L'albero della storia è sempre verde

L'albero della storia è sempre verde

"Teniamo ben ferma la comprensione del fatto che, di regola, le classi dominanti vincono sempre perché sempre in possesso della comprensione della totalità concettuale della riproduzione sociale, e le classi dominate perdono sempre per la loro stupidità strategica, dovuta all’impossibilità materiale di accedere a questa comprensione intellettuale. Nella storia universale comparata non vi sono assolutamente eccezioni. La prima e l’unica eccezione è il 1917 russo. Per questo, sul piano storico-mondiale, Lenin è molto più grande di Marx. Marx è soltanto il coronamento del grande pensiero idealistico ed umanistico tedesco, ed il fondatore del metodo della comprensione della storia attraverso i modi di produzione. Ma Lenin è molto di più. Lenin è il primo esempio storico in assoluto in cui le classi dominate, sia pure purtroppo soltanto per pochi decenni, hanno potuto vincere contro le classi dominanti. Bisogna dunque studiare con attenzione sia le ragioni della vittoria che le ragioni della sconfitta. Ma esse stanno in un solo complesso di problemi, la natura del partito comunista ed il suo rovesciamento posteriore classistico, individualistico e soprattutto anti- comunitario" Costanzo Preve da "Il modo di produzione comunitario. Il problema del comunismo rimesso sui piedi"

sabato 21 settembre 2019

Non siamo in un'epoca post ideologica ma del Pensiero Unico che vuole impedire il confronto autentico delle idee

STRAPPATO IL CIELO DI CARTA.

Roberto Pecchioli 18 Settembre 2019 
di Roberto PECCHIOLI

Nel Fu Mattia Pascal di Luigi Pirandello è famoso il brano dello strappo del cielo di carta nel teatrino delle marionette meccaniche. L’episodio svela la falsità convenzionale che ci circonda, la dolorosa scoperta della realtà da parte del protagonista, assalito da vertigini e capogiri. Tale deve essere lo stato d’animo di numerosi italiani, specie tra i sostenitori della tramontata sinistra “sociale”, dinanzi al governo giallo rosso, o meglio fucsia e arcobaleno. Scoprire l’entusiasmo di Mario Monti, il proconsole dei poteri forti internazionali, prendere atto della gioia dei mercati testimoniata dalla salita della Borsa e dal calo dello spread, ascoltare il giubilo non celato delle istituzioni europee, bastione dell’ordoliberismo e delle oligarchie, deve essere stata una doccia gelata per molti illusi.

La sinistra ha definitivamente abbandonato il popolo al suo destino, mentre la destra si lecca le ferite sognando la rivincita. E’ in pieno svolgimento la controffensiva dei padroni del vapore, appoggiati dalle vecchie, immortali burocrazie e clientele del PD, il partito ossimoro che perde ma continua a comandare. La guerra, culturale prima che politica e sociale, tra l’alto e il basso, il centro e la periferia, élite contro popolo, segna un punto assai pesante a favore di lorsignori. Il cielo di carta si è strappato, è più evidente il conflitto mortale tra servi e padroni, per usare un’espressione di Hegel, con i ruoli invertiti rispetto al passato. La sinistra tradizionale si è rinserrata nella politica delle identità minoritarie – razziali e sessuali innanzitutto – accontentandosi di patrocinare i cosiddetti diritti individuali- in realtà i capricci dei ceti dominanti – abbandonando i diritti sociali e la rappresentanza di quelle che una volta chiamavano classi subalterne.

Una perfetta rappresentazione di tale deriva è stato il caso di Carola Rackete, capitana di una nave dedita al trasporto di clandestini africani in Italia. Divenuta un’eroina della sinistra globalista, la giovane tedesca è tuttavia la classica figlia di papà, con casa a Londra e amicizie influenti tra i leader europei cosmopoliti. Una perfetta esponente della Generazione Erasmus sradicata, globalista, preda del nichilismo edonista, frutto dell’egemonia del liberalismo neo progressista.

Il primo a comprendere la torsione neoborghese della sinistra fu Pier Paolo Pasolini negli anni 70. In un articolo del 7 gennaio del 1973 pubblicato sul Corriere della Sera con il titolo Contro i capelli lunghi, poi raccolto negli Scritti corsari, Pasolini sostenne che la foggia della capigliatura dei contestatori provenienti da famiglie borghesi rappresentava un messaggio, espresso in un linguaggio privo di lessico, di grammatica e di sintassi. “Noi non apparteniamo al numero di questi morti di fame, di questi poveracci sottosviluppati, rimasti indietro alle età barbariche. Noi siamo dei borghesi: ed ecco qui i nostri capelli lunghi che testimoniano la nostra modernità internazionale di privilegiati. “Lo stesso intellettuale friulano fece scalpore, a sinistra, parteggiando per i poliziotti figli del popolo contro i rivoltosi del post Sessantotto, pronti a lottare contro un nemico sconfitto trent’anni prima, il fascismo, ma lontani dal prendere posizione sul nuovo volto del potere avanzante, consumista ed edonistico.

Un importante saggio sui temi della crisi delle classi subalterne e del ceto medio, nonché sul vuoto di rappresentanza politica, è uscito in Italia con scarsa attenzione mediatica, nonostante l’editore sia l’università Luiss, tutt’altro che rivoluzionaria. Si tratta di La società non esiste, del sociologo e geografo francese Christophe Guilluy, studioso delle aree periferiche degli Stati europei, il cui significativo sottotitolo è La fine della classe media occidentale. E’ per essa che suona oggi la campana della riproletarizzazione: il cielo di carta si è strappato anche per la classe media. Guilluy, riprende nel titolo la tragica affermazione individualista di Margaret Thatcher degli anni Ottanta, there is no society, non esiste la società.

Di formazione marxista, Guilluy, come altri intellettuali (Jean Paul Michéa, Alain Soral) è profondamente critico con la sinistra al caviale, come dicono in Francia. A proposito della rivolta dei giubbotti gialli, osserva che l’intellighenzia di sinistra si è fatta prendere dal panico. Prima li hanno insultati chiamandoli fascisti, poi hanno approvato la violenza repressiva del governo Macron, senza mai cercare di comprendere le ragioni della protesta di una Francia profonda, quella dei sobborghi, dei piccoli centri, dei pendolari. Potremmo chiamarli i penultimi, quelli che erano diventati, di generazione in generazione, con il sudore della fronte e l’impegno personale, classe media.

I nuovi gruppi dominanti, che Guilluy chiama cool– borghesia, a sottolinearne il carattere frivolo e modaiolo, usano un antifascismo paleolitico come arma di classe rovesciata rispetto agli schemi passati, a dimostrazione che l’asse destra sinistra perde valore dinanzi a contrapposizioni più concrete: vincitori e perdenti della globalizzazione, centro/periferia, alto/basso, patrizi contro plebei. La novità è il ruolo conservatore, di sistema, della sinistra “elegante”, che ha abbandonato la lotta contro i monopolisti della ricchezza e della tecnologia (mega-monopoli, fondi finanziari, colossi tecnologici come i GAFA, Google, Apple, Facebook, Amazon), diventandone complice, fiancheggiatrice, entusiasta banditrice.

Gli sciocchi di sinistra lottano contro un fascismo inesistente, elevato a categoria eterna del male proveniente da un passato barbarico, ma accettano senza fiatare il totalitarismo del mercato il cui manganello si è abbattuto duramente sulla maggioranza della popolazione, risparmiando solo i più ricchi e, ovviamente, caste e ceti di supporto dell’oligarchia. In questo immenso cambio di paradigma, un ruolo decisivo è assegnato al circo mediatico e al clero intellettuale di servizio. E’ una guerra politica con profonde radici culturali nei processi innescati dal successo delle idee del Sessantotto, prontamente utilizzate dal capitalismo per cambiare pelle, diventare permissivo ed iperindividualista, estendere il proprio potere attraverso la privatizzazione integrale che ha sbriciolato la dimensione pubblica e gli Stati nazionali. Contemporaneamente ha colonizzato l’immaginario popolare, proibendo di fatto il cambiamento, nella credenza “che tutto ciò che esiste, è naturale esista” (A. Gramsci).

Le classi inferiori cominciano a percepirsi come un ostacolo, un freno ai processi emancipativi del progresso obbligatorio, cambiando i propri riferimenti politici. In Europa come negli Stati Uniti, la sinistra è prigioniera del suo elettorato di alto reddito, si è rinchiusa nelle metropoli e nei centri storici eleganti delle città. Non sa e non vuole più parlare alla classe lavoratrice precarizzata, ai disoccupati, ai ceti medi, ai giovani derubati del futuro. L’elemento più importante di questa dinamica è che la rottura è principalmente culturale. In passato, la sinistra considerava rispettabili i ceti subalterni, oggi li percepisce come deplorevoli o fascisti. Il popolo è un peso, un fastidio dal quale liberarsi.

La liquefazione dei legami sociali ha raggiunto l’acme con il dominio della cultura libertaria e narcisista che divide il mondo tra se stessa, cool, alla moda, cosmopolita, senza legami, colta, nemica dell’identità e gli altri, arretrati, incatenati a vecchie idee, ignoranti. Questa sinistra snob, metropolitana, piena di sé, disprezza profondamente chi non fa parte del suo mondo, non pratica il poliamore, non discute di postfordismo, non commenta l’ultima serie di Netflix, chi, orrore massimo, è fedele alla famiglia naturale, alla terra natia, addirittura si permettere di credere in Dio e esprimersi non nel disgustoso inglese globish da aeroporto e listini di borsa, ma nell’idioma natio.

Il fenomeno interessa tutte le nazioni. In Spagna, il sociologo Daniel Bernabè, nel saggio La trappola della diversità, ricalca le tesi di Guilluy, accusando la sinistra di essere caduta in una autoreferenzialità prossima al solipsismo, in cui passa il tempo a spiegare agli altri in che cosa sbagliano. Incapaci non solo di accogliere, ma neppure di concepire concetti come il patriottismo, l’identità, la famiglia, le lotte sul posto di lavoro, la difesa dell’ambiente rurale, avvolti nei propri stracci disprezzano quanto ignorano. Scrive Bernabè che sono giunte a noi le guerre culturali, i conflitti intorno ai diritti civili, la rappresentanza di gruppi che situano i problemi non nell’ambito economico, lavorativo e ancor meno nella struttura generale della società, ma in campi meramente simbolici. Il matrimonio omosessuale, il linguaggio di “genere” o l’educazione alla cittadinanza hanno occupato le prime pagine dei media, scatenando violente polemiche. Tali conflitti culturali neoborghesi, costruiti nei laboratori delle università americane, assumono un valore simbolico e diventano leggi, permettendo a governi autodefiniti di sinistra (o centrosinistra, concetto light che affievolisce il senso delle parole, esattamente come centrodestra) di svolgere politiche antipopolari nel campo economico e sociale.

In un mondo dove l’ideologia libertaria si è trasformata in alibi per affermare a livello di massa personalità isolate, sconnesse dalla comunità, la carovana progre si sforza soltanto di trovare, nella cornucopia del vocabolario politicamente corretto, le parole adeguate per riconoscere ogni diversità, creando un superstizioso alone di rispetto per qualunque minoranza mentre il sistema trascina miliardi di persone ai margini della storia. Non ricerca più una narrazione comune che unisca intorno a obiettivi e principi condivisi, ma enfatizza le specificità- alcune specificità, beninteso – per colmare l’angoscia di un presente senza identità, di comunità, di classe, di popolo. Diversità come trappola, anziché ricchezza.

Il classismo di sinistra raggiunge vette di autentica follia, oltrepassa il ridicolo negli Usa, come nella rappresentazione di Tom Wolfe (Il falò delle vanità), nel ritratto fatto da Allan Bloom di una cultura che si accartoccia sui propri tic, rendendoli incubi collettivi (La chiusura della mente americana), nel culto narcisistico di sé smascherato da Christopher Lasch (L’io minimo, La cultura del narcisismo). Mark Lilla, autore de Il ritorno liberale, figlio di un’infermiera e di un operaio della General Motors, descrive il suo sconcerto di giovane povero che si sentiva impartire lezioni dai figli di dirigenti Ford sulla natura della classe lavoratrice. Ancora più tagliente è Jim Goad, autore del celebre Manifesto Redneck (redneck, “colli rossi”, riferito al colore scuro della nuca di chi lavora all’aperto, contadini, muratori, manovali). “Sapete qual è il mio problema con i marxisti americani? Tutti quelli che ho incontrato sono ricchi bianchi che ti danno lezioni su come ti senti di appartenere alla classe lavoratrice”.

Il Partito Democratico Usa del XXI secolo, come le sinistre europee, si concentra ormai sugli interessi e le fissazioni sottoculturali di ceti in possesso di lauree, master e studi avanzati, specie tecnici e scientifici. E’ una classe sociale la cui ascesa è iniziata nell’ultimo mezzo secolo. Si tratta di un gruppo sociale numeroso e potente per i servigi che rende alle oligarchie, ancorché minoritario: ingegneri, matematici che calcolano i rischi per le imprese finanziarie o la Borsa, chimici e biologi dell’industria farmaceutica, informatici specialisti in software e programmazione, insegnanti, addetti a servizi avanzati. Nel tempo le opportunità si sono ristrette a chi possiede redditi elevati, l’ascensore sociale si è fermato. La nuova sinistra è l’altoparlante di questi ceti, e disprezza senza mezzi termini il resto della popolazione.

Non vi è dubbio che una battaglia culturale sia anche una lotta ideologica. Fa comodo ai dominanti far credere che la nostra sia un’epoca post ideologica. Non è così. 
La verità è che ci viene proibito un autentico confronto di idee in quanto smaschererebbe le contraddizioni del potere, permissivo e libertario nella forma, totalitario, censorio nella sostanza. 
E’ utile, al riguardo, analizzare alcune scoperte di Christophe Guilluy, il cui approccio multidisciplinare, sociologia più geografia ed economia, svela scenari molto interessanti. Uno ci parla della mappa diseguale per cui alcune aree metropolitane fagocitano il resto del paese, che si svuota a velocità crescente. Sono i territori rurali, i distretti industriali di ieri desertificati dalla delocalizzazione, le tante periferie escluse dai processi economici, lasciate a un destino di invecchiamento, disoccupazione, perdita di infrastrutture.

Declino economico, emorragia demografica, irrilevanza culturale del “mondo di sotto”: classi medie e medio basse, la maggioranza esclusa dal potere, emarginata dai processi di creazione e riproduzione della ricchezza, disprezzata nei valori morali e materiali. Lì si è determinata la più profonda delle fratture sociali, lì si è spezzato irrimediabilmente il cielo di carta. La cartografia di Guilluy è impietosa nell’osservazione della frattura sociale avvenuta, a partire dagli anni Novanta, con la transizione dolorosa verso la globalizzazione. “Nelle aree più remote delle metropoli del mondo, in quelle delle città di piccole e medie dimensioni, del suburbano imposto e dei territori rurali, gli effetti negativi della globalizzazione sono sempre più visibili. Questi territori disegnano un continuum socioculturale nel quale sono rappresentate le categorie popolari.”

L’insicurezza economica di un mondo spietato si unisce alla crisi delle certezze comunitarie, dei modi di vita travolti, trasformandosi in insicurezza culturale. Nel mondo di sotto vive il popolo, i somewhere, coloro che vengono da qualche parte, possiedono cioè, e cercano di difendere, un’identità, contrapposti agli anywhere, il mondo di sopra, che si è disfatto delle appartenenze, dei confini e delle radici. La polarizzazione della ricchezza, delle opportunità e dei servizi è dimostrata da statistiche inoppugnabili. Nel XXI secolo, i posti di lavoro si sono concentrati quasi esclusivamente in alcune aree urbane. Il fenomeno è molto esteso in Francia, dove la metà degli occupati si affolla in una dozzina di distretti metropolitani. Guilluy fornisce dati impressionanti sulla diminuzione di valore del mercato immobiliare a favore di sole dieci città.

La diseguaglianza territoriale è evidente anche in Italia: al triste, secolare squilibrio tra Nord e Sud, si è aggiunto il divario crescente tra le aree montane e quelle costiere, le zone raggiunte dalle maggiori vie di comunicazione e le altre, lo spopolamento impressionante delle campagne, la desertificazione dei tanti distretti industriali di ricca tradizione travolti dalla crisi irrimediabile del settore manifatturiero prodotta dalla liberalizzazione dei mercati, dalla delocalizzazione, la tempesta perfetta globalista.

I benefici del nuovo modo di produzione sono andati soprattutto all’Asia, emersa come polo produttivo mondiale, nonché, da noi, ad una piccolissima minoranza. Alla classi medie e basse d’Europa e dell’Occidente sono rimaste le briciole. Mondo di sopra, composto forse dal 20 per cento della popolazione, concentrato nelle aree metropolitane, mondo di sotto disperso in un mondo di sotto variegato, impoverito, in cui artigiani e lavoratori autonomi sono proletarizzati quanto gli operai, gli impiegati del commercio e del turismo. E’ un mondo che si avvia verso una triste estinzione, inaugurando, secondo Guilluy, il tempo della a-società, della rottura del legame, sia pure asimmetrico, che univa mondo di sopra e mondo di sotto.

Arroccati nei loro santuari, lorsignori si fanno scudo di una inesistente superiorità morale, della retorica insopportabile della società aperta, dei vantaggi del multiculturalismo, che, per i più, non è altro che la fine di certezze e valori antichi di secoli e, concretamente, una lotta sanguinosa tra ultimi – gli immigrati, i poverissimi, i disadattati – e (quasi) tutti gli altri. Per troppo tempo, conclude Guilluy, “le classi dominanti sono state protette dalla costruzione mediatica e accademica dell’immagine di un mondo di sopra buono e illuminato che si scontra con un mondo di sotto bellicoso e ignorante. Questa posizione morale ora è svanita: ormai la società aperta e la postura morale che la accompagna non ingannano più nessuno.” La retorica comunicativa è fallita come fallimentare si è rivelato l’esperimento ideologico neo liberista.

Nel trionfante relativismo “le tensioni culturali, etniche e/o religiose si moltiplicano proporzionalmente all’abbandono del bene comune, all’intensificazione dei flussi migratori e al passaggio dal generale al particolare”. I ceti popolari e le classi medie escono dalla storia, ma sprigionano una collera dagli effetti imprevedibili. Nessuna ideologia, nessuna narrazione o modello sociale regge quando contraddice gli interessi della maggioranza, che va esprimendo una richiesta di protezione che definisca gli ambiti comuni: lo Stato sociale, la regolazione dell’immigrazione, la sicurezza in senso ampio. La natura, ed anche la società umana, non tollera il vuoto.

Espulsa la legge morale, ridotta la presenza umana a una competizione continua per il lavoro, il consumo, scampoli di benessere da vivere in corsa, senza principi e punti fermi, si spezza il cielo di carta dell’a-società.

Esaurite dalla postmodernità estenuata le categorie del passato, tramontate la destra e la sinistra, unite nella menzogna neo capitalista, restano l’alto e il basso, il centro e la periferia, popolo contro élite, patrizi contro plebei. E’ una battaglia mortale da trasferire sul terreno politico, da trasformare in guerra ideologica, vittoria sul linguaggio imposto dai dominanti. Per ora, in mancanza di un lessico migliore, definiamo i difensori del mondo di sotto populisti e invochiamo, con le parole di ieri, l’avvento della destra dei valori e della sinistra del lavoro.

Energia pulita - Parco eolico offshore East Anglia One comincia a produrre energia

Il parco eolico offshore più grande al mondo ha iniziato a produrre energia

Pubblicato il 20 SET 2019 di RUDI BRESSA

La prima delle 102 turbine eoliche è entrata in funzione e fornisce energia elettrica alla rete. Una volta completato nel 2020 l'East Anglia One sarà il parco eolico più grande al mondo.

È come posare la prima pietra di quella che sarà la nostra casa. È questa la sensazione che devono aver provato i tecnici dopo aver collegato alla rete nazionale inglese la prima turbina eolica dell’East Anglia One, entrata in funzione la settimana scorsa. Si tratta della prima di 102 turbine eoliche che, una volta completato il progetto nel 2020, comporanno quello che viene considerato come il parco eolico offshore più grande al mondo. Con una capacità installata di 714 megawatt (MW), si stima sarà in grado di alimentare 630mila famiglie inglesi, quasi come tutta la popolazione di Glasgow.

Una delle piattaforme che ospiteranno le turbine eoliche © Vannord

A renderlo noto è Iberdrola, società spagnola che ha investito circa 2,8 miliardi di euro sul progetto. La prima turbina è stata così collegata alla rete elettrica britannica, e farà parte dell’impianto che sorge nel Mare del Nord, a circa 50 chilometri dalla costa della contea di Suffolk, nel Regno Unito, e che dovrebbe essere completato entro il prossimo anno.
I numeri del parco eolico offshore East Anglia One

“Collegare la prima turbina eolica alla rete è una pietra miliare, il culmine di un lavoro incredibilmente duro da parte di tutti, dai fornitori locali ai dipendenti di aziende nazionali e internazionali”, ha detto Charlie Jordan, project manager di East Anglia One. “Una volta pienamente operativo, East Anglia One produrrà l’energia rinnovabile di cui il Regno Unito ha bisogno, fornendo al contempo posti di lavoro e opportunità stabili per le persone e le imprese locali”.

L’impianto è in costruzione nel Mare del Nord, a circa 50 chilometri dalla costa della contea di Suffolk © Siemens

Un impianto di questo tipo infatti, oltre a fornire energia rinnovabile e favorire la transizione energetica del paese, ha creato migliaia di posti di lavoro: sono circa 1.300 le persone che stanno lavorando al progetto, provenienti da diversi paesi come Spagna, Regno Unito, Paesi Bassi, Emirati Arabi Uniti. Ha inoltre dato un’ulteriore spinta al settore dell’eolico spagnolo, impiegando società locali come Navantia, Windar e Siemens-Gamesa.

Ready, steady...GO!
It will be one of the largest offshore wind farms in the world... and it already works East Anglia One will provide clean electricity to 630,000 British homes.A new challenge ACHIEVED by the Iberdrola team as we continue leading the energy transition

Il parco eolico offshore East Anglia One sorgerà su un’area di 300 chilometri quadrati. Le 102 turbine eoliche costruite da Siemens e preassemblate e trasportate via mare una volta montate avranno un diametro pari all’apertura alare di un Airbus A380, circa 80 metri. L’impianto una volta operativo concorrerà così ad accrescere la quota di rinnovabili in Europa.

Il veleno che mettiamo a tavola, che produce esponenzialmente tumori, uccide uccelli

La scioccante sparizione di 3 miliardi di uccelli nei cieli di Stati Uniti e Canada

Il dato si riferisce agli ultimi 50 anni. La popolazione volatile si è ridotta del 29% e le cause sono molteplici. Le più importanti sono l’impiego di pesticidi nelle coltivazioni e le modifiche all’habitat naturale

20 settembre 2019,16:49


I cieli del Canada e degli Stati Uniti non sono mai stati così vuoti: negli ultimi 50 anni sono spariti 3 miliardi di uccelli, il 29% della popolazione. Il numero “scioccante” è il risultato di una ricerca pubblicata sulla rivista Science, e la prova di una “una crisi conclamata”, com l’hanno definita gli esperti. Ma non si tratta di un fenomeno solo americano, secondo gli studiosi, in Europa si sta verificando un declino simile, anche tra le specie comuni. "I numeri sono sostanzialmente comparabili", ha assicurato ha affermato Kevin Gaston, biologo della conservazione presso l'Università di Exeter, in Inghilterra.

Da tempo gli esperti sono consapevoli del fatto che alcune specie di uccelli sono diventate vulnerabili all'estinzione. Ma il nuovo studio realizzato da un team di ricercatori universitari, organizzazioni no-profit e agenzie governative, evidenzia un rapido declino anche tra uccelli tradizionalmente abbondanti come pettirossi e passeri.

Le cause sono molteplici, ma le più importanti sono l’impiego di pesticidi nelle coltivazioni e le modifiche all’habitat naturale. Non è un caso, infatti, che è nelle praterie che si sono registrate le perdite più massicce con 717 milioni di uccelli che mancano all’appello. “Ogni campo arato e ogni area umida prosciugata segna la scomparsa di uccelli in quella zona", ha dichiarato Kenneth V. Rosenberg, scienziato per la conservazione presso la Cornell University e l'American Bird Conservancy e principale autore dello studio. Uno studio pubblicato la scorsa settimana, inoltre, ha dimostrato quanto i pesticidi siano dannosi per gli animali. In particolare, neonicotinoidi rendono più difficile per gli uccelli aumentare il peso necessario per la migrazione, ritardandone il viaggio.

Le specie di uccelli comuni sono vitali per gli ecosistemi in quanto controllando i parassiti, impollinando i fiori, diffondono semi e rigenerano le foreste. Quando questi uccelli scompaiono, gli habitat cambiano in modo netto. “Siamo di fronte alla scomparsa della Natura”, ha commentato Gaston.

“Il declino del numero di passeri comuni potrebbe non ricevere la stessa attenzione di quello delle aquile calve - simbolo degli Stati Uniti -, ma avrà un impatto molto maggiore", ha commentato al New York Times Hillary Young, biologa della conservazione dell'Università della California, Santa Barbara, che non era coinvolta nella ricerca.

Il nuovo studio, ha preso in esame le popolazioni di 529 specie tra il 2006 e il 2015. Tali stime comprendono il 76% di tutte le specie di uccelli negli Stati Uniti e in Canada, ma rappresentano quasi l'intera popolazione di uccelli. Per le loro ricerche, gli studiosi si sono serviti dei registri di birdwatching dal 1970 in poi, prima di quell’anno non erano disponibili dati concreti. I dati sono stati combinati con quelli registrati dal 2007 al 2018 dai radar posizionati in 143 stazioni negli Stati Uniti. I ricercatori si sono concentrati sulle scansioni primaverili, quando gli uccelli migrano in gran numero. Il team ha misurato un declino del 14 percento durante quel periodo, in linea con il calo registrato nei registri del birdwatching.

Quattro anni di bombardamenti indiscriminati sullo Yemen, 100mila yemeniti morti, venti milioni di yemeniti malnutriti, 2,3 milioni di casi di colera

GEOPOLITICA

Venerdì, 20 settembre 2019 - 16:50:00
Iran, Trump annuncia sanzioni contro la banca centrale
Trump, sanzioni contro la banca centrale iraniana: intanto il ministro degli Esteri dell'Iran Zarif è negli Usa per l'Assemblea generale delle Nazioni Unite

Foto: LaPresse

Il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, ha annunciato sanzioni contro la banca centrale iraniana. A suo dire, si tratta del "piu' elevato livello di sanzioni" imposte contro un Paese. Trump ha parlato alla stampa dalla Casa Bianca.

IRAN: ZARIF, 'PER USA PETROLIO E' PIU' IMPORTANTE DI SANGUE ARABI' 

Per gli Stati Uniti il petrolio è più importante del sangue degli arabi. Lo ha scritto su Twitter il ministro degli Esteri iraniano Mohammad Javad Zarif, accusando gli Stati Uniti di crimini in Yemen. ''Sangue arabo contro petrolio arabo. Un fondamentale della politica Usa'', ha scritto il capo della diplomazia iraniana, che ha poi fatto un elenco dei ''crimini commessi dagli Stati Uniti''.

''Quattro anni di bombardamenti indiscriminati sullo Yemen, 100mila yemeniti morti, venti milioni di yemeniti malnutriti, 2,3 milioni di casi di colera'', ha scritto. E poi, ancora: ''carta bianca per i colpevoli, attacco di rappresaglia yemenita contro serbatoi di petrolio, inaccettabile 'azione di guerra'''.

Guerra illimitata, gli statunitensi non sono preparati. Curioso accumulano soldati per un accordo pacifico, si prendono in giro da soli

Iran: "guerra totale in caso di attacchi da Washington e Riyadh"

Di Antonio Michele Storto • ultimo aggiornamento: 19/09/2019 - 22:50


Il ministro degli esteri iraniano Javad Zahrif ha minacciato "guerra a tutto campo" in caso di attacchi statunitensi o sauditi contro il suo paese.

Zarif ha criticato duramente il suo omologo statunitense Mike Pompeo per aver definito l'attacco alle raffinerie saudite come un "atto di guerra" da parte dell'Iran. Critiche alle quali Mike Pompeo -a margine della sua visita ufficiale ad Abu Dhabi - ha risposto prontamente.

"Act of war"or AGITATION for WAR?
Remnants of #B_Team (+ambitious allies) try to deceive @realdonaldtrump into war.
For their own sake, they should pray that they won't get what they seek.
They're still paying for much smaller #Yemen war they were too arrogant to end 4yrs ago.

"Penso che sia chiaro, che tutti sappiamo esattamente che c'è l'Iran dietro questi attacchi" ha detto il Segretario di stato ai giornalisti. "Ero qui in un atto di diplomazia mentre il ministro degli Esteri iraniano minacciava di combatterci 'fino all'ultimo soldato americano'. Siamo qui per costruire una coalizione e per raggiungere una soluzione pacifica. Questa è la mia missione".

Mercoledì l'Arabia Saudita ha mostrato - come prove inconfutabili del coinvolgimento iraniano nell'attacco alle raffinierie Aramco- i resti di quelli che ha descritto come droni iraniani e missili da crociera, utilizzati pwer un offensiva che era inizialmente stata rivendicata dai ribelli filoiraniani Houti, con base in Yemen, e per il quale l'Iran continua a negare ogni responsabilità.

Nubi sempre più nere in veloce avvicinamento nel cielo statunitense

Sabato, 21 settembre 2019 - 14:42:00

La Fed allontana la recessione? Miliardi di dollari immessi nel mercato Usa

Lotta contro il tempo per fermare la recessione, prevista entro 12 mesi. Ecco cosa fa l’economia che comanda il mondo e l’Italia...

di Antonio Amorosi


Quando si dice che gli assetti politici italiani vengono decisi all’estero non si sbaglia. Ma non è la politica a determinarli, bensì l’economia. E lo spauracchio attuale si chiama recessione: la possibilità di una nuova crisi economica negli Stati Uniti.

Gli indicatori della Federal Reserve (Fed), la banca centrale degli Stati Uniti d'America, prevede la possibilità di una recessione certa entro 12 mesi. L’indice di probabilità viene dato al 32,9%. Dal 1960 a oggi ogni qual volta la soglia di questo indicatore ha superato il 30% è arrivata la recessione nei successivi 12 mesi. In questo quadro a fine luglio scorso la Fed ha abbassato di 25 punti il costo del denaro ed ha adottato contromisure per non far frenare l’economia americana. Il governatore della Fed, Jerome Powel, ha dato così inizio ad una serie di interventi dopo che le banche americane sono entrate in difficoltà nel trovare i contanti necessari a fare funzionare i sistemi di credito.

Stessa valutazione della Fed è stata fatta dalla Bce, dalla Banca del Popolo cinese, dalla Banca centrale del Giappone e da quella dell’India.

La difficoltà delle aziende americane di recuperare denaro liquido per pagare spese e tributi, la riduzione delle riserve bancarie della Fed (dal 2011 si sono dimezzate), le continue emissioni di titoli del Tesoro per finanziare un crescente debito federale, una riduzione del Quantitative easing stanno creando una situazione d’insieme non facile. In questo scenario la crisi politica italiana di questa estate, con il possibile rafforzamento del partito di Matteo Salvini, avrebbe potuto incrinare la solidità europea che in questo momento fa gioco agli Stati Uniti e alla stabilità dell’economia mondiale.

Gli Stati Uniti sono in crescita da 10 anni con un tasso di sviluppo che si aggira in media tra il 2,5 e 3% annui. Numeri per noi da fantascienza. Il 70% circa del Pil dipende dal credito privato. La capacità di questi ultimi di muovere l’economia è determinante. Ma finita la soglia di coloro che sono solventi e che possono comprarsi 3 case, 5 automobili, 12 frigoriferi l’economia a reiniziato da tempo a dare credito a coloro che lo sono sempre meno (che hanno sempre meno coperture). Parliamo della cosiddetta “economia del debito”. Lo stesso è successo, anche se nel settore immobiliare e in un contesto economico generale differente, con la crisi dei titoli subprime nel 2007-2008.

Ora la difficoltà del mercato americano è relativa ai prestiti interbancari a brevissimo termine che potrebbero portare elevati ostacoli al credito in generale e all’economia reale.

Così in queste ore la Federal Reserve ha intensificato l’iniezioni di liquidità nel mercato immettendo ieri, il quarto giorno consecutivo di interventi, 75 miliardi di dollari e annunciando che nei prossimi giorni potrebbero esserci anche interventi più massicci. La Fed ha fino ad adesso immesso nel mercato liquidità, per lasciare fluide le attività di prestiti bancario e il trading, quasi 300 miliardi di dollari. Un totale che, alla fine dell'intervento odierno, potrebbe anche superare i 1.300 miliardi di dollari. Queste operazioni dovrebbero servire a garantire una liquidità sufficiente per il mercato dei prestiti a breve termine, cruciale per le banche e le grandi società. 

Ma le dimensioni dell’azione della Fed potrebbero anche non essere sufficienti per fermare il peggio. Forse gli interventi andavano messi in campo prima. Forse, anche se con un sistema del genere, basato sul debito, le crisi e le recessioni sono all’ordine del giorno, è solo una questione di tempo.

La domanda sorge spontanea: sarebbe il caso di ridiscutere i fondamentali di un‘economia che basa la sua crescita sui debiti contratti da coloro che sono insolventi oppure no?

Vox Italia - due ore fa la pagina è stata eliminata da Facebook

21 settembre 2019

È ufficiale. Ci hanno bloccato la pagina di Vox Italiae. Forse perché non diciamo "più Europa" e "decidono i mercati". Forse perché siamo sovranisti, populisti e socialisti. Forse perché crediamo in una confederazione internazionalista di Stati sovrani, democratici e socialisti. Forse perché non ci arrendiamo e lottiamo per un'Italia all'altezza della sua storia, in cui tornino il Rinascimento e i diritti sociali. Un'Italia di chi lavora e non di chi specula vivendo in modo parassitario. Un'Italia fiera di sé e rispettosa delle altre nazioni. Un'Italia che non sia miserrima colonia di Bruxelles e di Washington. Un'Italia basata sulla democrazia, cioè sulla sovranità popolare nello Stato sovrano nazionale. Un'Italia degna di sé e degli spiriti magni che l'hanno fatta grande: l'Italia di Dante e di Petrarca, di Machiavelli e di Manzoni, di Vico e di Gioberti. Si può lottare e perdere. Chi non lotta ha già perso.

Diego Fusaro

20 settembre 2019 - Massimo Fini: "Renzi è anche peggio di Berlusconi, un uomo di cui non ti...

Niente di nuovo il Fondo monetario internazionale di Lagarde ha messo di nuovo sul lastrico l'Argentina di Macri

L’Argentina di Macri alla fame. Varata una legge che dichiara l’emergenza


Il Parlamento argentino all’unanimità ha approvato una legge presentata dalle opposizioni al governo neo-liberista di Macri che riconosce l'emergenza alimentare generata dai fallimenti di un paese tornato schiavo del Fondo Monetario Internazionale.

La Legge sull'emergenza alimentare obbliga lo Stato ad estendere la sua assistenza nelle sale da pranzo della comunità alle aree più vulnerabili e alle scuole pubbliche.

Ora l'esecutivo argentino, presieduto da Mauricio Macri, avrà un periodo di dieci giorni per iniziare l'esecuzione della legge. L'annuncio è stato fatto da varie organizzazioni sociali che dall'anno scorso hanno richiesto un'attenzione alimentare speciale ai bambini e agli anziani, che soffrono fortemente dell'attuale crisi economica nel paese.

La proposta è stata fatta dal deputato del movimento Evita, Leonardo Grosso, il quale ha affermato che l'attuale crisi supera quella del 2001 e colpisce principalmente il cibo della popolazione.

Secondo l'Osservatorio del debito sociale dell'Università cattolica argentina (UCA), la povertà estrema è aumentata di cinque punti percentuali dall'inizio del governo di Macri, dal 29 al 34,6 percento.

Per fortuna a breve nel paese ci saranno le elezioni presidenziali e poi l'incubo Macri sarà solo il peggiore dei ricordi per gli argentini.

Hanno rapinato i salari, stipendi, pensioni, redditi, istituito il precariato a vita per succhiare più denaro possibile a favore dei sempre più ricchi, hanno lasciati una sopravvivenza non dignitosa estremamente sempre in bilico, hanno tagliato qualsiasi progetto di vita e si accorgono che la domanda non parte. Pretese ridicole e assurde

Vi spiego come e perché l’ultimo bazooka della Bce ha fatto flop. Il corsivo di Salerno Aletta

21settenbre 2019


L’analisi dell’editorialista Guido Salerno Aletta

“È come una corda, la politica monetaria”: serve solo a tirar via il cavallo dal secchio dell’acqua, quando ne ha già bevuta troppa.

Se c’è inflazione, o la speculazione sui titoli ne porta il valore alle stelle, non c’è che da alzare i tassi e chiudere il rubinetto della liquidità: hai immediatamente l’effetto restrittivo desiderato sul credito, che si fa scarso e più caro. L’economia rallenta immediatamente.

Ma al contrario, non funziona: se non ci sono le condizioni per investire, se gli imprenditori e le famiglie non se la sentono di indebitarsi, puoi offrire i prestiti anche ad interessi zero, ma è inutile.

Si vede proprio che alla Bce guardano solo i monitor dei computer con le quotazioni di tutto il possibile, ma non seguono neppure per caso la pubblicità televisiva. Avrebbero notato che cosa accade, già da mesi, nel settore dell’auto: non c’è più un mercato della vendita per contanti.

E così, la prima asta per la assegnazione di liquidità a tre anni, bandita dalla Bce, è andata pressoché deserta: sono stati assegnati poco più di un paio di miliardi di euro rispetto ai 30-40 miliardi che ci si attendeva.

Le banche dell’Eurozona non si sono presentate all’appuntamento, perché di liquidità ne hanno già fin troppa, come dimostrano i loro mostruosi depositi presso la Bce, per somme che eccedono la riserva obbligatoria.

È curioso assai, vedere come la Bce cerchi ancora, in tutti i modi, di trovare nuovi debitori. Qualcuno che prenda i soldi e scommetta sul futuro. Anche perché, sia chiaro, le banche ordinarie prestano i denari solo con garanzie consistenti, reddituali e patrimoniali. Non rischiano di certo, non prestano ad occhi chiusi.

Sono tutti in grado di spiegare in modo estremamente analitico che cosa non va nell’economia globale, con gli squilibri commerciali strutturali.

Ci sono pure i Soloni, che magnificano i rimedi necessari per aumentare la produttività, la competitività, la redditività. Sono le famose riforme strutturali, che richiedono flessibilità, mobilità e disponibilità. Bisogna entrare ed uscire dal mondo del lavoro come trottole, cambiare azienda e padrone ad ogni stagione, muoversi in giro per il mondo alla ricerca di un lavoro, senza soste. Ed accontentarsi del salario offerto, senza pretendere di più. C’è poco da fare, invece, tutti vogliono vendere ed a comprare sono sempre gli stessi e con meno soldi. Le imprese non vogliono rinunciare ai profitti, meno ancora le banche: il capitale va remunerato adeguatamente. Altrimenti, in Borsa sono dolori.

Nessuno si vuole più indebitare, neppure le banche ordinarie con le banche centrali. Figurarsi gli Stati come l’Italia, che di debito ne ha fin troppo e sta sempre appesa allo spread dell’ultima ora.

Si chiude un’era: nessuno vuole fare altri debiti. Neppure ad interessi zero.

Pressoché deserta l’asta della Bce per la liquidità a tre anni.

Floppone… il cavallo non beve più.

(estratto di un articolo pubblicato su Teleborsa)

E così scopriamo che nel centro di produzione dei “nuovi leader” si studia invece la Storia

Diseguaglianze

di Pierluigi Fagan
17 settembre 2019

Le diseguaglianze intellettive non sono il riflesso di quelle sociali, ne sono la precondizione.

Per trattare il discorso cominciamo con l’espellere subito il concetto di intelligenza. Neanche esiste una univoca definizione certa di intelligenza e della stessa intelligenza, pare ne esistano una dozzina di versioni. In più, se consideriamo la natura plastica del cervello, organo sviluppatosi apposta per favorire l’adattamento e quindi “plastico” di sua natura, abilità e propensioni intellettive possono esser coltivate come per altro è esperienza comune. Infine, seppure qualcuno rimarrà meno brillante di altri, questo non giustifica lo stato macroscopico di diseguaglianza intellettiva che si riscontra oggi nella nostre popolazioni. La diseguaglianza intellettiva non è riferita alla distribuzione “naturale” di intelligenza (?) ma alla ineguale distribuzione di conoscenza e modi di pensare.

Recentemente, ho preso dalla pagina di Giuseppe Masala, questo schemino prodotto per uno degli annuali forum del “ghota” dei decisori planetari, il World Economici Forum che si riunisce annualmente a Davos. Come da altre parti è comparso e sta spesso comparendo, le élite denunciano una mancanza di pensiero sferico. Il “pensiero sferico” è a-specialistico, quindi molto adattivo nei periodi di cambiamento.

Sapete fare molto bene A, i tempi però richiedono sempre meno A e sempre più B, dovete fare un salto da A a B. Se siete ultra-specializzati non ci riuscirete, se siete “sferici” probabilmente sì. O forse non è detto dobbiate esser proprio voi a saper fare B, basta che vi rendiate conto che adesso non vi serve più un A, vi serve un B. che potrete trovare al mercato delle offerte di competenze.

Potremmo dire che il “pensiero sferico” è autocosciente quindi auto correttivo ed elastico mentre il pensiero specialistico è solo cosciente e per nulla elastico, il che in tempi di “cambiamento” non è una qualità. La gerarchia sociale prevede élite con pensiero sferico e popolo con pensiero bidimensionale, i secondi fanno, i primi decidono cosa fargli fare. Quando cessa la domanda della vostra specializzazione, cessa la vostra utilità, avanti un altro o una macchina.

L’articolo del New Yorker che allego, a parte il finale che s’impelaga nella pur comprensibile ossessione americana liberal sulla condizione politica attuale, racconta della quasi completa sparizione di istruiti in Storia, soprattutto all’indomani della crisi del 2008/9. Finanziatori, docenti ed alunni, si sono tutti polarizzati verso le famose materie STEM Scienza, Tecnologia, Ingegneria, Matematica. Tranne a Yale, il cui presidente ha enunciato la mission storica del college quale “responsabilità di formare i nuovi leader”. E così scopriamo che nel centro di produzione dei “nuovi leader” si studia invece la Storia. Del resto, chi comanda la storia, comanda la Storia. Dalla nascita delle società complesse cinquemila anni fa, l’evocazione degli antenati, dei fondatori, dello Spirito originario, delle intenzioni del Demiurgo e del Dio addirittura, è la precondizione per dire a tutti gli altri qual è la Via da seguire. Di contro, cancellare parti di storia è propedeutico al togliere fondatezze a coloro che cercano alternative.

Il Rinascimento a seguire l’Umanesimo, attingeva a piene mani dal periodo precedente al Medioevo proprio per dire “vedete, c’era un tempo in cui le cose erano diverse e possibili”. Non ho tempo e voglia di verificarlo ma mi sembra di aver letto tempo fa che alla London School of Economics, dai vari corsi di laurea in economics, avevano espunto proprio gli esami di storia economica. Avrebbe senso, se volete infondere il senso di “there is no alternative”, i racconti di come altrimenti andavano le cose sono da nascondere. Ad esempio, la possibilità che gli storici dell’economia vi possano far notare che il totalmente “libero mercato” nella storia dell’economia occidentale compare una sola volta per trenta anni, dentro un unico sistema che era l’Impero britannico (“il più vasto impero della storia umana”) e fu seguito dalla Prima guerra mondiale.

Vi lascio alla lettura del link. Prima però una piccola aggiunta. Il post precedente su i sistemi cosmologici, ha ricevuto alcuni commenti di impossibilità, “non possiamo cominciare a pensare a cinque variabili, non è alla nostra portata, nella nostra natura”. Sappiate che quelle cinque variabili sono proprio ciò che informa il “Global Risk Report” che ogni anno è la base della discussione degli incontri WEF di Davos. Le élite ragionano a cinque variabili (socio-politica, economia, ambiente, tecnologia, geopolitica), per questo “loro” sono élite e noi no.

Non era speranza ma andare a vedere il punto, a vedere quanto c'era di bluff e ... ci siamo riusciti, determinare che il M5S non è post ideologico ma un falso ideologico è stato necessario, come è stato necessario scoprire il vuoto del fanfulla e il suo farfugliare in presenza del potere vero e non quello immaginifico della propaganda, del corrotto euroimbecille Pd ne abbiamo la continua conferma. Adesso sgombrato il campo dalle ambiguità c'è spazio per la proposta politica seria, contro il Progetto Criminale dell'Euro e fuori dalla Nato ...

Il governo è caduto perché era nei patti


Roma, 18 settembre 2019

L’isteria della Lega poco prima del Ferragosto. Rilanci, dichiarazioni sanguinose, protervie assortite, pretese maramaldesche. Alle soglie del Ferragosto: quasi a materiare la crisi d’una assurdità metafisico-balneare. Certe rodomontate le si apprezzava da lontano; psicologicamente, remoti dal fervore della cure quotidiane, attutite: veniva voglia di dire: e fatela ‘sta crisi, ci rivediamo a settembre! Mentre si ingollava una bibita fresca, le piante dei piedi sprofondate nelle frescure dell’umida battigia. Un atto gravissimo, onusto di responsabilità epocali (aveva a liberare definitivamente il campo alle incursioni degli usurai europeisti), vissuto come uno scherzo: rammentava certa paccottiglia che i giornali, una volta, quando ancora sussistevano come giornali, inserivano nelle pagine scarnificate della cronaca, a mo’ di curiosità: pioggia di rane in Quebec, ritrovata una seconda tomba di Nefertiti in Tunisia, cane uggiola al padrone che l’aveva abbandonato dieci anni fa (o viceversa), “Farò l’avvocato! dice Miss Torvaianica”, il sigillo del Papa ha l’emblema di Atlantide; e così via.

Personalmente ho vissuto la disfatta come se fosse stata inscenata nei bagni misteriosi ricreati da Giorgio De Chirico. Con onde simboliche, cabine metafisiche, piscine eterne. Nulla sembrava vero: possibile che …? Ma sì, lo era, tutto come previsto, in verità: non immaginavo, però, che l’epilogo assumesse tali pose stralunate e sfacciatissime. A Ferragosto! O forse sì: solo a Ferragosto poteva riaprire il teatro dei pupi della democrazia liberale: così evidente da non farsi accorgere di tanta enormità.
Purtroppo la mossa risiedeva nei patti. Pacta sunt servanda. A meno che qualcuno, in nome di una italianità alta e disinteressata, colta, popolare e rifulgente a un tempo, abbia il muso di non rispettarli. In tal caso, tuttavia, chi non li rispetta va all’inferno con tutte le scarpe. E Salvini, e gli altri, non possono andarci poiché in paradiso si sta troppo bene. Nessuno ci va all’inferno, per il bene della Patria, poiché questa Patria maledetta, l’Italia, viene schifata da tutti. Non ce n’è uno di questi gaglioffi che abbia mai speso una parola di ammirazione per l’Italia. Nessuno. Fanno tutti i furbi. Si credono astute, queste facce di merda, mentre maneggiano, intrigano e recitano manganellate di gomma per quei poveri coglioni di elettori ancora animati da un manicheismo decrepito: di mezzo secolo, almeno: destra e sinistra, comunisti e fascisti, liberisti e dirigisti! Roba da spararsi dritti nel palato.

Sto rileggendo un po’ di Céline. Questa ignobile buffonata, la crisi, la rassomiglio alla rotta francese davanti agli Unni, nella Seconda Guerra. Son pagine memorabili, quello del Bastardo Destouches, una cosetta raffinata e rassegnata, dolente, in cui il prendingiro si ferma sempre lungo la linea abissale di uno sconforto immedicabile: “Son curiosi i soldati quando non vogliono proprio più morire …. L’ardore vien meno. Vedete quei graziosi ufficiali portar via il loro armadietto a specchio … traslocare il loro bene più prezioso … l’amichetta … in torpedo con diritto di precedenza … non li rivedremo tanto presto … Non avevano niente da fare in prima linea se non disturbare le battaglie, se battaglia ci fosse stata … Spettava ai militari esserci, rallentare l’invasore, rimanere a morire sul posto, il petto in fuori di fronte agli Unni, e non col didietro che se la svignava … Se dipendesse dalla forza delle parole saremmo senz’altro il re del Mondo. Nessuno potrebbe superarci in materia di chiacchiera e disinvoltura. Campioni del mondo in fanfaronate intontiti di pubblicità, di stupefacente fatuità, Ercoli in parlantina …”.

Segnali della decadenza: quando digiti “Céline” su google appare la "Dion".

I 5S, da spaccamondo a ligi impiegati del nichilismo finanziario, i democratici, ringalluzziti, come da copione e patti, e ritornati in sella, dopo aver subito ingiurie di cartone d’ogni risma e, infine, il Papeete. Sul Papeete e sulla moto d’acqua si son versati fiumi di inchiostro digitale. A me non importa nulla di queste smargiassate. Rilevo, dall’esterno, l’incredibile incapacità a mantenere il rigore, il pathos della distanza. La superficialità compiaciuta. Rimpiango Andreotti solo per questo. Un certo tono sussiegoso, persino lugubre; l’aplomb della giacca e della cravatta; la fronte rigata dalle cure quotidiane. Qui, invece, si ha l’impressione che ogni deputato e ciascun senatore di questo paese sappia per certo che il comando vero è ormai in altre mani e loro debbano, inevitabilmente, recitare il quaraquaquà del tira e molla. Solo dei figuranti che sappiano d’esserlo possono inscenare questi micidiali teatrini della stupidità. 5s e sinistra si possono disprezzare, ma il peggio lo dà la speranza Salvini, diviso fra pronube da bar, sbicchierate da coatti e ingurgitazioni da sagra unticcia. Ma tutti, ci tengo a precisarlo, tutti, sanno di non contare nulla: essi recitano, telecomandati dal Salmone Ottimo Massimo, la catastrofe. Al riparo dal filetto a due euro presso la mensa truppa del disonore.

Nei patti, già scritto. Come possiamo rilanciare l’opera degli usurai, si saranno domandati un paio d’anni fa: gli usurai stessi, beninteso. Possiamo far vincere una coalizione anti-usurai, avrà buttato lì qualcuno. Giusto. Diamo speranza. Speranza vuota perché continuamente accesa da fanfaronate senza sugo (gli sbarchi, il reddito di sudditanza). Quindi, avrà ontinuato a ragionare l’usuraio, grattandosi la patta, sfasciamo la speranza, sacrifichiamo i soliti noti (sinistra e 5S) per un programma lacrime e sangue (abolizione del contante, tasse, ius soli, libertà incivili) degno del peggior Monti al cubo. E poi? E poi ci pigliamo un altro paio di anni sabbatici con i coglioni di destra al potere (che nulla faranno contro di noi perché mai nulla hanno fatto). Un cinque anni pieni in cui il Programma andrà avanti! E la nave andrà! Nonostante nessuno senta le onde e gli ordini del nostromo … e la nave va!

I patti son nell’aria, mai scritti. I patti non scritti sono più ferrei di quelli vergati con l’inchiostro. Come quando ero militare e conoscevo, per filo e per segno, ogni minima tangente versata nella base. Cinque casse di lì, il cosciotto di qua, i liquori di là, la cresta sulle scarpe di sopra, la cresta sugli ammodernamenti di sotto. Portato in tribunale avrei fatto scena muta poiché, in realtà non avrei potuto dimostrare nulla. E poi, diciamocela, sotto le armi si stava bene, dai. Sturmtruppen, Sturmtruppen, ja! Interi vitelli spellati, mobilia di prim’ordine, prosciutti e casse di spumantino, divise, mutande e pettinini, preservativi e stellette, telescriventi, televisori, telefoni, messe in sicurezza, jeep e Beretta Mab 38, anfibi e baschi: eppure ci toccava andare in giro coi calzini rammendati da mamma, fare il turno senza munizioni sull’altana e poi festeggiare la fine dell’H24 colle solite mozzarelle alla mensa truppa. Ma tutti erano contenti. I patti si rispettano.

“C’è gran differenza tra il 1914 e oggi … Il soldatino … adesso è degno della forca, furbacchione, pagliaccio e sornione e carogna, bluffa, lancia sfide, scoccia l’universo, si dà un sacco di arie, ma quando si tratta di pagare la sua parte non lo becchi più. Non ha più l’anima a fior di pelle. E un ventriloquo, è uno sbuffo. E uno scroccone come tutti quanti. E crapulone e per nascita, è il tartufo proletario, la peggior specie schifosa, il frutto della civiltà. Si attegia a povero diavolo, non lo è più, è puttana e mestatore, sicofante, fannullone, ipocrita …”. Aveva ragione Cèline; già smidollati nel 1940, figuriamoci cosa siamo diventati oggi. Non crediamo più a nulla, sveniamo per un taglietto, ci lamentiamo se il letto non è comodo. E però si cicala di guerra civile.

Salvini, Renzi, Meloni, stessa risma … Di Maio, Zingaretti … hanno trovato l’America e i micchi ci cascano. Sui micchi di sinistra ho già dato, su quelli di destra potrei dare, ma ne vale la pena? Mi piace sottolineare solo un particolare, quale simbolo e paradigma devastante della messa in scena per l’elettore scemo: notate come Salvini brandisce il rosario. Maria, la Madre di Dio, piena di grazia, benedetta fra le donne … Figlia del Suo Figlio … il rosario, sino a pochi anni fa, significava ancora qualcosa, almeno a destra … Oscar Luigi Scalfaro e la devozione alla Madonna … guardate, invece, Salvini … gesticola con l’oggetto della più pura reverenza con le medesime movenze di Roberto da Crema, il televenditore, detto Baffo: signore e signore, ecco lo Snellex! E, sullo sfondo, una formosa culona di provincia sudava su di una cyclette grigia, da negozio di terz’ordine … de retro, ovviamente … un culo rotondo e tumido, il fenotipo che alcune ragazze, altrimenti anonime, si ritrovano per qualche combinazione genetica accesa ab immemorabili … incroci e scambi, stupri e sopraffazioni patriarcali, lagunari, longobarde, normanne … un culo quello, rigato da quasi impercettibili umori ciclistici, che si riverberava, colla carica sua di erotismo carnoso e grossolano, per tutta la persona, a rinfocolare una sfacciataggine da donna piena, a tutti gli effetti … eccitante, poi, da basso arrazzamento Sturmtruppen … un culo traspirante di speranza (per le signore) e di sudicio invito (per i signori) … questo almeno sino a qualche decennio fa, in media … Baffo, battendo grandi manate sul tavolo, a dita aperte, s’infervorava per lo Snellex … sino a perdere il fiato … aizzava gli spettatori tra un’inspirazione cavernosa e l’altra … sempre più affannato, a recuperare un minimo di metabolismo aerobico, sempre oltre, a suggere le estreme bolle d’ossigeno dintorno: da autentico kamikaze del Serio … rischiava, il Baffo, la crisi da cianosi … e tutto per generare una sorta di allucinazione ipnagogica nella casalinga e nel pensionato anzidetti … rapiti da quei risucchi preagonici in cui la precisa proporzionalità fra collasso respiratorio e foia da shopping tangeva l’estasi del pecoreccio, per citare il compianto Tommaso Labranca … allora, in quel culmine, le chiappe pristine di Charlize Theron si sovrapponevano nell’immaginario delle signore alle proprie, da moglie sgualcita … mentre il maschio prostatico, invece, sfiorandosi delicatamente la patta, senza farsene accorgere, sentiva antiche forze trapestare in un risveglio di primavera erettile. Sfiancato, ormai domo, pronto per la bombola d’ossigeno, a rianimare l’emoglobina in riduzione, come Ginger Baker al termine d’una jam dei Cream, Baffo conteggiava gli squilli che una segretaria rimediaticcia impilava nelle liste della coglioneria … da Lambrate, Genova, Pescara, Poggibonsi l’Italia profonda anelava pedalare onde addivenire al giusto status edonista … il lunario era salvo … viva il lunario … evviva il rosario …

Adocchiato, di sfuggita, Marcello Foa, durante un incontro col Papa. Foa, l’ultima speranza alla RAI dei controinformatori, si genufletteva con una vocetta servizievole, di spessa circostanza … un dirigente, invece, rievocava la propria infanzia dedita all’oratorio - l’oratorio! - che l’aveva distolto da non so quali pericoli di perdizione … “L’oratorio mi ha strappato dalla strada …”. Tutti, e dico tutti, amano inventarsi un retroterra popolare, una volta giunti all’apice del vampirismo: un flebile senso di colpa agisce, forse, in loro … persino Berlusconi dissotterrò origini umilissime … gli stessi dirigenti comunisti d’antan ebbero a cicalare di passati contadini o di fabbrica dura … per tacere di segretari di confederazioni sindacali che han passato un paio d’anni nell’aziendina di papà e si spacciano per Oliver Twist, al pari di alcuni dirigenti globalisti che, dallo yacht della supponenza, colle mani callose per aver sollevato troppi Martini, spargono il loro aureo biasimo sulle nuove generazioni fannullone. Bergoglio, intanto, occultato un annoiato ruttino col dorso benedicente della mano, concede l’angusta sua presenza alla crema dell’informazione italiana, così pesantemente scossa dai rivoluzionari verdi.

Ma che fa Foa, Foa che fa? Sta bene, secondo me. Alla grande. Mandato lì sull’onda della miccaggine più resiliente, ora si gode i dolci andirivieni statalisti. Sono con lui. Gli altri, gli Speranzosi di un anno fa, invece, se son fortunati, appiattiscono hamburger e respirano effluvi d’olio esausto … tuttora gonfi di speranza? E chi lo sa … la speranza è mobile, qual piuma al vento … ora, dimenticato l’alfiere di pochi mesi or sono, puntano su nuove pedine … equivocano fischi per fiaschi ideologici … tifano apocalisse … guerra civile … si preparano, insomma, a ingoiare l’ennesimo step del Programma … non sanno neanche loro perché … gli tocca rilanciare sul piatto della speranza le ultime fiches … “Queste e basta!”, giurano, sempre più sbalorditi, gli occhi dilatati, inconsciamente consapevoli d’esser stati fregati, alla grande, la spada di Carnevale inastata in un accesso di ridicolo testosterone frontista.

A me piacerebbe sapere, tecnicamente, come i controinformatori vorrebbero combattere una guerra civile; in Italia. Supponiamo, per assurdo, che un di questi Speranzosi sappia sparare. Bene, son sicuro che arresterebbe la propria ansia di sangue sulle scale del condominio … ivi incrocerebbe (ho già vivida la scena nella coscienza premonitrice) la pensionata del piano di sotto, che gli farebbe: “Marco, ma dove va così di fretta? Ha visto? L’ascensore è ancora rotto … uno strazio … senta, forse mi sbaglio, ma all’ultima riunione - forse mi sbaglio! - non avevamo deliberato per quella ditta di manutenzione nuova? Che disorganizzazione! Ci pensi lei, è istruito, sveglio … è giovane, si faccia sentire dall’amministratrice! Dio, che fatica … le devo chiedere un favore, può portarmi almeno questa … grazie … attenzione alle uova … se non ci si aiuta fra di noi …”.

Ne Il campo dei santi di Jean Raspail il protagonista, un professore in pensione, annuncia il proprio manifesto ideologico con una fucilata contro l’hippie globalista che gl’invadeva, berciando a caso qualche cascame del conflitto internazionale di classe, la magione. Sarà uno dei pochissimi. Alla fine, assieme a un pugno di resistenti, verrà debitamente mitragliato dall’aviazione francese, umana e corretta: come quella di D’Alema nel 1999.

Quando vedo la testa di Nicola Zingaretti mi vengono in mente alcune cose. A livello figurativo, un glande. Dispiace ammetterlo, coram bloggers, in una peritosa quanto audace confessione: mi si perdoni, sono fantasticherie a cui non riesco a opporre la resistenza del buon gusto: immagino, a volte, persino il frenulo sulla nuca … almeno per un po’, prima di ricordare ch’egli vanta ascendenze ebraiche. La sinistra! La sinistra! Poi mi piglia una vaga tristezza, pungendomi il ricordo. E vado a rileggermi quel passo memorabile di Giorgio Bocca sui comunisti, in cui rinvengo ciò che io, nel mio piccolo, vissi e sperai: la forza, la ragione, la comunità, la rovina, l’abiura. Dice Bocca, a proposito dei comunisti:

“Uomini di ferro nella sopportazione del carcere, delle torture, della vita grama, ma nudi, indifesi di fronte al partito. Diversi dagli altri per questa doppia dimensione umana, vedevano in essa un segno della loro elezione a salvatori del mondo. Erano dei materialisti con tutta la corporalità, la concretezza, il peso della materia, ma fissi a qualcosa privo di verifica, il futuro, l’uomo nuovo, a ciascuno secondo il suo bisogno, idealismo puro, utopia. Tenaci, implacabili organizzatori capaci di cogliere tutte le difficoltà reali della lotta, ma al tempo stesso idealisti ciechi che si rifiutavano di vedere il comunismo reale e se lo vedevano lo negavano a se stessi e agli altri. Li avvicinavo con un misto di simpatia e di repulsione, per metà stimabili per metà infidi, per metà chiari, per metà alienati. Abitavano quasi tutti in case modestissime, con quattro poveri mobili scombinati, si capiva che non avevano mai avuto il tempo o la voglia di farsi una casa accogliente, nelle loro case erano sempre stati di passaggio, la loro vera casa era il partito. Molti stavano dalle parti del Testaccio a Roma negli alloggi costruiti da una cooperativa del partito. L’alloggio gratis, una pensione di trecentomila lire, qualche articolo rievocativo per l’Unità o Rinascita era tutto ciò che il partito gli dava dopo milizie di trenta e più anni, ma il valore marginale di quel poco era per essi altissimo, fuori dalle elemosine del partito c’era il vuoto, la rinuncia al passato, la perdita di ogni identità. Il loro rifiuto degli altri partiti, delle altre ideologie era stato di tipo ecclesiastico, dentro o fuori dalla verità, cambiare significava vivere come preti spretati fra il disprezzo degli uni e la diffidenza degli altri, il vuoto, l’angoscia”.

Fu nel 2013, se soccorrono benigni gli spiritelli cavalcantiani della memoria, che mi recai a San Giovanni per assistere alla manifestazione show di Beppe Grillo. Una fiumana di gente. Benché anche allora fossi rassegnato, quei volti mi colpirono. Per la prima volta, dopo decenni, ritrovai parte del popolo. Gente normale. Italiani che lavorano, che hanno piccole aspirazioni, beceri, vitali il giusto. Con figli e padri e madri, senza troppe preoccupazioni per razzismi e diritti civili. Lo scrissi pure in un commento a Pauperclass, di Eugenio Orso. Grillo, uno dei politici più intelligenti degli ultimi vent’anni, manipolava l’aria grazie alla speranza. Faceva balenare il futuro; un futuro accogliente, tecnologico, senza lavoro, tranquillo, sicuro. La tecnica, ecco, sarebbe stata la tecnica, e il merito, allontanati caporioni di partito e d’accademia, a prendersi cura delle vite nostre e dei nostri figli. Se, sul palco, quella sera vi fosse stato un uomo passato per le tempeste d’acciaio, avremmo avuto davvero una guerra civile. Se, da Genova, alla rielezione di Napolitano, fosse giunto il monito d’un uomo passato traverso le decimazioni del Carso, avremmo avuto il Quirinale in fiamme. Ma, ovviamente, la guerra, allora, come adesso, era lontana: lontanissima; quasi un secolo ci distanzia, oggi, dai suoi fragori. E allora la rivoluzione possibile rimase in canna. È in quei momenti che si assapora la differenza fra chi ha rischiato la pelle e chi ha goduto di una Bengodi edonista senza scosse. Inutile scomodare quei nomi che cito sempre: dico solo: quando si rischia la buccia gli occhi divengono in grado di discernere decine di gradazioni di verde: son occhi da predatore, infatti. Allora mi piacque parte di quel popolo; fu un bagno di purezza, a suo modo, a lavar via le stupide minuzie dei cascami politicanti d’ogni risma. Durò poco tempo, non poteva esser altrimenti. Di quel fremito di Vita rimane nulla: lo si è consumato fraudolentemente per attuare il Programma, infatti.

Il Programma, signori, il Programma. Salvini, Di Maio, Conte, Meloni, Zingaretti, tutti lo vogliono. E lo vogliono col vostro consenso! Il 98%! Mi raccomando: sperate!

I Saraceni sbarcavano improvvisi lungo le coste del Lazio, miscela di razze e umori corruschi: nordafricani, mori, turchi, cretesi, arabi, i pirati si spingevano sin verso Roma e le campagne, piane e fertili, ove torri, casali meravigliosi, e granai, convivevano felici con le memorie più antiche, basolati, lacerti d’acquedotto, cippi funerari repubblicani, a razziare ogni cosa. Molti di noi nacquero in quei momenti, durante gli stupri, le rovine delle chiese, gli incendi, le decollazioni, le sodomizzazioni: toponimi d’ascendenza saracena si ritrovano ancora, lungo le consolari romane prossime al mare. Quando i Saraceni minacciarono i centri spirituali della Cristianità, le basiliche di San Pietro e di San Paolo e di Santa Rufina, ecco, allora, generato dalla vendetta e dalla paura, sorse l’Eroe, Guido; Guido, d’ascendenza normanna, forse già duca di Spoleto (Umbria longobarda par excellence), riunì un esercito romano, compatto e spietato: il primo urto sbaragliò il nemico già sull’Aurelia, costringendolo alla fuga scarmigliata verso Civitavecchia (Centumcellae): nel frattempo il Duce spronava i suoi all’eccidio più completo lanciandoli ripetutamente, per miglia, contro le marmaglie isolate, i brani di truppe schiantate o le colorate coorti ormai allo sbaraglio, come un lupo pazzo di sangue, seminando mozziconi d’arti, ferri schiantati, aste frantumate, inesausto, fin laggiù, sin al mare, che accolse ognuno, latino o barbaro, con le accecanti e argentee faville di un orizzonte infinito e infinitamente libero: il respiro puro dell’epopea che non teme la colpa poiché obbedisce a ciò che sempre fu e, perciò, è sacro, e ingiudicabile; è Dio.

I cadaveri del massacro, raccolti per evitare pestilenze, come carne di scarto al macello, furono bruciati a migliaia nei pressi dell’Aurelia, in un luogo da allora denominato Furnus Sarracenus. Il Papa, la Croce che baluginava, aurea, sul petto, eccitata dalle fiaccole serotine, rese onore a Guido concedendogli terre, uomini, cose.

Non si può giudicare la vita: o la si beve sin alla feccia o ci si concede a una cancerosa anomia.

Guido, il Papa, gli stessi Saraceni, e le vittime, oscure e senza nome, donne e contadini, il terrore dei vecchi e degl’infanti, sgozzati a centinaia, e le vaste rovine - frantumaglia di marmi, architravi e liminari di porte spezzati, capitelli recisi, confessioni profanate - e la risorgente speranza, verace stavolta, persero gradatamente l’alone dell’odio che tutto definisce; la dimenticanza stinse, quindi, la realtà per trasmutarla nell’occasione vaga d’un canto; bastò un poeta, uno qualsiasi, ebbro d’eternità, a costringere nella misura dolce di antichi versi, sanciti dall’immutabilità, quelle grate e terribili costellazioni della vita: che ci parlano, ancora, riconciliati assassini e martiri, da un fondo perduto che più non ci appartiene.

venerdì 20 settembre 2019

Energia Pulita - Gli euroimbecilli che costruiscono macchine, esclusi quelli della Bmw, lavorano alle auto a batteria il futuro è dei motori a idrogeno

Idrogeno nuovo petrolio? Anche l’Italia ci crede

19 SETTEMBRE 2019


L’avvento dell’idrogeno potrebbe rappresentare il Big Bang dell’energia. La fonte si candida ad essere il gas naturale del futuro

L’energia è potere. Che si tratti di petrolio, gas, carbone, energia nucleare e non solo: chi controlla le fonti energetiche (meglio, parte di esse) è potente. E’ questo assunto che Thierri Lepercq, Vice Presidente esecutivo responsabile della ricerca, della tecnologia e dell’innovazione di Engie dal 2016 ad ottobre 2018, ed ora direttore esecutivo di TerraWatt Initiative, introduce il suo libro Hydrogen is the New Oil.

Se gli ultimi anni, le grandi potenze si sono date battaglie per petrolio e gas, utilizzando queste fonti come arma geopolitica, in futuro saranno le compagnie di energia rinnovabile e chi oggi scommette e investe nell’idrogeno a rappresentare una potenza mondiale.

ENERGIA COME POTERE

Partiamo da qui. Da sempre l’energia ha rappresentato uno strumento e un motivo di guerra, un’arma geopolitica e causa, scrive Thierri Lepercq, di colpi di stato e prese di controllo, ma anche di intese e accordi.

Non serve andare così indietro nel tempo: Roosevelt, dopo la seconda guerra mondiale, e la forte dipendenza a stelle e strisce dal petrolio, ha firmato un accordo nel febbraio del 1945 a bordo della USS Quincy con il saudita Ibn Saud: pietra angolare dell’intesa era la costituzione dell’Arabian American Oil Company, ora conosciuta come Saudi Aramco, la più grande compagnia petrolifera del mondo. Ed è sempre il petrolio (questa volta algerino) a dare alla Francia, con le scoperte atte dalla Compagnie Franoaises des Petroles (che in seguito fu ribattezzata Total), la possibilità di rivaleggiare con Usa ed Arabia Saudita nel settore energia.

E poi c’è l’OPEC, che fondata nel 1960 e presto stabilita a Vienna, ha sempre utilizzato il petrolio come arma geopolitica. Nell’ottobre 1761, l’OPEC decretò un embargo – l’arma di guerra per eccellenza, contro gli Stati Uniti e i suoi alleati.

IDROGENO: VERSO UN NUOVO PETROLIO?

Il nuovo petrolio, per Lepercq, sarà l’idrogeno. Il mondo dell’energia si appresta a vivere non una vera e propria transizione dal mondo fossile alle energie rinnovabile, ma un Big Bang dell’energia, dove tutto sarà diverso.

Negli ultimi 10 anni, il settore energetico si è trovato dinanzi a 7 sfide da affrontare: l’avvento del petrolio di scisto e l’inversione del picco del petrolio, l’energia solare ed eolica diventata sempre più competitiva, la maggiore diffusione di batterie ed elettricità, la digitalizzazione delle reti, il fallimento di alcune attività delle compagnie energetiche, l’emergenza geopolitica della Cina e, soprattutto, il cambiamento climatico. Tutto questo, spiega Thierri Lepercq, sta portando il settore a vivere una rivoluzione storica che apre le porte a un nuovo protagonista energetico, l’idrogeno, e sigilla l’inesorabile declino del mondo antico, quello dei combustibili fossili.

LE CARATTERISTICHE DELL’IDROGENO

Perchè l’idrogeno? Perchè può essere ottenuto tramite procedimenti climate-neutral, che non inquinano (tramite elettrolisi, per esempio). Perchè si presta bene ad essere stoccato e perchè è l’ideale per la decarbonizzazione dei trasporti, del riscaldamento degli ambienti (l’idrogeno può essere mescolato al gas naturale o utilizzato da solo) e della produzione di energia elettrica.

ANCHE L’ITALIA CREDE NEL POTENZIALE DELL’IDROGENO

Anche l’Italia crede nell’idrogeno. Davide Crippa, durante il primo Governo Conte, ha istituito un tavolo di lavoro per lo studio e lo sviluppo dell’idrogeno come fonte di energia pulita. Il tavolo ha anche l’obiettivo di dempiere agli impegni presi in ambito internazionale, come il Protocollo sottoscritto dal Sottosegretario Crippa lo scorso ottobre all’Hydrogen Energy Meeting di Tokyo.

Non mancano le iniziative private: nel mese di aprile, Snam ha immesso idrogeno nell’infrastruttura nazionale del gas (in un’area ristretta del sud-ovest dell’Italia), dimostrando quanto potesse essere sicuro e affidabile l’idrogeno. Il pastificio Orogiallo, a Contursi Terme, in provincia di Salerno, ha fatto la storia cucinando la pasta con una miscela di idrogeno e gas naturale (qui per approfondire).

LA SCOMMESSA TEDESCA

E proprio l’idrogeno, per esempio, potrebbe essere il vettore energetico in grado di sollevare la Germania dall’eccessiva dipendenza dai fornitori esterni di energia. Nella corsa all’energia pulita, Berlino ha stanziato 110 milioni di dollari che andranno a 20 nuove strutture di ricerca, per testare nuove tecnologie basate sull’idrogeno e le loro applicazioni su scala industriale.

La scorsa settimana, Angela Merkel, ha annunciato un piano per rendere green anche gli aerei, che potrebbero viaggiare ad idrogeno.

Il Fmi di Lagarde ha strozzato l'Argentina e lo sapeva

BCE, Lagarde ha uno scheletro nel suo armadio: si chiama Argentina

L'esborso record del "suo" FMI illogico visti i fondamentali dell'economia di Buenos Aires. Un fantasma che perseguiterà a lungo la futura presidente BCEDi Alfredo Somoza

L'allora direttore del Fmi Christine Lagarde, prossima numero uno della BCE, e il presidente argentino Mauricio Macri. Foto: Casa Rosada - Presidencia de la Nación Creative Commons Atribución 2.5 Argentina (CC BY 2.5 AR)

Nel giugno 2018, il ministro dell’Economia di Buenos Aires Nicolás Dujovne e il presidente della Banca Centrale argentina Federico Sturzenegger annunciavano trionfalmente il raggiungimento di un accordo con il Fondo Monetario Internazionale. L’intesa non solo riallacciava le relazioni interrotte ai tempi del default del 2001, ma concedeva addirittura al Paese il prestito più importante della sua storia: oltre 50 miliardi di dollari erogabili in tre anni.

Lagarde: “Reiteré mi respaldo a las importantes reformas anunciadas por el ministro Dujovne y por el presidente del BCRAl, Federico Sturzenegger. Consideramos que el plan económico de las autoridades argentinas fortalecerá el crecimiento y la creación de empleo de cara al futuro”

L’obiettivo consisteva nello stabilizzare il Peso e dare ossigeno all’economia, soprattutto attraverso l’avvio di un piano di opere pubbliche. Era un ritorno alla grande, fortemente voluto dalla futura presidente della BCE Christine Lagarde su indicazione di Donald Trump.

Proprio gli Stati Uniti, che ai tempi di George Bush jr bloccarono una tranche del FMI che avrebbe potuto evitare o almeno ritardare il default del 2001, ora davano disco verde. Pesava la vicinanza “ideologica” tra Trump e Macri il cui padre Franco, recentemente scomparso, era stato socio d’affari proprio del presidente USA nel business del mattone.
Approfondimento


Quello dell’Argentina non è un caso isolato. La svalutazione può tradursi in una crisi del debito. Le borse emergenti registrano ribassi ormai cronici

Christine Lagarde e quel bilancio impietoso

Forse però la Lagarde non avrebbe concesso il maxi-prestito se avesse potuto leggere il rapporto della Banca Mondiale intitolato Verso la fine della crisi in Argentina, uscito nei primi mesi del 2019, dove si traccia un bilancio impietoso della gestione economica del Paese. Dal 1950 a oggi si sono registrati 15 periodi di recessione: dei 69 anni presi in esame, 23 si sono chiusi con un calo dell’economia. Per la Banca Mondiale le cause vanno cercate nella pessima performance macroeconomica accumulata e nella tendenza del Paese sudamericano a vivere al di sopra delle proprie capacità.

Elementi che generano ciclici momenti di boom e di crisi. La spesa a debito, una delle storiche piaghe dell’Argentina, è stata quasi sempre indirizzata verso lo stimolo dei consumi, portando al surriscaldamento del ciclo e quindi a ripetuti crolli. Con crisi di iperinflazione, svalutazione selvaggia della moneta o addirittura default in piena regola.

Dal primo prestito londinese al maxi-piano del FMI: il debito argentino è un'epopea infinita. Con periodiche bancarotte e perenni illusioni. Che ora divorano il presidente Macrì
L’Argentina affoga nel debito

Per far fronte ai bisogni di cassa, già dal 2015 lo Stato argentino ha ricominciato a emettere bond accumulando un debito pubblico che a giugno valeva 337 miliardi di dollari, pari all’86% del PIL, contro il 53% registrato alla fine del mandato di Cristina Kirchner.

Sul fronte della produzione e del reddito la situazione non è migliorata: 
negli ultimi 5 anni i settori trainanti dell’economia (edilizia, commercio e industria) hanno subito un calo del 40%, mentre il potere d’acquisto dei salari è sceso del 20%.

I
l debito argentino negli ultimi 25 anni. Dati in (k) milioni di dollari. Fonte: CEIC Data

A maggio l’inflazione annuale ha raggiunto il 57,3%, uno dei dati peggiori nel confronto con il resto del mondo. La povertà è cresciuta e riguarda ormai il 32% della popolazione. Intanto il peso si è fortemente svalutato nel cambio con il dollaro e sull’Argentina è tornato ad aleggiare un fantasma ricorrente nella sua storia: quello del default, anche se al momento solo “selettivo”.

Una nuova ristrutturazione del debito

Il conto politico che dovrà pagare la Lagarde dovrebbe essere alto. Il Fondo aveva giurato di non avere più rapporti con Buenos Aires. Tra l’altro, con una mossa a sorpresa, 
nel 2006 Nestor Kirchner aveva cancellato 10 miliardi di debiti con l’istituzione di Washington per chiudere ogni rapporto. 
Era da più di un decennio infatti che le famigerate “missioni” del FMI non atterravano più a Buenos Aires. Ora però la situazione tenderà a complicarsi.

Dopo il crollo del Peso, Buenos Aires chiede il prolungamento del debito all’FMI. Nel precedente crack del 2001, 450mila italiani persero 14 miliardi

A poco più di un mese dalla quasi scontata vittoria del peronismo di Cristina Kirchner, che sarà vicepresidente del moderato Alberto Fernandez, si riaprirà per forza una trattativa per ristrutturare il debito generato durante il mandato di Mauricio Macri. Una trattativa dagli esiti incerti e dai toni che diventeranno aspri. L’unico punto fermo è che il fantasma dell’Argentina perseguiterà a lungo Christine Lagarde.