L'albero della storia è sempre verde

L'albero della storia è sempre verde

"Teniamo ben ferma la comprensione del fatto che, di regola, le classi dominanti vincono sempre perché sempre in possesso della comprensione della totalità concettuale della riproduzione sociale, e le classi dominate perdono sempre per la loro stupidità strategica, dovuta all’impossibilità materiale di accedere a questa comprensione intellettuale. Nella storia universale comparata non vi sono assolutamente eccezioni. La prima e l’unica eccezione è il 1917 russo. Per questo, sul piano storico-mondiale, Lenin è molto più grande di Marx. Marx è soltanto il coronamento del grande pensiero idealistico ed umanistico tedesco, ed il fondatore del metodo della comprensione della storia attraverso i modi di produzione. Ma Lenin è molto di più. Lenin è il primo esempio storico in assoluto in cui le classi dominate, sia pure purtroppo soltanto per pochi decenni, hanno potuto vincere contro le classi dominanti. Bisogna dunque studiare con attenzione sia le ragioni della vittoria che le ragioni della sconfitta. Ma esse stanno in un solo complesso di problemi, la natura del partito comunista ed il suo rovesciamento posteriore classistico, individualistico e soprattutto anti- comunitario" Costanzo Preve da "Il modo di produzione comunitario. Il problema del comunismo rimesso sui piedi"

sabato 31 agosto 2019

La politica cinese entra nelle contraddizioni dell'occidente e ne fa punti di forza per il suo tornaconto

Myanmar della poco Nobel SuuKyi e poveri Rohingya che piace alla Cina

La politica espansionistica cinese guarda all’ex Birmania tra India, Sud-Est asiatico e la stessa Cina. Il buddismo nazionalista e aggressivo, Aung San Suu Kyi deludente Premio Nobel per la pace e il massacro della popolazione musulmana Rohingya. L’Occidente punisce con meno soldi e investimenti, la Cina (2000 chilometri dei confine condiviso), soccorre (e compra).
Myanmar nella Nuova Via della Seta, rotta commerciale sino-birmana in alternativa allo Stretto di Malacca per le importazioni petrolifere.

Di Michele Marsonet31 Agosto 2019


Espansionismo cinese in Asia

La politica espansionistica praticata in Asia dalla Repubblica Popolare cinese ha ora un altro obiettivo importante. Si tratta del Myanmar, l’antica Birmania (“Burma” in inglese), che da sempre è un Paese chiave grazie alla posizione strategica che occupa tra India, Sud-Est asiatico e la stessa Cina.

Era una delle perle dell’impero britannico. Gli inglesi, com’è noto, sceglievano con cura le nazioni da assoggettare in base a considerazioni economiche e geopolitiche, e la Birmania era preziosa da entrambi i punti di vista. Non solo per la già menzionata posizione geografica, ma anche grazie alle ingenti risorse naturali.


Nazionalismo buddhista e Rohingya

Dopo la dittatura militare che ha oppresso il Paese per decenni, nel 2015 la vittoria del partito di Aung San Suu Kyi (Premio Nobel per la pace) fece nascere molte speranze di apertura all’Occidente e di democratizzazione completa. Tuttavia da un lato l’esercito ha continuato a mantenere un grande peso, e dall’altro la Premio Nobel si è attirata molte critiche per una certa mancanza di trasparenza.

La Birmania è una nazione a schiacciante maggioranza buddhista, dove si pratica la dottrina theravada. Esistono però minoranze cristiane e islamiche che subiscono pesanti persecuzioni. Ciò vale in particolare per i Rohingya, popolazione musulmana che il governo centrale intende privare della cittadinanza favorendone l’emigrazione nel Bangladesh.

La poco Nobel Aung San Suu Kyi

In questo caso Aung San Suu Kyi non si è opposta con forza alle politiche di discriminazione preferendo adottare una linea identitaria che vede per l’appunto il buddhismo come legame unificante del Paese. Di qui una certa delusione nei suoi confronti e un progressivo ritiro degli investimenti occidentali che erano affluiti dopo la parziale sconfitta del regime militare.

Per capirci, gli investimenti hanno subito una contrazione di quattro miliardi di dollari negli ultimi anni. La crisi coinvolge anche il turismo, che pur dovrebbe essere il cuore dell’economia locale considerati i tesori artistici e architettonici che il Myanmar custodisce. Invece c’è stagnazione e i turisti continuano a preferire la vicina Thailandia, certo più sfruttata e commerciale ma relativamente più tranquilla.

Quei 2000 chilometri di confine

Ciò che più interessa notare in questa sede è il grande dinamismo della Repubblica Popolare cinese, che con la Birmania condivide un confine che supera i 2000 kilometri. I cinesi, come sempre pragmatici e pure un po’ cinici, hanno sempre intrattenuto fruttuosi rapporti con i generali birmani anche nei periodi peggiori della dittatura militare. In seguito furono spiazzati dagli investitori occidentale dopo la parziale liberalizzazione del 2015.

Ma quando l’Occidente ha iniziato a premere l’acceleratore sul tema dei diritti umani, suscitando l’ira del governo birmano, Pechino ha subito riconquistato le posizioni perdute poiché, come tutti sanno, alla Cina i diritti umani non interessano considerandolo soltanto uno strumento della propaganda occidentale.

Nuova via della Seta sino-birmana

La Birmania è dunque tornata a essere per la RPC un Paese chiave, anche in virtù della sua vicinanza alla “nemica” India. Di qui l’inclusione del Myanmar nel grande progetto della Nuova Via della Seta e, fatto ancora più importante, la volontà di sviluppare una rotta commerciale sino-birmana in alternativa a quella – più pericolosa – che passa per lo Stretto di Malacca. Si noti che il discorso vale soprattutto per le importazioni petrolifere.

Ancora una volta, dunque, si osserva la grande spregiudicatezza della politica estera cinese, che del resto è un proseguimento di quella della Cina imperiale e pre-comunista. Si tratta di fattori da considerare con serietà nel momento in cui sta aumentando la penetrazione economica e commerciale della RPC anche in Italia e in Europa.


Il corrotto euroimbecille Pd, il falso ideologico M5S si sono messi d'accordo faranno la legge elettorale proporzionale pura e taglieranno le unghie al fanfulla, il voto ci sarà subito dopo

Addio al Rosatellum? Noterelle storiche sulle riforme dei sistemi elettorali

31 agosto 2019


Il Bloc Notes di Michele Magno

Ha scritto Gianfranco Pasquino che “dopo trentacinque anni di dibattiti e almeno cinque riforme dei sistemi elettorali italiani, c’è ancora molto bisogno di spiegare, soprattutto in Italia, che cosa è un sistema elettorale, quante varietà ne esistono, come sono venute in essere, quali obiettivi perseguono e con quali criteri debbono essere valutati e, eventualmente, modificati” (“Tradurre i voti in seggi”, “Lectio brevis” all’Accademia dei Lincei, 11 marzo 2016). Queste notazioni dell’eminente politologo sono più attuali che mai. È probabile, infatti, che Pd e M5s -anche al fine di tagliare le unghie alla Lega di Salvini- raggiungano un’intesa per eliminare la quota maggioritaria del Rosatellum, legando il taglio dei parlamentari all’introduzione di un sistema di scrutinio integralmente proporzionalistico.

In verità, dal Porcellum in poi l’idea di neutralizzare l’avversario politico modificando le regole elettorali non sembra che abbia portato molta fortuna ai suoi sostenitori. In ogni caso, secondo una pubblicistica a dir poco partigiana gli italiani avrebbero la rappresentanza proporzionale nel loro codice genetico. Niente di più falso. Al contrario, nel Dna dei nostri avi paterni (quelli materni non godevano del diritto di voto) è impresso il sistema maggioritario a doppio turno in collegi uninominali, che ha caratterizzato le elezioni tenutesi dal 1861 al 1911. Beninteso, in virtù del suffragio ristretto ai ceti abbienti, la vittoria di un candidato invece di un altro non era allora motivo di scontri memorabili. La scena mutò drasticamente quando la società divenne di massa, e i fattori organizzativi e ideologici presero il sopravvento su quei fattori personali (lignaggio, censo, istruzione) che garantivano l’elezione dei notabili più in vista o politicamente più dotati.

Come ha osservato Pasquino, troppo spesso vengono sottaciute le vere ragioni della svolta proporzionalista in Italia. All’inizio del Novecento Giovanni Giolitti la accettò temendo l’avanzata dei socialisti e dei popolari, che poteva tagliare l’erba sotto i piedi dei candidati liberali nei collegi uninominali. L’introduzione della proporzionale, prima annunciata insieme a un allargamento del suffragio, poi applicata per la prima volta nelle elezioni del 1919, aveva dunque un evidente e spiccato intento difensivo.

Verso la fine dell’Ottocento, anche in Gran Bretagna l’ascesa dei laburisti stava insidiando il potere dei conservatori e dei liberali, che fino a quel momento se lo erano spartito alternandosi al governo del paese. Dopo qualche titubanza, i conservatori respinsero però qualsiasi riforma del sistema “plurality” (uninominale a un turno), altrimenti chiamato, con una di quelle espressioni tratte dalla vita quotidiana molto diffuse nel mondo anglosassone, “first past the post”: il primo cavallo che supera il palo del traguardo ha vinto. Nei collegi, che sono appunto uninominali, vince il seggio chi ottiene la maggioranza relativa dei voti. Dopodiché cercherà di rappresentare non solo i suoi elettori, ma tutto il collegio per conquistare nuovi consensi.

Ciononostante, precipitata la crisi dei liberali tra il 1910 e il 1928, nei decenni successivi la riforma elettorale fu reiteratamente agitata contro il maggioritario a turno unico, che premiava con maggioranze assolute di seggi i conservatori e laburisti, assai di rado capaci di sfiorare il 40 per cento dei voti. Soltanto nel 2011 venne indetto un referendum per il passaggio ad un sistema denominato “voto alternativo”, peraltro anch’esso di impianto maggioritario. Fu bocciato sonoramente dai sudditi della regina Elisabetta.

Suddito della regina Vittoria era invece uno degli apostoli più agguerriti della rappresentanza proporzionale, John Stuart Mill: “Uomo per uomo, la minoranza deve essere rappresentata per intero così come accade per la maggioranza. Se questo manca il governo non postula l’eguaglianza, ma il privilegio e l’ineguaglianza”. Quando il filosofo di Pentonville diede alle stampe il suo libro più celebre, “Considerazioni sul Governo Rappresentativo” (1861), il proporzionalismo era ancora alle sue battute iniziali e aveva conosciuto una compiuta teoria solo da pochi anni, per merito dell’avvocato inglese Thomas Hare, che aveva pubblicato nel 1859 la prima edizione del “Treatise on the Election of Representatives, Parliamentary and Municipal”.

Mill e di Hare avevano una chiara percezione dei problemi posti dalla rivoluzione industriale e dalla conseguente urbanizzazzione. Due fenomeni che avevano provocato un vero e proprio terremoto demografico, ormai in stridente contrasto con l’ordinamento della Camera dei Comuni, dove continuavano ad avere il diritto di eleggere deputati i “rotten boroughs” (borghi putridi), piccoli centri rurali controllati dall’aristocrazia fondiaria, a discapito di grandi città come Birmingham e Manchester, prive di rappresentanza (il più famoso dei borghi putridi, Old Sarum, con sei elettori eleggeva due parlamentari). Centri rurali di dimensioni più vaste erano invece i “pocket boroughs” (borghi tascabili), così chiamati perché letteralmente “nelle tasche” dei latifondisti che, grazie anche al voto palese, non incontravano difficoltà nel far eleggere i propri protetti.

Il primo progetto di riforma del sistema elettorale britannico fu presentato da whigs e radicali nel marzo 1831, sotto la spinta del movimento cartista e del Luglio francese. Esso divenne legge (Act) nel 1832. Abolì i borghi putridi, stabilì requisiti di voto uniformi per i “boroughs” e garantì una rappresentanza alle città più popolose. Nella seconda metà del secolo, tre Acts (nel 1867, 1872 e 1884) introdussero il voto segreto e abbassarono i requisiti patrimoniali del suffragio, allargandolo alla borghesia cittadina e ai primi nuclei di proletariato urbano.

Il “Redistribution of Seats Act”(1885), infine, ridisegnò i confini delle contee (rimasti immutati dal 1660), sottraendo alla Corona la facoltà di fissare discrezionalmente il numero dei parlamentari, e generalizzò l’istituto del collegio uninominale. Veniva così sancito quel principio maggioritario nel mirino dei fautori del metodo proporzionale, i quali predicavano la necessità -che divenne la bandiera della loro battaglia- di distinguere tra voto deliberativo del Parlamento (che ovviamente richiedeva una maggioranza) e voto elettivo (che richiedeva invece una sua composizione proporzionale).

Come ha sottolineato Daniele Maglie in un saggio di straordinaria erudizione, uno dei dogmi della Rivoluzione francese era stato proprio la proporzionale (“Le origini del movimento proporzionalista in Italia e in Europa”, Dipartimento di Scienze politiche dell’Università degli studi Roma Tre, luglio 2014, disponibile in pdf). Due suoi protagonisti, l’abate Sieyés e il conte di Mirabeau, ne erano stati gli alfieri più vigorosi. La Costituzione del 1791 inaugurò tuttavia un complicato meccanismo, in base al quale le assemblee primarie dei cittadini nominavano gli elettori, i quali a loro volta avrebbero scelto a maggioranza assoluta i 745 membri dell’organismo legislativo. Non un sistema proporzionale, insomma, ma “majority” (a doppio turno) a tutto tondo.

La Costituzione giacobina conservò questo impianto maggioritario, sia pure corretto con l’elezione diretta e il suffragio universale maschile. Del resto il suo nume tutelare, Jean-Jacques Rousseau, partendo da John Locke riteneva che “il n’y a qu’une seule loi qui par sa nature exige un consentement unanime. C’est le pacte social […]”. Inoltre, “la voix du plus grand nombre oblige toujours tous les autres; c’est une suite du contract même…” (“Du contract social”, 1762). Per altro verso, il filosofo ginevrino cerca di superare la contraddizione che avverte in tali proposizioni spiegando perché, nel subire scelte cui non ha partecipato, il cittadino non è meno libero. E la supera sulla base del celebre sofisma che identifica volontà generale e volontà di ciascuno, in virtù del quale anche la minoranza in realtà “vuole” la volontà generale e, quindi, acconsente a ciò che decide la maggioranza (se vota in modo diverso vuol dire che s’inganna).

In tal modo, la divisione fra maggioranza e minoranza diventa apparente. Nella concezione rousseauiana è del tutto assente, pertanto, ogni preoccupazione per i diritti delle minoranze. E anche se lo stesso Rousseau propone un temperamento ragionevole della regola maggioritaria, resta il fatto che le basi concettuali della sua teoria saranno utilizzate per giustificare prima il rigore giacobino poi il radicalismo democratico.

Ma sarà proprio un concittadino di Rousseau, Ernest Naville (1816-1909), a diventare il padre nobile della dottrina proporzionalista nell’Europa ottocentesca. Nato a Chancy da una famiglia borghese di tradizioni conservatrici, si laureò in teologia a Ginevra dove fu consacrato pastore. Spiritualista convinto in un’epoca dominata dal positivismo, profondamente scosso dai conflitti religiosi tra cattolici e protestanti e dalla guerra civile seguita allo scioglimento nel 1847 del Sonderbund (la lega separatista dei sette Cantoni cattolici), cominciò ad analizzare con scrupolo da scienziato sociale -“observer, supposer, vérifier”, era il suo motto- l’architettura istituzionale della patria di Giovanni Calvino e le tensioni a cui era sottoposta a causa di una legge elettorale maggioritaria che estrometteva le minoranze dal Gran Consiglio. “L’institution qui coupe forcément un peuple en deux -scriveva nel 1865- est mauvais partout [….]. Elle peut être tolérable ailleurs: à Gèneve est mortelle [….]. Le système électoral a donc une importance suprême” (“La Patrie et le Partis”).

Vista la sordità delle autorità cantonali a ogni richiesta di riforma del sistema elettorale, Naville fondò “La Réformiste”, un’associazione destinata a diventare un modello per tutti i proporzionalisti del Vecchio continente. Ad essa si ispirò un’analoga associazione creata in Italia nel 1872, del cui comitato promotore facevano parte -tra gli altri- Terenzio Mamiani, Marco Minghetti, Attilio Brunialti, Luigi Luzzatti. Naville dovrà però attendere ventisette anni per vedere premiata la sua instancabile iniziativa riformatrice. Il 6 luglio 1892, infatti, il Gran Cosiglio abrogò lo scrutinio maggioritario sostituendolo con quello proporzionale. Un mese dopo, i ginevrini furono chiamati a pronunciarsi sull’innovazione costituzionale.

La sua approvazione non fu un plebiscito, ma uno spartiacque nella storia elettorale europea.

L'IVA è una tassa distorsiva per uccidere i ceti medio bassi - l'aumento si ripercuoterà sulle classi più povere

MANOVRA/ Il dilemma dell’Iva che può risolversi (bene) con un aumento

31.08.2019 - Gian Luca Barbero

Si avvicina il momento di mettere a punto la Legge di bilancio, dove bisognerà affrontare il nodo delle clausole di salvaguardia sull’Iva

Immagine di repertorio - Pixabay

“L’outlook per l’Italia rimane particolarmente incerto con un’economia che continua a stentare. Per quanto la maggior parte dei paesi dell’Eurozona abbia registrato un qualche rallentamento dalla metà del 2018 in avanti, quello dell’Italia è stato il più accentuato. Per questo ci aspettiamo che l’economia dell’Italia cresca di un modesto 0,2% quest’anno per poi guadagnare un po’ di velocità nel 2020 allo 0,5%. I dati del secondo trimestre confermano che l’economia è in fase di stagnazione e che gli investimenti sono in stallo. La pressoché continua instabilità politica e i disaccordi con la Ue hanno dato adito a un’incertezza persistente e a condizioni finanziarie meno favorevoli“, così le previsioni di Moody’s sulle stime di crescita del nostro Paese.

Il settore delle costruzioni è certamente uno di quelli più in difficoltà a livello internazionale. Da una recente indagine (“Top 250 International Contractors“) risulta che i migliori 250 gruppi internazionali hanno avuto nel 2018 un volume di affari di oltre 480 miliardi di dollari. Nella classifica, il Gruppo Salini Impregilo, primo fra quelli italiani, figura al 50° posto nel complesso, soprattutto per l’espansione mondiale che garantisce il 90% del fatturato, mentre i competitor europei generano almeno il 50% dei ricavi su territorio nazionale; ciò nonostante Salini Impregilo ha programmi di investimenti per 40 miliardi di dollari in Italia, al momento bloccati.

Sono tutti segnali – se ne possono trovare una miriade di altri – di un Paese nelle retrovie, solo parzialmente ascrivibili all’attuale stallo dell’economia europea, dovuta soprattutto alle tensioni Usa-Cina, i due colossi che si contendono di fatto il primato nell’economia mondiale.

In questo contesto si concretizza sempre di più il rischio di un drastico aumento dell’Iva a partire dal 2020 (dal 22% al 25,2% per l’aliquota ordinaria e dal 10% al 13% per quella agevolata), previsto da clausole di salvaguardia che si trascinano dal 2014: sempre rifinanziate e differite di anno in anno in occasione delle varie leggi di bilancio, assorbono la maggior parte delle risorse disponibili (circa 23 miliardi di euro per il prossimo anno); è uno dei motivi per cui, ad esempio, l’Italia cerca puntualmente di ottenere maggiore flessibilità sul deficit annuo, alzando le barricate contro l’Europa dei burocrati e facendoci assistere al solito teatrino di una politica nazionale agguerrita contro un’Europa che non vuole sentire ragioni da parte di un Paese già fortemente indebitato come il nostro.

Sull’aumento dell’Iva – assodato ovviamente che sarebbe meglio evitarlo – le opinioni degli esperti sono discordanti: alcuni sostengono che si tratta di una misura fortemente regressiva, assolutamente da evitare con un’economia già in recessione. Inoltre, trattandosi dell’imposta più evasa, porterebbe a un ulteriore incremento dell’evasione fiscale a fronte dell’aumento generalizzato dei prezzi. Da ultimo – ma è forse l’aspetto più importante – si tradurrebbe in un’implicita “tassa sulla povertà”, facendo collassare il reddito disponibile delle classi più povere (circa 5 milioni nel nostro Paese) e comprimendo ancora di più quello delle classi medie che, per quanto conducano una vita ancora dignitosa anche grazie ai “sussidi” privati delle pensioni di genitori e nonni (chi può), vedono le proprie entrate sempre più erose e, di conseguenza, la capacità di risparmio pressoché azzerata.

Altri ritengono che l’aumento dell’Iva non sia così tragico, soprattutto se accompagnato da misure di riduzione almeno del prelievo fiscale sui redditi di lavoro dipendente, non riuscendo a intervenire anche sugli oneri contributivi per ragioni legate alla sostenibilità del sistema pensionistico. Anche questa possibilità è da valutare attentamente, perché, migliorare le condizioni del ceto medio, che si sta impoverendo sempre di più, contribuirebbe positivamente a riattivare un ascensore sociale, fermo ormai da anni, che costituisce un problema non inferiore a chi vive in condizioni di povertà, assoluta o relativa.

Chi ha ragione? Come procedere? Non saprei, ma mi sembra più saggio “rassegnarsi ad un aumento selettivo dell’Iva“, come recentemente proposto dall’ex Presidente dell’Inps, Tito Boeri, (in un articolo comparso su “la Repubblica“), rimodulando le aliquote del 10% e del 22% e intervenendo sui beni soggetti ad aliquota del 4%, recuperando così risorse da un’operazione di armonizzazione. L’economista cita anche il caso della Germania che, a inizio 2000, stimolò la crescita con un aumento ponderato dell’Iva e una riduzione della pressione fiscale sul lavoro e conclude sottolineando che “solo amministrazioni in grado di resistere alle pressioni di breve periodo della politica possono farci vincere la battaglia contro l’eccesso di evasione fiscale che contraddistingue il nostro Paese“. Non so se sia la ricetta giusta. Anche se direi piuttosto che il problema è proprio una politica di troppo breve respiro.

Il fanfulla ha venduto la pelle dell'orso prima di ucciderlo e tutti si sono messi d'accordo per isolarlo

Edward Luttwak, i retroscena: “questo sarà un Governo di Mattarella, voluto e sostenuto dall’establishment europeo”

Edward Luttwak, le considerazioni del noto politologo americano sul governo

30 Agosto 2019 11:23 | Ilaria Calabrò

L’endorsement di Trump a “Giuseppi” Conte non è stato casuale. E’ il frutto di uno scambio diplomatico fra lo stesso Trump e il presidente francese Emmanuel Macron. E a Roma potrebbe avere favorito la formazione di quello che Edward Luttwak, in una intervista a “Quotidiano Nazionale” chiama il governo di Mattarella. Edward Luttwak è uno dei massimi politologi americani ed è un profondo conoscitore della politica europea e italiana in particolare. Uno scambio? E di che tipo? “Al vertice G7 di Parigi, la settimana scorsa, Macron si è comportato come un alleato a dispetto dei critici di Trump. La stampa ha cercato di avvalorare la tesi dell’isolamento di Trump”. Falso? “Certamente. Trump non era affatto isolato”. Ma la visita del ministro degli Esteri iraniano Zarif non è stata una sorpresa? “Apparentemente no. Macron ha sostenuto che era stato tutto concordato. E gli americani non lo hanno contraddetto. Non a caso Trump ha rilanciato l’ipotesi del dialogo con il regime degli ayatollah. Ma Macron aveva anche un altro obiettivo: fare un favore ai tedeschi, da sempre contrari alle sanzioni all’Iran per motivi commerciali”. E perchè tanto riguardo per i tedeschi? “Per il semplice motivo che i tedeschi sono quelli che hanno i soldi e non vogliono spenderli, creando un vuoto economico che rallenta l’intera Europa”.

D’accordo, ma che c’entra Conte? “C’entra eccome. Macron in opposizione a Salvini ha chiesto a Trump una dichiarazione che riportasse a Roma un governo gradito all’establishment europeo. Questo il background della frase: spero che Conte rimanga capo del governo”. Ma non è inspiegabile che l’imperatore dei sovranisti abbia dato il colpo di grazia al principe dei sovranisti europei? “E’ spiegabile invece. Spiegabilissimo. E la colpa è ancora di Salvini. Lo vidi quando venne a Washington a metà giugno dopo i suoi incontri positivi soprattutto con il segretario di Stato Pompeo. Avrebbe dovuto aprire un suo canale privilegiato con l’amministrazione americana, in altri termini scegliersi un rappresentante in loco”. C’è già un ambasciatore. “Si’, ma è un ambasciatore che deve riferire alla Farnesina, non a un ministro in particolare. Invece l’ipotetico canale di Salvini avrebbe dovuto operare al di fuori delle relazioni diplomatiche”. Salvini non l’ha fatto… “E’ nel suo stile. Non credo che accetti consigli. Ha aperto la crisi pensando di arrivare alle elezioni. Ha dimenticato che il sistema italiano predilige governi non eletti perchè nessun parlamentare vuole tornare a casa”.

E’ quello che gli avversari di Salvini, interni ed esterni, aspettavano. “Sì. Macron in primo luogo. I successi di Salvini rappresentavano altro ossigeno per il sovranismo europeo. Per Marine Le Pen ad esempio, appena rilanciata dalle elezioni europee”. “Ora – aggiunge – si torna all’antico, ma con una situazione economica pesantissima. Crescita già a zero. Debito in aumento. Disoccupazione destinata a risalire. Poi a peggiorare le cose ci sono forti sintomi di recessione in Germania. Se la Germania non va, non va nemmeno l’Italia”. Con quali conseguenze? “L’economia italiana, più delle altre in Europa, tolto il Regno Unito, è tedesco dipendente”. Dunque altri guai. Eppure dai mercati vengono segnali di fiducia. Per esempio lo spread è calato. “Lo spread è calato perchè è appunto una misura di differenza. Con i tassi tedeschi sotto zero, il tasso italiano scende perchè molti preferiscono il rischio Italia alla certezza di tassi negativi”. Lo spread ha anche una valenza politica. “Ovviamente. Risente degli orientamenti di Bruxelles. E a Bruxelles ora tirano un sospiro di sollievo”, ha concluso Luttwak.

Storcere la storia

"Invitare Trump ma non Putin. L'anniversario della Seconda Guerra Mondiale senza Russia significa solo riscrivere la storia"


"Il fatto che gli Stati Uniti e gli ex leader dell'Asse partecipino all'80° anniversario della Seconda Guerra Mondiale, senza invitare la Russia, mostra che l'evento in Polonia non ha nulla a che fare con il rispetto della storia e tutto ciò che riguarda la politica odierna", secondo Nebojsa Malic è giornalista e commentatrice politica.

Segue l'

'This man is your friend – he fights for freedom' – US WWII propaganda poster printed in 1942 to encourage support for wartime allies pic.twitter.com/nREPWh1xW8— Lily Lynch (@lilyslynch) 4 luglio 2019 La fine della guerra fredda è avvenuta, con la NATO che ha tentato di marciare verso est. Giustificare quella mossa richiedeva una sorta di continuità retroattiva, riformulando la Seconda Guerra Mondiale come una lotta di "democrazie"contro il "totalitarismo". L'idea che Germania, Italia e Giappone videro l'errore delle loro vie nel 1945 e si unirono al vittorioso e virtuoso Occidente per diventare i loro pilastri si aggiungono solo alla narrazione, naturalmente. Nel bel mezzo ai discorsi di Molotov-Ribbentrop sono stati opportunamente dimenticati tutti gli accordi che le potenze europee stipularono con Hitler, dal Patto delle quattro potenze del 1933 e dal Patto polacco-tedesco del 1934, all'accordo di Monaco del 1938 che divise la Cecoslovacchia e i trattati di non aggressione nel Baltico realizzati dagli Stati con Berlino nell'estate del 1939. La Polonia sembra anche aver dimenticato come i suoi "alleati" Gran Bretagna e Francia non abbiano fatto assolutamente nulla per aiutarla ad affrontare il Blitzkrieg, o che il suo governo non ha mai dichiarato guerra all'URSS, nonostante tutti i discorsi di "invasione e occupazione". Particolarmente dimenticato è il modo in cui, una volta che Hitler ruppe ancora una volta la sua parola e attaccò l'URSS nel giugno 1941, furono i soldati sovietici che avrebbero poi fatto la parte del leone di combattere e morire per sconfiggere i nazisti - circa l'80%, per essere esatti. O come ovunque fino a 27 milioni di cittadini sovietici perirono nella guerra, l'URSS non iniziò, ma certamente pose fine al conflitto. Invece, l'Occidente e i suoi nuovi alleati battono il punto su Molotov-Ribbentrop, demoliscono monumenti dell'Armata Rossa o celebrano le SS - solo per agire sconcertati quando la Russia cerca di correggere i dati storici. La mostra di Mosca sui documenti e delle dichiarazioni del patto sul suo contesto storico è stata descritta dalla stampa occidentale come una "campagna per giustificare" il trattato. Si noti che è il Regno Unito - lo stesso paese che ha aperto la strada nel dare via la Cecoslovacchia a Hitler a Monaco - che ora chiede il più forte "revisionismo" russo (inesistente) ! Siamo sinceri, c'è un vasto abisso morale tra i paesi che hanno combattuto quella guerra per sopravvivere - come l'URSS - e quelli che sono entrati per salvare il loro impero o ritagliarne uno nuovo. Personalmente, sono in qualche modo solidale con le frustrazioni di polacchi e cechi. Anche la Jugoslavia aveva garanzie dalla Gran Bretagna - e dalla Francia, prima di essere annientata nel 1940 - che si rivelarono inutili. Il suo governo cercò anche rifugio a Londra, solo per essere tradito dagli inglesi nel 1944, nella famigerata spartizione di Churchill dell'Europa orientale con Stalin. Il fatto che Varsavia abbia scelto di non invitare la Serbia - il principale successore della Jugoslavia - alla commemorazione del 1° settembre suggerisce che l'evento ha poco a che fare con alti principi morali e legittime rimostranze storiche, e tutto ciò che riguarda l'attuale opportunismo politico.">articolo di Nebojsa Malic è giornalista e commentatrice politica.

L'invasione tedesca della Polonia il 1° settembre 1939 è universalmente considerata l'inizio della seconda guerra mondiale. Per celebrare gli 80 anni da quella fatidica data, le autorità polacche hanno scelto di invitare "attuali alleati e partner nella NATO e nell'UE" a una commemorazione che è stata trasferita a Varsavia per l'occasione.

Ciò significa che alla cerimonia parteciperà il vicepresidente americano Mike Pence, insieme ai leader di molti paesi che erano membri dell'Asse durante la guerra - dalla Germania e dall'Italia alla Bulgaria, Croazia, Ungheria e Romania. Eppure la Russia non sarà la benvenuta.

La scorsa settimana i media sia in Polonia che in Occidente hanno sostenuto il patto di non aggressione firmato dall'URSS e dalla Germania il 23 agosto 1939 e noto come Molotov-Ribbentrop, rispettivi ministri degli Esteri. 

Il patto "ha condannato la metà dell'Europa a decenni di miseria", hanno sostenuto i governi di Polonia, Estonia, Lettonia, Lituania e Romania questa settimana, sottolineando che il loro anniversario è stato dichiarato la "Giornata europea della memoria per le vittime dei regimi totalitari", con i quali intendono "nazismo e stalinismo".

In realtà è un po' sconcertante che i lettoni si lamentino del nazismo, in realtà, poiché continuano a celebrare la loro partecipazione alle Waffen-SS. Per quanto riguarda i rumeni, quelle "vittime" includevano il loro 3o e 4o esercito che furono schiacciati a Stalingrado? Che, per i geograficamente più preparati, si trova a circa 1.500 chilometri a est del confine rumeno... 

Oggi gran parte dell'Occidente crede che il nazismo e il comunismo fossero "due facce della stessa medaglia tossica",come ha scritto un collaboratore di The Federalist . Che cosa è successo a "Quest'uomo è tuo amico, combatte per la libertà" la scritta sul manifesto dei soldati russi che gli Stati Uniti hanno stampato durante la guerra? 

'This man is your friend – he fights for freedom' – US WWII propaganda poster printed in 1942 to encourage support for wartime allies

Gli esponenti del capitalismo in giacca e cravatta per essere credibili dovrebbero drasticamente ridurre i loro emolumenti a venti volte il salario dell'operaio


31 AGOSTO 2019

Ha fatto molto scalpore la presa di posizione degli esponenti della Business Roundtable, l’organizzazione che riunisce gli amministratori delegati delle principali multinazionali statunitensi, che è stata letta come una sorta di mea culpa sulla conduzione dell’economia da parte dei protagonisti dell’attuale sistema.

Nel comunicato degli oltre 200 ad della Roundtable, che include imprese che vanno da Amazon a General Motors, da BlackRock a Jp Morgan, si sottolinea come il rispetto dei lavoratori e dell’ambiente debbano venire prima della distribuzione dei dividendi ai soci. “L’attenzione al profitto deve rimanere, secondo i direttori coinvolti nell’operazione, ma dovrà essere solo una delle linee guida: d’ora in avanti i manager si impegneranno, nelle intenzioni,considerare anche l’impatto sull’ambiente e sulle comunità locali in cui le aziende operano, i rapporti corretti con i fornitori primari e secondari, il rispetto dei propri lavoratori e la tutela dei diritti dei consumatori. “Le società devono proteggere l’ambiente e trattare i dipendenti con “dignità e rispetto”, si legge nel documento, in cui la presa di posizione è in ogni caso talmente generica da risultare ipocrita.

La Business Roundtable, non a caso, è la stessa organizzazione che nel 1993 condusse una forte campagna di lobbying a favore del Nafta, l’accordo di libero scambio tra Canada, Stati Uniti e Messico, prevenendo l’inserimento di clausole stringenti per lavoro e ambiente al suo interno e favorendo le delocalizzazioni produttive.
Un “mea culpa” poco credibile

Risulta credibile immaginare una General Motors intenta a garantire gli standard retributivi statunitensi nei suoi stabilimenti in Messico? La Nike a unificare i trattamenti dall’Oregon al Bangladesh? Amazon, la compagnia di quel Jeff Bezos che si fregia del titolo di uomo più ricco del pianeta, ridurre i margini di sfruttamento del lavoro nei suoi centri logistici? Risulta altresì improbabile pensare alle multinazionali pronte a rimpatriare negli Stati Uniti la produzione: il modello fondato sulle delocalizzazioni, a suo modo, fa comodo anche alle classi povere e medie delle nazioni di destinazione degli impianti, che senza di essi non avrebbero affatto un sistema economico all’avanguardia. “È la stessa storia”, chiosa Bottarelli, “di chi continua a dire che i migranti vanno accolti a prescindere, visto che noi deprediamo l’Africa di materie prime e li obblighiamo così a scappare in cerca di fortuna”.

La narrazione della sostenibilità ambientale e lavorativa del finanzcapitalismo, inteso nelle espressioni più estreme rappresentato dalle compagnie più capitalizzate e dal raggio d’azione maggiore, è fallace alle sue basi. “Una serie di riforme dell’economia capitalistica che riducesse i suoi squilibri endemici, e ricostituisse un rapporto accettabilmente equilibrato tra sistema produttivo, sistema finanziario e ambiente, comporterebbe un tale mutamento dei rapporti di forza politici a livello mondiale da apparire al momento quasi inconcepibile”, ha scritto il compianto Luciano Gallino nel suo fondamentale saggio Finanzcapitalismo. 

Queste parole appaiono più vere che mai. Specie considerato il fatto che le stesse imprese che ora discutono di svolta green e gli stessi Ceo che paiono tante Greta Thunberg in giacca e cravatta fanno da anni fortuna col denaro a basso costo garantiti dalle banche centrali del mondo, dal quantitative easing e dall’espansione delle borse statunitensi favorita dalla riforma fiscale di Donald Trump. Un sistema la cui sostenibilità è tutta da dimostrare e penalizza l’economia reale: in questa fase, il rallentamento dei riacquisti aziendali di azioni proprie finalizzate a amplificare il valore delle stesse (buyback) segnala il dilatamento di una bolla di difficile gestione.
Un’apertura ai democratici?

Risulta inoltre interessante la lettura della dichiarazione della Business Roundtable nell’ottica della dialettica politica interna agli Stati Uniti, che vedrà presto entrare nel vivo la corsa alla Casa Bianca. Lo sfidante democratico di Donald Trump sarà scelto alle primarie tra un novero di contendenti tra cui figurano anche i Senatori esponenti della sinistra del partito Bernie Sanders ed Elizabeth Warren, i quali a seconda degli sviluppi potrebbero anche pensare a una cordata unica per la scalata alla nomination. Sanders e la Warren, cercando di sfidare le tematiche trumpiane sul campo, nell’appello all’America profonda, non hanno lesinato critiche al grande business, accusato di scarsa attenzione ai bisogni dei cittadini statunitensi e di atteggiamenti irresponsabili sotto il profilo fiscale.

Il documento, non vincolante in nessun punto, della Business Roundtable potrebbe dunque apparire come un’apertura al dialogo che possa riconciliare le aspettative reciproche nel caso in cui il Congresso e la presidenza siano, dal 2021, in mano ai democratici. E, al tempo stesso, il documento è l’ennesima, cosmetica dichiarazione con cui l’America del business presenta la sua facciata aperta, progressista e open-minded, cercando di marcare quel distacco dall’amministrazione Trump che ha avuto il suo apice nello scontro tra i magnati della Silicon Valley e il presidente su materie quali l’immigrazione. Senza, tuttavia, che ciò impedisse ai membri della Business Roundtable di beneficiare degli esiti del Tax Cuts and Jobs Act, la riforma fiscale di Donald Trump.

I due terzi dei benefici della riforma fiscale, pari a quasi 900 miliardi di dollari, andranno alle grandi imprese statunitensi, che con il denaro risparmiato hanno preferito, negli ultimi mesi, procedere a operazioni finanziarie favorite dal basso costo del denaro o a buyback, senza programmare massicci piani di sostenibilità, investimenti nel lavoro o altri programmi simili a quelli concordati in un documento che appare, in fin dei conti, autoreferenziale. Il denaro non dorme mai, ma gli piace coltivare sogni. Mentre giorno dopo giorno il distacco tra la percezione del mondo dei grandi del business statunitense e quella della gran massa dei cittadini statunitensi, e occidentali in generale, si fa più marcato.

Banca Etruria - un comitato d'affari che ha spolpato i risparmiatori

Banca Etruria, il gup di Arezzo: “Un comitato ristretto riusciva a indirizzare le riunioni del cda”


Depositate le motivazioni della sentenza di condanna per gli ex vertici dell'istituto toscano
di F. Q. | 30 AGOSTO 2019

Un comitato che riusciva a indirizzare le riunioni del cda, piaceri e finanziamenti agli amici degli amici, una ragnatela di potere che arrivava fin dentro le segrete stanze dei cardinali in Vaticano, mediazioni improprie di antichi compagni di partito democristiani, che rendevano possibili prestiti tutt’altro che cristallini, legami personali che scavalcavano le strutture dell’istituto nella concessione dei finanziamenti e un “trio” informale, composto di presidente, vicepresidente e direttore generale che avrebbe di fatto governato Banca Etruria, esautorando appuntgo il consiglio d’amministrazione. Eccolo, secondo il gup di Arezzo Giampiero Borraccia, il quadro che sta alle spalle del crac di Banca Etruria.


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Il giudice lo descrive per oltre duecento pagine – scrive oggi “La Nazione” nella cronaca aretina – nelle motivazioni della sentenza con cui lo scorso 31 gennaio ha condannato a cinque anni in rito abbreviato l’ex presidente Giuseppe Fornasari e l’ex direttore generale Luca Bronchi, infliggendo anche due anni all’ex vicepresidente Alfredo Berni, imputato per il periodo pre-2008 in cui era stato direttore generale, e un anno e sei mesi al consigliere Rossano Soldini, il primo a denunciare la gestione Fornasari, anche davanti alla Banca d’Italia, ma responsabile di aver votato a favore di due pratiche centrali della bancarotta Etruria: una parte del finanziamento Sacci e quello per la Città Sant’Angelo dell’allora consigliere, e futuro presidente, Lorenzo Rosi. Il cosiddetto comitato informale, che era stato uno degli elementi centrali della memoria presentata dalla Procura in inizio di processo, è al centro delle motivazioni del giudice.


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C’è il caso di Pegasus, prestito grazie al quale il finanziere trentino Alberto Rigottiriesce a sanare il suo sconfinamento con la banca, evitando la decadenza dal Cda. Il che gli consente, come hanno ricostruito il pool di pm e la Finanza, di votare nella drammatica riunione di Cda del 23 maggio 2009 in cui viene esautorato il vecchio padre padrone Elio Faralli. Il voto di Rigotti è decisivo per l’avvento di Fornasari, per questo condannato insieme a Bronchi. Borraccia affronta anche la pratica Sacci, 60 milioni di sofferenza, la più grossa del crac. I crediti erano stati concessi alla società del consigliere Augusto Federici perché potesse acquistare la francese Lafarge, altra società di cementifici. Ma le varie linee di fido erano tutte coperte dalle stesse ipoteche immobiliari su un unico complesso di stabilimenti. Il che le rendeva in pratica inefficaci. Un altro esempio di come, secondo il giudice, è stata spolpata brano a brano Banca Etruria. Il prosieguo al maxi-processo che sta per ripartire davanti al Tribunale di Arezzo.

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Il gup Borraccia scrive che i pm del pool della Procura di Arezzo, guidata dal procuratore capo Roberto Rossi, hanno ragione, che il ‘Trio’ esisteva davvero all’interno di Banca Etruria: “Tale modalità risulta chiaramente dalla seconda relazione ispettiva della Banca d’Italia…che tale comitato ristretto riuscisse a indirizzare le riunioni del cda lo si desume dalla funzione apicale dei loro componenti (Fornasari, i due vice Giovanni Inghirami e Giorgio Guerini più il Dg Bronchi, ndr) e dal fatto che essi avevano in anticipo cognizione degli atti a supporto delle pratiche di finanziamento”. Il giudice entra poi nel merito dei singoli crediti concessi e anche in questo caso accoglie in gran parte lo scenario d’accusa della procura, basato a sua volta, oltre che sulle investigazioni autonome della Finanza, sulla relazione dello stato di insolvenza del commissario liquidatore Giuseppe Santoni, che sarà anche il primo testimone dei Pm alla ripresa del maxi-processo per bancarotta, il 20 settembre.
Il primo caso preso in esame è quello dello Yacht Etruria che ancora arrugginisce nel porto di Civitavecchia. Dell’imprudenza di un finanziamento da 25 milioni concesso sulla base di garanzie labili o anche farlocche e anche di un cantiere che non aveva accesso al mare, il gup parla ampiamente, ma si sofferma pure sulla “rete di favori” che avrebbe influito sulle scelte di Etruria. Mario La Via, deus ex machina di Privilege (la società dello Yacht) avrebbe avuto un rapporto privilegiato con il cardinale Tarcisio Bertone, ex segretario di Stato vaticano, nell’ambito del quale, testimonia la curatrice fallimentare De Rosa, inviò al porporato una lettera di raccomandazione in favore di una stretta parente del presidente.

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È vero, chiosa Borraccia, che la difesa ha dato prova che il “piacere” poi non ci fu, ma si crearono così dei contatti nell’ambito dei quali sarebbero avvenuti più incontri fra La Via e Fornasari, “il che non può che consolidare la prospettata colleganza fra i due”. Altrettanto importante il capitolo del relais San Carlo Borromeo del guru della psicoanalisi Armando Verdiglione, un’altra ventina di milioni perduti. Qui il giudice evidenzia un rapporto interpersonale diretto fra Bronchi, Verdiglione e altri funzionari della direzione generale, mediato dalla società Dragoni & partner, che per il suo ruolo riscuote l’1% (200 mila euro da Verdiglione e 21 mila euro da Bpel) di parcella: “I vertici di Bpel, con i quali gli interessati hanno una linea diretta, adottano la decisione”. A copertura un’inutile ipoteca di quarto grado. Succede anche per il milione e oltre ottenuto dall’imprenditore romagnolo Pierino Isoldi. Qui, ricostruisce la sentenza, pesa l’intervento di un vecchio senatore democristiano, Franco Bonferoni, già amico di Fornasari, cui Isoldi gira 50mila euro dopo la concessione del prestito.



satira 26 agosto 2019

TANK DIFFERENT CHANNEL - Satira d'assalto, [26.08.19 22:24]

Marc Faber ha scritto nel suo bollettino mensile un commento con molto umorismo:

” Miei cari connazionali americani, il governo federale sta valutando di dare a ciascuno di noi una somma di 600 dollari:

Se noi spendiamo quei soldi al Walt-Mart-Supermarket , il denaro va in Cina.

Se noi spendiamo i soldi per la benzina, va quasi tutto agli arabi.

Se acquistiamo un computer, il denaro va in l’India.

Se acquistiamo frutta, i soldi vanno in Messico , Honduras e Guatemala , Italia, Spagna.

Se compriamo una buona macchina, i soldi andranno a finire in Germania , in Giappone o in Corea.

Se compriamo regalini, vanno a Taiwan , e nessun centesimo di questo denaro aiuterà l’economia americana .

L’unico modo per mantenere quel denaro negli Stati Uniti è di spenderlo con puttane o birra, già che sono gli unici due beni che producono ancora qui.”

Risposta di un economista italiano, anche lui di buon umore:
“Carissimo Marc,

La situazione degli americani diventa realmente sempre peggiore.

Inoltre mi dispiace informarla, che la fabbrica di birra USA Budweiser è stata acquistata recentemente dalla multinazionale brasiliana AmBev.

Pertanto Vi restano solo le puttane.

Ora, se queste decidessero di inviare i loro guadagni ai loro figli, questi soldi arriverebbero direttamente ai parlamentari italiani.”

@fabioflos

venerdì 30 agosto 2019


Tpp in versione ridotta - conoscere per imparare


29 AGOSTO 2019

Una parte vorrebbe cambiare i termini di un accordo commerciale già ratificato, l’altra si rifiuta e non vuole neppure sentirne parlare. Scintille in corso tra Giappone e Australia per la volontà di Tokyo di rinegoziare le regole riguardanti il Comprehensive and Progressive Agreement for Trans-Pacific Partnership, meglio conosciuto con l’abbreviazione Tpp-11. Si tratta di un patto di libero scambio regionale che guida 11 paesi con regole specifiche sul libero scambio. Il problema è che il Giappone si è accordo dell’iniquità dell’accordo e vorrebbe rivedere il tutto, mentre l’Australia, che dall’accordo ne è uscita rafforzata, è contraria a ogni modifica. Il rischio è che il legame tra Tokyo e Canberra possa inclinarsi proprio ora che l’ombra della Cina imporrebbe a entrambi di allearsi e fare gioco di sponda.Gli Stati Uniti, invece, si sono dimostrati disponibili a rinegoziare il tutto.
L’Australia dice no

Il Giappone punta il dito contro la modalità delle esportazioni di carne bovine che, in seguito al Tpp-11, ha spinto l’Australia a diventarne la prima esportatrice verso il mercato giapponese. Tokyo vorrebbe infatti legare le quote di importazione a un sistema di tariffe progressive per evitare che il proprio mercato interno sia travolto dall’import simultaneo e a basso costo proveniente da Australia e Stati Uniti, con il conseguente danneggiamento dei prodotti nazionali. Il Giappone ha avviato i negoziati per un accordo commerciale con gli Stati Uniti che vada in questa direzione e riguardante la carne bovina americana. “L’Australia – come ha dichiarato il suo ministro dell’Agricoltura, Bridget McKenzie, a Nikkei Asian Review – non intende rinegoziare i meccanismi del Tpp-11 relativi alla carne bovina o ad altri prodotti”. Se Canberra fa muro, Washington è invece andata incontro alle esigenze di Tokyo, anche se più di un analista sostiene che il Giappone abbia ceduto concessioni significative alla controparte americana. Difficile, altrimenti, spiegarsi la rapidità della fumata bianca dopo appena quattro mesi dall’avvio dei negoziati.

L’accordo con gli Stati Uniti

Gli Stati Uniti, a differenza dell’Australia, avevano bisogno di certezze. Trump deve riconquistare la fiducia dell’elettorato rurale, e il negoziato sulla carne bovina assicura un’uscita ridotta ma costante verso il Giappone. Tokyo ha abbassato le barriere tariffarie per la carne americana ma gli Stati Uniti sembra non abbiano ancora fornito concessioni al settore automobilistico giapponese. In ogni caso, a settembre questi due paesi firmeranno un grande accordo commerciale, un accordo, tra l’altro, perfezionato a margine dell’ultimo G7 di Biarritz, in Francia. Secondo il primo ministro nipponico, Abe Shinzo, “l’accordo darà un grande beneficio alle nostre economie”. Trump ha confermato l’intesa: “Si tratta di transazioni molto grandi, miliardi e miliardi di dollari. Coinvolge l’agricoltura, ma anche il commercio elettronico e molte altre cose. In linea di principio abbiamo trovato l’accordo”. L’accordo citato dovrebbe prevedere nuove tariffe giapponese su prodotti agricoli e carni bovine e suine americane, non superiori a quelle applicate ai membri del Partenariato Trans-Pacifico, di cui gli Stati Uniti non fanno più parte. E così le tariffe sulla carne bovina dovrebbero ridursi dal 38,5% al 9%. Ma pare ci siano ancora dei dettagli da limare.

Il M5S è un falso ideologico ma non vuole abiurare le foglie di fico che ricoprono le sue azioni

Ecco i 20 punti programmatici stilati dai gruppi parlamentari del M5S contenuti nel documento che Di Maio ha consegnato oggi a Conte


30 agosto 2019 dalla RedazionePolitica

Il leader M5S Luigi Di Maio ha consegnato a Giuseppe Conte, in occasione delle consultazioni che sta svolgendo a Montecitorio il premier incaricato, un documento contenente 20 punti programmatici elaborati dai gruppi parlamentari di Camera e Senato del Movimento Cinque Stelle per la formazione del nuovo esecutivo M5S-Pd. Ecco di seguito il contenuto del documento:

1. Taglio del numero dei parlamentari. Manca un solo voto per completare la riforma, che deve essere un obiettivo di questa legislatura e tra le priorità del calendario in aula.
2. Una manovra equa: stop all’aumento Iva, salario minimo, taglio del cuneo fiscale, sburocratizzazione, famiglie, disabilità e emergenza abitativa.
3. Cambio di paradigma sull’Ambiente. Un’Italia 100% rinnovabile. Dobbiamo realizzare un Green New Deal che nei prossimi decenni porti l’Italia verso l’utilizzo di fonti rinnovabili di energia al 100 per cento. Tutti i piani di investimento pubblico dovranno avere al centro la tutela dell’ambiente, la questione dei cambiamenti climatici e la nascita di nuove imprese legate a questo settore. Basta con inceneritori e trivelle, sì all’economia circolare e alla eco-innovazione. Norme contro l’obsolescenza programmata. Una legge su rifiuti zero ed investimenti pubblici sulla mobilità sostenibile.
4. Una seria legge sul conflitto di interessi e una riforma del sistema radiotelevisivo.
5. DimezzareitempidellagiustiziaeriformareilmetododielezionedelConsigliosuperiore della Magistratura. I cittadini e le imprese hanno bisogno di una giustizia efficace e veloce: noi abbiamo pronta una riforma che porta al massimo a 4 anni i tempi per una sentenza definitiva.
6. Autonomia differenziata e riforma degli enti locali. Va completato il processo di autonomia differenziata richiesta dalle regioni Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna, istituendo contemporaneamente i livelli essenziali di prestazione per tutte le altre regioni per garantire a tutti i cittadini gli stelli livelli di qualità dei servizi. Va anche avviato un serio piano di riorganizzazione degli enti locali abolendo gli enti inutili.
7. Legalità: carcere ai grandi evasori, lotta alle mafie e ai traffici illeciti. È necessario intervenire per tutelare i cittadini onesti, colpendo innanzitutto i grandi evasori con il carcere. Serve una maggiore tracciabilità dei flussi finanziari e un inasprimento delle pene per i reati finanziari, per contrastare i traffici illeciti delle mafie. Contrasto al fenomeno dell’immigrazione clandestina e della tratta degli esseri umani, con politiche mirate dell’Unione Europea nei Paesi di provenienza e transito. Oltre alla modifica del Regolamento di Dublino.
8. Un piano straordinario di investimenti per il Sud, anche attraverso l’istituzione di una banca pubblica per gli investimenti che aiuti imprese in tutta Italia e che si dedichi a colmare il divario territoriale del nostro Paese.
9. Una riforma del sistema bancario. Serve separare le banche di investimenti da banche commerciali.
10. Tutela dei beni comuni. La scuola pubblica è un bene comune: serve prima di ogni altra cosa una legge contro le classi pollaio e valorizzare la funzione dei docenti. L’acqua è un bene comune: bisogna approvare subito la legge sull’acqua pubblica. La nostra sanità va difesa dalle dinamiche di partito spezzando il legame tra politica regionale e sanità valorizzando il merito. Le nostre infrastrutture sono beni pubblici ed è per questo che va avviata la revisione delle concessioni autostradali. La cittadinanza digitale va riconosciuta ad ogni cittadino italiano dalla nascita per favorire l’accesso alla partecipazione democratica, all’informazione e per favorire la trasformazione tecnologica.
11. Politiche di genere in attuazione dei diritti costituzionali della persona, in conformità ai principi dell’Unione europea; superamento della disparità retributiva, conciliazione vita- lavoro.
12. Tutela dei minori: revisione del sistema degli affidi e delle adozioni, lotta alla dispersione scolastica e al bullismo.
13. Porre fine alla vendita degli armamenti ai Paesi belligeranti, incentivando i processi di riconversione industriale e maggiore tutela e valorizzazione del personale della difesa, delle Forze dell’ordine e dei Vigili del fuoco.
14. Politiche espansive con una quota di investimenti in infrastrutture, in ambiente e in cultura da scomputare dai parametri di Maastricht.
15. Giovani e futuro: innovazione digitale, sviluppo delle imprese e promozione delle eccellenze del Made in Italy, crowdfunding, semplificazione apertura nuove attività, fondo previdenziale integrativo pubblico.
16. Ricerca, università ed alta formazione artistica e musicale: riforma dei sistemi di reclutamento e dell’accesso universitario con ingenti investimenti per garantire pari opportunità di diritto allo studio, di sviluppo e formazione su tutto il territorio nazionale.
17. Tutela del cittadino: del consumatore, del lavoratore, dell’utente dei servizi; il potenziamento della sicurezza sul lavoro e delle infrastrutture e della protezione dalle calamità naturali, con particolare riguardo ad un testo unico per le post emergenze e per la ricostruzione del tessuto infrastrutturale, economico e sociale. Provvedimenti volti alla tutela dei cittadini italiani all’estero e riforma dell’AIRE.
18. Riorganizzazione dei servizi sanitari e socio-sanitari territoriali e riforma del percorso formativo medico: integrazione ospedale-territorio, l’adeguamento del FSN e l’attuazione del Fascicolo Sanitario Elettronico Nazionale. Contrasto al gioco d’azzardo.
19. Tutela degli animali: misure per garantire il rispetto degli animali. Contrasto alle violenze e al maltrattamento, tutela della biodiversità e lotta al bracconaggio.
20. Sostegno ai piani di settore e alle filiere agricole e promozione di pratiche agronomiche e colturali sostenibili e a difesa del suolo.

http://www.lanotiziagiornale.it/ecco-i-20-punti-programmatici-stilati-dai-gruppi-parlamentari-del-m5s-contenuti-nel-documento-che-di-maio/

Johnson&Johnson - prima i profitti poi la salute


29 AGOSTO 2019

Lo abbiamo definito un “massacro americano“, parlandone diffusamente oltre un anno fa: la crisi degli oppiacei negli Stati Uniti è da tempo una minaccia di portata nazionale alla sicurezza sanitaria e sociale del Paese. 53.000 morti per overdose nel 2015, 60.000 (più della somma dei caduti americani in Vietnam e Iraq) nel 2016, 70.000 nel 2017, ovvero una media di quasi 170 decessi al giorno per l’abuso di farmaci o sostanze stupefacenti a base oppiacea, sono la macabra conta di quella che è, negli anni, diventato un problema endemico della fragile America del XXI secolo.

Degli oltre 400.000 decessi per overdose registrati dal 1999 al 2017, oltre 218.000 sono legati a farmaci legalmente prescritti ai cittadini statunitensi. Questo fatto ha portato nell’occhio del ciclone numerosi giganti del mercato farmaceutico, accusati da numerosi report e indagini a guida scientifica e politica di gravi omissioni sui rischi e sulle problematiche derivanti da un’eccessiva dipendenza di sostanze come l’ossicodone o il fentanyl, che molto spesso finiscono addirittura rivenduti come eroina.

Un reportage del Guardian del 2018 ha segnalato come le radici della crisi degli oppiacei sono da ricercare nella messa in commercio dell’OxyContin da parte di Purdue Pharma negli Anni Novanta. Pensata come la mossa decisiva per conquistare con gli oppiacei il mercato degli antidolorifici, ad essa hanno fatto seguito un’ampia e diffusa campagna per persuadere dottori e pazienti, convincendoli a sottovalutare i rischi degli oppiacei e a sopravvalutare i loro ruoli terapeutici, e un duro pressing in sede congressuale che ha portato negli anni Big Pharma a conquistarsi il sostegno di importanti rappresentanti come il democratico Joe Kennedy III, che ha ricevuto oltre 340.000 dollari dalle aziende farmaceutiche prima di dover interrompere i contatti con esse nel maggio 2019. Le prescrizioni di oppiacei tramite ricette mediche sono triplicate tra il 1991 e il 2011, toccando quota 289 milioni nel 2016, senza che ad esse facesse da contraltare una campagna di sensibilizzazione sugli effetti collaterali di farmaci in diversi casi molto più potenti della morfina.

Nella giornata del 27 agosto, per la prima volta, un’azienda del comparto farmaceutico ha ricevuto una condanna in sede processuale per il suo comportamento nella crisi degli oppiacei: Johnson&Johnson, colosso che fattura oltre 80 miliardi di dollari l’anno, è stata riconosciuta responsabile di aver alimentato la crisi degli oppiacei in Oklahoma e dovrà pagare 572 milioni di dollari per rimediare alla devastazione creata dall’epidemia nello stato in seguito alla sentenza emessa dal giudice distrettuale della contea di Cleveland, Thad Balkman. 

Il risarcimento comminato è stato sotto le attese per il riconoscimento di una “cinica e ingannevole campagna di lavaggio del cervello” da parte di Johnson&Johnson finalizzata alla vendita di oppiacei paragonati a una “medicina magica”, per la precisione il Nucynta e il Duragesic, commerciati dal 2000 al 2015. Ma segna un precedente per gli oltre 2.000 procedimenti in atto negli Stati Uniti a livello federale o statale nei confronti di società o singoli coinvolti nei fatti che potrebbero aver scatenato la peggior crisi sanitaria dell’America odierna.

La Nbc ha segnalato come Purdue Pharma abbia avviato nel contempo un’azione legale volta a risolvere in sede di arbitrato o accordo amministrativo tramite risarcimenti i procedimenti che la vedono coinvolta, stanziando per questo obiettivo tra i 10 e i 12 miliardi di dollari. Un tentativo di anticipo delle future mosse delle procure che potrebbero, attraverso l’Unione, accelerare dopo l’esempio dato dalla contea dell’Oklahoma. Mentre, nel frattempo, sul piano nazionale Donald Trump ha ampliato un’azione politica e legislativa avviata dal predecessore Barack Obama affrontando con forza la crisi degli oppiacei: per il 2019 sono stati stanziati 1,5 miliardi di dollari, mentre una dotazione complessiva da 6 miliardi sarà riservata al prossimo biennio. 18 milioni di cittadini sono assistiti nel quadro di un programma che mira a prevenire la dipendenza da antidolorifici oppiacei e a fornire un’assistenza più pervasiva e un’informazione migliore sui prodotti destinati alla loro cura. Politica e giustizia sono al lavoro per risolvere una delle crisi più gravi dell’America contemporanea: solo con la loro completa sinergia questo massacro americano avrà fine.

29 agosto 2019 - CONTE CI HA CONSEGNATO AI GLOBALISTI: ECCO COSA ACCADRA' ORA - Diego Fusaro

Johnson&Johnson si nasconde dai mass media ma ogni tanto compare


USA, Johnson&Johnson dovrà pagare mezzo miliardo $ per diffusione di oppiacei
© AP Photo / Jeff Chiu
15:38 27.08.2019

La casa farmaceutica Johnson&Johnson è stata giudicata responsabile della crisi degli oppiacei negli USA e condannata da una corte americana a un risarcimento milionario.

Un tribunale dell'Oklahoma ha condannato il colosso farmaceutico a pagare 572 milionidi dollari di danni allo Stato, per la diffusione incontrollata di oppiacei, che ha provocato casi di dipendenza e morte per overdose. Sono almeno 2000 i casi di abusi in Oklahoma e sotto inchiesta potrebbero finire anche distributori di antidolorifici e medici dalla ricetta "troppo facile".

L'accusa è quella di pubblicità ingannevole, con cui la società ha minimizzato i danni arrecati dall'assuefazione e dipendenza dagli oppiacei. Campagne di marketing fuorvianti, secondo i giudici, per incentivare l'utilizzo di antidolorifici a base di derivati dall'oppio e convincere il pubblico dei bassi rischi di assuefazione a fronte dell'efficacia nel trattamento di dolori cronici.

In Oklahoma, dal 1994 al 2006, le vendite di oppiacei da prescrizione sono aumentate di quattro volte, mentre nel 2015 oltre 326 milioni di pillole oppioidi sono state dispensate nello Stato, 110 pillole per ogni adulto. 

In base a quanto riporta la sentenza, emessa dal giudice Thad Balkamm, "l'aumento della dipendenza da oppiacei e delle morti per overdose in seguito al parallelo aumento delle vendite di oppiacei in Oklahoma non è stata una coincidenza".

"Ritengo che le azioni degli imputati abbiano causato danni, e quei danni sono tra quelli riconosciuti", ha dichiarato Balkamm, "perché tali azioni provocavano nocumento, lesioni o mettevano in pericolo il benessere, il riposo, la salute o la sicurezza dei cittadini dell'Oklahoma".

E conclude: "La crisi degli oppiacei ha devastato lo stato dell'Oklahoma e deve essere immediatamente stroncata".
La crisi degli oppiacei negli USA

Secondo una stima del Washington Post, l'abuso di oppiacei ha provocato 400.000 decessi per overdose da antidolorifici, dagli anni '90 ad oggi. Sotto accusa è il fenatyl, il "parente più prossimo" dell'eroina. Il picco si è avuto nel 2017, con 130 morti al giorno per overdose e circa 11 milioni di persone che ne abusavano.

Una vera e propria "iniezione" di oppiacei a livello massivo. La DEA, l'agenzia antidroga statunitense, ha rivelato che fra il 2006 e il 2012 le 10 maggiori società farmaceutiche USA hanno riversato 76 miliardi di pillole di ossicodone e idrocodone, oppioidi sostituti della morfina che vengono utilizzati nel fine vita dei malati di cancro.

100 pastiglie per persona all’anno, inclusi i bambini. In un paese del West Virginia di 1400 abitanti sono stati distribuite 5 milioni di compresse di oppioidi. Più aumentava la mortalità, più aumentava il volume delle vendite, più aumentavano i profitti delle società. 
J&J vola in borsa

Tuttavia i mercati hanno premiato la società farmaceutica. Il procuratore Mike Hunter aveva chiesto 17 miliardi di dollari per danni. L'ammenda più lieve del previsto ha messo le ali ai titoli in borsa della società, che ha già annunciato che ricorrerà in appello.

Si tratta del primo caso portato avanti dal procuratore generale dell'Oklahoma ad arrivare a processo. Sono centinaia i ricorsi mossi dalle autorità contro case farmaceutiche e distributori di antidolorifici per la crisi degli oppiacei.

30 agosto 2019 - Diego Fusaro - Tre indizi fanno una prova. La verità sul governo giallof...

Questo è Italia

Cropani, crolla il ponte appena costruito: famiglie isolate

VIDEO | La struttura è collassata durante la notte. Era stata realizzata di recente per sostituire un passaggio a livello

di Redazione 
venerdì 30 agosto 2019 10:03

Il ponte crollato

Piove e piove sempre sul bagnato, si dice e spesso succede. Cade un ponte, unica arteria di collegamento tra via Melito e la SS 106 che porta nel paesino ionico di Cropani. È accaduto precisamente in località Difesa, già nota alle cronache per essere stata colpita da una fortissima tempesta di vento che ha creato ingenti danni questo inverno. A fare l'amara scoperta un residente che questa mattina si stava recando a lavoro ed ha dovuto arrestare immediatamente la sua auto davanti alla struttura crollata probabilmente nell'arco della notte. Il ponte in questione è stato realizzato appena qualche mese fa dalle Ferrovie dello stato a seguito della normativa che prevede la chiusura di tutti i passaggi a livello. In corso l'intervento dei vigili del fuoco e delle squadre competenti, per provare a ripristinate, almeno momentaneamente, il passaggio che, dopo aver ceduto, tiene isolate tre famiglie.

Anche gli F-15 presentano vulnerabilità come gli F-35

Gli hacker assoldati dall’Usaf evidenziano le vulnerabilità dell’F-15

29 agosto 2019 


Un team di “ethical hackers” messo in piedi dall’azienda californiana Synack, società hi-tech che collabora con il Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti nel programma “Hack the Pentagon”, ha avuto accesso ai computer del sistema di volo utilizzato nei jet da combattimento F-15.

Il risultato del test, che ha avuto luogo durante la Def Con Conference che si è tenuta dall’8 all’11 agosto a Las Vegas, è la scoperta di gravi lacune informatiche che rischiano di minare la sicurezza dei dati raccolti dal velivolo durante le missioni.


Secondo quanto pubblicato dal quotidiano statunitense Washington Post, i sette hacker ingaggiati per testare i sistemi computerizzati del caccia prodotto da Boeing (McDonnell Douglas) avrebbero identificato una serie di vulnerabilità che potrebbero essere utilizzate per arrestare la Trusted Aircraft Information Download Station (TADS), un dispositivo da 20 mila dollari che raccoglie le immagini e i dati catturati dalle videocamere e dai sensori installati sul caccia.

Gli hacker avrebbero anche trovato 138 fragilità informatiche che lo stesso gruppo aveva già identificato a novembre, senza peraltro avere accesso diretto al device, e che i tecnici dell’USAF non erano evidentemente riusciti a correggere.

Il fanfulla piange se stesso non può aumentare le poltrone e distribuire prebende, non può aumentare le clientele

COSA HA PORTATO ALLA CADUTA DEL GOVERNO GIALLO-VERDE? DUE IPOTETICHE RICOSTRUZIONI

Pubblicato 29/08/2019
DI EMILIO MOLA




Le due ipotetiche ricostruzioni sulla reale motivazione che ha portato alla caduta del governo giallo-verde:

RICOSTRUZIONE 1 (spacciata dai nemici del popolo italiano): Salvini, che cinicamente ma legittimamente ha bisogno di capitalizzare il 38% di consensi prima di perderli con la legge di bilancio, coglie la scusa del TAV per dichiarare finita l’esperienza con i 5Stelle. Così presenta la mozione di sfiducia contro Conte e chiede elezioni subito.
(Ecco, pensate che c’è gente che crede a questa versione qui. A Salvini che sfiducia Conte. Pazzesco).

RICOSTRUZIONE 2 (proposta dal nostro Capitano): i 5Stelle vincono le elezioni politiche del 2018 e, pur potendo da subito fare il governo con il PD (con cui, ci spiega oggi Salvini, erano già in combutta), decidono di prenderla alla larga e di allearsi prima con la Lega. Così, giusto per confondere le acque e spiazzare gli spettatori. Così per un anno interno i 5Stelle (che sono in combutta con PD, Macron e Merkel) insultano e attaccano da mattina a sera Macron (contro il quale incontrarono pure i gilet gialli), Merkel e PD, arrivando perfino a definire quest’ultimo come “il partito che vende i bambini e gli fa l’elettroshock”.
Ma tutto questo perché sono in combutta.

Sempre nel frattempo i 5Stelle (che sono segretamente in combutta con il PD, contro Salvini) approvano tutte le leggi di Salvini: tutte, dal decreto sicurezza 1 al decreto sicurezza bis, dalla legittima difesa ai porti chiusi, arrivano persino a perdere l’anima e la faccia (e i voti) salvandolo in Parlamento sul caso Diciotti.

A questo punto però che ti combinano sti disgraziati che sono in combutta col PD? Pensate un po’: votano contro il TAV voluto dal PD. Cioè capito? I 5Stelle contro il TAV! Chi l’avrebbe mai detto signora mia. Salutavano sempre.

Salvini, ovviamente sorpreso e stordito come tutti da questa incredibile posizione dei 5Stelle sul TAV che proprio guarda non se l’aspettava nessuno visto che in fondo sono nati come NO-TAV, capisce che con loro proprio non si può governare perché ti piazzano queste mosse a sorpresa che tu proprio devi stare sempre sul chi va là. E soprattutto capisce che questi stanno in combutta col PD.

Infatti il PD vuole il TAV. E siccome i 5Stelle votano contro il TAV significa che loro sono d’accordo col PD. Logico no? Ovvio. Mentre la Lega che vota come vuole il PD sul TAV è chiaramente contro il PD. Cioè chiarissimo, ovvio, lapalissiano. Non fa una piega.

E qui arriva l’atto finale. Salvini, che mica a lui lo freghi, capisce a quel punto (come fai a non capirlo insomma, anche perché i 5Stelle hanno votato la nuova presidente della commissione europea anziché isolare il governo italiano dal resto d’Europa, sti stronzi) che i 5Stelle sono in combutta con il PD, Macron e la Merkel.

Salvini vorrebbe dirlo agli italiani, vorrebbe rivelarlo a tutti, ma un finto Salvini-Robot uguale a lui creato da Macron, Merkel, ONG e zingari dichiara dalla spiaggia la fine del governo, firma la mozione di sfiducia contro Conte e a chiede elezioni subito. E ora che il Salvini-vero dice che è stato tutto un complotto, che lui con i 5Stelle voleva starci, che voleva perfino Di Maio Premier, che hanno stato gli zingari, qualcuno cerca di tappargli la bocca.

Ecco, se credete alla ricostruzione 1 siete chiaramente dei coglioni. Se credete alla 2 ovviamente no.
Vai Capitano, scopritore di complotti. Siamo con te.