L'albero della storia è sempre verde

L'albero della storia è sempre verde

"Teniamo ben ferma la comprensione del fatto che, di regola, le classi dominanti vincono sempre perché sempre in possesso della comprensione della totalità concettuale della riproduzione sociale, e le classi dominate perdono sempre per la loro stupidità strategica, dovuta all’impossibilità materiale di accedere a questa comprensione intellettuale. Nella storia universale comparata non vi sono assolutamente eccezioni. La prima e l’unica eccezione è il 1917 russo. Per questo, sul piano storico-mondiale, Lenin è molto più grande di Marx. Marx è soltanto il coronamento del grande pensiero idealistico ed umanistico tedesco, ed il fondatore del metodo della comprensione della storia attraverso i modi di produzione. Ma Lenin è molto di più. Lenin è il primo esempio storico in assoluto in cui le classi dominate, sia pure purtroppo soltanto per pochi decenni, hanno potuto vincere contro le classi dominanti. Bisogna dunque studiare con attenzione sia le ragioni della vittoria che le ragioni della sconfitta. Ma esse stanno in un solo complesso di problemi, la natura del partito comunista ed il suo rovesciamento posteriore classistico, individualistico e soprattutto anti- comunitario" Costanzo Preve da "Il modo di produzione comunitario. Il problema del comunismo rimesso sui piedi"

sabato 24 agosto 2019

Krugman ha un problema d'idiozia, ho è un imbecille o è in malafede, non c'è domanda, nello specifico di case, in quanto dando lavoro precario e sottopagato ai giovani a questi manca la voglia di progettualità di farsi una famiglia di dargli un tetto


Il mondo ha un problema con la Germania: l’ossessione del debito



Si potrebbe pensare che gli eventi più recenti – le turbolenze dei mercati, l’indebolimento della crescita, il declino della produzione manifatturiera – debbano necessariamente condurre ad una qual certa analisi nelle stanze della Casa Bianca, in particolare sulla prospettiva di Donald Trump secondo la quale «le guerre commerciali sono una buona cosa, e sono facili da vincere». In effetti, si potrebbe pure pensare di non aver prestato sufficiente attenzione al comportamento politico tenuto in passato da Trump.

Ciò che egli sta attualmente facendo, senza ombra di dubbio, è attribuire i problemi dell’economia ad una vasta cospirazione di persone al di fuori della sua cerchia e pronte a convincerlo. E le sue recenti osservazioni suggeriscono, semmai, che egli stia approntandosi ad aprire un nuovo fronte all’interno della guerra commerciale, questa volta contro l’Unione Europea, dal momento che egli sostiene che «[essa] ci tratta in modo orribile: barriere, tariffe, tasse».

La cosa divertente è che ci sono alcuni aspetti della politica europea, in particolar modo la politica economica tedesca, che danneggiano l’economia mondiale e che meritano una condanna senza appello. Tuttavia, Trump sta seguendo una strada sbagliata. L’Unione Europea, infatti, non ci sta trattando male: i suoi mercati sono aperti ai prodotti statunitensi tanto quanto i nostri mercati sono aperti ai prodotti europei. (Noi esportiamo, a livello quantitativo, in Europa tre volte rispetto a quanto esportiamo in Cina).

Il problema, invece, si situa nel fatto che gli europei, e specialmente i tedeschi, trattano se stessi male, con una rovinosa ossessione per il debito pubblico. Ed i costi per quell’ossessione si stanno riversando tutti insieme, con forza congiunta, sul mondo intero.

Alcuni retroscena da enucleare: intorno all’anno 2010, politici ed esperti provenienti da entrambe le sponde dell’Atlantico hanno sofferto di una brutta patologia, la febbre da austerità. In un qualche modo, ambedue hanno perduto interesse nel combattere la disoccupazione, anche se essa era rimasta catastroficamente alta, ed hanno invece richiesto dei tagli alla spesa ed agli investimenti. E questi tagli alla spesa, senza precedenti in un’economia debole, hanno rallentato la ripresa ed hanno ritardato il ritorno alla piena occupazione.

Nel frattempo che l’allarmismo sul debito ha governato [azione politica e dibattito pubblico] tanto qui quanto in Europa, comunque, alla fine è diventato del tutto chiaro che sussisteva una cruciale differenza nella motivazione sottostante. I nostri falchi del deficit erano, difatti, ipocriti: ipocriti che improvvisamente hanno perso ogni interesse per il debito non appena un Repubblicano si è insediato alla Casa Bianca. I tedeschi invece, dal canto loro, lo intendevano davvero.

È vero, la Germania ha costretto le nazioni dell’Europa meridionale, in difficoltà a causa del debito, ad una severa punizione, ovverosia a dei tagli alla spesa, che poi ne hanno distrutto il tessuto sociale; tuttavia, essa ha imposto notevoli dosi di austerità anche a se stessa. I manuali di economia affermano che i governi dovrebbero praticare ampi deficit in periodi di elevata disoccupazione, ma la Germania sostanzialmente ha eliminato il proprio disavanzo nel 2012, quando la disoccupazione dell’euro-zona era ben superiore all’11%, e quindi ha cominciato a registrare dei surplus di bilancio sempre più alti.



Perché questo è un problema? L’Europa soffre [da tempo] di una cronica carenza di domanda da parte del settore privato: i consumatori e le società non sembrano voler spendere abbastanza per mantenere la piena occupazione. Le cause di questa carenza sono oggetto di discussione in numerosi dibattiti, sebbene il più probabile colpevole sia la demografia: una bassa fertilità ha lasciato l’Europa con un numero calante di adulti ai loro primi anni di lavoro, il che si traduce in una bassa domanda per nuove case, per edifici destinati agli uffici, e via discorrendo.

La Banca Centrale Europea, la controparte europea della Federal Reserve, ha tentato di combattere questa debolezza cronica attraverso tassi di interesse estremamente bassi – infatti, essa ha spinto questi stessi tassi al di sotto dello zero, cosa che gli economisti avevano ritenuto sino ad allora impossibile. E gli investitori obbligazionari, chiaramente, si aspettano che queste politiche estreme durino per lungo tempo. In Germania, anche i bond a lunga scadenza – fino a trent’anni! – pagano tassi di interesse negativi.

Alcuni analisti pensano che questi tassi di interesse negativi danneggino il funzionamento del settore finanziario. Io sono agnostico sotto questo punto di vista, ma ciò che è chiaro è che con una politica monetaria estesa sino ai suoi limiti, l’Unione Europea non ha modo di dare una risposta soddisfacente quando le cose vanno male. Ciò nondimeno, gran parte dell’Europa potrebbe essere già in recessione, e c’è poco o nulla che la Banca Centrale possa fare.


In ogni caso, esiste un’ovvia soluzione: i governi europei, e la Germania in particolare, dovrebbero stimolare le loro economie prendendo prestiti dalla BCE ed incrementando la loro spesa. Il mercato obbligazionario, in effetti, li sta implorando di intraprendere questa azione: non incidentalmente, esso è disposto a pagare la Germania affinché prenda denaro in prestito, a sua volta prestando ad interessi negativi. E non c’è mancanza di cose per le quali spendere: la Germania, come gli Stati Uniti, ha delle strutture fatiscenti, le quali richiedono disperatamente delle riparazioni. Ma loro non spenderanno.

La maggior parte dei costi dell’ostinazione fiscale tedesca ricade sulla Germania e sui suoi vicini, ma ci sono anche svariate ripercussioni su tutti noi. I problemi dell’Unione Europea hanno contribuito ad un euro debole, il quale ha reso i prodotti statunitensi meno competitivi, e che è una delle ragioni per le quali la produzione americana sta scivolando in basso. Tuttavia, l’atto di caratterizzare questa come una situazione in cui l’Europa sta ottenendo un vantaggio rispetto all’America, è del tutto sbagliato, e non è neppure utile.

Che cosa potrebbe essere invece giovevole? Realisticamente, gli Stati Uniti non hanno la capacità di fare pressione alla Germania affinché essa modifichi le proprie politiche interne. Noi potremmo essere in grado di fornire un po’ di dissuasione morale, se la nostra leadership avesse credibilità intellettuale e politica, ma, naturalmente, essa non ne ha [un’opinione, questa di Paul Krugman, che invero cozza con diversi dati macroeconomici, ed azioni internazionali, assai favorevoli a quanto compiuto sinora da Donald Trump, N.d.R.]. Ha senso affermare, oggi, che il mondo intero ha un problema con la Germania, ma spetta agli stessi tedeschi risolverlo.

Una cosa è sicura: iniziare una guerra commerciale con l’Europa sarebbe davvero una proposizione con sole possibilità perdenti, ancora più della nostra attuale guerra commerciale con la Cina. È l’ultima cosa di cui sia America sia Europa hanno bisogno. Ciò significa che Trump probabilmente lo farà [una misura da parte del Presidente USA, questa presa in esame da Krugman, che invero intende essere volta a proteggere la produzione industriale interna degli Stati Uniti dall’esagerato surplus commerciale tedesco, ottenuto per merito di una valuta – l’euro – ben più debole e deprezzata rispetto a quella che dovrebbe avere l’economia della Germania, e che le permette di avere una percentuale positiva nella bilancia dei pagamenti più alta addirittura di quella della Cina, N.d.R.].

(di Paul Krugman per il New York Times – Traduzione di Lorenzo Franzoni)

1999 Kossovo, conflitto guidato con molti ma molti bombardamenti umanitari, dal solito occidente dalla solita Nato

La Serbia rafforza la collaborazione militare con Russia e Cina, per prevenire nuove destabilizzazioni nell’area, usando il Kosovo


Il ministro della Difesa serbo Aleksandr Vulin, ha detto che a Belgrado ci sono stati incontri con Russia e Cina per l'acquisto di armi per la difesa del paese, in caso di conflitto armato nei Balcani.

“…pur ribadendo la nostra neutralità internazionale, se ci fosse un riesplodere di conflitti nei Balcani, un area dove si sa, i conflitti possono essere… guidati, nessuno potrebbe aiutarci se non noi stessi. Ma noi contiamo anche sull’aiuto della Russia e molti altri amici…Noi cercheremo di fare sempre tutto il possibile per evitare altri conflitti…”, ha dichiarato Vulin a giugno in un intervista al Life Journal.
«…Dobbiamo tornare ad essere militarmente forti e l’assistenza tecnica e militare della Federazione Russa è per noi importante. Abbiamo bisogno di pace. Ma per avere la pace, dobbiamo essere pronti a tutto…Anche la Repubblica Popolare Cinese è un paese amico su cui possiamo contare e con cui stiamo sviluppando ottime collaborazioni militari…”, ha aggiunto il ministro serbo.

Il 17 agosto anche Sergej Shoigu, dopo un incontro con Vulin a Mosca ha dichiarato che: “… La cooperazione militare tra Russia e Serbia si sta sviluppando attivamente e anche i passi in questo ambito si stanno moltiplicando di anno in anno…”, ha detto il ministro della Difesa russo.
"…In questo ultimo incontro abbiamo discusso una serie di questioni relative alla nostra cooperazione militare e tecnica. La cooperazione militare si sta sviluppando attivamente e gli avvenimenti aumentano ogni anno…i preparativi per nuove esercitazioni militari congiunte sono nelle fasi finali. Sono sicuro che si terranno con successo come è già successo prima", ha sottolineato il ministro russo.
"…La nostra cooperazione militare e tecnica si sta sviluppando in modo piuttosto spedito, nonostante tutti gli ostacoli che altri stanno ponendo sulla nostra strada. Tuttavia, tutto procede secondo i piani prefissati, ciò che è stato fissato per quest'anno sarà raggiunto…Russia e Serbia hanno in programma molti eventi per il prossimo anno, in particolare in ambito militare-tecnico, educativo e di altro genere...” ha aggiunto Shoigu.
A sua volta, il ministro serbo Vulin ha condiviso l'opinione che la collaborazione tra Russia e Serbia nella sfera militare sia ai massimi livelli della storia. Secondo lui, i due paesi non hanno mai tenuto una tale quantità di eventi comuni come ora. Quest'anno ce ne sono stati circa 90. Vulin ha anche affermato che il presidente Vucic ha invitato Shoigu a Belgrado per valutare i risultati raggiunti dall'esercito serbo. "…Il nostro presidente e comandante in capo Aleksandar Vucic ha trasmesso i più calorosi saluti e un invito personale a venire a Belgrado in Serbia, per vedere di persona quanto è migliorato l'esercito serbo nei suoi sviluppi, grazie al vostro coinvolgimento, con il risultato di essere diventato molto più esperto nelle sue capacità nel combattere… ", ha detto Vulin.
“..La nostra opinione è che più l'esercito serbo è preparato nel combattere, più ci saranno condizioni di pace nei Balcani…Come si sa, la Serbia è uno stato militarmente neutrale e rimarrà tale. Fino a quando il presidente Vucic guiderà il paese, non si unirà alla NATO, sceglierà gli amici e prenderà decisioni su come agire da sola…", ribadendo che questa è la posizione del suo paese.

In giugno la Serbia ha ospitato nella base della Brigata Speciale delle Forze armate serbe a Pancevo, delle esercitazioni militari congiunte di “Fratellanza Slava” con truppe d'élite provenienti da Serbia, Russia e Bielorussia. Paracadutisti serbi con le truppe d'élite di Russia e Bielorussia per l'esercizio della Confraternita militare slava.
Circa 600 militari, tra cui più di 200 delle Forze aeree russe, circa 300 delle forze armate serbe e circa 60 soldati dalla Bielorussia, oltre a più di 50 veicoli da combattimento, hanno preso parte alle esercitazioni.

Foto warsaw institute

Secondo Lyubinka Milincich, capo dell’Agenzia di Sputnik Serbia, riferisce che a Belgrado c’è la fondata convinzione che, qualsiasi cosa possa succedere, 
la Russia non permetterà più alla NATO di bombardare la Serbia.

Anche riferendosi alla sempre più delicata situazione in Kosovo, dove va ricordato, lo scorso mese, i ROSU reparti speciali della polizia albanese kosovara, avevano picchiato M. Krasnoshchekov, rappresentante russo della Missione delle Nazioni Unite in Kosovo, indicandolo come un collaborazionista delle politiche serbe nella provincia, suscitando ire e diffide dalla Russia…più che dalle Nazioni Unite.


Va sottolineato che le valutazioni della Milincich, non sono opinioni personali di una giornalista qualunque, ma che in Serbia essa è inclusa nella classifica delle persone più influenti in Serbia, spesso davanti a ministri e dozzine di altri alti funzionari.
In una intervista dell’Agenzia di Stampa Federale serba, 
ella ha fermamente indicato nelle politiche occidentali legate alla NATO la responsabilità delle continue tensioni e rischi di nuovi conflitti nei Balcani.

Riguardo alla situazione nella provincia del Kosovo ha dichiarato: “… in Kosovo senza l'aiuto dei loro "amici occidentali", gli albanesi non oserebbero fare molte provocazioni che fanno… Si sentono sicuri solo perché sanno di avere una grande forza alle loro spalle. Dietro di loro c'è la leadership politica degli Stati Uniti e della Germania, in ogni caso il loro comportamento non può essere definito normale….Come nel caso del pestaggio del diplomatico russo Mikhail Krasnoshchekov, quello che fanno ha l’obiettivo di spaventare la gente serba del posto e non solo..”.
“…È difficile da credere, ma nel mondo moderno, nell'Europa moderna il Kosovo è un ghetto… Il Kosovo è l'unico territorio al mondo in cui esiste un ghetto per i serbi, il mondo intero sta a guardare e nessuno fa niente. Non può essere normale che un papà porta un bambino a scuola scortandolo…, temendo che possa essere rapito. Possono rapire, possono uccidere, possono fare qualsiasi cosa…Le prospettive della situazione in Kosovo sono molto incerte e delicate. Belgrado subisce una terribile pressione da parte dell'Occidente e sta cercando di perseguire in qualche modo la propria politica in modo che i serbi in Kosovo rimangano ancora lì, questa è la cosa più importante. Ed è importante non fare mosse avventate che causerebbero pretesti per nuovi disordini e violenze sula gente di lì. Per esempio nella parte meridionale del Kosovo, in una notte possono essere distrutti cinque serbi, dieci o cinquanta e nessuno potrebbe impedirlo…la Serbia deve vigilare molto . In effetti, Belgrado deve osservare molto da vicino e non chiudere gli occhi su qualsiasi incidente che coinvolga i serbi..” ha dichiarato la nota giornalista serba.


Agosto 2019, a cura di Enrico Vigna, Forum Belgrado Italia

Fonte: Tass, WarsawInstitute Russianet, Xinhua, Gazeta, Sputnik Serbia
Notizia del: 23/08/2019

E' guerra vera è guerra totale, niente illusioni - e come al solito la risposta della Cina alle pretese di Trump non si fanno attendere. Stati Uniti inaffidabili

Sul G7 si allunga l'ombra della guerra commerciale tra USA e Cina

Di euronews • ultimo aggiornamento: 24/08/2019 - 11:46

Diritti d'autoreREUTERS/Sergio Perez

Sul G7 di Biarritz si allungano le ombre della guerra commerciale tra USA e Cina.

Proprio questo venerdì, Pechino ha annunciato di aumentare le tariffe su beni statunitensi per un valore di circa 68 miliardi di euro.

Una misura di ritorsione adottata in risposta ai nuovi dazi statunitensi per 270 miliardi di euro che entreranno in vigore da metà settembre, scaglionati fino a dicembre.

Accompagnati, peraltro, dall'immancabile tweet-affondo di Donald Trump, che nel suo tweet ha sottolineato di voler bloccare il furto di denaro da parte cinese agli Stati Uniti.

E ha anche spronato le aziende statunitensi a cercare immediate alternative al mercato cinese a costo di traferferire le aziende e riportarle negli Stati Uniti.


È solo l'ultimo episodio della guerra commerciale tra le due potenze economiche, ma le ripercussioni si avranno a livello globale.

Sia Banca mondiale che Fondo monetario internazionale hanno rivisto al ribasso le previsioni di crescita per quest'anno.

Il fanfulla ha succhiato il sangue dello zombi M5S per mesi. Dopo che questi l'hanno dovuto scaricare si è accorto di essere solo di non avere progettualità ne strategia e di aver perso tutte le partite sul rinnovo delle cariche che contano, di aver perso tutto il potere dovute alle cariche governative. Di essere un niente per le prossime elezioni con una legge elettorale profondamente proporzionale da consegnarlo per quello che è di fronte agli elettori

Perché Salvini adesso vuole fare un nuovo governo con i 5 Stelle

23 Agosto 2019 - 16:31 

Dopo aver innescato la crisi di governo che ha portato alle dimissioni di Giuseppe Conte, ecco perché adesso Matteo Salvini vorrebbe fare la pace con il Movimento 5 Stelle: sono tanti i privilegi che verrebbero meno.


In questi giorni abbiamo capito che in politica, così come in amore o nello sport, non si può mai dare nulla per scontato. Del resto “solo i morti e gli stupidi non cambiano mai idea”, anche se si tratta di fare dei carpiati con doppio avvitamento da far impallidire Tania Cagnotto.

Così prima abbiamo assistito a un Matteo Renzi pronto anche a spaccare il Partito Democratico pur di fare un accordo di governo con il Movimento 5 Stelle, “si è rigirato il mondo” avrebbe detto mia nonna, mentre adesso la piroetta è di Matteo Salvini che, dopo aver aperto una crisi di governo che ha portato alle dimissioni di Giuseppe Conte, ora non fa altro che mandare messaggi di pace a un “Luigi Di Maio che ha lavorato bene nell’interesse del Paese”.


La verità è che in politica si deve essere sempre un passo avanti rispetto ai propri avversari e, questa volta, il leader della Lega non ha fatto i conti con la più semplice delle evidenze: dopo un solo anno di legislatura, tutti i parlamentari che non siano della Lega o di Fratelli d’Italia farebbero il tifo per qualsiasi tipo di alleanza pur di non rinunciare alla comoda cadrega romana.

Matteo Salvini se finisce all’opposizione di un governo PD-M5S con ogni probabilità le successive elezioni le vincerebbe con percentuali bulgare ma, nel frattempo, non avrebbe più il potere governativo e delle nomine, quello di poter fare campagna elettorale tenendo qualche disperato fermo in mezzo al mare e quello di poter difendere il Carroccio dalle varie inchiesteda una posizione di assoluto riguardo.

Gli errori di Salvini

In teoria il giochetto sembrava essere molto semplice. Sono il personaggio politico del momento, i sondaggi mi danno al 38%, i miei alleati di governo sono allo sbando e quindi stacco la spina al “governo del cambiamento”, vinco le elezioni e poi faccio aumentare l’Iva dando poi la colpa a quella cattivona di Ursula von der Leyen che a Bruxelles è stata votata dal PD e dai 5 Stelle.

Un delitto perfetto ma Salvini ha sottovalutato la disperazione dei renziani e dei grillini, pronti anche ad allearsi dopo anni di insulti pur di non andare a casa. Un errore grave quello del Capitano, che da quel momento è andato nel pallone più totale.

Prima si è fatto asfaltare al Senato da Conte che gli ha vomitato addosso tutto quanto si era tenuto dentro in questi quindici mesi, per poi mettere in atto una patetica marcia indietro nei confronti dei 5 Stelle verso i quali il suo telefono “è sempre acceso”.

Il risultato è quello di aver pure ringalluzzito un Movimento che sembrava morente, tanto che adesso tra i pentastellati c’è anche chi non teme più le urne convinto che con Conte candidato premier si possa recuperare molto del terreno perso alle ultime elezioni europee.

Adesso poi che i 5 Stelle si sono messi veramente al tavolo delle trattative con il Partito Democratico, anche se i dem ce la stanno mettendo tutta per dare una mano a Salvini, c’è il rischio di aver combinato la frittata: ritrovarsi all’opposizione magari anche fino al 2022, momento in cui si eleggerà il nuovo Presidente della Repubblica che è uno dei principali temi che stanno allontanando le elezioni.

Meglio fare la pace

Se dovesse nascere un governo giallorosso, non sarebbe soltanto Matteo Salvini a fare la valigie dal Viminale, insieme al suo corposo staff comunicazione, ma anche tutti gli altri ministri, viceministri e sottosegretari della Lega.

Essere al governo garantisce poi anche il potere delle nomine in tutte le varie società partecipate dal Mef, oltre a tutti i numerosi enti. Insomma per il Carroccio sarebbe un bel passo indietro dopo aver passato più di un anno nella stanza dei bottoni.

Non sarebbe poi la stessa cosa per la Lega il dover affrontare tutte le varie inchieste che la coinvolgono, Moscopoli o caso-Siri per esempio, dai banchi dell’opposizione invece che da quelli del governo, vedi quando per esempio il Capitano è stato salvato dai 5 Stelle per il caso Diciotti.

Matteo Salvini inoltre perderebbe la possibilità di continuare a fare campagna elettorale con il mantra dei “porti chiusi”, così che gli rimarrebbe soltanto il promettere meno tasse e più pensioni anche se non si è mai capito con quali soldi.

Non sarebbero in pochi quelli che all’interno del Carroccio si starebbero ora pentendo dello strappo con i grillini, sentimento questo ricambiato da molti parlamentari pentastellati che vorrebbero tornare con la Legapiuttosto che andare con il PD.

Ci saranno però soltanto pochi giorni di tempo per sbrogliare questa matassa. Il Movimento 5 Stelle è adesso corteggiato da Lega e Partito Democratico, come una donna lasciata da un marito che adesso si dice pentito dopo averla vista uscire con un altro.

Martedì il Presidente Sergio Mattarella vorrà una maggioranza stabile altrimenti si torna alle urne. In questo momento nessuno scenario è da escludere, specie se il telefono di Salvini a breve dovesse squillare “ciao Matteo, sono Luigi…”.

Podemos si è fritto il cervello. Anche questo partito si allinea a quello del traditore Tsipras. Sono dei falsi ideologici

A PODEMOS IL PREMIO ACEPHALE

Maurizio Blondet 22 Agosto 2019 


“Podemos”, il partito ultrasinistro spagnolo, vuole che il governo abolisca l’assegno di maternità. La sua motivazione: “perpetua i ruoli di genere”.

“para eliminar las discriminaciones por razón de género, particularmente en materia de trabajo a tiempo parcial y prestaciones perpetuadoras de roles como el complemento de maternidad”.

Sembra che 200 mila donne spagnole – lavoratrici-madri per lo più – prendano il sussidio di maternità di 56 euro mensili. La sua esistenza “protrae le discriminaizoni di genere”..

In un paese (come noi) a natalità sottozero, la pretesa di Podemos merita il premio Acefalo della settimana

Indeciso sul commento. Da “la sinistra fa sempre il gioco del grande capitale, a volte perfino senza saperlo” a “non hanno perSo la fede, hanno perso la ragione”.

E' guerra vera è guerra totale, niente illusioni - Il National security agency fa spionaggio che lo faccia anche Huawei è tutta da dimostrare. Sempre più chiara l'inaffidabilità degli Stati Uniti

Huawei e non solo, ecco la guerra tra Usa e Cina sui cavi sottomarini

24 agosto 2019


L’approfondimento di Giuseppe Gagliano

Contrariamente alle convinzioni dell’opinione pubblica Internet non è una rete immateriale ma deve la sua esistenza e la sua efficacia a infrastrutture materiali.

Basti pensare che l’uso di Google è reso possibile dall’esistenza di 16 data center distribuiti negli Stati Uniti, in Europa, in Asia e in Sudamerica. Accanto ai data center l’amplissima rete di cavi in fibra ottica che connette fra di loro paesi e continenti permette ai data center di funzionare. Quanto al consumo energetico basterebbe ricordare che i data center consumano moltissimo e il consumo energetico da loro determinato raddoppierà ogni quattro anni.

Per quanto riguarda i cavi sottomarini dobbiamo tenere a mente che il 97% delle comunicazioni, ricorda Manlio Graziano nel suo saggio “Geopolitica. Orientarsi nel grande disordine mondiale” (il Mulino, 2019), passa proprio attraverso i cavi.

Secondo le stime più attendibili la rete sottomarina di cavi in fibra ottica ha una lunghezza totale di 900.000 km e cioè quasi due volte e mezzo la distanza tra la terra e la luna. Collocare i cavi in fibra ottica implica, fra le altre cose, uno studio morfologico e geologico dei fondali e delle coste poiché bisogna ad esempio evitare le zone più pescose. Inoltre, allo scopo di rendere efficiente la rete di cavi sottomarini, ogni 65 km diventa necessario costruire dei ripetitori.

Dal 2012 al 2017 i rapporti di forza in relazione alle infrastrutture sottomarine relative alla comunicazione Internet tra le potenze sono cambiati: se nel 2012 l’egemonia americana era indiscussa a partire dal 2017 la Cina rappresenta un credibile e pericoloso competitore. Inoltre, quando nel 2013 venne rivelato il ruolo della National security agency nello spionaggio a livello globale molti paesi – e fra questi certamente la Cina e il Brasile – furono legittimati a porre in essere una politica delle infrastrutture di rete autonome o in aperta competizione con quella americana .

È necessario inoltre osservare non solo la loro fragilità fisica ma anche la facilità con la quale è possibile compiere operazioni di spionaggio. Per esempio nel 2013, al largo di Alessandria, fu tagliato il cavo che stabiliva la connessione tra Europa ed Egitto finendo per bloccare per oltre una settimana l’accesso a Internet al 60% del paese. Tutto ciò sta a dimostrare come sia puramente illusorio attribuire una valenza sovranazionale a Internet.

La realtà è – rispetto ad una visione ideologica della realtà- ancora una volta profondamente diversa: ieri come oggi le infrastrutture delle telecomunicazioni sono uno strumento formidabile per moltiplicare la potenza economica e militare degli Stati. A tale proposito basterebbe rileggersi due saggi di capitale importanza sia nel contesto geopolitico che storico apparsi in questi ultimi anni e cioè quello di Peter Hugill “La comunicazione mondiale dal 1844. Geopolitica e tecnologia” (Feltrinelli, 2005) e quello di Carlo Maria Cipolla “Veli e cannoni” (il Mulino, 2011) per comprendere in modo chiaro quanto abbia inciso la tecnologia nel corso della storia per il conseguimento della supremazia politica, militare ed economica delle nazioni. Come ebbe modo di sottolineare uno dei più grandi studiosi di geopolitica e cioè Nicolas Spykman il miglioramento dei rapporti di forza diventa l’obiettivo primario della politica interna ed estera degli Stati e non c’è alcun dubbio che la tecnologia nel suo complesso sia un moltiplicatore di potenza economica e militare.

È evidente quindi il ruolo rilevante rivestito dai cavi sottomarini nel contesto della attuale guerra economica tra Cina e Usa.

Gli Usa hanno fino a questo momento svolto un ruolo fondamentale come players nel contesto del dominio delle infrastrutture digitali e non vogliono che la Cina, in particolare Huawei, possa ridimensionare in modo rilevante l’ egemonia conseguita.

La postura offensiva cinese anche nel contesto delle infrastrutture digitali sottomarine è dimostrata dal fatto che, in primo luogo, Huawei Marine Networks Co., di proprietà del gigante delle telecomunicazioni cinese, ha posato un cavo di 6mila chilometri tra il Brasile e il Camerun e, in secondo luogo, ha iniziato a lavorare su un’altra rotta di 12mila chilometri che collega l’Europa, l’Asia e l’Africa (progetto questo denominato Peace cioè Pakistan & East Africa Connecting Europe determinante per la One Bel ,One Road ) e sta completando i collegamenti tra il Golfo della California e il Messico. In totale, l’azienda sta lavorando su circa 90 progetti per costruire o aggiornare collegamenti in fibra ottica sul fondo marino.

È evidente che Washington vede questa espansione come una delle principali minacce di spionaggio e sta attuando una forte pressione sui suoi alleati, avvertendoli che limiterebbe la condivisione nel contesto della cooperazione militare se Huawei dovesse riuscire a costruire l’infrastruttura di Internet mobile di prossima generazione, cioè il 5G. A tal proposito la Cina mira a diventare la prima potenza industriale e tecnologica entro il 2025 e intende perseguire questa finalità anche attraverso il controllo della tecnologia legata al 5G, la cui potenzialità è ovviamente anche connessa al controllo dei cavi sottomarini.

Se BeiDou ha superato il GPS significa che la Cina è avanti agli Stati Uniti sui satelliti

Ecco come la Cina scalzerà gli Stati Uniti nel posizionamento satellitare

24 agosto 2019


Il sistema cinese di posizionamento satellitare BeiDou ha superato le dimensioni del suo rivale statunitense GPS, con implicazioni sia nell’alta tecnologia che per la sicurezza nazionale. Ecco tutti i dettagli in una serie di tweet dell’analista Fabio Vanorio

I sistemi di posizionamento satellitari sono il fondamento su cui si basano i servizi di localizzazione: dalla navigazione di aerei e navi, ai giochi per smartphone, ai sistemi di notifica di emergenza.

La European Global Navigation Satellite Systems Agency ha stimato che il mercato globale dei dispositivi e dei servizi di localizzazione raggiungerà EUR180bn ($199bn) entro il 2020, con 8bn di ricevitori, rendendo i satelliti fattore di competitività industriale di un paese.

Solo nel 2018, la Cina ha lanciato 18 satelliti. A Luglio 2019 erano in funzione 35 satelliti BeiDou, rispetto a 31 per il GPS statunitense (l’UE ne ha 22, la Russia 24, il Giappone 4 (tipo “quasi-zenith”, limitati all’uso regionale), mentre l’India ne ha 6).

Nel luglio scorso, i satelliti cinesi sono stati osservati più frequentemente dei satelliti GPS in 130 dei 195 Stati membri dell’ONU (Vaticano e Palestina compresi). Più di 20 satelliti BeiDou sono stati osservati sulla Cina continentale.

La Cina sta usando la Belt and Road Initiative per promuovere il sistema di navigazione BeiDou. I satelliti BeiDou sono stati i più frequentemente osservati in oltre 100 dei 137 paesi che hanno aderito al progetto infrastrutturale, in particolare nel Sud-Est Asia e in Africa.

Secondo il Congresso USA, Pechino sta investendo fino a $10,6bn nel sistema di posizionamento satellitare tra il 1994 e il 2020, prevedendo il lancio di circa 10 satelliti entro il 2020 (maggiore la costellazione di satelliti, più preciso il posizionamento).

L’ascesa di BeiDou ha sollevato allarme nell’establishment della sicurezza nazionale degli Stati Uniti. A differenza del GPS, che invia solo segnali e non è in grado di identificare la posizione dei ricevitori, le comunicazioni di BeiDou con il suolo sono, invece, bidirezionali.

La 'ndrangheta è più forte di prima - Il Sistema massonico mafioso politico ha meccanismi ben oliati e difficili da dimostrare. Niente generalizzazioni

Nicola Gratteri "Io ministro"? No grazie, a Renzi e Grillo preferisco il mio lavoro

by Redazione in Politica 23/08/2019 2913


CATANZARO, 23 AGOSTO - Intervista al procuratore Gratteri: In un anno ho arrestato oltre 950 indagati per associazione mafiosa" Nel suo ufficio smontato per via delle termiti che hanno divorato librerie e poltrone, con i libri e fascicoli raccolti sul pavimento, Nicola Gratteri delinea la offensiva del suo Ufficio nella lotta alla Ndrangheta e ai suoi complici. Non ama fare sociologia o analisi, preferisce far parlare i fatti. E allora Procuratore iniziamo dal bilancio di un anno di lavoro. 

Soddisfatto? 
«In un anno abbiamo arrestato 950 indagati per associazione mafiosa e per traffico di droga. E abbiamo cominciato con le prime tre incursioni nella pubblica amministrazione, cosa che non era mai accaduto prima. Primi arresti di una trentina di funzionari pubblici anche ex assessori per reati che vanno dal peculato alla corruzione, in alcuni casi con l'aggravante di aver favorito la Ndrangheta. E abbiamo cominciato a esplorare mondi che erano ritenuti impenetrabili».

Si riferisce agli intrecci tra massoneria, Ndrangheta società civile? 
«Mi faccia prima dire un paio di cose. Intanto che le generalizzazioni sono una pessima strada da seguire perché creano sconforto tra la gente, creano il pessimismo e un senso di sconfitta permanente. E questo proprio oggi che un certo risveglio si avverte. Anzi, per la prima volta la gente comincia a prendere coscienza e a credere finalmente nella possibilità di una primavera calabrese».

Una società civile attiva non l'ho mai incontrata nei miei trenta e passa anni di frequentazioni calabresi. 
«Le rispondo dalla fine ma poi mi faccia dire quello che mi sta a cuore. È vero che i calabresi non hanno mai reagito per esempio come è successo in Sicilia dopo il martirio di Falcone e Borsellino. Ma c'è un perché e probabilmente la risposta va ricercata nel fatto che noi non siamo stati credibili. Noi, ovviamente non tutti noi magistrati come del resto non tutti i colleghi palermitani erano Falcone e Borsellino. E, dunque, abbiamo iniziato a invertire la rotta, a essere più credibili. Se sono invitato a un convegno non necessariamente vi partecipo se vedo che tra gli invitati c'è qualcuno anche famoso, anche con la patente di antimafiosità che non mi convince».

Dunque, lei sta cercando verifiche dell'esistenza di rapporti tra Ndrangheta, politica, pubblica amministrazione e massoneria? 
«Stiamo parlando della massoneria deviata, cioè di quelle logge massoniche non riconosciute da Palazzo Giustiniani dove convivono quadri della pubblica amministrazione, professionisti, e gli esponenti della Santa, quel grado di affiliazione alla Ndrangheta che autorizza i suoi vertici anche a una doppia affiliazione, alla massoneria appunto. Ecco tracce di queste presenze ci sono. È vero che in quarant'anni o poco meno non è stato celebrato un processo con sentenza foss'anche solo di primo grado che certificasse questi rapporti. Dei fascicoli sono stati aperti in passato. Le rispondo ricordando che le indagini vanno fatte in silenzio».

Un anno di Catanzaro. Ricorda che a Reggio Calabria negli anni Ohttps://www.infooggi.it/articolo/io-ministro-no-grazie-renzi-e-grillo-preferisco-il-mio-lavoro-sto-indagando-sulla-massoneria-temo-solo-le-termiti/115669ttanta e Novanta furono cercati i referenti politici della Ndrangheta e l'unico che finì nella rete fu Giacomo Mancini? Una giustizia perlomeno molto strabica. E a Catanzaro sono tutti al di sopra di ogni sospetto? 
«Oggi vedo la Ndrangheta dominante sulla politica. Quando i politici si mettono in fila per andare dal mafioso che sanno che detiene un pacchetto di voti, vuole dire che riconoscono alla Ndrangheta un ruolo preminente. Riconoscono che la Ndrangheta ė più forte, è un modello vincente nella comunità».

Lo Stato di salute della Ndrangheta? 
«Più forte di prima. Ha saputo trasformarsi. Non spara più, discute alla pari con la politica, anzi sono i politici, ripeto, che vanno a trovare i mafiosi. Non sparano ma nello stesso tempo il loro potere di intimidazione ė intatto».

Che reazione ha avuto quando ha visto in televisione le immagini del baciamano al boss Giorgi, arrestato dopo una latitanza trentennale? 
«È un segno di sottomissione, di riconoscimento di un'autorevolezza carismatica di un boss. La Ndrangheta è insieme arcaicità e modernità. L'arcaicità è un collante. Dico sempre che se dovessi puntare su chi scomparirà per prima, tra la camorra, la Ndrangheta e cosa nostra, punterei tutto sulla camorra, che pure è stata la prima organizzazione criminale a insediarsi».


Oltre ad essere un moto naturale l'Immigrazione di Rimpiazzo è voluta e cercata attraverso la tratta degli schiavi e tutti gli euroimbecilli fortemente lo vogliono nascondendosi dietro la carità pelosa del gesuita Francesco

“Gli europei devono farsi la domanda più fondamentale sul loro futuro: NE HANNO UNO?”

Maurizio Blondet 22 Agosto 2019 

National Review

L’intera popolazione italiana ha trascorso l’ultima settimana di giugno a guardare una barca che arrivava dall’altra parte del Mediterraneo. Era il Sea-Watch 3, una nave registrata nei Paesi Bassi finanziata da filantropi progressisti e capitanata da Carola Rackete, un attivista tedesca di 31 anni del cambiamento climatico. Rackete ha riferito che stava trasportando 42 rifugiati africani salvati in mare in condizioni di salute disperata. Il ministro degli Interni italiano Matteo Salvini ritiene che tali navi si incontrino con i trafficanti appena al largo della costa libica e sono molto meno interessate al salvataggio dei marinai che al trasporto di immigrati clandestini in Europa in massa. “Taxi”, li ha chiamati. E in effetti, Rackete aveva gironzolato ai bordi delle acque territoriali italiane per diversi giorni, tracciando un percorso meno coerente con qualsiasi emergenza sanitaria che con il desiderio di sbarcare il suo carico umano nell’Unione europea, dove è facile presentare domanda di asilo politico e dove anche quelli le cui domande vengono respinte non vengono quasi mai espulsi.Da quando il suo partito, la Lega, ha iniziato a condividere il potere in una coalizione populista un anno fa, la decisione di Salvini di chiudere i porti italiani a tali navi lo ha reso il politico più popolare del paese .

Stavolta, Salvini ha fallito. […]

Gli europei hanno dovuto affrontare la domanda più basilare sul loro futuro: se ne hanno uno. In alcuni paesi – in particolare Italia, Germania e Austria – la popolazione nativa si è ridotta da decenni. I tassi di natalità sono scesi così in basso che ogni generazione nativa ha circa i due terzi delle dimensioni dell’ultima. Il declino è stato mascherato per un po ‘dalle dimensioni della generazione quasi completamente autoctona di Baby Boomers, ma ora quei nativi europei hanno iniziato a ritirarsi e morire. Gli immigrati extraeuropei, in particolare quelli del Medio Oriente e del Nord Africa, si sono precipitati a reclamare un posto nel continente. Almeno dall’11 settembre, i lettori di giornali europei hanno acquisito familiarità con le discussioni sull’Islam, alcune delle quali eufemistiche (l’Islam sarà una “parte della Germania, “Dice Merkel) e alcuni di loro cupi (l’Europa sarà una” parte del Maghreb [musulmano] “”, ha avvertito il defunto storico Bernard Lewis). Quando la Merkel si è offerta nell’estate del 2015 di dare il benvenuto ai rifugiati che camminavano sulla terraferma dalla guerra in Siria, ha ricevuto un’ulteriore ondata di 1,5 milioni di migranti, molti dei quali giovani, provenienti da tutto il mondo musulmano. Il suo giudizio errato ha rotto il sistema politico tedesco e ha infuso la democrazia tedesca con una corrente di nazionalismo duro per la prima volta dagli anni ’30.

Questo è stato solo l’inizio del problema. Le pressioni demografiche emanate dal Medio Oriente negli ultimi decenni, già sufficienti a spingere il sistema politico europeo in convulsioni, nei prossimi decenni impallidiranno accanto a quelle dell’Africa sub-sahariana. Salvini deve la sua ascesa – e la potente vittoria del suo partito alle elezioni di maggio al parlamento dell’Unione Europea –alla sua volontà di affrontare la migrazione africana come una crisi. Anche menzionarla come tale lo rende isolato tra i politici europei. Coloro che non hanno paura di affrontare il problema hanno paura di dichiarare le proprie conclusioni.

Stephen Smith, corrispondente da lungo tempo nato in America negli Stati Uniti per i quotidiani parigini Le Monde e Libération , ora professore di studi afroamericani e afroamericani a Duke, ha pubblicato (in francese) La ruée vers the Europe , un breve, sobrio , libro di mentalità aperta sulla prossima migrazione di massa dall’Africa. Il libro più importante scritto fino ad allora sull’argomento, divenne rapidamente il discorso di Parigi. Ora è stato pubblicato in inglese.

Divieto di far domande

Smith inizia presentando alcuni fatti. L’Africa sta aggiungendo persone ad un ritmo mai visto prima in nessun continente. La sola popolazione dell’Africa sub-sahariana, ora circa un miliardo di persone, sarà più che raddoppiata a 2,2 miliardi entro la metà del secolo, mentre quella dell’Europa occidentale scenderà a circa mezzo miliardo di schiaccianti. Dobbiamo notare che le cifre che Smith usa non sono qualcosa che ha sognato mentre era in giro: sono le stime ufficiali delle Nazioni Unite, che negli ultimi anni hanno spesso sottovalutato i cambiamenti di popolazione.

Nel 1950 il paese sahariano del Niger, con 2,6 milioni di persone, era più piccolo di Brooklyn. Nel 2050, con 68,5 milioni di persone, avrà le dimensioni della Francia. A quel punto, la vicina Nigeria,con 411 milioni di persone, sarà considerevolmente più grande degli Stati Uniti. Nel 1960, la capitale della Nigeria, Lagos, aveva solo 350.000 persone. Era più piccolo di Newark. Ma Lagos è ora 60 volte più grande di allora, con una popolazione di 21 milioni, e si prevede che raddoppierà di nuovo le dimensioni nella prossima generazione, rendendola la città più grande del mondo, con una popolazione all’incirca uguale a della Spagna.

La migrazione sub-sahariana attraverso il Mediterraneo è ancora nuova e relativamente piccola, circa 200.000 persone all’anno. Ma mantenerlo a quel livello ha richiesto anni di sforzi straordinari da parte dei governi europei, inclusi negoziati sottobanco tra l’Italia e i mediatori del potere nordafricano che controllano i resti della Guardia costiera libica. Nel caso di Salvini, implica la volontà di resistere quasi da solo al disprezzo dei giornali italiani e alle minacce di persecuzione da parte dei suoi magistrati. Ecco perché gli elettori lo hanno portato sull’orlo della premiership. Le élite italiane ridicolizzano anche ai sostenitori di Salvini, per aver immaginato che una migrazione pacificamente intenzionata da un lontano continente potesse in qualche modo spazzare via un’intera cultura antica.

….. Smith espone diversi modi per stimare le dimensioni del flusso. Per fare un paragone, osserva che tra il 1850 (quando l’Europa aveva 200 milioni di persone) e la prima guerra mondiale (quando aveva 300 milioni), l’Europa mandò 60 milioni di persone all’estero, la maggior parte delle quali negli Stati Uniti. Il Messico aveva 30 milioni di persone nel 1955, vide la sua popolazione raddoppiare a 60 milioni entro il 1975 e mandò 10 milioni di persone negli Stati Uniti nella generazione che seguì. Oggi, 37 milioni di messicani americani costituiscono l’11,2 percento della popolazione americana. Quindi cosa accadrà nei prossimi 30 anni, quando la popolazione dell’Africa raddoppierà a 2 miliardi? È un’ipotesi di chiunque, e Smith usa le figure con cautela. Ma osserva che se lo sviluppo dell’Africa dovesse procedere su linee messicane,

Il modello di Smith su cosa aspettarsi dall’Africa sconvolge gli stereotipi popolari e politici. Insiste sul fatto che non è la povertà assoluta a causare la migrazione. Il viaggio dall’Africa all’Europa diventa possibile quando un giovane può metteer insieme almeno $ 2000. Una volta che lo fa, non c’è investimento migliore per lui o per il suo villaggio che precipitarsi in Europa. Se Smith ha ragione su questo (e la ricerca dell’economista dello sviluppo di Oxford Paul Collier indica che lo è), allora la politica verso la migrazione dell’Unione Europea è un errore esorbitante. Si basa sul “co-sviluppo” – sovvenzioni all’industria e all’occupazione nei paesi di origine al fine di ridurre l’incentivo a partire. Dovrebbe aiutare l’Africa. Ma intensifica, piuttosto che smorzare, le pressioni migratorie sull’Europa.

Un secondo presupposto per la migrazione su larga scala è una comunità di diaspora in alcune metropoli europee. L’esempio del Minnesota sarà sufficiente come spiegazione di come funziona. Il motivo per cui il Minnesota ha più di un quarto della popolazione somala degli Stati Uniti – e già, a Ilhan Omar, il primo rappresentante congressuale somalo-americano del paese – è che una manciata di uomini d’affari di Mogadiscio si stabilì lì negli anni ’80. Soldi da lasciare e comunità con cui atterrare – una volta soddisfatte queste condizioni, c’è poco da dissuadere il potenziale migrante.

Sì, a migliaia sono annegati nel tentativo di attraversare il Mediterraneo verso l’Europa su zattere: le probabilità di morte sono circa una su 300. Ma mentre questa è una tragedia, non è necessariamente un deterrente: se sei una donna nel Sud Sudan, le tue probabilità di morire di parto sono una su 60.

L’eresia più seria nel libro di Smith è questa: il movimento di massa, mentre è straordinariamente dirompente del lavoro e dell’umanità dall’Africa all’Europa, non porterà all’Europa benefici significativi. Le narrative sull’arricchimento dell’Europa attraverso la migrazione sono razionalizzazioni post facto per qualcosa che l’Europa sta subendo, non scegliendo.

L’Europa non ha bisogno di un afflusso di lavoro giovanile dequalificato dall’Africa, scrive Smith, perché sia ​​la robotizzazione che l’aumento dell’età pensionabile ne stanno riducendo la domanda. I lavoratori migranti non possono finanziare lo stato sociale europeo. In realtà, lo mineranno, perché il costo delle scuole, della salute e di altri servizi governativi su cui i nuovi arrivati ​​filoprogenetici eccedono i loro pagamenti fiscali. Né l’esodo di massa aiuterà l’Africa. […]

E’ ovviamente lecito essere in disaccordo con parti dell’analisi di Smith. …. Ma gli attacchi al libro non si sono differenziati con questo o quel punto. Hanno cercato di denunciare Smith e di delegittimare tutta la sua linea di indagine. Parlando dalle alte sfere dell’intellettualità accreditata francese, François Héran, direttore della ricerca presso l’istituto demografico nazionale francese, INED, ha preso come sua missione screditare completamente il libro di Smith, sia in articoli che in interviste. Héran attaccò come allarmista il più alto dei cinque scenari di popolazione di Smith, quello in base al quale la migrazione africana avrebbe seguito il modello messicano. Smith si offrì di discuterlo.

[…] Julien Brachet, ricercatore di sviluppo internazionale alla Sorbona, sul sito web La Vie des idées : “Stephen Smith non è né un antropologo né un geografo né uno storico né un demografo”, Brachet ha scritto – con il quale intende sicuramente che Smith non aveva lauree in quelle aree. In un post scritto sul sito francese Mediapart , Brachet ha accusato Smith di essere un razzista, uno xenofobo, un teorico della cospirazione e un destro, adducendo la menzione di Smith dei romanzieri francesi Maurice Barrès e Jean Raspail e degli scienziati sociali americani Robert Kaplan e Samuel Huntington. Nota che Brachet non accusa Smith di essere d’accordo con queste persone, ma solo di menzionarle.

Qualsiasi autore che detenga una visione indipendente sulla migrazione deve abituarsi ad essere calunniato in questo modo.

Ma il tentativo degli accademici francesi di evitare un impegno con Smith, sostenendo che in qualche modo non è qualificato per partecipare a un dibattito pubblico, è infantile […]

Smith usa le stesse proiezioni demografiche – quelle delle Nazioni Unite e dell’Unione Europea – che fanno tutti gli altri. Laddove differisce con i suoi critici accademici è nelle sue proiezioni sulla migrazione, e queste differiscono solo perché Smith ha una visione più ampia dei fattori che guidano la migrazione africana, e una conoscenza più approfondita della storia e della società del continente. Quando si tratta di comprendere la migrazione, l’interdisciplinarietà è un must.

[…-]

Smith conosce i paesi dell’Africa nella loro intima specificità. Comprende l’effetto dei cambiamenti climatici sulla migrazione: il Lago Ciad, ad esempio, sulle risorse da cui dipendono 30 milioni di persone in Niger, Nigeria, Camerun e Ciad, è un decimo delle dimensioni degli anni ’60, e si tratta di asciugare. Conosce la letteratura accademica sulle economie africane. È un raro osservatore occidentale dell’Africa interessato a Ngugi wa Thiong’o (e alla letteratura africana contemporanea più in generale) come a Isak Dinesen. Il suo lavoro è pieno di citazioni da Yoruba e proverbi dall’arabo. È quello che il defunto storico Benedict Anderson ha definito “il vero, duro internazionalismo del poliglotta”.

Le questioni politiche europee, come quelle americane, sono sempre più questioni di “valori” e pretese di “diritti” – qualunque cosa li si cnhiami – e non sono negoziabili L’immigrazione è la più difficile di queste questioni perché è anche una discussione sul fatto se nel dibattito, una parte possa o meno essere autorizzata a introdurre argomenti contrario.

Ora possiamo constatare che coloro che proclamano di volere “i confini aperti” godono anche di un vantaggio intellettuale: la capacità di bloccare la discussione. Perché, una volta che la migrazione è considerata un diritto non negoziabile, come si permette di iniziare a parlare di costi e benefici, o i puri e semplici fatti? Quale innocente spiegazione può esserci per desiderare un dibattito aperto in primo luogo?

L’Occidente oggi: il trionfo dell’Acefalo. Il sesso e le pulsioni al posto del cervello. Profezia di George Batailles.

Euroimbecilli cercasi - Salito in alto troppo velocemente, l'altitudine gli ha creato vertigini e da qui sindacati al Viminale con vicino un'indagato per corruzione e l'onniscienza di decidere quando andare a votare per prendersi tutto.

Salvini e la mossa del cavallo

By Massimiliano De Luca -23 Agosto 2019

È vero che questo Paese ha un drammatico quanto emblematico precedente storico – ma la storia, con buona pace di Nietzsche , non procede necessariamente per cicli storici. Quando il fascismo assurge a forza di governo, la sua forza nel parlamento è assolutamente minoritaria; le circostanze – su tutte la criminale inettitudine di Casa Savoia – restituiscono alla marcia su Roma un risultato inaspettato per lo stesso Mussolini. L’esercito inviato dal primo ministro Facta, se non fosse stato bloccato dall’irresponsabilità di Vittorio Emanuele III, ci avrebbe messo non più di qualche ora per disperdere l’eterogeneo manipolo di fanatici in camicia nera, e forse tutto sarebbe morto sul nascere; chissà.

Resta il fatto del precedente; e della suggestione in grado di fare presa sull’ego di alcuni: non a caso Salvini ha parlato di “pieni poteri” e di “piazze”, rispolverando alcune tra le parole chiave dello sciagurato Ventennio. Il prossimo futuro vedrà chi ha ragione: ma l’impressione è che la mossa della Lega di far cadere il governo derivi da una valutazione completamente sbagliata della situazione.

Il partito di Salvini è stato l’azionista di minoranza del governo, anche se ne ha condizionato l’azione ben oltre il suo peso politico: 17,4% contro il 32,7 del movimento 5stelle. Una maggioranza parlamentare raffazzonata, basata sull’aritmetica dei seggi e sulla condivisione di provvedimenti disomogenei irriconducibili ad una azione politica coerente. Ma soprattutto non l’unica possibile.

Sull’onda emotiva del consenso riscosso alle elezioni europee, il segretario leghista ha deciso di sparigliare le carte, confidando in un voto a breve in grado di capitalizzare il consenso che i sondaggi – potenzialmente – gli attribuiscono. Ed evitando, sempre secondo un ragionamento coerente con la superficialità delle sue analisi politiche e sociali, di essere coinvolto nel redde rationem di un anno di governo fallimentare che richiederà una manovra aggiuntiva per evitare l’aumento dell’IVA e di altri balzelli legati alle clausole di salvaguardia.

Sembra però non abbia tenuto conto del fatto che – con il parlamento attuale – la Lega non è in grado, una volta priva dei voti dell’ex alleato 5stelle, di porre condizioni. Nessuno, oltre loro, vuole andare al voto per ovvii motivi. E così sarà, con lo spiacevole effetto collaterale di ridare vita alla corrente renziana del PD e ai cocci del movimento di Grillo, colpevole quanto la Lega della malgestione del Paese. Se Atene piange, insomma, Sparta non ride.

Non mi stupirei se nelle stanze apicali della Lega siano volati gli stracci. Gran parte delle persone confluite nel partito sono le stesse che poco tempo fa avevano giurato amore eterno alla causa di Forza Italia: arrivisti senza scrupoli poco interessati alle grandi battaglie ideologiche pseudo-nazionaliste, ma molto ai vantaggi che derivano dalla gestione del potere. L’Italia agli Italiani è per qualche mente semplice un riferimento ad una identità di cui si sente orfano, ma per chi siede nelle diverse stanze dei bottoni un buon affare.

Salvini deve aver dimenticato quello che è stato l’epilogo dell’avventura fascista: le stesse piazze che dal niente avevano affidato le loro sorti all’Uomo Solo Al Comando, non hanno esitato a rinnegarlo quando gli è parso più opportuno farlo. Perchè il consenso ottenuto facendo leva sulla paura, sull’odio e attraverso mirate elargizioni di denaro pubblico non costruisce cultura: è come un fuoco di paglia, violento ma effimero. Le persone si stancano presto di queste narrazioni, non perché divengono consapevoli della loro vacuità, ma semplicemente perché tutto ciò che viene trattato come merce – anche una proposta politica – segue il suo destino: deperisce in fretta. La veste del prodotto deve essere rinnovata per attirare il pubblico; la pubblicità insegna. E Salvini ha poco da offrire oltre al suo mantra contro gli immigrati.

Resta il fatto che abbiamo bisogno di qualcosa di meglio, se vogliamo sperare in un futuro per il nostro Paese; il problema è che, per farlo, dovremo meritarlo.

Stretto di Hormuz - gli euroimbecilli mandano navi da guerra e non tolgono i dazi all'iran. Gli ebrei invasori delle terre di Palestina la peggior razza la peggiore religione del mondo (i loro maestri gli hanno insegnato di compiere buone azioni in nome di Dio, ma evidentemente l'hanno dimenticato). Il divorzio tra banca centrale e ministero del tesoro l'hanno fatto gli euroimbecilli italiani (Andreatta/Ciampi 1981) ma non i furbi tedeschi. Mondo alla rovescia ma non nella narrazione dei mass media

DALLA GERMANIA ANCORA UNA VOLTA VITTORIOSA

Maurizio Blondet 22 Agosto 2019 

Lo stato ha cercato di vendere 2 miliardi di euro di Bund (buoni del Tesoro) scadenza 2050 (trentennale) al tasso d’interesse di – (meno) 0,11.

Bund germanici, debito pubblico così sicuro che i leggendari mercati se li sarebbero strappati l’un l’altro, anche con rendimento negativo. Invece no: solo 824 milioni di euro sono stati venduti.

È tecnicamente un’asta fallita”, ha dichiarato Jens Peter Sorensen, capo analista di Danske Bank AS. “Non sono preoccupato per questo, poiché gli investitori possono sempre acquistare in futuro e non devono partecipare alle aste”.

Ma la cosa importante per noi italiani è un’altra: che l’invenduto se l’è accollato la Bundesbank. In Germania, il divorzio Tesoro-Banca Centrale non è mai avvenuto.

“La Germania è il primo stato a l mondo che riesce a vendere titoli di stato trentennali con rendimento negativo” , si rallegra la stampa germanica.

Commerzbank annuncia la chiusura di 200 sedi. Forse di 400. Con migliaia di licenziamenti.

Navi tedesche ad Hormuz: ci saranno

Ricapitoliamo i fatti. Gli Usa avevano chiesto agli alleati europei di fornire navi militari per sorvegliare lo stretto di Hormuz; una misura concepita dalla lobby ebraica contro l’Iran, nel quadro delle sanzioni intentate contro Teheran quando Trump ha stracciato unilateralmente l’accordo sul nucleare iraniano. Hanno risposto positivamente solo Regno Unito e Israele; la UE e la Germania no, e con ragione, perché gli europei (con i russi) non hanno ripudiato l’accordo con Teheran.

Poi sono accaduti due danneggiamenti di due petroliere sullo stretto di Hormuz, la Kokuka Couragous (giapponese) e la Front Altair (norvegese): ovviamente gli Usa e Israele gli ebrei e Londra hanno accusato le forze armate iraniane di questi misfatti – cosa palesemente falsa, visto che le due navi stavano portando greggio iraniano, acquistato sottobanco a sfuggire alle sanzioni Usa: non si vede che interesse avesse Teheran a sabotare i suoi affari e i suoi clienti. Allora, per far aumentare la tensione, gli inglesi hanno sequestrato a Gibilterra una petroliera iraniana; Teheran ha risposto sequestrando nello stretto di Hormuz la petroliera britannica Stena.

Quindi il 19 luglio, il Comando centrale degli Stati Uniti ha rilanciato con la chiamata a raccolta generale degli “alleati” a costituire “una coalizione marittima” per controllare da vicino il Golfo Persico: “Ci saranno tante nazioni da tutto il mondo che parteciperanno”; ha detto Mike Pompeo. Ha detto sì ovviamente l’Arabia Saudita di Bin Salman. Il Giappone ha subito detto no.

Il ministro russo degli Esteri, il grande Lavrov, ha avanzato – e fatto approvare dalle Nazioni Unite – un piano che propone la creazione di un nuovo concetto di sicurezza collettiva nel Golfo Persico , corresponsabilizzando alla sicurezza del traffico navale sullo Stretto anzitutto i paesi rivieraschi (Iran compreso) e una conferenza che ristabilisca la fiducia e il dialogo fra questi paesi. “L’unica strada da percorrere è attraverso il multilateralismo, il rispetto reciproco, il dialogo e l’adesione al diritto internazionale (diritto internazionale fottiti). Il conflitto è uno scenario da perdere. La pace è vantaggiosa per tutti”, ha detto Dimitri Polyanski, il vice-ambasciatore russo all’ONU.

Così parlano i costruttori di pace, a cui è promesso che saranno beati. Ma la pace non convenendo all’unico staterello che sappiamo, che si prodiga all’attività contraria: distruttore di pace (gli ebrei invasori della Palestina).

Provocazione dopo provocazione, in modo che diventa “necessario” controllare lo stretto, da cui passano gran parte delle forniture di greggio e le esportazioni tedesche….Sicchè Frau Kasner manderà le navi – insomma si schiera con Trump e Sion. Quel Trump da cui voleva prendere le distanze. Spinta, come sempre, dai suoi industriali.


“Ein Schiff wir kommen?” – Una nave arriverà? Così si intitola un documento uscito mercoledì , firmato dall’esperto di politica internazionale dell’Università delle forze armate federali di Monaco Carlo Masala e de esperti della DGAP (Società Tedesca per la Politica Estera) che sanciscono: “L’uso senza ostacoli delle vie di trasporto, di approvvigionamento e commerciali, nonché la sicurezza dell’approvvigionamento di materie prime ed energetiche sono tra le priorità di una nazione dipendente dall’export come la repubblica federale”. Parole sante: le esportazioni tedesche costituiscono il 50% del PIL – uno squilibrio patologico il cui effetto è rendere il paese estremamente vulnerabile ad un qualunque deterioramento della domanda estera – ed ora il deterioramento è già ben avviato.

Perché (cito: “È bastato uno starnuto di Trump, un singhiozzo in Cina e la prospettiva di perdere gli importanti clienti inglesi, per mandarli in recessione. E sono ancora aiutati da euro debole. Questi sono quelli che ‘i prodotti si vendono da soli grazie alla qualità’.

E mica uno starnuto: nei primi venti giorni di agosto, le esportazioni della Corea del Sud (la grande produttrice di elettronica da inserire in tutto…) è calata del 20% verso la Cina, del meno 13% verso il Giappone, del -8,7 verso gli USA: una recessioen già in corso. E siccome la Cina importa meno, la Germania esporta meno ancora, mettendo inpericolo il suo potere basato sull’export. E’ il bello del capitalismo senza confni, della famosa interdipendenza

Quindi sono cominciati conti: quante navi mandare?


Fregata “Brandenburg” – delle 15, sette fregate germaniche sono fuori uso

Secondo il documento occorrono cinque fregate o incrociatori con elicotteri d’assalto più due corvette e il naviglio d’appoggio e rifornimento, più truppe di marina e da sbarco, se l’intervento ha da essere “di protezione” . Se solo “di osservazione” (constatare le violazioni eventuali e presentarle all’ONU), si può rinunciare alle due corvette e alle truppe.

“Delle 15 fregate che la Marina dovrebbe avere, 7 sono fuori servizio”, ha subito risposto Hans-Peter Bartels, il commissario federale alla difesa (SPD): dopo la “cura” di austerità e risparmi della ex ministra Von del Layen “Mai abbiamo avuto una marina militare più striminzita”.

Sicché, ecco la soluzione: “il cancelliere tedesco Angela Merkel sosterrà una missione navale europea per lo stretto di Hormuz in occasione di un vertice UE a Helsinki alla fine di questo mese”. Contribuiscano gli europei tutti, con le loro rispettive flotte. Secondo i calcoli, la partecipazione alla missione di Hormutz richiederebbe “dal 10 al 30 percento delle risorse marittime europee”.

L’argomento che userà la Kanzlerin per chiedere questo sforzo ai membri UE sarà che “poiché l’Unione europea, a differenza degli Stati Uniti, vuole salvare l’accordo nucleare con l’Iran, Berlino sta sostenendo la propria missione europea. Potrebbe essere formata dalla stessa UE o come una coalizione ad hoc di Stati membri dell’UE con il supporto aggiuntivo di partner come Regno Unito, Norvegia, Canada, Australia o Nuova Zelanda”.

Insomma: affianchiamo Usa e Sion nell’operazione ostile contro Teheran, ma da europei che ritengono che Teheran non ha violato gli accordi sul nucleare.

Questa è la”grande politica estera” che il paese – guida propone ai paesi subalterni. La contraddizione viene rilevata dall’esperto belga di difesa Sven Biscop (Istituto Egmont). 
” Mettiamo che le tensioni con l’Iran peggiorino ” 
[che è proprio quel che Israele attivamente persegue, onde coinvolgere l’Occidente intero contro l’Iran in guerra]
 “Allo stesso tempo, dobbiamo chiederci come riusciremo a dissipare le tensioni diplomatiche ed economiche con l’Iran”. Se vogliamo convincere l’Iran a rispettare l’accordo nucleare, noi europei dobbiamo chiarire in anticipo che non stiamo entrando in uno scontro di sicurezza “.

Biscop ritiene che Teheran dovrebbe ricevere un segnale dall’Europa. “Potresti avvertire: con il nostro intervento nello Stretto, stiamo proteggendo anche le vostre linee commerciali” . Che è insomma la grande idea russa: sicurezza per tutti, partecipazione anche dell’Iran, 
fine delle sanzioni…ah, quello no.

venerdì 23 agosto 2019

Amazzonia brucia - gli incendi con Bolsonaro si sono moltiplicati geometricamente, insieme alla deforestazione

Incendi record in Amazzonia: perché è un dramma per l’intero Pianeta

L’Amazzonia è attraversata da roghi devastanti ed esposta a un drammatico processo di disboscamento, fenomeni che si stanno traducendo in dati senza precedenti. In molti puntano il dito contro le politiche antiambientaliste del nuovo presidente Jair Bolsonaro, che avrebbero favorito attività di distruzione legali e illegali del “polmone verde” della Terra. Ecco perché l’Amazzonia in fiamme è un dramma per l’intero pianeta.

AMBIENTE 22 AGOSTO 2019 16:11 di Andrea Centini

Brasile, Amazzonia in fiamme: il fuoco la sta divorando

Dall'inizio del 2019 in Amazzonia sono stati contati oltre 73mila incendi, un numero enorme, quasi doppio rispetto a quello rilevato dall'INPE (Istituto Nazionale per la Ricerca Spaziale) nel 2018. Si tratta di un fenomeno intimamente connesso al disboscamento, anch'esso caratterizzato da una crescita esponenziale – a luglio sono andati perduti 2.250 chilometri quadrati di foresta – e legato a doppio filo con le attività antropiche. Sono infatti gli agricoltori e gli allevatori ad appiccare le fiamme nel cuore della Foresta Amazzonica, per avere a disposizione più terreno per coltivazioni e bestiame. L'Amazzonia brucia ininterrottamente da oltre 16 giorni e più di 6mila roghi sono stati documentati soltanto nell'ultima settimana, come denunciato anche dall'attore Leonardo DiCaprio, fervido attivista ambientalista. In molti hanno puntato il dito contro le politiche antiambientaliste del nuovo presidente Bolsonaro, che ha depenalizzato sensibilmente i reati contro il patrimonio naturale. Per accendere i riflettori internazionali sugli inarrestabili roghi – e sul lassismo del governo – moltissimi brasiliani hanno aderito al movimento #prayforAmazonia. Ma la Foresta Amazzonica in fiamme è un dramma per l'intero Pianeta, non solo per il Brasile. Scopriamo perché.


Il polmone verde della Terra. Per definire l'Amazzonia, una gigantesca foresta pluviale nel cuore del Sud America, spesso si fa riferimento al “polmone verde della Terra”. Il motivo risiede nel fatto che foreste immense come l'Amazzonia, che si estende per ben 7,7 milioni di chilometri quadrati, non solo assorbono enormi quantità di anidride carbonica (CO2), ma immettono nell'atmosfera l'ossigeno di cui abbiamo bisogno per respirare e vivere. Si stima che il 20 percento dell'ossigeno presente sulla Terra derivi proprio dalla Foresta Amazzonica. Tutto avviene grazie alla fotosintesi clorofilliana, il processo attraverso il quale le piante producono il proprio sostentamento (sostanze organiche) in presenza di luce solare. In parole semplici, le piante sfruttano il carbonio dell'anidride carbonica presente nell'aria per produrre energia e reimmettono ossigeno nell'atmosfera come sottoprodotto della reazione. Si tratta di un contributo preziosissimo, poiché la CO2 – prodotta dalle attività antropiche ma anche dalla respirazione degli animali – rappresenta il principale dei gas serra, alla base del riscaldamento globale catalizzato dai cambiamenti climatici. In pratica, più foreste vuol dire meno anidride carbonica in circolazione, temperature più basse e più ossigeno in tutto il pianeta. Ma i devastanti incendi in atto in Amazzonia – così come quelli in Siberia – stanno producendo molteplici effetti negativi: oltre a ridurre l'estensione della foresta, infatti, immettono grandi quantità di CO2 nell'atmosfera, inoltre avviano un processo di erosione del terreno, che col tempo diventa inutilizzabile per chi ha appiccato i roghi. È un circolo vizioso che può essere arrestato solo attraverso virtuose politiche incentrate sulla sostenibilità ambientale, diametralmente opposte al nuovo corso a favore dei proprietari terrieri, delle industrie agroalimentari e minerarie tracciato da Bolsonaro.

Dramma senza fine. Sulla Terra esistono fondamentalmente tre polmoni verdi: il principale è proprio l'Amazzonia, seguito dalla Foresta Boreale o Taiga – che si estende per oltre 10 milioni di chilometri – e dalla Grande Foresta Pluviale del Congo. Nonostante la loro importanza, la FAO (Organizzazione delle Nazioni Unite per l'alimentazione e l'agricoltura) ha stimato che dall'inizio del XX secolo sia andato perduto il 50 percento delle foreste pluviali della Terra, distrutto dall'insaziabile avidità e dalla sete di potere e denaro che muovono l'essere umano. A partire dagli anni '40 del secolo scorso è andato perduto un quinto della sola Foresta Amazzonica, soprattutto a causa dell'estrazione commerciale del legno, ma anche per far posto ad allevamenti, coltivazioni e miniere. La distruzione sistematica di questo immenso patrimonio naturale è continuato da allora quasi ininterrottamente a ritmi vertiginosi, ma grazie ai programmi di conservazione (sostenuti anche dalla comunità internazionale) negli ultimi decenni si è riusciti a contenere in parte l'avanzata distruttiva. Le politiche del nuovo governo brasiliano stanno tuttavia rimettendo tutto in discussione. Va infine ricordato che nel cuore della Foresta Amazzonica alberga la più ricca e florida biodiversità del pianeta, che abbraccia un numero enorme di specie vegetali e animali (moltissime delle quali ancora da scoprire), senza dimenticare le fragili comunità indigene, le prime a soffrire per le continue ingerenze dell'uomo "potente".

Bolsonaro il liberismo al governo, l'Amazzonia brucia

L’Amazzonia brucia e non per caso ma Bolsonaro fa solo battute

Brasile. Record di incendi (+83%) nella foresta pluviale, indiziati i fazendeiros da sempre interessati ad estendere il territorio coltivabile liberato dalla foreste. Il presidente Bolsonaro non manda l’esercito e ironizza: «Ora sono Nerone».

Immagine area dei roghi che stanno bruciando la foresta amazzonica.
Di Remocontro22 Agosto 2019


Amazzonia dopo Siberia e Alaska

La più grande foresta pluviale del mondo, polmone del pianeta avvelenato dall’anidride carbonica dell’incoscienza umana. Il Brasile dell’ultra destra al potere che nega, come da ispiratore a nord, un riscaldamento artificiale del pianeta, oltre all’incontrollata deforestazione consentita, ora lascia la strada agli incendi, «mai così tanti e distruttivi», denuncia Claudia Fanti. E il governo lascia bruciare senza alcuni interventi aereo per cercare di limitare lo scempio.

Dati sconvolgenti. Secondo l’Istituto nazionale di ricerche spaziali, di cui Bolsonaro ha appena licenziato il direttore nel tentativo di nascondere agli occhi del mondo lo scempio ecologico forestale in corso, dall’inizio di gennaio al 19 agosto sarebbero 73.843 i roghi registrati, con un aumento addirittura dell’83% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Un altro triste record segnato dal governo in carica.


Fuoco non solo per il gran caldo

Il fuoco divora parti di foresta in diverse regioni del Paese: Stati di Acre, Rondônia, Mato Grosso e Mato Grosso do Sul in Brasile, ma anche in Bolivia, in Paraguay e in Perù. «E avanza sulle terre indigene e sulle aree protette, in Amazzonia soprattutto, ma anche nel Cerrado e nella già devastata Mata Atlântica, distruggendo, tra molto altro, già più di 32 mila ettari del Parco nazionale di Ilha Grande in Paraná, e avanzando per 30 chilometri all’interno di un altro parco nazionale, quello di Chapada dos Guimarães, in Mato Grosso», precisa Claudia Fanti.

«Il fumo è così denso che può essere visto persino dallo spazio, come hanno indicato le foto scattate dalla Nasa. Talmente denso da oscurare in pieno giorno il cielo di São Paulo e di una parte del Mato Grosso do Sul e del nord del Paraná». Paura tra gli abitanti, con l’ineffabile il ministro all’Ambiente Ricardo Salles che prova e negare l’evidenza, e accusa di fake fews da ridicolo contaballe.
Nerone era almeno poeta

Bolsonaro nano. Mentre il fuoco divora gli ecosistemi del Brasile si limita all’auto ironia per negare i misfatti. Dal soprannome di «capitan motosega» a quello di Nerone. Modestino che si crede imperatore. «Ora vengo accusato di appiccare il fuoco all’Amazzonia. Nerone che brucia la foresta amazzonica!». Neanche a parlarne, poi, di inviare l’esercito nella regione per contrastare gli incendi: «Qualcuno conosce le dimensioni dell’Amazzonia?». Nulla di cui preoccuparsi, riporta il Manifesto: «Là questa è l’epoca dei roghi».

Ma come evidenzia l’Inpe, non c’è nulla di naturale in un aumento così vertiginoso degli incendi. «Se il caldo e la siccità ne favoriscono la diffusione, i roghi sono dovuti all’intervento umano casuale o molto più spesso deliberato, allo scopo di fare spazio all’allevamento del bestiame, alle piantagioni e ad altre attività produttive».


Fazendeiros e festa del fuoco

Sempre Claudia Fanti ci racconta che nel sudovest del Pará, i fazendeiros sono arrivati a celebrare una «giornata del fuoco», provocando roghi simultanei ai margini dell’autostrada a sostenere che «l’unico modo che esiste per lavorare è deforestando». Incendi spesso dolosi, causati dagli allevatori che vogliono avere più terra per i pascoli. Ma da quando Bolsonaro è stato eletto, lo scorso gennaio, la deforestazione in Amazzonia ha assunto ritmi impressionanti, sottolinea il Corriere della Sera

A luglio era cresciuta del 278% rispetto all’anno precedente per un totale di mille chilometri quadrati tanto che la Germania prima e la Norvegia poi hanno deciso di congelare i finanziamenti al Fondo Amazzonia (rispettivamente 31 e 27 milioni di euro) con cui i due Paesi hanno sostenuto negli ultimi 10 anni progetti mirati a promuovere la conservazione e l’uso sostenibile della più grande foresta pluviale del mondo.
AVEVAMO DETTO


Bolsonaro uccidi Amazzonia salva il pianeta con ‘cacca a giorni alterni’
Le donne indigene sfilano a Brasilia in difesa dell’Amazzonia e contro la politica dell’ecocidio e genocidio. Intanto l’Istituto spaziale nazionale certifica: deforestazione amazzonica 278% rispetto al luglio dell’anno scorso. Bolsonaro distruggi Amazzonia, per salvare il pianeta, meno cibo e cacca solo a giorni alterni.
Remocontro