari vengono realizzati dai soggetti pubblici - ha risposto Valeriani - oppure nelle aree compatibili individuate dalle Province, le cosiddette aree bianche, essi potranno essere realizzati dai privati».

«Faro» è l’economia circolare

La Regione, «mira a superare l’approccio dell’economia lineare - è stato spiegato - in cui la produzione genera rifiuti che vanno trattati e smaltiti, per passare invece a un’economia circolare che punta alla riduzione dei rifiuti e ad un recupero di materia». Politiche attive e nuovi investimenti, è previsto dal testo approvato venerdì dalla giunta, permetteranno di favorire la riduzione della produzione di rifiuti e lo sviluppo dell’economia circolare: accordi con la grande distribuzione organizzata per la riduzione degli imballaggi, contrasto del consumo della plastica monouso, introduzione della tariffa puntuale, secondo il principio «meno si inquina e meno si paga», contributi per la creazione di isole ecologiche e centri di compostaggio nei Comuni del Lazio (che negli ultimi anni hanno già ricevuto oltre 87 milioni di euro dalla Regione). Sarà incentivata la promozione dei centri per il riuso alla realizzazione dell’innovativo compound industriale di Colleferro, dove verranno trattati i rifiuti indifferenziati con processi di lavorazione a freddo, permettendo il recupero di materie prime secondarie, senza alcun impatto ambientale, che potranno essere rimesse sul mercato.

Zingaretti: «Inceneritori? Non in Piano, ma dipende»

«Se servono nuovi inceneritori nel Lazio? Dipende da quello che succede - ha risposto Zingaretti ai cronisti - Se la differenziata cala, i rifiuti non vengono ridotti... non c’è la bacchetta magica. Il Lazio deve arrivare al 70% di differenziata, dobbiamo arrivare alla riduzione dei rifiuti prodotti, se la sfida sarà raccolta dai sindaci, lo vedremo tra due-tre anni, il ciclo sarà totalmente ecosostenibile. Penso che nessun sindaco si auguri di arrivare a un inceneritore ma è un obiettivo, è una sfida. Se da domani Roma e i Comuni del Lazio cominciano a non fare più la raccolta differenziata e non si diminuisce la quantità rifiuti prodotti comincia a entrare in tilt tutto. È divertente che si dica - ha aggiunto, facendo riferimento alle posizioni del M5s e all’uso di inceneritori fuori dal Lazio per far fronte alle esigenze di Roma - `no agli inceneritori qui perché uccidono i bambini´. Questo, di conseguenza, dovrebbe portare a una riduzione della quantità di rifiuti prodotti e a un aumento della raccolta differenziata. Invece si dice: `non qui perché uccidono i bambini, ma andiamo a ucciderli in qualche altra parte del mondo´. Siamo dentro a un loop strano».


Roma - Zingaretti fa la cresta sulla monnezza, forse. Uno dei meccanismi per rubare e dichiarare 100 quando invece si fa 70. E il corrotto euroimbecille Pd in svariate situazioni ha usato questo meccanismo. Sanità romana docet

LA LETTERA
Rifiuti, Raggi scrive a Costa: «Sui dati della Regione i conti non tornano»

Sulla capacità di smaltimento degli impianti di trattamento nel territorio del Lazio e la produzione che la stessa Regione dichiara nell’ultima ordinanza firmata dal presidente Zingaretti

di Redazione Roma
1 agosto 2019


Secondo la sindaca di Roma Virginia Raggi qualcosa non quadra tra i dati forniti dalla Regione sulla capacità di smaltimento degli impianti di trattamento dei rifiuti nel territorio del Lazio e la produzione che la stessa Regione dichiara nell’ultima ordinanza firmata dal presidente Nicola Zingaretti. Per Raggi c’è un «disallineamento» - così lo definisce la sindaca Virginia Raggi in una missiva ufficiale inviata al ministero dell’Ambiente, alla Prefettura, alla presidenza del Consiglio e alla Regione - «di circa un milione di tonnellate di rifiuti indifferenziati all’anno che la Regione potrebbe trattare ma che, probabilmente, non tratta».

Il disallineamento nei conti

Secondo il testo inviato dal Campidoglio, infatti, «nell’ordinanza di Zingaretti viene indicata una capacità di trattamento annuo complessiva di 2.580.000 tonnellate ma, parallelamente, nelle linee strategiche del Piano di gestione rifiuti della Regione Lazio si ricava che la produzione complessiva regionale di rifiuti indifferenziati nell’anno 2017 ammonterebbe a circa un milione e 600 mila tonnellate». Stando così le cose, osserva Raggi, «sembrerebbe dunque che gli impianti regionali, secondo i dati ufficiali della Regione, possano accogliere e trattare tutta la produzione di indifferenziato di Roma Capitale. Perché, dunque, questi rifiuti non vengono acquisiti dagli impianti regionali?». Questo il quesito finale della lettera che fa riferimento anche al prossimo incontro della cabina di regia tra Campidoglio, Regione Lazio e ministero dell’Ambiente.

1 agosto 2019 | 20:42

Tana ad agrigento per il Sistema massonico mafioso politico

La politica attacca le logge massoniche, Fava: “Intrecci con burocrazia tema ormai ricorrente”

LA CONFERENZA STAMPA

image: https://www.blogsicilia.it/wp-content/uploads/2019/05/Claudio-Fava-1.jpg

di Redazione | 02/08/2019

Nessuno risponde alle richieste della Regione, nessuno vuole dire se è massone nonostante una legge regionale lo richieda. Finiscono in commissione antimafia le carte interne del dipartimento regionale all’energia. A consegnarle il dirigente generale D’Urso.

Dopo l’arresto del dirigente regionale Lucio Lutri, avvenuta ieri nell’operazione condotta dai carabinieri che ha portato a 7 arresti, la Commissione antimafia dell’Assemblea siciliana ha ritenuto, infatti, di sentire proprio l’ingegnere Salvatore D’Urso, dirigente del dipartimento regionale dell’Energia, “per comprendere questo intreccio tra mafia, massoneria e pubblica amministrazione”, ha detto il presidente dell’Antimafia Claudio Fava in una conferenza stampa a Palazzo dei Normanni, accompagnato dai componenti Margherita La Rocca Ruvolo e Roberto D’Agostino.

“Ormai questo intreccio – ha detto Fava – è un tema ricorrente nelle cronache della Sicilia, questo connubio, queste sovrapposizioni, tra mafia, massoneria e pubblica amministrazione”.

“A settembre inizieremo una serie di audizioni – aggiunge – sul tipo di interferenza che si è determinata nel corso degli anni nell’attività amministrativa. La procura dice che Lutri era ‘a disposizione’, cioè metteva a disposizione la sua persona e l’amministrazione di appartenenza. Quindi, la prima domanda è capire quanto l’obbedienza massonica, quel vincolo di condivisione, partecipazione e comune obbedienza abbia potuto interferire e interferisca sulla macchina regionale”.

“Inoltre – ha proseguito Fava – occorre capire quali siano gli ambiti istituzionali attraversati dall’obbedienza, e quanto sia stata reticente l’istituzione regionale rispetto alla vicenda legata a Lucio Lutri”.

“Dopo i primi arresti relativi al caso Arata l’ingegnere D’Urso, dirigente generale del
dipartimento Energia, ha chiesto a tutti i dirigenti e ai funzionari del suo dipartimento se fossero iscritti a logge massoniche, ebbene in 80 hanno risposto, ma guarda caso nessuno di quelli impegnati nel Servizio 3 e 4 che si occupa delle istruttorie autorizzative e di contributi europei, almeno una decina di persone. E di questi servizi fanno parte gli arrestati nelle due indagini”. ha aggiunto.

“Il dirigente generale ci ha fornito un ampio carteggio che ricostruisce la vicenda – ha sottolineato Fava – E’ curioso che nessuno abbia preso posizione e quindi crediamo che un’indagine serva a definire i livelli di interferenza e i legami tra obbedienza massonica, il rapporto che si è determinato tra interessi criminali e massoneria e il fatto che nell’operazione fossero interessati due gran maestri, di cui uno è il figlio di un boss. Tutto ciò è estremamente preoccupante”.

“A settembre proporremo di estendere la portata della legge che prevede l’obbligo per i deputati di dichiarare l’eventuale appartenenza a logge massoniche, anche a tutti i dipendenti regionali, certamente a funzionari e dirigenti” ha annunciato Fava.

“E’ una proposta che vorremmo fare anche alla luce delle cose che accadono e per una questione di limpidezza – ha proseguito Fava -. Avendo presentato io la legge, entrata in vigore lo scorso anno, mi sento in dovere di proporre l’estensione”.

Fava ha aggiunto che quella legge “è stata votata all’unanimità. Mi auguro che ci sia la stessa compattezza quando decideremo di estenderla a funzionari e dirigenti regionali”.

‘Dopo i primi arresti relativi al caso Arata l’ingegnere D’Urso, dirigente generale del dipartimento Energia, ha chiesto a tutti i dirigenti e ai funzionari del suo dipartimento se fossero iscritti a logge massoniche, ebbene in 80 hanno risposto, ma guarda caso nessuno di quelli impegnati nel Servizio 3 e 4 che si occupa delle istruttorie autorizzative e di contributi europei, almeno una decina di persone. E di questi servizi fanno parte gli arrestati nelle due indagini’ ha rivelato il presidente della Commissione regionale antimafia.

‘Il dirigente generale ci ha fornito un ampio carteggio che ricostruisce la vicenda – ha sottolineato Fava – E’ curioso che nessuno abbia preso posizione e quindi crediamo che un’indagine serva a definire i livelli di interferenza e i legami tra obbedienza massonica, il rapporto che si e’ determinato tra interessi criminali e massoneria e il fatto che nell’operazione fossero interessati due gran maestri, di cui uno e’ il figlio di un boss. Tutto ci estremamente preoccupante’.


2 agosto 2019 - Dal carabiniere ucciso alle Ong. La sinistra chic sta sempre contro l'It...

venerdì 2 agosto 2019

Energia rinnovabile - 31 proposte progettuali per l'idrogeno il re

1 Agosto 2019 Tags: idrogeno, MiSE
Idrogeno da rinnovabili, ieri il secondo tavolo al MiSE
 
Redazione QualEnergia.it
Trentuno le proposte progettuali avanzate. Tre gruppi di lavoro ne analizzeranno la fattibilità e lo sviluppo industriale entro fine ottobre.


 
L’idrogeno da energia rinnovabile può assumere un ruolo rilevante per il raggiungimento degli obiettivi del PNIEC nell’ambito del percorso di decarbonizzazione, questa la convinzione del Ministero dello Sviluppo economico, che ieri, 31 luglio, ha organizzato il secondo tavolo sul tema, al quale cui hanno partecipato le imprese e gli enti di ricerca.

Trentuno le proposte progettuali multi aziendali o trasversali presentate, così come era stato richiesto nel corso della prima riunione del 20 giugno scorso.

“L’analisi dei 31 progetti presentati dai partecipanti – ha dichiarato il sottosegretario Crippa, secondo quanto riportato da una nota del Ministero – ha fornito un quadro aggiornato della situazione relativa allo sviluppo delle tecnologie dell’idrogeno nei vari segmenti della filiera industriale”.

“Gli ambiti dei progetti iniziali presentati dalle aziende – ha aggiunto Crippa – che riguardano tematiche che sono strettamente correlate con gli obiettivi del PNIEC sulla decarbonizzazione dei trasporti, dei processi industriali e dell’accumulo di energia (power to gas)”.

Alla luce dei progetti presentati e dei primi esiti ricognitivi, sono stati proposti tre gruppi di lavoro nei quali i partecipanti si confronteranno per predisporre un’analisi di fattibilità delle iniziative proposte che ne approfondisca gli aspetti economici e operativi in un’ottica di sviluppo industriale, e ne studi i vari aspetti normativi e regolamentari relativi a tutta la filiera dell’idrogeno, compresa la regolazione sul settore elettrico per gli accumuli e la partecipazione al mercato.

Come previsto da un cronoprogramma condiviso, i gruppi di lavoro coordinati dal MiSE, dovranno concludere il loro mandato indicativamente entro la fine di ottobre 2019, attraverso la presentazione di una relazione che individui: obiettivi delle azioni, eventuali fattori critici/requisiti di successo, tempi di realizzazione e modelli economico-finanziari.

L’insieme delle relazioni e le scelte di intervento del MiSE, si spiega, costituiranno il piano di riferimento delle azioni successive.

https://www.qualenergia.it/articoli/idrogeno-da-rinnovabili-ieri-il-secondo-tavolo-al-mise/

L'Euro è un Progetto Criminale al servizio del nuovo imperialismo statunitense - Svalutando il dollaro si da agio alla finanza avvoltoio quella che ha voluto questa Globalizzazione, a meno che non hai le industrie che gli Stati Uniti non hanno più. Uno stato cresce se ha fabbriche, mobilità sostenibile, energia pulita, agricoltura, servizi pubblici e infrastrutture efficienti e moderne (certamente non il Tav). Lavoro stabile e ben retribuito fanno grande una Nazione.

La dedollarizzazione dell’impero finanziario americano

Bonnie Faulkner intervista Michael Hudson
30 luglio 2019

Abbiamo tradotto per voi questa interessantissima intervista all’economista americano Michael Hudson. Nonostante la lunghezza, ne consigliamo la lettura, in quanto ci aiuta a comprendere in modo molto chiaro come l’uso del dollaro e dei bond americani nel mondo sia determinante per la politica internazionale attuale e dei prossimi decenni. Buona lettura


L’imperialismo è il conseguimento di qualcosa in cambio di niente. E’ una strategia per ottenere il surplus di altri paesi senza svolgere attività produttive, ma creando un sistema di rendita estrattivo. Un potere imperialista obbliga altri paesi a pagare un tributo. Ovvio, l’America non dice apertamente agli altri paesi “dovete pagarci un tributo”, come facevano gli imperatori Romani con le province che governavano.

I diplomatici statunitensi insistono semplicemente sul fatto che altri paesi investano gli utili della loro bilancia dei pagamenti e le riserve ufficiali della loro banca centrale in dollari americani, in particolare in titoli del Tesoro americano. Questo sistema di utilizzo dei buoni del tesoro americani trasforma il sistema monetario e finanziario globale in un sistema tributario in favore degli USA. E’ questo che consente agli USA di pagare i costi delle spese militari, incluse le 800 basi militari dislocate in tutto il mondo.

Il tema di oggi è la dedollarizzazione dell’impero finanziario americano.

Il dottor Hudson è un economista finanziario e anche uno storico. E’ presidente dell’Institute for the Study of Long-Term Economic Trend [Studio delle tendenze economiche a lungo termine], è analista finanziario a Wall Street e distinto professore di economia presso l’Università del Missouri, a Kansas City. Fra i suoi libri più recenti troviamo: And Forgive Them Their Debts…Lending [E perdona I loro debiti.., prestando], Foreclosure and Redemption from Bronze Age Finance and Jubilee Year [Preclusione e riscatto dalla finanza dall’età del bronzo al Giubileo], Killing the Host: How Financial Parasites and Debt Destroy the Global Economy [Uccidere l’ospite, come i parassiti della finanza e il debito distruggono l’economia globale]; e J is for Junk Economics: A Guide to Reality in an Age of Deception [J come “junk economy” (economia spazzatura), una guida alla realtà in un’era dell’inganno].

Torniamo oggi su una discussione dell’importante libro del 1972 del dottor Hudson, Super Imperialism: The Economic Strategy of American Empire [Super imperialismo: la strategia economica dell’impero americano], una critica del modo in cui gli Stati Uniti sfruttano le economie straniere attraverso il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale.

Discutiamo di come gli Stati Uniti hanno dominato economicamente il mondo, sia operando come più il grande creditore, sia in seguito operando come il maggior debitore, dando infine uno sguardo all’imminente declino del dominio del dollaro.

* * * *

Bonnie Faulkner: Michael Hudson, bentornato.

Michael Hudson: Bello essere di nuovo qui, Bonnie.

B.F.: Perché il presidente Trump insiste a chiedere che la Federal Reserve abbassi i tassi di interesse? Pensavo fossero già molto bassi. E se scendessero ancora, quale sarebbe l’effetto?

M.H.: I tassi di interesse sono storicamente bassi e sono stati mantenuti bassi per cercare di continuare a fornire denaro a basso costo agli speculatori, per loro comperare azioni e obbligazioni e ottenere guadagni di arbitraggio. Gli speculatori possono prendere in prestito a un basso tasso di interesse per comperare un’azione che offrono dei dividendi (facendo anche guadagni sul capitale) ad un tasso di rendimento più elevato o acquistando obbligazioni tipo le obbligazioni-spazzatura che pagano interessi più alti, tenendosi la differenza. In breve, i bassi tassi di interesse sono una forma di ingegneria finanziaria.

Trump vuole che i tassi di interesse rimangano bassi per gonfiare ancora di più il mercato immobiliare e quello azionario, come se fosse un indice di economia reale, e non solo il settore finanziario che è avvolto intorno all’economia della produzione e del consumo. Al di là di questa preoccupazione interna, Trump immagina che se si tengono i tassi di interesse più bassi di quelli europei, il tasso di cambio del dollaro subirà una diminuzione. Pensa che ciò renderà le esportazioni USA più competitive rispetto ai prodotti stranieri.

Trump sta criticando la Federal Reserve per non aver mantenuto i tassi di interesse ancora più bassi di quelli dell’Europa. Pensa che se i tassi sono bassi, ci sarà un deflusso di capitali dagli USA per comprare azioni e obbligazioni straniere che pagano un tasso di interesse più alto. Questo deflusso finanziario ridurrà il tasso di cambio del dollaro. Ritiene che ciò aumenterà la possibilità di ricostruire le esportazioni manifatturiere americane.

Questo è il grande errore di calcolo dei neoliberisti. Ed è anche la base dei modelli economici del Fondo Monetario Internazionale.

Siccome i bassi tassi di interesse ridurranno il tasso di cambio del dollaro, aumentando i prezzi delle importazioni, l’idea guida di Trump è che abbassando il valore del dollaro si ridurrà il costo del lavoro per i datori di lavoro. Questo è quello che accade quando si svaluta una moneta. La svalutazione non riduce i costi che hanno un prezzo comune in tutto il mondo. C’è un prezzo comune per il petrolio in tutto il mondo, un prezzo comune per le materie prime, e praticamente un prezzo comune per il credito e i capitali. Quindi la cosa che viene principalmente svalutata quando si spinge verso il basso una valuta sono il prezzo e le condizioni di lavoro. I lavoratori vengono schiacciati quando precipita il tasso di cambio di una valuta, poiché devono pagare di più per le merci che importano. E il dollaro scende giù rispetto allo yen cinese o all’euro, le importazioni cinesi costeranno di più in dollari, stessa cosa per quelle europee. Questa è la logica dietro alle svalutazioni del tipo “impoverisci il nemico”. Quanto di più costeranno le importazioni straniere dipende da quanto scende il dollaro. Ma anche se calasse del 50%, anche se dovesse diventare una valuta spazzatura, come quelle argentine e latino americane, questo non potrà mai far crescere realmente le esportazioni manifatturiere americane. Perché molta della forza lavoro americana non lavora più nelle fabbriche. I lavoratori guidano taxi e lavorano nel settore dei servizi o per le compagnie di assicurazione sanitaria. Anche se si fornissero tutti gli abiti e cibo gratis ai lavoratori americani delle aziende manifatturiere, non potrebbero comunque competere con i paesi stranieri, perché il costo dei loro alloggi, dell’assicurazione sanitaria e delle loro tasse è così alto che sono fuori dai mercati mondiali. Quindi non sarà di grande aiuto se il dollaro scende dell’1%, 10% o anche del 20%. 
Se non hai fabbriche attive e non si dispone di un sistema di trasporto, di alimentazione elettrica, e se i nostri servizi pubblici e infrastrutture vengono trascurati, non c’è nulla che la manipolazione della valuta possa fare per consentire all’America di ricostruire rapidamente le sue fabbriche da esportazione.

Le case madri americane hanno già trasferito le loro fabbriche all’estero. Hanno rinunciato all’America. Fino a quando Trump o i suoi successori si asterranno dal cambiare quel sistema (ovvero: fino a quando darà vantaggi fiscali che fanno delocalizzare all’estero le società) non c’è niente che possa fare per riportare qui l’industria. Ma ha adottato l’economia-spazzatura del Fondo Monetario Internazionale, il discorso neoliberista dato a bere all’America Latina sostenendo che se un paese abbassa il semplicemente tasso di cambio, sarà in grado di abbassare i salari e gli standard di vita, pagando la manodopera meno in termini valutari fino a quando a un certo punto, quando povertà e austerità raggiungeranno livelli critici, diventerà più competitivo. Questo non funziona da 50 anni in America Latina. Non ha funzionato in altri paesi e nemmeno negli Stati Uniti.

La Scuola Americana di economia politica del XIX secolo sviluppò la dottrina dell’economia degli alti salari. Parlo di questo nel mio libro sul decollo protezionista americano: 1815-1914. 
In quel modello si riconosceva che se si paga di più la manodopera, essa è più produttiva, può permettersi un’istruzione migliore e lavorare meglio. 
Ecco perché la manodopera ad alto salario elevato può sottostimare quella ‘povera’ a basso salario. Trump è dunque indietro di un secolo nel far sua l’idea di austerità del FMI, secondo la quale basta svalutare la moneta e ridurre salari e standard di vita in termini internazionali per rendere l’economia più redditizia e in qualche modo “liberarti dal debito”.

Ciò che il deprezzamento valutario fa quando il dollaro viene svalutato è quello di consentire alle imprese di Wall Street di prendere in prestito l’1% e di comprare valute e obbligazioni europee che rendono il 3, il 4 o il 5%, o pacchetti azionari che rendono ancora di più.

L’idea guida è di fare quello che fece il Giappone nel 1990: avere tassi di interesse molto bassi per aumentare quello che viene chiamato il “carry trade”. “Carry trade” significa ottenere denaro a basso prezzo e comprare obbligazioni che rendono un tasso più elevato, realizzando così un guadagno di arbitraggio sul differenziale tra i tassi di interesse. Quindi Trump sta creando opportunità di arbitraggio per gli investitori di Wall Street. Finge che questa operazione sia a favore del lavoro e che serva a ricostituire il sistema produttivo, ma invece aiuta solo a svuotare l’economia statunitense, facendo pervenire denaro ad altri paesi per renderli più forti, piuttosto che investire su noi stessi. Pertanto l’effetto di ciò che fa Trump sarà l’opposto di quello che lui dice di fare.

B.F.: Esattamente. Qual è lo scopo di veicolare gli investimenti in paesi stranieri, lontano dagli Stati Uniti?

M.H.: Se sei un investitore, puoi fare più soldi smantellando l’economia americana. Puoi prendere in prestito all’1% e acquistare un titolo o azioni che producono il 3-4%. Questo si chiama arbitraggio. E’ un “pasto gratis” finanziario. L’effetto di questo “pasto gratis”, come dice lei, è di rafforzare economie straniere o almeno i loro mercati finanziari e allo stesso tempo danneggiare il tuo. La finanza è cosmopolita, non patriottica. Non gli importa dove si fanno soldi. La finanza va dove il tasso di rendimento è più alto. Questa è la dinamica che ha deindustrializzato gli Stati Uniti negli ultimi 40 anni.

B.F.: Da quello che sta dicendo, sembra che le politiche di Trump portino a fare agli Stati Uniti quello che l’FMI e la Banca Mondiale hanno tradizionalmente fatto alle economie straniere.

M.H.: Questo è quello che succede quando svaluti. Il settore finanziario vedrà che i tassi di interesse stanno scendendo, così anche il tasso di cambio del dollaro diminuirà. Gli investitori trasferiranno il loro denaro (o prenderanno prestiti) in euro, in oro, in yen giapponesi o in franchi svizzeri, il cui tasso di cambio dovrebbe salire. Così si sta offrendo un arbitraggio finanziario e un guadagno di capitale agli investitori che speculano in valute estere. Stai anche svuotando l’economia e comprimendo i livelli di salario e gli standard di vita reali.

Perché la svalutazione non aiuterà a reindustrializzare l’economia americana

B.F.: Crede che Donald Trump capisca quello che sta facendo?

M.H.: Non credo. Penso che abbia una visione iper-semplificata di come funziona il mondo. Ritiene che se svalutiamo il dollaro possiamo vendere a prezzi inferiori rispetto alla Cina ed all’Europa. Ma questo puoi farlo solo se disponi di fabbriche di automobili. Se non possiedi fabbriche, non sarai in grado di vendere a costo più basso di costruttori di auto stranieri, indipendentemente da quanto il valore del dollaro scenda. E se non hai un complesso di fabbriche manifatturiere di computer e di fornitori locali già presenti negli Stati Uniti, non avrai la capacità di produzione per vendere a prezzi inferiori alla Cina.

Soprattutto, c’è bisogno di infrastrutture pubbliche e di alloggi a prezzi accessibili, di istruzione e di assistenza sanitaria. Quindi la visione di Trump è una fantasia. E’ come dire che “se avessimo un po’ di prosciutto, potremmo avere un po’ di prosciutto con le uova, se avessimo anche delle uova”. Le cause della de-industrializzazione americane non vengono prese in considerazione. Se avessimo dei disoccupati ex produttori di auto, di computer e di altro, fabbriche che fossero inattive in un’economia piuttosto competitiva, allora la svalutazione potrebbe avere un senso. Ma gli americani sono tutt’altro che competitivi. I costi per gli alloggi, i costi per l’assicurazione medica e sanitaria, le imposte e le trattenute sui salari e i prezzi per le infrastrutture di base sono così alti che non c’è modo di competere con i paesi stranieri semplicemente con la manipolazione valutaria.

A partire dal 1980 l’economia americana è stata è diventata molto costosa. C’è stato inoltre anche un forte aumento della pressione sui redditi da lavoro, a causa dell’aumento dei prezzi sui bisogni di prima necessità. Anche se i salari aumentano, la gente non può più permettersi di vivere come viveva 30 anni fa. E’ necessaria una riforma radicale per ripristinare un’economia di tipo industriale e a piena occupazione. Bisogna de-privatizzare, spezzare i monopoli. Serve una economia e di riforma economica come quella che l’America aveva sotto Franklin Roosvelt negli anni 1930. Ma non credo che questo accadrà.

B.F.: Crede che Donald Trump sia stato piazzato lì come presidente degli Stati Uniti per sovrintendere alla loro bancarotta e allo smantellamento dell’impero?

M.H.: Nessuno lo ha “piazzato lì”; ci si è messo da solo. Non credo che la maggioranza delle persone si aspettasse la sua vittoria. Se si guarda alle probabilità che i bookmaker e gli oddsmaker davano al suo successo nel momento in cui annunciò la sua candidatura, la maggioranza pensava che l’assonnato Jeb Bush avrebbe ottenuto la nomina e che questi avrebbe poi perso contro Hillary Clinton. Quindi ci furono in realtà tentativi di piazzare la Clinton o Bush. Ma non Trump. E’ riuscito a superarli con la schiettezza, l’umorismo e la celebrità.

Non aveva consiglieri a cui avrebbe dato ascolto, perché è sempre stato un one-man show. E lui davvero non sa cosa sta facendo a livello economico. Sa imbrogliare le persone, vittimizzare i fornitori e come fare soldi nel settore immobiliare semplicemente non pagando i fornitori e prendendo denaro in prestito dalla banche senza restituirlo. Ma non capisce che non si può portare avanti l’economia del paese in questo modo. Essere un “mafioso” del settore immobiliare non è esattamente la stessa cosa di gestire un’intera economia. Trump non ne ha idea e non penso che qualcuno sappia come controllarlo, tranne forse Fox News.

Wall Street contro l’economia “reale”: cos’è davvero più reale?

B.F.: Cosa sta succedendo alla classe dominante negli Stati Uniti? Qualcuno all’interno dei suoi ranghi sa come gestire l’economia di un paese?

M.H.: Il problema è che gestire un’economia, per aiutare le persone e migliorare lo standard di vita e anche per abbassare il costo della vita e fare affari nell’economia reale, significa non gestirla per aiutare Wall Street. Se qualcuno sa come amministrare l’economia, il settore finanziario vorrà tenerlo bel al di fuori da qualsiasi ufficio pubblico. L’alta finanza ragiona a breve termine, non a lungo termine. Fa il gioco del “mordi e fuggi”, non svolge il compito molto più arduo di creare un quadro adatto ad una reale crescita economica.

E’ possibile solo fare una delle due cose: dare una mano all’economia del lavoro o aiutare Wall Street. Se gestire l’economia significa aiutare la forza lavoro e migliorare gli standard di vita fornendo migliori cure mediche, questo avverrà a scapito del settore finanziario e degli utili aziendali a breve termine. Quindi per loro l’ultima cosa che si debba fare è avere qualcuno che faccia girare l’economia per la prosperità della stessa e non con lo scopo di aiutare Wall Street.

La questione è chi pianificherà questo cambiamento. Saranno funzionari pubblici eletti nel governo o sarà Wall Street? L’ufficio di pubbliche relazioni di Wall Street è l’università di Chicago. Essa afferma che un libero mercato è quello in cui i ricchi investitori di Wall Street e la sua classe finanziaria governano l’economia. Ma se si lasciano votare le persone e democraticamente eleggere i governi per scrivere delle regole, questo viene chiamato “interferenza” nel libero mercato.

Questa è la battaglia che Trump combatte con la Cina. Dice che la Cina si è arricchita negli ultimi 50 anni con mezzi sleali, con aiuti governativi e imprese pubbliche. In effetti, vuole che i cinesi siano minacciati e insicuri quanto i lavoratori americani. Dovrebbero sbarazzarsi dei loro mezzi pubblici, dei loro sussidi. Dovrebbero lasciare che molte delle loro aziende fallissero così da poter essere acquisite dagli americani. Dovrebbero avere lo stesso tipo di “libero mercato” che ha massacrato l’economia americana.

La Cina non desidera quel tipo di mercato libero, ovviamente. Ha un’economia di mercato. In realtà è molto simile agli Stati Uniti nel loro decollo industriale del XIX secolo, grazie ad importanti aiuti governativi.

Il cambio di strategia monetaria: dal surplus della bilancia dei pagamenti al deficit

B.F.: Nella sua opera magistrale del 1972, Super Imperialism: The Economic Strategy of American Empire lei scrive: “Se il dominio degli Stati Uniti sull’economia mondiale dal 1920 al 1960 derivava dalla loro posizione di creditori, il controllo a partire dagli anni 1960 deriva dalla posizione di debitori. Non solo sono cambiate le carte in tavola, ma i diplomatici statunitensi si sono resi conto che la loro influenza come principale economia debitrice al mondo è forte quanto quella che precedentemente aveva riflesso la posizione di creditori netti”. Questo concetto sembra contro-intuitivo. Potrebbe spiegarlo meglio? Iniziamo dal 1920 fino al 1960. In che modo gli Stati Uniti potevano dominare l’economia mondiale da una posizione di creditori?

M.H.: La posizione di creditore degli Stati Uniti iniziò dopo la Prima Guerra Mondiale, per via del denaro prestato agli alleati prima di unirsi alla guerra. Quando la guerra finì, i diplomatici americani dissero a Inghilterra e Francia di ripagare loro le armi che avevano comprato. Ma in passato, per secoli, i vincitori di solito cancellavano tutti i debiti una volta finita la guerra. Per la prima volta, l’America insistette che gli Alleati pagassero per il sostegno militare che aveva loro venduto prima di allearsi con loro. Gli alleati europei si trovavano alquanto devastati dalla prima guerra mondiale e si rivolsero alla Germania, insistendo sui risarcimenti di guerra che la mandarono presto in bancarotta.

La Germania mandò in bancarotta la sua economia cercando di pagare Francia e Inghilterra, che a loro volta dovevano ripagare gli Stati Uniti. Il loro bilancio era in deficit, e le loro valute si svalutavano. Gli investitori americani vi videro un’opportunità di acquistare le loro industrie. L’oro era la misura del potere, il sostegno alla moneta nazionale e al credito, ergo agli investimenti di capitale. L’America era molto più produttiva, non avendo subito danni dalla guerra.

Tra la fine della Seconda Guerra Mondiale e il 1950, quando scoppiò la guerra in Corea, l’America accumulò oltre il 70% dell’oro mondiale come riserva monetaria. Gli Stati Uniti erano forti nelle esportazioni agricole, in crescita nelle esportazioni industriali e avevano denaro sufficiente per acquistare le industrie leader in Europa, America Latina e altri paesi. Ma a partire dal 1950, con la guerra di Corea, il bilancio degli Stati Uniti andò in deficit per la prima volta. La situazione peggiorò quando il presidente Eisenhower decise che l’America doveva sostenere il colonialismo francese nel sud-est asiatico, nell’Indocina francese, Vietnam e Laos. Nel momento in cui la guerra in Vietnam si intensificò negli anni 1960, il dollaro stava passando un periodo di grossi deficit di bilancio. Ogni settimana a Wall Street vedeva le riserve d’oro diminuire, in favore di paesi che non erano in guerra, come Francia e Germania. Stavano incassando i dollari in eccesso che venivano spesi dai militari statunitensi.

Negli anni 1960 fu chiaro che l’America era destinata all’esaurimento delle sue riserve d’oro entro un decennio a causa di queste spese militari d’oltremare. E così fu, nell’agosto del 1971 cessò di vendere oro alla borsa di Londra, per cui il prezzo salì fino a oltre 35 dollari l’oncia. Il bilancio degli Stati Uniti era ancora in forte deficit a causa dei combattimenti nel Sud-est asiatico e altrove, creando un deficit permanente.

Il settore privato era in equilibrio negli anni 1950 e 1960, l’intero deficit era proveniva dalle spese militari.

Quando l’America esaurì le riserve d’oro, le persone cominciarono a chiedersi cosa sarebbe successo. Molti predissero un giorno del giudizio economico. Gli USA stavano perdendo la loro capacità di governare il mondo attraverso l’oro. Ma quello che io allora compresi (e fui il primo a pubblicarlo) era che se i paesi non potevano più comprare e tenere l’oro nelle riserve internazionali, cosa potevano fare? C’era solo un asset che potevano trattenere: titoli di stato del governo degli Stati Uniti, vale a dire buoni del Tesoro.

Un titolo del Tesoro è un prestito al Tesoro degli Stati Uniti, quando una banca centrale straniera compra un’obbligazione, finanzia il deficit del budget degli Stati Uniti.

Quindi il deficit di bilancio finì per finanziare il deficit nazionale.

Il risultato fu un flusso circolare di spese militari riciclate da banche centrali straniere. Dopo il 1971 gli Stati Uniti continuarono con le spese militari all’estero e come risposta nel 1974 i paesi dell’OPEC quadruplicarono il prezzo del petrolio. A quel tempo gli Stati Uniti dissero all’Arabia Saudita che poteva far pagare quanto voleva per il suo petrolio, ma che doveva accumulare tutti i suoi guadagni netti in dollari. I sauditi non dovevano comprare oro.

Fu detto loro che sarebbe stato considerato un atto di guerra se non avessero ri-speso negli Stati Uniti i dollari ricevuti per le loro esportazioni di petrolio. Furono incoraggiati a comprare buoni del Tesoro americani, ma potevano anche acquistare altre obbligazioni e azioni statunitensi per contribuire a far salire i mercati azionari e obbligazionari, sostenendo quindi il dollaro. Gli Stati Uniti hanno mantenuto il proprio stock di oro, mentre hanno preteso che il resto del mondo mantenesse i propri risparmi sotto forma di prestiti agli Stati Uniti. Quindi il dollaro non è sceso. Altri paesi che ricevevano dollari li hanno semplicemente riciclati per acquistare titoli finanziari americani.

Cosa sarebbe successo se non avessero fatto questo?

Facciamo finta che lei sia la Germania, la Francia o il Giappone. Se non ri-spende le sue entrate in dollari nell’economia degli Stati Uniti, la sua valuta aumenterà. Gli afflussi di dollari derivanti dalle vendite dell’export vengono convertiti nella sua valuta, aumentandone il tasso di cambio. Ma con l’acquisto di titoli o azioni statunitensi, il prezzo del dollaro viene rialzato rispetto alla suo reale tasso di cambio. Quindi quando gli Stati Uniti gestiscono un deficit di bilancio in condizioni in cui gli altri paesi mantengono le loro riserve in dollari, l’effetto è che essi mantengono i loro tassi di cambio stabili-principalmente prestando denaro al governo USA. Questo è un affare per gli Stati Uniti. Possono disseminare il mondo di basi militari e i dollari spesi per farlo, che gli vengono poi restituiti.

Immagini di firmare delle cambiale (dei pagherò, come lo sono i titoli di stato), quando va in un negozio o al ristorante, che poi non verranno mai incassati! Il negozio potrebbe dire: “Abbiamo una cambiale di Bonnie Faulkner. Teniamocelo come forma di risparmio. Invece di versarlo in banca o di chiedere un pagamento in moneta reale, continuiamo a collezionare queste cambiali di Bonnie Faulkner.” Le aziende chiamano questo tipo di crediti “ricevibili”. Ora, supponiamo che lei faccia delle spese folli, consegnando un miliardo di dollari al negozio in cambiali. Non ci sarebbe modo di pagare questo miliardo. In tal caso i negozi che ricevessero queste cambiali direbbero: “Non possiamo escludere Bonnie, perché sappiamo che non può pagare. Perderemmo il valore dei crediti dalla parte in attivo del nostro bilancio, tutte le cambiali che abbiamo accumulato.”

Questo è essenzialmente ciò che i paesi stranieri fanno con le loro riserve di dollari. La posizione degli Stati Uniti è, di fatto, che non rimborseranno mai a nessun paese straniero il debito in dollari che gli devono. Come disse il Segretario del Tesoro John Connolly, “I dollari sono nostri, i problemi sono vostri”. Altri paesi devono pagarci, pena il bombardamento.

La dimensione militare di questo accordo è la posizione degli Stati Uniti secondo la quale sarebbe considerato un atto di guerra se non continuassero a spendere i loro proventi in dollari delle esportazioni in prestiti, azioni od obbligazioni americane.

Questo è ciò che rende gli Stati Uniti un “paese eccezionale”. Il valore della nostra moneta è basato sui risparmi degli altri paesi. Il denaro che risparmiano deve essere mantenuto sotto forma di dollari o titoli che non rimborseremo mai, neanche se potessimo farlo. Questo è un enorme vantaggio.

C’è da pensare che Donald Trump voglia continuare su questa strada. Ma quando sostiene che la Cina sta manipolando la sua moneta riciclando i propri dollari in prestiti al Tesoro degli USA, che cosa intende dire? La Cina sta guadagnando molti dollari esportando le sue merci negli Stati Uniti. Cosa fa con questi dollari? Ha cercato di fare quello che fece l’America con l’Europa e il Sud-America: ha cercato di acquistare società americane. Ma gli Stati Uniti le hanno impedito di farlo, sulla base di pretestuose ragioni di sicurezza nazionale.

Il governo sostiene che la nostra sicurezza nazionale sarebbe in pericolo se la Cina comprasse una catena di stazioni di rifornimento, come aveva intenzione di fare in California.

Quindi gli Stati Uniti hanno due pesi e due misure, sostengono che sono minacciati se la Cina acquisisce qualsiasi società, ma insistono sul loro diritto di comprare le vette dominanti delle economie straniere con il loro credito elettronico in dollari.

Tutto questo lascia alla Cina un’unica soluzione: può acquistare titoli del Tesoro degli USA, dando in prestito i proventi in dollari delle esportazioni al Tesoro stesso.

Trump sta portando altri paesi fuori dall’orbita del dollaro

La Cina si è ben resa conto che il Tesoro degli Stati Uniti non ha intenzione di rimborsare i dollari.

Anche se la Cina volesse riciclare i suoi proventi in buoni del Tesoro o azioni e obbligazioni o in immobili statunitensi, Trump ora dichiara di non volere che la Cina sostenga il tasso di cambio del dollaro (mantenendo il proprio tasso di cambio basso) con l’acquisto di asset americani. Stiamo dicendo alla Cina di non fare ciò che abbiamo detto agli altri paesi di fare per 40 anni: acquistare titoli statunitensi. Trump accusa altri paesi di manipolazione artificiale della valuta se mantengono le loro riserve straniere in dollari. Cioè sta dicendo loro, e in modo specifico alla Cina, di sbarazzarsi delle loro partecipazioni azionarie in dollari, di non comprare più dollari con le entrate del loro export. Quindi la Cina sta comprando oro.

Anche la Russia sta comprando oro e gran parte del mondo è ora in procinto di tornare allo standard del cambio dell’oro (Nel senso che l’oro viene usato per regolare gli squilibri dei pagamenti internazionali), ma non è connesso alla creazione di moneta nazionale.

I paesi si rendono conto che c’è un grosso vantaggio nel cambio dell’oro: c’è solo una quantità limitata di oro nelle banche centrali del mondo. Ciò significa che qualsiasi paese affronti una guerra dovrà gestire un deficit di bilancio così grande da rischiare di esaurire le riserve auree. Pertanto rivitalizzare il ruolo dell’oro potrebbe impedire a qualsiasi paese, Stati Uniti compresi, di andare in guerra e soffrire un deficit militare.

L’ironia è che Trump sta distruggendo il grande privilegio finanziario americano, che è la sua politica di imperialismo monetario, dicendo ai paesi di smettere di riciclare i loro afflussi di dollari.

Devono dedollarizzare le loro economie.

L’effetto è di rendere queste economie più indipendenti dagli Stati Uniti.

Trump ha già annunciato che non assumeremo cinesi nel settore IT (tecnologia dell’informazione), né lasceremo loro studiare nelle università materie che potrebbero metterli in grado di competere con noi.

Quindi le nostre economie si separeranno.

Di fatto Trump ha detto che se non possiamo vincere in un accordo commerciale, se non possiamo far perdere altri paesi e renderli più dipendenti dai fornitori americani e dai prezzi di monopolio, allora non firmiamo l’accordo. Questa posizione sta portando non solo la Cina, ma anche la Russia e persino l’Europa ed altri paesi fuori dall’orbita americana.

Il risultato finale sarà che gli Stati Uniti resteranno isolati, senza essere più in grado di produrre come lo erano una volta. Hanno smantellato la loro produzione industriale. Ed ora come se la caveranno?

Alcuni dati sulla popolazione americana sono stati pubblicati una settimana fa.

Questi dati mostrano che metà degli USA si sta svuotando. La popolazione si sta spostando dagli stati del Midwest e delle montagne verso Est, verso le coste occidentali e del Golfo.

Le politiche di Trump stanno dunque accelerando la de-industrializzazione degli Stati Uniti senza fare nulla per mettere in campo nuovi centri produttivi e non volendo nemmeno che altri paesi investano qui.

Le compagnie automobilistiche tedesche vedono Trump imporre dazi sull’acciaio importato di cui hanno bisogno per costruire macchine negli Stati Uniti. Le costruivano qui per aggirare le barriere tariffarie e di altro tipo contro le automobili tedesche. Ma ora Trump non gli sta nemmeno permettendo di importare le parti di cui hanno bisogno per assemblare queste macchine negli impianti “non sindacalizzati” che hanno costruito nel Sud.

Cosa possono fare? Magari proporranno uno scambio con General Motors e Chrysler. Gli europei otterranno le fabbriche che le compagnie americane posseggono in Europa, e gli daranno in cambio le loro fabbriche americane. Questo tipo di scissione si sta verificando senza alcun tentativo di rendere la manodopera americana più competitiva abbassando il costo degli alloggi, o il prezzo delle spese medico-sanitarie, o i costi per i trasporti, o delle infrastrutture. L’America viene quindi lasciata all’asciutto, in quanto economia costosa all’interno di un mondo nazionalista, mentre nel contempo gestisce un enorme deficit di bilancio per sostenere le sue spese militari in tutto il mondo.

B.F.: Ricapitolando quando gli Stati Uniti hanno abbandonato il Gold Standard, il dollaro ha praticamente rimpiazzato l’oro come asset principale in cui i governi stranieri potevano detenere le loro riserve. Lei ora dice che da quando non c’è più stato il gold standard, se le economie straniere non compravano i buoni del Tesoro Usa, il prezzo della loro valuta aumentava e le rendeva meno competitive.

M.H.: Esatto. Immagini se gli americani dovessero pagare sempre più dollari per comprare macchine tedesche. Ci sarebbe una maggiore domanda di valuta tedesca, l’euro, il cui tasso di cambio aumenterebbe. Questo è quello che accadeva negli anni 1960 e 1970, prima dell’euro. L’unico modo in cui la Germania poteva tenere basso il valore del marco era di comprare qualcosa che si pagava in dollari. Non comprava le esportazioni americane, perché l’America stava già producendo ed esportando sempre di meno, cibo a parte (e i tedeschi potevano mangiare una quantità limitata di grano e soia). Quindi l’unica cosa che la Germania poteva acquistare e che aveva un prezzo in dollari erano i buoni del Tesoro americano. Questo evitò che il marco salisse ancora più rapidamente, e mantenne il bilancio in equilibrio.

Il Giappone ha avuto un problema simile. I Giapponesi cercarono di acquistare immobili americani, ma non avevano idea di ciò che rese prezioso il patrimonio immobiliare qui (in America). Persero un miliardo di dollari per l’acquisto del Rockfeller Centre, non rendendosi conto che l’edificio era separato dal valore del terreno, e il terreno era proprietà della Columbia University. L’edificio stesso andava avanti in deficit. La maggior parte del valore locativo pagato andò al proprietario dei canoni di affitto del terreno. I giapponesi non avevano idea di come funzionassero gli immobili americani.

L’euro è solo una moneta satellite del dollaro americano

Alcuni americani temevano che l’euro potesse diventare un rivale del dollaro.

Tutto sommato, l’Europa non si sta de-industrializzando. Sta andando avanti e sta producendo macchine migliori, aerei ed altri prodotti da esportazione.

Per questo gli Stati Uniti hanno persuaso i politici europei a paralizzare l’euro, rendendolo una valuta dell’austerity, consentendo di emettere così pochi titoli di stato in modo da non rendere possibile che l’euro diventi un veicolo abbastanza grande da consentire ad altri paesi stranieri di usarlo per uscire dal dollaro, usando le proprie riserve in euro al posto del dollaro.

Gli Stati Uniti possono creare sempre più debito in dollari gestendo un bilancio a deficit. Possono attuare politiche keynesiane, facendo più debito per assumere maggior forza lavoro. Ma la zona Euro non ammette che i paesi abbiano un deficit maggiore del 3% del loro PIL. Quel limite è molto ridotto rispetto agli Stati Uniti.

Se si cerca di non fare affatto deficit, ma anche se lo si mantiene sotto il 3%, si sta imponendo austerità al proprio paese, mantenendo l’occupazione a bassi livelli. Si sta soffocando il mercato interno, ci si taglia la gola non riuscendo a creare un concorrente al dollaro.

Ecco perché Donald Rumsfeld ha definito l’Europa una “zona morta”, perché l’unica alternativa di valuta rivale del dollaro è lo yuan cinese. I cinesi si stanno muovendo verso la creazione di un’area valutaria basata sull’oro insieme alla Russia, l’Iran e altri membri della Shangai Cooperation Organization.

B.F.: L’Unione europea che non consente ai paesi dell’Eurozona di superare il 3% di rapporto deficit/PIL ha praticamente tagliato la gola all’euro. Perché fare una cosa del genere?

M.H. Perché i capi delle banche centrali stanno combattendo una lotta di classe. Si considerano generali finanziari nella lotta economica al lavoro, per danneggiare la classe lavoratrice, abbassare i salari e aiutare il loro elettorato, la classe dei ricchi investitori finanziari.

L’Europa ha sempre avuto una lotta di classe più feroce rispetto agli Stati Uniti. Non si è mai realmente sganciata dal suo sistema aristocratico post-feudale. I suoi banchieri centrali e le sue università seguono la scuola del libero mercato dell’Università di Chicago, 
affermando che la strada per diventare ricchi è di rendere poveri i lavoratori, creando un governo in cui la forza lavoro non abbia voce. 
Questa è la filosofia economica dell’Europa ed è per questo che non ha eguagliato la crescita che stanno vivendo la Cina ed altri paesi.

B.F.: Insomma gli Stati Uniti sono stati capaci di dominare l’economia mondiale a partire dal 1971 da una posizione debitrice.

M.H.: Quando perdevano oro, dal 1950 al 1971, non erano dominanti; stavano perdendo la disponibilità americana di oro rispetto a paesi come Francia, Germania, Giappone ed altri. Solo quando posero fine al gold standard, lasciando gli altri paesi senza altre alternativa per i loro risparmi, se non l’acquisto di buoni del Tesoro americano o di altri titoli, furono in grado pagare le spese militari senza perdere il loro potere.

Dal 1971 la diplomazia mondiale è stata praticamente prodotta dal potere militare americano. Non è un “mercato libero”.  

Il potere militare mantiene i paesi in una camicia di forza finanziaria in cui gli Stati Uniti possono indebitarsi senza doverli ripagare.

Agli altri paesi che detengono i crediti verso gli USA non è consentito espandere le proprie economie, né per rivaleggiare con gli Stati Uniti, né tantomeno per migliorare gli standard di vita dei lavoratori. Solo i paesi al di fuori dell’orbita degli Stati Uniti, come ad esempio la Cina, la Russia ed altri paesi asiatici, sono in grado di aumentare il loro tenore di vita, gli investimenti di capitali e la tecnologia, essendo liberi da questa guerra di classe finanziaria globalizzata.

B.F.: In Super Imperialism lei scrive che “Le pressioni per la creazione di un nuovo ordine mondiale economico crollarono alla fine degli anni 1970”. Intende dire che gli altri paesi semplicemente si arresero e accettarono l’imperialismo monetario americano? Cosa successe?

M.H.: Mi è stato riferito che la corruzione era allora su vasta scala. Funzionari dell’amministrazione Reagan mi hanno riferito che pagavano funzionari stranieri affinché sostenessero la posizione degli Stati Uniti, non un nuovo Ordine Economico Internazionale.

Le agenzie degli Stati Uniti manovravano all’interno dei partiti politici dei paesi europei e dell’Est al fine di promuovere funzionari filo-americani ed emarginare coloro che non accettavano di agire come satelliti degli USA.

Ci furono in ballo parecchi soldi in questa ingerenza. In questo modo gli Stati Uniti hanno corrotto la politica democratica in tutta Europa, nel Medio Oriente e in gran parte dell’Asia.

Questa azione ha sterilizzato l’indipendenza di stati stranieri dagli Stati Uniti.

Nel Frattempo furono promosse le idee neoliberiste di Reagan e della Thatcher, invece del modello economico che Roosevelt ed i socialdemocratici stavano promuvendo da 50 anni.

Chi pianificherà l’economia? I manager della finanza o i governi democratici?

B.F.: Se c’erano pressioni per creare un nuovo ordine economico internazionale negli anni 1970, a cosa puntava questo nuovo ordine?

M.H.: Dei paesi volevano fare per le loro economie ciò che altri paesi facevano per la loro: utilizzare la spesa a deficit del loro governo per costruire infrastrutture, migliorare gli standard di vita, costruire alloggi e promuovere una tassazione progressiva, che avrebbe impedito alla classe dei redditieri, dei proprietari terrieri ed alla classe finanziaria di prendere il controllo della gestione economica.

In campo finanziario volevano che i governi battessero la propria moneta, per promuovere il loro sviluppo, proprio come fanno gli Stati Uniti.

Il progetto del neoliberismo era l’opposto: promuovere il settore immobiliare, finanziario ed i monopoli, per togliere l’amministrazione economica dalle mani del governo.

Quindi la vera domanda a partire dagli anni 1980 in poi sarebbe stata chi doveva essere il centro di pianificazione di base della società. Sarebbe stato il settore finanziario (le banche e gli azionisti, costituiti dall’1% che possiede la maggioranza delle azioni e delle obbligazioni delle banche)? Oppure i governi che cercano di finanziare l’economia per aiutare la crescita e la prosperità del restante 99%?

Quella era la visione socialdemocratica opposta al Thatcherismo e al Reaganismo.

La spinta internazionale alla dedollarizzazione

B.F.: Fu questa pressione a fermare un nuovo ordine economico internazionale portato avanti dagli Stati Uniti che stavano uscendo dal gold standard?

M.H.: No. Fu una reazione contro la politica degli Stati Uniti di svuotamento degli alti comandi delle economie straniere. 
Gli Stati Uniti vogliono controllare le esportazioni delle loro materie prime, in particolare petrolio e gas. Vogliono controllare il loro sistema finanziario, in modo che tutti i loro guadagni vadano agli investitori stranieri, specialmente investitori americani. Vogliono trasformare le altre economie in economie al servizio degli Stati Uniti e trasformarle in una specie di super-alleanza militare NATO, la quale si opporrà a qualunque paese non voglia far parte dell’ordine mondiale unilaterale incentrato sugli Stati Uniti.

B.F.: In che modo l’imperialismo monetario moderno, il super-imperialismo, differisce da quello del passato?

M.H.: E’ uno stadio superiore dell’imperialismo. Il vecchio imperialismo era colonialismo. Entravi ed usavi il potere militare per mettere a capo una classe dirigente clientelare. Ma ogni paese aveva la propria moneta.

Ciò che ha reso l’imperialismo “super” è che l’America non deve colonizzare un altro paese. Non deve invadere un paese o andarci in guerra. Ha bisogno solo che quel paese investa i propri risparmi e i guadagni delle esportazioni in prestiti al governo degli Stati Uniti. Ciò consente agli Stati Uniti di mantenere bassi i tassi di interesse e agli investitori americani di prendere in prestito denaro dalle banche americane ad un tasso basso per comperare l’industria e l’agricoltura straniere che generano utili del 10-15% in più o investimenti del genere.

In questo modo gli investitori americani capiscono che, nonostante il deficit di bilancio, possono richiedere quei dollari in prestito dai paesi stranieri a un tasso così basso, pagando solo dall’1-3 % sui buoni del Tesoro che possiedono, mentre pompano dollari nelle economie straniere comprando le loro industrie, l’agricoltura, le infrastrutture e i servizi pubblici, facendo grossi guadagni di capitale.

La speranza è che presto troveremo una via d’uscita da questo sistema del debito, tramite un nuovo libero accordo.

L’imperialismo è il conseguimento di qualcosa in cambio di niente. E’ una strategia per ottenere il surplus di altri paesi senza svolgere attività produttive, ma creando un sistema di rendita estrattivo. Un potere imperialista obbliga altri paesi a pagare un tributo. Ovvio, l’America non dice apertamente agli altri paesi “dovete pagarci un tributo”, come facevano gli imperatori Romani con le province che governavano.

I diplomatici statunitensi insistono semplicemente sul fatto che altri paesi investano gli utili della loro bilancia dei pagamenti e le riserve ufficiali della loro banca centrale in dollari americani, in particolare in titoli del Tesoro americano. Questo sistema di utilizzo dei buoni del tesoro americani trasforma il sistema monetario e finanziario globale in un sistema tributario in favore degli USA. E’ questo che consente agli USA di pagare i costi delle spese militari, incluse le 800 basi militari dislocate in tutto il mondo e la sua legione straniera di combattenti contro l’Isis ed Al-Qaeda e le “rivoluzioni colorate” per 
destabilizzare i paesi che non aderiscono al sistema economico globale basato sul dollaro.

B.F.: Lei scrive: “Oggi sarebbe necessario che Europa e Asia progettassero un’alternativa al dollaro, artificiale, creata politicamente come riserva internazionale di valore. Questo potrebbe essere il punto cruciale delle tensioni politiche internazionali per la prossima generazione.” Come si può rompere questo dominio del dollaro dei “due pesi e due misure”?

M.H.: Sta già arrivando. E Trump è un grande catalizzatore che accelera la dipartita degli ospiti.

La Cina e la Russia (Giappone) stanno riducendo le loro partecipazioni in dollari. Non vogliono tenere titoli del Tesoro americano, perché se gli USA vanno in guerra contro di loro, faranno quello che hanno fatto con l’Iran. Terranno tutto il denaro, non ripagheranno gli investimenti che la Cina ha mantenuto nelle banche americane e nel Tesoro. Quindi si stanno liberando dei dollari che detengono. Stanno comprando oro e si stanno muovendo più velocemente possibile per essere indipendenti da qualsiasi esportazione americana. 
Stanno rafforzando le loro forze militari, 
così che se gli Stati Uniti cercheranno di minacciarli, si potranno difendere. Il mondo si sta spaccando.

B.F.: Quali sono i paesi come la Cina e la Russia che sono soliti comprare oro? Lo stanno comprando con i dollari?

M.H.: Si. Guadagnano dollari o euro da quello che esportano. Questi soldi finiscono nella banca centrale cinese perché gli esportatori cinesi vogliono che gli yuan nazionali paghino i loro lavoratori e fornitori cinesi. Così vanno alla banca centrale cinese, che cambia dollari in yuan. La banca centrale decide quindi cosa fare con questa valuta straniera.

Possono andare sul mercato e comprare oro. Oppure, possono spenderli in paesi stranieri, nell’iniziativa “Belt and Road” per costruire un’infrastruttura ferroviaria e di navigazione, nello sviluppo dei porti per aiutare gli esportatori cinesi a integrare la propria economia con gli altri e, infine, con l’Europa, rimpiazzando gli Stati Uniti come clienti e fornitori. 
Vedono gli Stati Uniti come un’economia morente.

B.F.: I cinesi possono realizzare i progetti per le infrastrutture della “Belt and Road” con i dollari?

M.H.: No. Si stanno sbarazzando dei dollari. Stanno già ricevendo un surplus così alto ogni anno che utilizzano i dollari soltanto per comprare oro e alcuni beni, come i Boeing, ma principalmente cibo e materie prime. Quando la Cina compra ferro dall’Australia per esempio, vende dollari dalle sue riserve di valuta estera e compra valuta australiana per pagare agli australiani l’oro importato. Utilizzano i dollari per pagare altri paesi che fanno ancora parte dell’area del dollaro e che sono ancora disposti ad accumulare questi dollari nelle loro riserve monetarie ufficiali invece di tenere l’oro.

B.F.: Beh, è sorprendente che altri paesi non abbiano iniziato a farlo molto prima.

M.H.: C’è stata una forte pressione politica affinché non si ritirassero dal sistema del debito in dollari.

Se i paesi agiscono in modo indipendente, rischiano di essere rovesciati.

Ci vuole un governo forte per resistere alle interferenze americane e ai giochi sporchi per mettere al primo posto il proprio paese invece di seguire le richieste dei consulenti e degli agenti degli Stati Uniti, che li pagano per servire l’economia americana piuttosto che la propria.

O per resistere al lavaggio del cervello dell’economia-spazzatura proveniente dall’Università di Chicago.

B.F.: Quanto è lontana la fine del dollaro come valuta delle riserve mondiali?

M.H.: Sta già rallentando. Trump sta facendo di tutto per accelerarla, minacciando che se i paesi stranieri continuano a riciclare i loro proventi da esportazione in dollari (aumentando il tasso di cambio del dollaro), li accuserà di manipolare la loro valuta.

In pratica lui vorrebbe che questa storie finisse entro la fine del suo secondo mandato, nel 2024.

B.F.: Cosa succederebbe agli Stati Uniti se il dollaro non fosse più la valuta di riserva mondiale?

M.H.: Se continueranno a lasciare che sia Wall Street a fare la pianificazione economica, l’economia assomiglierà a quella argentina.

B.H.: E com’è l’Argentina?

M.H.: Una ristretta oligarchia al vertice, che mantiene la forza lavoro al basso livello, che toglie ai lavoratori il diritto di unirsi in sindacati, un’economia i cui settori finanziario e militare hanno vinto la guerra di classe.

B.F.: La Cina, con il suo progetto di infrastrutture per la “Belt and Road”, sta acquistando oro sul mercato, come stanno facendo altri paesi. Il sistema bancario occidentale è penetrato in Cina? E se sì, come definirebbe il sistema bancario cinese?

M.H.: C’è un tentativo da parte degli Stati Uniti di penetrare in Cina. Nei recenti accordi commerciali, la Cina ha consentito alle banche degli Stati Uniti di fare credito.

Non sono sicuro che questa cosa decollerà ora che Trump sta accelerando la guerra commerciale. Ma, fondamentalmente, in America ci sono banche private che fanno credito alle grandi società.

In Cina ci sono banche governative che fanno prestiti. Questo impedisce alla Cina di avere una crisi finanziaria come quella degli Stati Uniti. Dicono che il 12% delle aziende americane siano aziende zombi. Sono già insolventi, non in grado di fare profitti dopo aver pagato il loro pesante debito. Ma le banche danno loro ancora credito sufficiente per rimanere in affari, in questo modo non falliscono e non generano una crisi.

La Cina non ha questo problema, perché quando l’industria e le fabbriche cinesi non sono in grado di pagare, la Banca di Cina può semplicemente condonare il debito. La sua scelta è chiara: lasciare che le aziende falliscano e siano vendute a basso prezzo a qualche compratore, soprattutto americani; oppure può cancellare i debiti inesigibili.

Se la Cina fosse stata abbastanza folle da fare dei prestiti ai suoi studenti e da impoverire i propri laureati invece di fornire istruzione universitaria gratuita, la Banca Centrale Cinese potrebbe poi semplicemente rinunciare a recuperare i crediti dagli studenti.

Nessun investitore ci perderebbe, perché le banche sono proprietà del governo.

La loro posizione è: “Se sei una fabbrica, non vogliamo che tu chiuda i battenti e lasci i lavoratori disoccupati. Ci limiteremo a ridurre il tuo debito. E se i tuoi dipendenti stanno attraversando un periodo difficile, ridurremo i loro debiti, così che possano spendere i loro soldi in beni e servizi per aiutare la crescita del mercato interno.”

Le banche americane sono proprietà di azionisti e obbligazionisti, i quali non lascerebbero mai che Chase Manhattan o Citibank o Wells Fargo condonino i vari prestiti fatti. Ecco perché le banche pubbliche sono molto più efficienti a livello di grande economia rispetto alle banche private. E’ per questo che le banche dovrebbero essere un servizio pubblico, non privatizzato.

B.F.: Può spiegare in che modo ridurre debiti sia un bene per l’economia?

M.H.: Bene, pensi all’alternativa. Se non si riduce il debito degli studenti americani, i laureati dovranno pagare così tanto per il servizio del credito agli studenti (ora lo pagano al governo) che in seguito non avranno abbastanza denaro per comprarsi una casa, per sposarsi, per comprare beni e servizi. Significa che la maggior parte delle persone che oggi possono comprare casa sono laureati con fondi fiduciari, studenti i cui genitori sono abbastanza ricchi da non dover usufruire di un prestito per pagare l’istruzione dei loro figli.

Queste famiglie ereditarie sono abbastanza ricche da comprare loro gli appartamenti.

Ecco perché l’economia americana si sta polarizzando tra persone che ereditano abbastanza denaro per avere alloggi di proprietà e i loro risparmi liberi da prestiti per gli studi e da altri debiti, rispetto a famiglie che sono indebitate e aumentano il ricorso al debito senza avere molti risparmi.

Questa biforcazione finanziaria ci sta rendendo più poveri. Eppure la teoria economica neoliberista vede ciò come un vantaggio competitivo. Per loro, e per i datori di lavoro, la povertà non è un problema da risolvere, è la soluzione alla loro mira di fare profitti.

B.F.: In sostanza questo piano di privatizzazioni, in particolare la privatizzazione del sistema bancario e la privatizzazione di molte infrastrutture, è ciò che sta mandando in bancarotta gli Stati Uniti?

M.H.: Si. Proprio come ha mandato in rovina l’Inghilterra e altri paesi che hanno seguito il thatcherismo o la teoria neoliberista a partire dal 1980 circa.

B.F.: Michael Hudson, grazie ancora.

M.F.: E’ sempre un piacere.

Tratto da:
Traduzione a cura di Renato Nettuno