L'albero della storia è sempre verde

L'albero della storia è sempre verde

"Teniamo ben ferma la comprensione del fatto che, di regola, le classi dominanti vincono sempre perché sempre in possesso della comprensione della totalità concettuale della riproduzione sociale, e le classi dominate perdono sempre per la loro stupidità strategica, dovuta all’impossibilità materiale di accedere a questa comprensione intellettuale. Nella storia universale comparata non vi sono assolutamente eccezioni. La prima e l’unica eccezione è il 1917 russo. Per questo, sul piano storico-mondiale, Lenin è molto più grande di Marx. Marx è soltanto il coronamento del grande pensiero idealistico ed umanistico tedesco, ed il fondatore del metodo della comprensione della storia attraverso i modi di produzione. Ma Lenin è molto di più. Lenin è il primo esempio storico in assoluto in cui le classi dominate, sia pure purtroppo soltanto per pochi decenni, hanno potuto vincere contro le classi dominanti. Bisogna dunque studiare con attenzione sia le ragioni della vittoria che le ragioni della sconfitta. Ma esse stanno in un solo complesso di problemi, la natura del partito comunista ed il suo rovesciamento posteriore classistico, individualistico e soprattutto anti- comunitario" Costanzo Preve da "Il modo di produzione comunitario. Il problema del comunismo rimesso sui piedi"

sabato 9 novembre 2019

Arezzo - I massoni, al gran completo, sono mobilitati per creare caos dopo l'allontanamento di Roberto Rossi che dichiarava di non conoscere il Boschi nonostante le inchieste fatte e le relative archiviazioni richieste ed ottenute

Giustizia sull'orlo del collasso: manca il 30% dei giudici, grido di dolore del presidente

Fruganti lancia l’allarme dal processo Etruria: ritmi forzati per accelerare i tempi di udienza. L’addio di due Gip rischia di aprire un’altra voragine. Pochi i sostituti

di Salvatore Mannino
Ultimo aggiornamento il 9 novembre 2019 alle 03:30

Arezzo - I massoni, al gran completo, sono mobilitati per creare caos dopo l'allontanamento di Roberto Rossi che dichiarava di non conoscere il Boschi nonostante le inchieste fatte  e le relative archiviazioni richieste ed ottenute
Il neopresidente Gianni Fruganti

Arezzo, 9 novembre 2019 - Il grido di dolore stavolta si leva direttamente dal maxi-processo per la bancarotta Etruria. Udienza inutile ai fini dell’istruttoria perchè manca uno degli avvocati difensori e salta dunque la ricostruzione del colorito caso Yacht, rinviato a venerdì prossimo, ma anche scenario dell’accorato quadro dell’emergenza giustizia aretina dipinto dal presidente Gianni Fruganti, che è anche presidente della sezione penale e (soprattutto) presidente ad interim del tribunale.

Motivo contingente la necessità di raddoppiare le udienze a partire da gennaio, non solo ogni venerdì ma anche ogni giovedì fino a luglio, giustificata appunto con la crisi di organico che ha investito Palazzo di giustizia. Conviene quindi lasciare la parola a Fruganti e al documento che ha letto dinanzi a un’aula silenziosa e allibita: «La situazione - scandisce il presidente - già di per sè non facilmente affrontabile è ineluttabilmente destinata ad aggravarsi in rapporto alla peculiarità in cui versa il tribunale.

A fronte di un organico che prevede un presidente, un presidente di sezione e diciannove giudici, ci sono assenze per un totale di sei unità, con una scopertura che sfiora dunque il 30%». Un ritratto secco, netto, impietoso di quanto sia asfittica la giustizia aretina, senza un presidente (Fruganti sostituisce la pensionata Clelia Galantino fino alla nomina del nuovo numero uno, per il quale ci sono otto candidati, ma la procedura è ancora lunga), senza tre giudici del civile e due del penale.

Il che riflette inevitabilmente sulla qualità del lavoro di chi rimane, costretto a corse pazze per tappare i buchi. Nè va dimenticata l’incertezza che ha investito anche la procura, che è sì a pieno organico, ma decapitata dalla decisione del Csm di non confermare il procuratore capo Roberto Rossi.

Il Palazzo di giustizia, insomma, rischia il caos. Fruganti, tanto per dire, avrebbe già il suo da fare a governare il maxi-processo Etruria, il più complesso mai celebrato ad Arezzo dai tempi dello scandalo Ingic, ma deve anche (parole sue) «svolgere le funzioni di presidente del tribunale con annessi compiti di dirigenza amministrativa». I suoi colleghi di collegio, Ada Grignani e Claudio Lara, fanno contemporaneamente i giudici monocratici e con l’accelerazione del ritmo delle udienze Etruria dovranno essere sostituti dai magistrati onorari.

Emergenza totale, dunque, cui si aggiunge l’imminente addio di due Gip, Piergiorgio Ponticelli, destinato a Firenze, e Angela Avila, che torna a Perugia. Entrambi lasciano a febbraio e non c’è quasi un collega che abbia i titoli per surrogarli. L’effetto potrebbe essere una crisi devastante dell’ufficio Gip, insostituibile cinghia di trasmissione fra il lavoro della procura e quello del tribunale.

Il bello, anzi il brutto, è che dinanzi a questa eclatante scopertura di organico, i sostituti arrivano col lanternino. Nei prossimi mesi è previsto solo l’approdo da Marsala del cortonese Filippo Ruggero. Lui preferiva andare al civile, ma quasi sicuramente sarà dirottato al penale. Un altro segnale inquietante dell’asma che affligge la giustizia del Garbasso.

I venduti prima tradiscono poi quando la realtà li mette all'angolo si autodefiniscono marionette

Ilva e privatizzazioni. Prodi e cordardi



A sentirli parlare sembrano i comandanti di un campo di concentramento: io non sono responsabile, ho solo eseguito gli ordini. Di fronte alla vicenda amara dell’Ilva quelli che per decenni sono stati i megafoni dei poteri neoliberisti, ammaliati dal disegno di un mercato padrone e tiranno, ora fanno marcia indietro e in faccia alla telecamera si proclamano semplici gregari. Adesso Romano Prodi dice : “Erano obblighi europei! Scusi, a me che ero stato a costruire l’Iri, a risanarla, a metterla a posto, mi è stato dato il compito da Ciampi che privatizzare era un compito obbligatorio per tutti i nostri riferimenti europei. Bisognava farlo per rispondere alle regole generali di un mercato in cui noi eravamo. E questo non era sempre un compito gradevole, ma l’abbiamo fatto come bisognava farlo”. Il tentativo di dissociazione in extremis si scontra tuttavia con l’evidenza di una vita: 
Prodi, così come anche Draghi sono stati tra i fautori più irremovibili del neoliberismo 
e della sua triste incarnazione europea, entrambi sono stati i banditori dalla svendita del patrimonio industriale italiano e ne hanno tratto grandi vantaggi, in termini personali come Draghi o politici come il suo compagno di merende, entrambi sono stati i massimi promotori dell’euro e sono stati ricompensati l’uno, Prodi, con la presidenza della commissione europea dal 1999 al 2004 ovvero nel periodo dell’introduzione della moneta unica e del suo rodaggio come valuta circolante, l’altro con la poltrona della Bce.

Non sono stati degli esecutori, sono stati i mandanti, gli ideologi e gli agit-prop della moneta unica, 
hanno fatto carte false pur di entrarvi e ora di fronte all’incombente disastro cui hanno mandato il Paese dovrebbero almeno riconoscere di avere sbagliato, fare ammenda. Sbagliare è umano, ma loro hanno perseverato fino all’ultimo e continuano a farlo, salvo scaricare le responsabilità per i loro errori. Del resto se Prodi non era d’accordo con lo smantellamento dell’industria di Stato poteva anche non accettare il compito, declinare questa responsabilità perché mica glielo aveva ordinato il dottore: ma ha accettato perché proprio lui, dopo la caduta del muro di Berlino era accecato dal faro neoliberista e dalla fine della storia. La cosa che fa maggior rabbia è che nei trent’anni passati da allora la Cina non ha superato l’Europa, l’ha letteralmente surclassata, con una struttura produttiva somigliante per certi versi a quella che aveva l’Italia, ovvero 
grandi industrie pubbliche che guidano l’innovazione trainando la piccola e micro impresa priva dei mezzi per inseguire il mercato se non attraverso la svalutazione competitiva che poi, con la moneta unica si è trasformata in precarietà e salari da fame.
Vorrei fucilare quegli idioti che ripetevano a pappagallo piccolo è bello per disarmare lo Stivale della sua potenza industriale.

Tuttavia dopo il primo momento di rabbia per questo atto di prode codardia, sono riuscito a consolarmi: se il gran commis dell’Unione europea arriva a difendersi, mettendo da parte l’albagia neo liberista e il breviario dei buoni parroci della disuguaglianza dicendo “me l’hanno ordinato” significa che qualcosa si sta spezzando dentro il meccanismo di acritico consenso, che alcuni deleteri effetti non sono più giustificabili con le fasi di passaggio e in vista dell’immancabile futuro migliore. Sull’orizzonte comincia a stagliarsi un’evidenza chiara come il sole: che 
il passaggio tra la Cee e l’Ue – euro sia stato un catastrofico errore 
che non ha risolto nessuno dei problemi per i quali ci si era incatenati alla cattività di Bruxelles, alias Berlino, e ne ha creato invece dei nuovi capaci di disaggregare il Paese e la sua società, di impoverire tutti non solo economicamente. Non va dimenticato che Prodi era quello che nel 1999 aveva detto ” Con l’euro lavoreremo un giorno di meno guadagnando come se lavorassimo un giorno di più“ profezia che si è avverata al contrario, ma moltiplicata per la disoccupazione e il precariato. Del resto Jacques Attali per qualche anno mentore della neo sinistra della resa, dunque dello stesso Prodi, aveva fatto chiarezza riguardo alla questione: “E cosa credeva la plebaglia europea, che l’Euro fosse stato fatto per la loro felicità?” Infatti come ha sostenuto Paul Krugman 
“Adottando l’Euro, l’Italia si è ridotta allo stato di una nazione del Terzo Mondo che deve prendere in prestito una moneta straniera, con tutti i danni che ciò implica”. 
Ma adesso di fronte alle rovine dell’Ilva che sono la sintesi del disastro italiano, sappiamo che Prodi obbediva soltanto agli ordini, era un semplice ufficiale d’intendenza. Pensavamo che fosse il leader di un Paese normale contrapposto al Paese anomalo di Berlusconi, ma non sapevamo cosa egli intendesse davvero per normalità e meno che mai si poteva immaginare che fosse questa schifezza qui. 

Notizia del: 08/11/2019

NoTav - toh un piccolo grande intoppo per il Tav inutile costoso dannoso

Tav: sequestrata l’area destinata all”impianto funzionale” per assemblare il fodero del tunnel in cemento

8 Novembre 2019 


Il sequestro mette in crisi le tempistiche dei lavori perché non esistono sedi alternative dove costruire “l’impianto funzionale”.

Si trova a Salbertrand il luogo dove la società italofrancese Tunnel Euralpin Lyon Turin dovrà costruire un “impianto funzionale” dove assemblare gli “spicchi” di cemento che andranno a formare il fodero interno del tunnel di base.
Salbertrand è un piccolo centro della Val Susa, in provincia di Torino. Della sua superficie comunale la società occuperà oltre 12 ettari per la costruzione dell’impianto. Di quest’area due zone saranno adibite a deposito: una di 16mila metri quadrati, affittata dalla società Itinera Spa e contenente terre di scavo contaminate dall’amianto, e l’altra di oltre 22metri quadrati affittata da una piccola società edile fallita, occupata da rifiuti del cantiere e da vecchie traversine ferroviarie.

Le due aree in questione per essere usate dovranno prima essere bonificate. Ed è qui che sorgono i problemi per la società Italo-Francese. L’intera area contenente amianto è stata posta sotto sequestro dalla Guardia di Finanza a settembre 2019 in seguito ad un esposto. Mancherebbero alcune autorizzazioni per lo stoccaggio del materiale inquinante nel sito.

L’area era stata già posta sotto sequestro nel 2010 ma da allora, nonostante le prescrizioni di messa in sicurezza temporanea, non è cambiato nulla.
Con l’area sequestrata sarà impossibile proseguire i lavori per la creazione del fodero in cemento del tunnel principale, allungandone le tempistiche di costruzione. I costi di bonifica dell’area privata si aggira introno al milione di euro, mentre i costi per la bonifica dell’area affidata ad Itinera Spa si aggira attorno ai 2 milioni e 700mila euro.

Oltre alle probabili conseguenze sul cantiere resta da capire come e quando verranno smaltite le tonnellate di materiale fortemente inquinante e tossico per ambiente e cittadini del posto che si trovano estremamente vicine alla Dora e quindi in piena zona di esondazione del fiume in caso di alluvione. Qualora le acque dovessero raggiungere l’area vi è un concreto rischio di dispersione ambientale del materiale inquinante.

Gli ebrei palestinesi costruiscono giorno dopo giorno la loro autodistruzione


L’ultima guerra di Israele

Markus 9 Novembre 2019 , 16:06 

Gilad Atzmon

Nel mio libro del 2011, The Wandering Who, avevo approfondito il possibile, disastroso scenario in cui Israele è il nucleo di un’escalation globale a causa delle emergenti capacità nucleari dell’Iran. Avevo concluso che la sindrome da stress PRE traumatico di Israele (PRE-TSS) sarebbe stata fondamentale in questo sviluppo. “Lo stato ebraico e il discorso ebraico in generale sono completamente estranei alla nozione di temporalità. Israele è accecato dalle conseguenze delle sue azioni, pensa alle sue azioni solo in termini di pragmatismo a breve termine. Invece di pensare in termini di temporalità, Israele ragiona solo sulla base di un presente esteso.”

Nel 2011 Israele era ancora fiducioso della sua potenza militare, certo che con l’aiuto dell’America, o almeno con il suo sostegno, avrebbe potuto sferrare un attacco mortale all’Iran. Ora questa fiducia è diminuita, sostituita da un’ansia esistenziale che potrebbe anche essere ben giustificata. Negli ultimi mesi, gli analisti militari israeliani hanno dovuto fare i conti con le spettacolari capacità strategiche e tecnologiche dell’Iran. Il recente attacco ad un impianto petrolifero saudita ha trasmesso un chiaro messaggio al mondo intero e, in particolare, ad Israele: l’Iran è molto più all’avanguardia di Israele e dell’Occidente. Le sanzioni sono state controproducenti: l’Iran ha sviluppato autonomamente la propria tecnologia.

L’ex ambasciatore israeliano negli Stati Uniti, nonché prolifico storico, Michael Oren ha ribadito questa settimana su Atlantic le mie previsioni del 2011 e ha descritto uno scenario orribile per il prossimo, e probabilmente ultimo, conflitto israeliano.

Oren si rende conto che un piccolo errore di calcolo israeliano potrebbe portare ad una guerra totale, in cui missili e droni di ogni tipo pioverebbero su Israele, travolgendo le sue difese e mandando in rovina le sue città, la sua economia e la sua sicurezza.

Oren fornisce un resoconto dettagliato di come un conflitto tra Israele e Iran potrebbe rapidamente trasformarsi in una massiccia “conflagrazione,” che devasterebbe Israele e gli stati confinanti.

In Israele, il termine “la guerra tra le guerre” si riferisce alla mirata e segreta campagna interbellica condotta dallo Stato Ebraico allo scopo di rimandare, seppur preparandovisi, il prossimo confronto militare, presumibilmente con l’Iran. Negli ultimi anni Israele ha effettuato centinaia di “guerre tra le guerre” contro obiettivi legati all’Iran in Libano, Siria e Iraq. Oren ipotizza che un singolo errore di calcolo potrebbe facilmente portare a ritorsioni da parte dell’Iran. “Israele si sta preparando al peggio e agisce in base al presupposto che i combattimenti potrebbero scoppiare in qualsiasi momento. E non è difficile immaginare come potrebbe succedere. La conflagrazione, come tante in Medio Oriente, potrebbe essere innescata da un’unica scintilla.”

Fino ad ora, l’Iran si è contenuto, nonostante le continue aggressioni da parte di Israele, ma questo stato di cose potrebbe facilmente cambiare. “Il risultato potrebbe essere un contrattacco da parte dell’Iran, con l’utilizzo di missili da crociera che penetrerebbero nelle difese aeree israeliane e colpirebbero obiettivi come il Kiryah, l’equivalente del Pentagono, a Tel Aviv. Israele reagirebbe in modo massiccio contro il quartier generale di Hezbollah a Beirut e contro decine delle sue postazioni lungo il confine libanese. E poi, dopo una giornata di scambio di colpi su larga scala, inizierebbe la guerra vera e propria ...”

Oren prevede che “pioverebbero su Israele” missili ad un ritmo di 4.000 al giorno. Il sistema Iron Dome sarebbe sopraffatto dai numerosi attacchi simultanei contro obiettivi civili e militari in tutto il paese. E, come se ciò non fosse abbastanza devastante, Israele è totalmente impreparato ad affrontare missili ad alta precisione, in grado di colpire con accuratezza bersagli in tutto Israele da più di 1.500 km. di distanza.

L’aeroporto internazionale Ben Gurion cesserebbe di funzionare e lo spazio aereo su Israele verrebbe chiuso. Lo stesso potrebbe accadere ai porti. Gli Israeliani che volessero cercare rifugio all’estero dovrebbero nuotare per mettersi in salvo.

In questo scenario, le milizie palestinesi e libanesi potrebbero unirsi alla lotta e attaccare da terra le comunità di confine ebraiche, mentre missili a lungo raggio provenienti da Siria, Iraq, Yemen e Iran lo farebbero dal cielo. In breve tempo, l’economia israeliana si bloccherebbe, le reti elettriche smetterebbero di funzionare e le fabbriche e le raffinerie danneggiate diffonderebbero nell’atmosfera sostanze chimiche tossiche.

In questo scenario da Shoah, Oren continua: “Milioni di Israeliani si riverserebbero nei rifugi antiaerei. Centinaia di migliaia di persone verrebbero evacuate dalle aree di confine, mentre i terroristi tenterebbero di infiltrarsi. Ristoranti ed hotel si svuoterebbero, insieme agli uffici delle aziende tecnologiche nazionali. Gli ospedali, molti dei quali dotati di strutture sotterranee, verrebbero rapidamente saturati, anche prima che il cielo venisse oscurato dai fumi tossici delle fabbriche chimiche e delle raffinerie di petrolio in fiamme.”

Oren prevede che la dura risposta di Israele ad un attacco del genere, inclusa la violenta repressione delle probabili proteste in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza, comporterebbe moltissime vittime civili e la denuncia per crimini di guerra.

Come del resto afferma Oren, non ha inventato lui questa previsione, è uno degli scenari previsti dai funzionari militari e governativi israeliani.

Se si verificassero eventi del genere, gli Stati Uniti sarebbero vitali per la sopravvivenza dello Stato Ebraico, per la fornitura di munizioni, supporto diplomatico, politico e legale e, dopo la guerra, per la negoziazione di tregue, ritiri, scambi di prigionieri e, presumibilmente, “accordi di pace.” In ogni caso, gli Stati Uniti sotto l’amministrazione Trump sono alquanto imprevedibili, soprattutto alla luce delle attuali procedure di impeachment contro lo stesso Trump.

Nel 1973 gli Stati Uniti avevano contribuito al salvataggio di Israele fornendo al suo esercito le munizioni necessarie. Gli Stati Uniti lo farebbero di nuovo? Hanno gli Americani le capacità militari per contrastare la precisione dei missili e dei droni iraniani? Ancora più importante, che tipo di supporto potrebbe fornire l’America per risollevare il morale degli Israeliani umiliati ed esausti che risalirebbero in superfice dai rifugi sotterranei dopo quattro settimane senza elettricità e con poco cibo e che vedrebbero le loro città completamente distrutte?

Questo ci porta alla questione essenziale. Il Sionismo aveva giurato di emancipare gli Ebrei dal loro destino, liberandoli da loro stessi. Aveva promesso di porre fine all’autodistruzione ebraica con la creazione di un rifugio sicuro per gli Ebrei. Com’è possibile che, solo settant’anni dopo la fondazione dello Stato Ebraico, persone che hanno sofferto nel corso di tutta la loro storia sono riuscite, ancora una volta, a creare il potenziale per la loro stessa distruzione?

In The Wandering Who avevo cercato di dare una possibile risposta: “Comprendere il senso di temporalità è la capacità di accettare che il passato venga modellato e rivisto nell’ottica di una ricerca di significato. La storia e il pensiero storico sono la capacità di ripensare il passato e il futuro.” Di conseguenza, il revisionismo è la vera essenza del pensiero storico. Trasforma il passato in un messaggio morale, trasforma la morale in un atto etico. Purtroppo, questo è esattamente ciò che più manca allo Stato Ebraico. Nonostante la promessa sionista di introdurre introspezione, moralità e pensiero universale nella cultura ebraica emergente, lo Stato Ebraico non è riuscito a staccarsi dal suo passato perché non riesce veramente a comprendere la nozione del “passato” come contenuto etico elastico e dinamico.

Gilad Atzmon

Fonte: gilad.online
06.11.2019

La Deutsche Bank vuole mangiare gli istituti bancari di Euroimbecilandia per salvarsi

ECONOMIA
Perché la proposta tedesca sull'unione bancaria farebbe male all'Italia

15:10, 08 novembre 2019

Il ministro dell'Economia Gualtieri ritiene il progetto del collega di Berlino nocivo per il sistema bancario europeo. Abolire il "rischio zero" per i titoli di Stato danneggerebbe infatti le nazioni con spread elevati. La Germania vuole salvare Deutsche Bank a spese degli altri?


Il ministro dell'Economia, Roberto Gualtieri, ha respinto al mittente la proposta con la quale il collega tedesco, Olaf Scholz, ha suggerito di superare lo stallo sul completamento dell'unione bancaria. Il cuore del piano di Scholz è non rendere più a "rischio zero" per le banche acquistare titoli di Stato, bensì misurare tale rischio sul rating del debito dei diversi Stati membri dell'Eurozona. Ciò, chiaramente, avvantaggerebbe la Germania, i cui Bund hanno un rating tripla A e sono considerati l'investimento sicuro per eccellenza. Ll'Italia e le altre nazioni con spread elevati e rating mediocri resterebbero penalizzate. E non è l'unico motivo per il quale Gualtieri ha ritenuto tale proposta pericolosa per l'intero sistema bancario europeo. Anzi, il progetto di Scholz appare talmente irricevibile per i partner della sponda Sud dell'Europa da apparire quasi provocatorio. 

A che punto è l'unione bancaria

Il progetto di unione bancaria dell'Eurozona rimane incompiuto da anni. I primi due pilastri, la vigilanza unica e il meccanismo di risoluzione unico, sono stati posti nel 2014 e nel 2016. Il terzo, l'istituzione di un sistema di garanzia comune per i depositi bancari, manca ancora all'appello, per via delle resistenze della Germania. La ragione è la stessa per la quale esiste una moneta unica ma di emissione di buoni del Tesoro unici, i vagheggiati Eurobond, ormai non si discute nemmeno più: il timore di Berlino di dover pagare per i partner dalle finanze più fragili o, meglio, il timore dei partiti di governo tedeschi dei costi politici di una maggiore integrazione, che sarebbe percepita dai loro elettori come un'occasione per le presunte cicale mediterranee di approfittarsi delle virtuose formiche teutoniche.

Su questo fronte la tattica di Angela Merkel è sempre stata la stessa: rimandare, rimandare e rimandare, sperando che prima o poi non se ne parli più. Ma ora la cancelliera appare sempre più distratta e lontana dalle questioni nazionali, tanto da essere messa sotto accusa dalla sua Cdu. L'iniziativa del ministro delle Finanze socialista, che ha esposto al Financial Times una sua proposta - sulla carta personale - per completare l'unione bancaria va quindi letta anche come una mossa a uso interno.

L'Spd in cerca di rilancio

Scholz sembra voler dimostrare che la sua Spd, ridotta ai minimi storici dalla concorrenza a sinistra dei Verdi e della rediviva Linke, è in grado di prendere l'iniziativa e scuotere la Grande Coalizione da un torpore che sta lentamente erodendo la leadership germanica a favore dell'attivismo di un rinvigorito Emmanuel Macron. 

Non solo. I socialisti tedeschi sono spesso stati visti come il 'partito della spesa', sempre pronti a venire incontro alle esose richieste delle suddette "cicale" in contrapposizione alla dottrina dell'austerità incarnata dal predecessore di Scholz, il conservatore Wolfgang Schäuble. La proposta del ministro mostra invece che l'Spd da una parte è in grado di portare avanti l' integrazione dell'unione monetaria, in opposizione all'immobilismo della Cdu, e dall'altra di porre al riguardo condizioni molto rigide. Talmente rigide da essere indigeribili per gli altri pezzi grossi di Eurolandia, a partire dall'Italia, e quindi politicamente inattuabili, quasi a rafforzare l'ipotesi che quello di Scholz sia stato soprattutto uno spot destinato ai connazionali. 

Gli squilibri dell'unione monetaria

Rendere più rischioso per le banche acquistare titoli di Stato della propria nazione minerebbe, come dice Gualtieri, la competitività degli istituti di credito europei. A perderci di più sarebbero quelli italiani, che negli anni della crisi finanziaria hanno incamerato forti quote di debito pubblico per puntellare un Paese sotto attacco finanziario. ​E, più in generale, verrebbe esacerbata quella che è già un'anomalia: una banca centrale, quale la Bce, priva di un ruolo inequivocabile di prestatore di ultima istanza come, ad esempio, la Federal Reserve. Che comprare un buono del Tesoro americano sia "a rischio zero" è un'ovvietà. Comprare un buono italiano o spagnolo non lo è e, se la proposta di Scholz fosse attuata, lo sarebbe ancora meno. 

Se in Usa uno Stato può andare tranquillamente in bancarotta senza che ciò metta in crisi l'esistenza stessa del dollaro, nel vecchio continente la presenza di una banca centrale non ha impedito a più di un membro di andare vicino a un default disordinato. Certo, dopo la crisi greca, Mario Draghi, vincendo le resistenze tedesche, ha aggiunto all'arsenale il piano 'Omt', che consente a Francoforte di acquistare titoli di uno Stato membro a rischio in cambio di un piano di riforme. Meglio di niente ma non un gran miglioramento: qualora un Paese si ritrovi nelle condizioni di Atene, ovvero tagliato fuori dal mercato del debito, dovrebbe essere commissariato per poter essere salvato, come certe nazioni del terzo mondo costrette a tagli draconiani in cambio di un prestito del Fondo Monetario. Quindi, per la mancanza di uno scudo che sia davvero automatico e illimitato, investire in un titolo di Stato europeo è già potenzialmente più rischioso di comprare un bond americano o giapponese.

Quale messaggio per i mercati?

L'idea di Scholz, pur temperata dall'introduzione di limiti graduali, è di fatto la stessa che aveva Schäuble: spezzare il legame tra le banche e il rischio del debito sovrano invece di annullare semplicemente tale rischio, strada che non potrebbe essere percorsa senza effetti negativi sull'opinione pubblica tedesca. L'implicazione di questo obiettivo è chiara: si dà per scontato che, nel caso di una nuova crisi del debito, non ci sarà una risposta immediata ed efficace, come ci si aspetterebbe da un'unione monetaria funzionale, cosa che l'Eurozona in tutta evidenza non è. Le banche vengono quindi disincentivate a investire in un asset, il debito sovrano, che in Usa o in Inghilterra, con la Fed e la BoE sempre pronte ad allargare i cordoni della borsa quanto e come vogliono, sarebbe l'investimento sicuro per antonomasia.

Il messaggio che si lancia ai mercati è devastante: se ci sarà una nuova Grecia, l'Eurozona ancora una volta risponderà in ritardo e in maniera sbagliata. E chiedere alle banche, come fa Scholz, di effettuare accantonamenti proporzionali alla quota di debito sovrano detenuta avrebbe poi, come sottolinea Gualtieri, effetti distruttivi sulla competitività delle banche europee rispetto alla concorrenza, e per molteplici motivi. In primo luogo, verrebbero considerati rischiosi investimenti, quelli in titoli di Stato nazionali, che per una banca americana o inglese non costituirebbero nessun problema.

Sarebbe poi interessante chiedere a Scholz come dovrebbero comportarsi gli investitori stranieri di fronte a titoli considerati "a rischio" dalle banche degli stessi Paesi che li emettono: come minimo dovrebbero chiedere un premio più elevato, imponendo una pressione al rialzo a tassi e spread. Chiedere ulteriori accantonamenti a banche, come quelle italiane, che hanno già in pancia una gran quantità di sofferenze significa infine aumentare la possibilità di un credit crunch.

il vero obiettivo è salvare Deutsche Bank?

Qual è quindi lo scopo di una proposta come quella di Scholz, talmente indigeribile per i partner latini da apparire inattuabile? Delle ragioni di politica interna abbiamo già detto. Nè è un eccesso di retropensiero che Berlino abbia l'intento di far capire subito chi comanda alla nuova presidente della Bce, Christine Lagarde, che - con un'unione bancaria come la immagina il ministro tedesco - dovrebbe intervenire presto a sostegno del credito entrando di conseguenza in rotta di collisione con la Bundesbank. L'obiettivo principale appare però provare a mettere al sicuro il grande malato del sistema bancario europeo: Deutsche Bank.

Se i titoli di Stato detenuti dalle banche di nazioni con rating non eccelsi verranno considerati "a rischio" e dovranno essere compensati con accantonamenti, farà forse un po' meno paura la mostruosa (sedici volte il Pil tedesco) esposizione ai derivati alla quale è soggetta Deutsche Bank. E rendere più mobili gli spostamenti di capitali e liquidità renderebbe, per una società così ramificata oltre confine, più semplice attingere dalle risorse delle sussidiarie (ragion per cui le nazioni più piccole guardano alla proposta di Scholz con ben poco entusiasmo). 

Il campo si riequilibrerebbe così abbastanza da rendere più semplice per l'istituto tedesco trovare un partner dopo il fallimento del matrimonio con Commerzbank. Il completamento dell'unione bancaria agevolerebbe infatti le fusioni tra banche di Paesi diversi e la creazione di campioni transnazionali. Con la proposta di Scholz, Deutsche Bank potrebbe quindi diventare un partito più attraente e concorrenziale. Al prezzo, però, di una perdita di competitività dell'intero sistema europeo.

Lula libero

Brasile, perché la scarcerazione di Lula è un problema per Bolsonaro

9 Novembre 2019 - 10:15 

Il carismatico leader di sinistra conosciuto semplicemente come Lula è stato liberato in attesa di giudizio


Nei giorni in cui Jair Bolsonaro festeggia i primi 300 giorni di governo, l’ex Presidente del Brasile Luiz Inácio Lula da Silva è uscito trionfalmente di prigione, dopo che un giudice della Corte Suprema ha stabilito che gli imputati in attesa di giudizio possono rimanere liberi.
Brasile, Lula scarcerato

Conosciuto universalmente come Lula, il carismatico leader di sinistra non può candidarsi alle presidenziali a meno che le accuse nei suoi confronti non cadano. Ma potrebbe bastare la sua liberazione per creare un’opposizione al Presidente Jair Bolsonaro, le cui posizioni di estrema destra hanno polarizzato il Paese e gli osservatori internazionali.

Appena fuori dal carcere, Lula ha sollevato il pugno e si è tuffato in mezzo a una folla di sostenitori che sventolavano la tradizionale bandiera rossa del partito. “Hanno provato a criminalizzare la sinistra”, ha detto. “Non hanno rinchiuso un uomo, hanno tentato di uccidere un’idea. Ma un’idea non può essere distrutta”, ha aggiunto mentre scoppiavano fuochi d’artificio.
Bolsonaro ha promesso “mai più socialisti al governo”

Non c’è stata una reazione immediata da parte di Bolsonaro, il quale per il momento su Twitter si limita a ricordare i successi della sua amministrazione, come la riduzione di omicidi e stupri. In altre occasioni Bolsonaro ha giurato che i socialisti non avrebbero più ripreso il controllo del Brasile. La sua elezione ha permesso l’estradizione del terrorista italiano Cesare Battisti.

Gli oppositori dell’attuale Presidente criticano le reazione autoritaria al dissenso politico, le politiche ambientali che hanno portato a un aumento della deforestazione in Amazzonia, e i tagli alla spesa contro la povertà.

Ora l’opposizione spera in una riscossa da parte di Lula, che dopo la sua liberazione ha parlato di crescente povertà e disoccupazione. Ma non c’è stato alcun segno tangibile della volontà dell’ex Presidente 74enne di candidarsi alle prossime elezioni.

La scarcerazione viene comunque vista come una vittoria, dopo l’arresto di due anni fa e la sconfitta alle politiche del partito dell’anno scorso.

Luiz Inácio Lula da Silva è stato arrestato nel 2017 con accuse di corruzione e riciclaggio e condannato a una pena detentiva di 12 anni. La decisione della Corte avrà influenza su migliaia di detenuti, inclusi numerosi politici di alto profilo incarcerati, come Lula, per corruzione.

6G

PRIMO PIANO
L’Europa arranca sul 5G. E in Cina è già tempo di 6G

Pechino crea due gruppi di lavoro per il nuovo standard mobile. E si gioca il primato mondiale sul 5G con Usa, Corea e Giappone. Il Vecchio Continente al palo ma, secondo la Gsma, si può invertire il trend puntando su Industria 4.0 e IoT

08 Nov 2019
Patrizia Licata
giornalista

Sulle reti di comunicazione mobile la Cina si è messa a correre. Mentre è ancora impegnata nelle implementazioni del 5G, la Tigre asiatica già fa partire la ricerca e sviluppo sullo standard successivo, il 6G. Il ministero della Scienza e della tecnologia cinese ha reso noto che istituirà due gruppi di lavoro specificamente rivolti alle attività di R&D sulle reti mobili di sesta generazione.

Il primo gruppo unirà gli enti governativi con competenze nelle Tlc e nella ricerca e si occuperà di promuovere e indirizzare la ricerca e sviluppo sul 6G. Il secondo gruppo di lavoro sarà invece composto da 37 università, centri di ricerca e aziende che si dedicheranno alle specifiche tecniche del 6G e forniranno consulenza al governo.

Una questione anche politica

La Corea del Sud è l’unica nazione ad avere una copertura 5G su scala nazionale, ma la Cina sta procedendo spedita. Gli Stati Uniti inseguono, con il roll-out concentrato nelle metropoli. L’industria e gli esperti sono concordi nell’indicare che occorrerà ancora qualche anno perché le reti 5G diventino capillari e il 6G è ancora tutto nel futuro. Il vice-ministro della Scienza e tecnologia Wang Xi ha confermato che il 6G è agli albori e ancora mancano standardizzazione e chiari scenari di applicazione. Lo scorso settembre sul 6G è intervenuto anche il ceo di Huawei, Ren Zhengfei, affermando che la sua azienda sta lavorando sul nuovo standard ma che la tecnologia muove ora i primi passi e la commercializzazione avverrà solo tra diversi anni.

Tuttavia la Cina preme sull’acceleratore per garantirsi una supremazia tecnologica e industriale e liberarsi dalla vulnerabilità alle ripercussioni politiche che stanno caratterizzando la corsa al 5G. Proprio Huawei è diventata il simbolo della valenza politica delle comunicazioni mobili, culminata nel bando emesso dagli Stati Uniti contro le forniture Tlc del vendor cinese, accusato di favorire lo spionaggio di Pechino e il furto di proprietà intellettuale.

“In questo momento critico per la crescita nazionale, dobbiamo attribuire grande importanza allo sviluppo del 6G, coordinare i programmi, promuoverlo con efficienza e favorire l’innovazione in questa area”, ha dichiarato Wang.
Lo standard dell’intelligenza artificiale

Anche in Europa il mondo della ricerca sta cominciando a guardare al 6G. A inizio anno un team dell’Università di Brema ha delineato i limiti del 5G e indicato che le applicazioni di intelligenza artificiale spingono allo sviluppo di uno standard più avanzato, in grado di abilitare le più complesse applicazioni legate alle macchine e ai sistemi AI. Non è solo questione di velocità di comunicazione – che col 6G sarà comunque “supersonica”, vicina a 1 terabit al secondo; la vera discriminante sarà la capacità di sostenere collaborazioni su vasta scala tra agenti intelligenti che effettuano all’istante calcoli complessi, prendono decisioni cruciali e risolvono difficoltà. L’auto autonoma, il monitoraggio dei mercati finanziari, l’ottimizzazione delle prestazioni sanitarie e il cosiddetto “nowcasting”, ovvero la possibilità di prevedere eventi o reagire appena si verificano, sono tra le applicazioni previste.

Europa in ritardo nella partita del 5G

Alla fine dello scorso anno il Securities Times ha scritto che la Cina ha in programma di iniziare a lavorare sul 6G nel 2020. Su Xin, leader del team di lavoro 5G del ministero cinese dell’Industria e dell’Informatica, prevede che la data di lancio commerciale sarà il 2030.

Mancano dieci anni e intanto la partita si gioca sul 5G. Qui è cruciale che l’Europa recuperi il suo ritardo. Uno studio di Gsma intelligence mostra che i leader indiscussi sono Cina, Usa, Giappone e Stati Uniti: nel 2025 conteranno più della metà di tutti gli abbonati alle reti mobili di quinta generazione (che per quell’anno saranno 1,57 miliardi su scala globale). In Corea il 66% degli abbonati mobili userà il 5G nel 2025; negli Usa saranno il 50%. La Cina dominerà in termini numerici con 600 milioni di connessioni 5G.

L’Europa arranca nell’adozione su scala consumer, ma lo studio della Gsma prevede una diffusione importante a livello aziendale grazie alle fabbriche smart e a Industria 4.0 che useranno sensori, dispositivi connessi e robot. Sarà la Internet of things a trainare l’adozione: per questo gli operatori mobili, dice l’associazione, dovrebbero puntare a stringere alleanze con le aziende sui progetti IoT, che nel 2025 varranno 1.000 miliardi di dollari su scala mondiale (più o meno come i ricavi dell’intera industria mobile l’anno scorso). Al tempo stesso, solo il 5% di tale fatturato deriverà dai servizi di connettività, sottolinea la Gsma: per attrarre il resto del valore le telco dovranno competere con i giganti dell’informatica e di Internet come Microsoft e Amazon.
Investimenti record per Usa e Cina

Secondo Ihs Markit il 5G genererà 13.200 miliardi di dollari entro il 2035 dalla sola abilitazione commerciale. Le stime contenute nello studio commissionato da Qualcomm e diffuso oggi rappresentano un incremento di 1.000 miliardi di dollari rispetto alla previsione originale rilasciata nel 2017, merito del colpo d’acceleratore su standardizzazione e roll-out, spiegano gli analisti.

A ottobre Qualcomm aveva indicato che erano state attivate nel mondo più di 30 reti 5G e oltre 40 Oem stavano portando sul mercato dispositivi 5G-enabled. Ma ancora una volta lo studio di Ihs Markit punta i riflettori sulle due protagoniste indiscusse delle implementazioni della nuova generazione mobile, Usa e Cina: rappresenteranno, rispettivamente, il 27% e il 26% di tutti gli investimenti annuali in ricerca e sviluppo e capitale sulla value chain del 5G.

Rifiuti - Pirolisi

Rifiuti, tutti i numeri sull’emergenza impianti in Italia. Report Utilitalia

8 novembre 2019


Presentato a Ecomondo (Rimini) lo studio di Utilitalia sull’emergenza rifiuti. Chi c’era e che cosa si è detto

In Italia gli impianti di trattamento dei rifiuti urbani sono insufficienti sia per gestire il riciclo e lo smaltimento dei flussi attuali, sia in vista dei prossimi obiettivi europei. È quanto emerge dallo studio “Il fabbisogno nazionale di trattamento dei rifiuti” realizzato da Utilitalia (la Federazione delle imprese idriche, ambientali ed energetiche) e presentato a Ecomondo, la fiera per l’innovazione industriale e tecnologica dell’economia circolare che si chiudea Rimini. La mancanza di impianti, soprattutto nel Sud e, in misura minore, nel Centro Italia, costringe a un ricorso eccessivo alla discarica e a fare viaggiare tonnellate di spazzatura da una regione all’altra. “Il problema – spiega Filippo Brandolini, vice presidente di Utilitalia – non è solo di capacità installata, ma soprattutto di dislocazione geografica. Serve una strategia nazionale per definire i fabbisogni che operi un riequilibrio a livello territoriale per limitare le esportazioni, abbattendo le emissioni di CO2”.

I NUMERI DEI RIFIUTI

Nel 2017 sono state prodotte 29,6 milioni di tonnellate di rifiuti urbani (500mila in meno rispetto al 2016). Circa due milioni sono state smaltite in Regioni diverse da quelle di produzione. Il Nord ha importato il 12% dei rifiuti urbani, pari a 1.680.000 tonnellate (più 3%) e ha conferito in discarica il 10%; il Centro ne ha esportati il 16% (pari a oltre 1 milione di tonnellate), avviandone a discarica il 36%; il Sud ha invece esportato il 7%, mentre il 29% è finito in discarica.

Sono state raccolte 6,6 milioni di tonnellate di organico (100mila in più rispetto al 2016). Circa 1,3 milioni sono migrate principalmente dal Centro–Sud verso il Nord, pari al 22% (+5%). Sempre nel 2017, oltre ai rifiuti indifferenziati, sono state smaltite negli inceneritori 2,8 milioni di tonnellate di rifiuti urbani trattati e circa 650mila tonnellate, il 23%, portate al Nord, ma prodotte nel Centro-Sud.

ECCESSIVO UTILIZZO DELLE DISCARICHE

Il ricorso alle discariche, il sistema di trattamento dei rifiuti con il maggiore impatto ambientale, è ancora troppo elevato: ci sono finiti 6,5 milioni di tonnellate di rifiuti urbani, il 23%, quota lontana dall’obiettivo fissato dall’Unione Europea che ci impone di scendere al di sotto del 10% entro il 2035. A questo ritmo di conferimento, saremo obbligati a scegliere se costruire nuovi impianti o continuare a smaltire in discarica incorrendo in nuove procedure di infrazione.

GLI SCENARI

Nel 2035, altro obiettivo fissato dall’Europa, l’Italia dovrà portare al 65% la quota di rifiuti urbani riciclati. Se entro quella data si volesse annullare l’export tra le macro-aree del Paese, il fabbisogno impiantistico stimato da Utilitalia ammonta a una capacità di 5,3 milioni di tonnellate.

“L’Italia — sottolinea Brandolini — ha urgentemente bisogno di nuovi impianti soprattutto per il trattamento della frazione organica, in mancanza dei quali non sarà possibile raggiungere i target Ue che nel 2024 saranno introdotti anche per i rifiuti speciali”. “Nei prossimi anni la raccolta differenziata è destinata ad aumentare, ma senza impianti di digestione anaerobica e senza termovalorizzatori — conclude — non si chiude il ciclo dei rifiuti. Risulta sempre più evidente la necessità di una strategia nazionale che guidi il processo di transizione verso l’economia circolare”.

venerdì 8 novembre 2019

E' guerra vera è guerra totale, niente illusioni - pensare che gli Stati Uniti siano in guerra solo con la Cina è da ingenui

Ecco come Russia e Cina fanno la guerra al sistema Usa dei pagamenti Swift. Il Punto di Gagliano

8 novembre 2019


Tutte le nuove convergenze tra Russia e Cina su sistemi di pagamento alternativi al circuito americano Swift. L’approfondimento di Giuseppe Gagliano

La direzione di Swift non ha resistito a lungo alle pressioni degli Stati Uniti e ha deciso di disconnettere dal suo sistema la Banca centrale dell’Iran e altri istituti finanziari soggetti alle sanzioni statunitensi. Se gli Stati Uniti hanno usato Swift come “arma” nella loro politica estera, è chiaro che Swift è in definitiva solo un codice crittografato e un sistema di messaggistica. In risposta alle pressioni statunitensi, Russia e Cina hanno scritto un proprio codice.

Infatti l’Spfs della Russia sta guadagnando clienti e sembra galvanizzare le intenzioni di indipendenza in Iran, Cina, Turchia, India, e persino Vietnam e con altri stretti partner commerciali.

Le nuove sanzioni statunitensi del 2018 contro la Russia hanno determinato il rischio di escalation che potrebbe potenzialmente comportare, in caso di massima tensione, la totale disconnessione di tutte le banche nei sistemi di carte Visa e Mastercard internazionali della Russia.

Per prevenire una tale eventualità, nell’estate del 2014 le autorità russe hanno lanciato il progetto del Sistema nazionale di carte di pagamento chiamato Nspk (Nationalnaya Systema Platyojnikh Kart) attraverso il quale una carta bancaria nazionale che porta il nome di Mir.

Ebbene, la plastica della scheda, il chip, proprio come il protocollo di crittografia del chip, sono realizzati in toto in Russia. Un sistema nazionale di carte consente di superare una potenziale disconnessione dei sistemi internazionali di carte Visa e Mastercard garantendo così la continuità di tutte le operazioni delle carte sul territorio della Federazione Russa, compresa la Crimea.

Non solo la carta Mir è collegata al sistema informatico dell’Nspk, ma gli operatori Visa e Mastercard hanno anche accettato di collegare le loro carte emesse da tutte le banche situate nella Federazione Russa informandoli che avrebbero dovuto pagare un rilevante deposito in caso di rifiuto di connessione all’Nspk.

Tuttavia, il Mir ha lo svantaggio di non essere utilizzabile all’estero, né su un sito Web collegato a una banca situata al di fuori della Russia. Questo è il limite del sistema che è d’altra parte coerente con il suo principio originale di essere una carta nazionale allo stesso modo di China Union Pay, il sistema nazionale di carte di pagamento cinesi.

Tuttavia, per superare questo limite, l’Nspk ha iniziato a produrre carte denominate “co-branding” o “co-badge” con operatori stranieri come Japan Credit Bureau in seguito all’accordo firmato a luglio 2015 o con “Union Pay” cinese firmato a settembre 2016.

Queste carte cobadged consentono il funzionamento delle carte Mir all’estero nei principali siti turistici e nelle principali città, sul modello di Union Pay utilizzato anche dai turisti cinesi all’estero. Esistono diversi paesi al mondo che dispongono anche di un proprio sistema di carte di pagamento nazionale, con “China Union Pay” il più noto di tutti, ma anche il Giappone, che utilizza internamente il sistema Jcb, oppure l’India con il suo sistema nazionale di carte Npci, (National Payments Corporation of India), creato nel 2008. Tuttavia, allo stato attuale, all’interno dei Brics non è previsto di renderlo un sistema comune, ma piuttosto di firmare accordi di “co-branding” tra i diversi sistemi di carte nazionali per uso reciproco.

Un altro asse di sviluppo è l’internazionalizzazione del Mir tramite sistemi di pagamento elettronici come l’accordo recentemente siglato tra Nspk e Samsung che consentirà l’uso della carta Mir nel sistema di pagamento elettronico Samsung Pay.

Un altro strumento di contrastato all’egemonia americana del dollaro è relativo agli stretti legami con la finanza islamica. Infatti a metà novembre 2016, Sichuan Development Financial Leasing & Co ha annunciato che venderà 300 milioni di dollari di “Sukuk” tramite “Silk Roads Capital” che altro non è che un fondo su misura a Singapore, guidato da cinesi e un team di finanzieri internazionali.

Il termine “Sukuk” significa nella legge islamica un certificato di investimento conforme alla Sharia e quindi prodotti e transazioni finanziarie che rispettano i principi di proibizione dell’usura e della speculazione. In totale, questo fondo dovrebbe offrire un miliardo di dollari di questi titoli islamici e fungere da veicolo finanziario per la Cina nei paesi musulmani in cui si preferisce il “Sukuk”. Questo è particolarmente vero in Medio Oriente e Africa. Il mercato finanziario islamico vale 2,1 trilioni di dollari.

Insomma la Cina, attraverso Hong Kong e Singapore, sta cercando di posizionarsi come un centro finanziario privilegiato per la finanza islamica. Gli stati asiatici e anche quelli africani vogliono attirare investitori musulmani stranieri che finora avevano avuto la tendenza ad investire in Europa o negli Stati Uniti. Infatti i fondi cinesi autorizzati ad investire all’estero sono in aumento dalla nascita della Bri. A tale proposito, il Fondo di sviluppo Cina-Africa (CADFund) e la Banca islamica di sviluppo (IDB) hanno firmato a Pechino un primo accordo che consentirà alla Cina di investire maggiormente in questo settore. Le banche cinesi, come ICBC e Bank of China, sono già pronte, ma il principale motore di investimento sarà la Asian Infrastructure Investment Bank (AIIB).

La Cina non è l’unico paese asiatico a puntare sui legami islamici. La Malesia e l’Indonesia, in quanto paesi musulmani, stanno già aprendo la strada in questo settore. Ma dobbiamo anche fare riferimento al Giappone, la cui filiale nel Golfo di Tokyo e cioè la Mitsubishi Bank offre già servizi finanziari conformi alla sharia. Infatti, con 23 milioni di musulmani in Cina, Pechino ha le risorse per diventare un attore di primo piano nella finanza islamica.

In altro fronte di questa Guerra economica con gli Usa è rappresentato dal blockchain.

A tale proposito il discorso di Xi Jinping tenuto il 31 ottobre 2019 ai membri del Politburo che promuove la blockchain, fa parte della strategia della cyber sovranità, con l’ambizione di mettere le nuove tecnologie al servizio della sovranità in funzione anti americana.

Insomma, allo scopo di contrastare l’egemonia del dollaro, Cina e Russia stanno contribuendo a inaugurare una nuova era e cioè quella della de-dollarizzare il mondo.

Ilva - ormai siamo andati oltre la vicenda dell'Altoforno 2

ILVA, Scudo di cartone e Braccio di ferro

Ormai è solo una campagna mediatica, per trovare il colpevole della chiusura

8 novembre 2019
Guido Salerno Aletta
Editorialista dell'Agenzia Teleborsa


Nelle vicende lunghe e complesse è facile perdersi per strada, quando ci sono insieme interventi legislativi, vicende giudiziarie e procedimenti amministrativi.E quando c'è un intoppo grande, come sta succedendo in questi giorni per l'ILVA di Taranto, l'unico gioco al massacro è quello mediatico: bisogna dare la colpa a qualcun altro. Anche in questo caso, non si capisce esattamente "perché" l'azienda si sia tirata indietro, chiedendo formalmente alla Magistratura di Milano di dichiarare legittimo il suo recesso contrattuale.

L'Azienda, ArcelorMittal, che chiameremo per brevità AM, può esercitare questo diritto di recesso nel caso in cui il Piano di risanamento ambientale previsto negli Accordi sia modificato con sentenza definitiva o esecutiva, ovvero per atto legislativo o amministrativo in maniera tale da pregiudicare il Piano industriale che ha presentato in fase di gara, per l'aggiudicazione della gestione in affitto e poi dell'acquisto del compendio aziendale.

Tutta la Gestione Commissariale e la gara per l'affidamento della gestione, che è stata vinta da AM, si sono svolte quindi sulla base degli adempimenti ambientali definiti nella nuova Autorizzazione Integrata Ambientale (AIA), che nel 2012 ha sostituito quella del 2011 a seguito dell'intervento effettuato dalla Magistratura. Nel 2017, su richiesta di AM, questa AIA del 2012 è stata modificata.

C'è però una vicenda terribile, che ha determinato la morte di un giovane operaio nel 2015, colpito da un getto di ghisa incandescente mentre lavorava nell'Altoforno 2, che si è andata ad intrecciare rispetto alla situazione precedente, in cui pure la Magistratura di Taranto era intervenuta nel 2012 per sequestrare tutti gli impianti dell'ILVA in quanto la gestione di allora non aveva proceduto alla messa a norma degli impianti. L'Altoforno 2 è stato posto sotto sequestro, nominando un custode giudiziario che doveva sorvegliarlo.

Il governo dell'epoca intervenne immediatamente, con un decreto-legge, per assicurare la continuità della produzione dell'Altoforno, e quindi per evitarne lo spegnimento, disponendo che l'ILVA preparasse entro 30 giorni un piano di sistemazione. La Corte costituzionale, con la sentenza 58/2015 dichiarò la illegittimità di quella disposizione in quanto dava alla Azienda il potere di decidere senza l'intervento delle pubbliche autorità, e quindi favorendo gli interessi della produzione rispetto alla tutela inderogabile della salute e della vita umana, garantiti in Costituzione. Mentre l'Altoforno continuava a produrre, e sono passati ben 5 anni, è stato il custode giudiziario a proporre una serie di interventi di risanamento che prevedono lo spegnimento dell'impianto al fine di procedere in sicurezza.

Di tutta questa "vicenda parallela", che riguarda l'Altoforno 2, non c'è traccia esplicita negli atti di gara. Né viene trattata in modo analitico negli Accordi presi tra la Gestione Commissariale e AM. E' sempre stata la Gestione Commissariale, a cui sulla base della Legge Prodi è stata affidata la gestione dell'Azienda per deciderne il destino, che ha interloquito con la magistratura, opponendosi senza successo alla decisione del Magistrato che questa estate ha approvato il Piano del Custode Giudiziario dell'Altoforno 2, che ne prevede la chiusura per lavori entro il prossimo 13 dicembre. Solo in modo indiretto, nell'Addendum contrattuale del 2018, era stata prevista una clausola di recesso, di cui abbiamo fatto menzione all'inizio: praticamente, la Azienda si obbligava ad effettuare solo gli interventi previsti dall'AIA del 2012, come integrata su sua richiesta nel 2017, ma non quelli che per via legislativa o amministrativa la avrebbero modificata rendendo non più praticabile il suo Piano industriale.

NoTav - tanti tanti altri soldi per affrontare l'imprevisto che è sempre esistito

Il deposito di rifiuti d'amianto che blocca l'apertura del cantiere Tav Torino-Lione


A Salbertrand, piccolo centro della Val di Susa, in provincia di Torino, la società italofrancese Tunnel Euralpin Lyon Turin, incaricata di realizzare la linea ad Alta Velocità, dovrà costruire su un’area di oltre 12 ettari di proprietà comunale un "impianto funzionale" per assemblare gli "spicchi" di cemento che serviranno a foderare il tunnel ferroviario che collegherà l’Italia alla Francia. Quasi un terzo di quella superficie è occupata da due aree adibite a deposito: una di 16mila metri quadrati, affittata dalla società Itinera Spa, contenente terre di scavo contaminate da amianto, e l’altra di 22.444 metri quadrati, affittata da una piccola società edile non più attiva, occupata da rifiuti di cantiere e vecchie traversine ferroviarie. Per essere utilizzate le due aree vanno prima bonificate. Quella contenente amianto è stata posta sotto sequestro dalla Guardia Finanza a settembre 2019 a seguito di un esposto. Il destino dell’Alta Velocità e le tempistiche per la realizzazione del tunnel dipendono dalla soluzione dei problemi ambientali di quelle due aree. Stando ai piani internazionali del Tav, non esistono localizzazioni alternative per insediare "l’impianto funzionale".

Video di Massimiliano Peggio

La 'ndrangheta dilaga in Piemonte e Lombardia

VARESE
Investimenti della ‘ndrangheta nelle pizzerie nel Nord Italia, 9 arresti

Tra i sequestri, per oltre 10 milioni di euro, le quote societarie di alcuni ristoranti di una nota catena di pizzerie



Squadra Mobile e Divisione Anticrimine Milano coordinate dalla Direzione Distrettuale Antimafia di Milano hanno scoperto un giro di denaro, frutto di attività illecite, reinvestito nel circuito della grande ristorazione in Lombardia e Piemonte da parte di appartenenti alla criminalità organizzata calabrese.

Sono 9 le persone arrestate, ritenute responsabili, a vario titolo, di associazione per delinquere e trasferimento fraudolento di valori.

Le indagini hanno fatto luce sugli interessi di soggetti contigui alle cosche calabresi, che reinvestivano denaro frutto di attività illecite, con immissione di grandi capitali nel circuito della grande ristorazione nel Nord Italia. Tra i sequestri, per oltre 10 milioni di euro, le quote societarie di alcuni ristoranti di una nota catena di pizzerie.

Il gruppo in questione – Tourlè, specializzato in “giropizza” – ha diversi punti vendita in franchising anche nel Varesotto, tra cui i locali di Gazzada Schianno e Marchirolo.

«Ma noi siamo franchisee, nulla abbiamo a che fare con l’inchiesta, difatti i ristoranti di Gazzada e Marchirolo sono aperti», spiega il titolare delle due pizzerie Andrea Impastato, che aggiunge: «Non abbiamo avuto perquisizioni o altri contatti con le forze dell’ordine in questi giorni».

In serata è arrivata la comunicazione dei legali rappresentanti dei locali affiliati al marchio Tourlè di Gazzada Schianno, Marchirolo, Olgiate Olona, Carbonate (CO) e Bergamo (BG). Questa la nota diffusa

Apprendiamo con rammarico e stupore la notizia dell’operazione giudiziaria che ha portato al sequestro delle quote della società Myob Srl, che detiene il marchio Tourlè, e delle società che gestiscono i Tourlè di Sesto San Giovanni, Cologno Monzese e Torino, che sarebbero direttamente partecipate dalla medesima Myob..

I legali rappresentanti dei punti vendita Tourlè sopra citati tramite i propri procuratori, Avv. Andrea Brenna del foro di Varese e Avv. Ivan Fossati del foro di Milano, segnalano che le proprie società operano in franchising, sono autonome ed indipendenti e non hanno alcun vincolo o rapporto di partecipazione con la Myob.

In particolare, i locali affiliati al marchio Tourlè di Gazzada Schianno, Marchirolo, Olgiate Olona, Carbonate (CO) e Bergamo (BG) precisano che essi non risultano in alcun modo coinvolti nelle indagini e sono pertanto pienamente operative.

L’Avv. Brenna e l’Avv. Fossati dichiarano che seguiranno con attenzione l’evoluzione della vicenda e che nei prossimi giorni verranno adottate tutte le azioni a tutela dell’immagine e del buon nome delle società da loro assistite.

Dalla Lega e dal suo fanfulla nulla di nuovo sotto le stelle è nel loro Dna truffare imbrogliare essere l'altra faccia della medesima medaglia neoliberista

Come la Lega avrebbe investito (contro la legge) 300.000 euro in bond di ArcelorMittal


8 Novembre 2019 - 15:53 

Mentre si cerca ancora una soluzione al caso Ilva, i 5 Stelle attaccano la Lega per un presunto investimento di 300.000 in bond di ArcelorMittal: oltre all’imbarazzo politico, la cosa sarebbe anche vietata per un partito da una legge del 2012.


“La Lega ha investito 300.000 euro in bond di ArcelorMittal”. Durante le infuocate discussioni in merito alla vicenda Ilva, questa è la “bomba” che è stata sganciata dal viceministro pentastellato all’Economia Stefano Buffagni: “Spero che a questo punto pensino ai lavoratori e non ai soldi che hanno investito”.

A dire il vero lo scoop è stato fatto dai due giornalisti de L’Espresso Giovanni Tizian e Stefano Vergine, che nel loro libro Il libro nero della Lega uscito a febbraio oltre che raccontare della storia Metropol-Savoini parlavano anche di come la Lega avesse investito oltre 5,7 milioni di euro in bond.

Con tanto di documenti alla mano, i due giornalisti rivelavano l’esistenza dei 300.000 euro in bond di ArcelorMittal, il colosso franco-indiano proprietario dell’Ilva e che ora vuole recedere dal contratto se non gli sarà concesso lo scudo penale e la possibilità di rivedere il piano industriale con tanto di 5.000 esuberi tra i lavoratori.

“Chieda all’amministratore, io non mi occupo di Borsa, mi occupo di politica” è stata la risposta di Matteo Salvini a chi gli ha adesso chiesto lumi su questa vicenda, con una legge del 2012 che comunque vieta ai partiti di investire in strumenti finanziari che siano diversi dai titoli di Stato dei Paesi dell’UE.

La Lega e il presunto bond da 300.000 euro di ArcelorMittal

Con la decisione di recedere dal contratto sottoscritto soltanto un anno fa, ArcelorMittal vuole uscire fuori dalla gestione dell’Ilva fornendo come motivazione la revoca dello scudo penale e la decisione del Tribunale di Taranto di chiudere l’altoforno 2, che di fatto renderebbe impossibile rispettare il contratto di produzione.

La verità però potrebbe essere un’altra: complice anche la crisi mondiale nel settore dell’acciaio, ArcelorMittal in un anno avrebbe già perso con l’Ilva 1 miliardo e per andare avanti vorrebbe diminuire la produzione con relativi 5.000 esuberi tra i lavoratori, altrimenti arrivederci a grazie.

Una questione che ha provocato immancabilmente una dura polemica anche politica, con la Lega in prima fila nell’attaccare il governo reo di aver creato i presupposti con la revoca dello scudo penale (in verità misura votata anche dalla Lega quando era al governo con i 5 Stelle) per una fuga del colosso franco-indiano.

Adesso però si sta tornando a parlare anche di un’altra vicenda, passata sotto traccia al momento della sua denuncia un po’ come il caso Metropol ma che ora potrebbe portare a più di un grattacapo per Matteo Salvini.

Fonte Twitter

Stando ai documenti rivelati da Giovanni Tizian e Stefano Vergine nel loro libro, in barba alla legge che lo vieta la Lega avrebbe investito come si può vedere dal promemoria datato maggio 2014 oltre 5,7 milioni in obbligazioni.

Per quanto riguarda ArcelorMittal il Carroccio avrebbe investito in totale 300.000 euro, con Matteo Salvini che si è difeso sulla falsa riga della vicenda Russia dicendo di chiedere conto all’amministratore in quanto “ho 10.000 euro in azioni e non ne ho di ArcelorMittal”.

Sarebbe necessario a riguardo per fugare ogni dubbio un chiarimento di Giuliano Centemero, il tesoriere della Lega al centro di alcune indagini sui presunti finanziamenti illeciti ricevuti dalla onlus PiùVoci, legata al Carroccio, da parte del costruttore Luca Parnasi e di Bernardo Caprotti creatore di Esselunga venuto a mancare nel 2016.

Ilva nazionalizzata, forza ci manca poco


Ilva verso la nazionalizzazione?

8 Novembre 2019 - 11:18 

L’Ilva verso la nazionalizzazione? Occhi sulle dichiarazioni di Giuseppe Conte


L’Ilva verso la nazionalizzazione? Un’ipotesi non così improbabile viste le ultime dichiarazioni del Presidente del Consiglio Giuseppe Conte.

Il caos è esploso qualche giorno fa, quando ArcelorMittal ha comunicato la sua decisione di ritirarsi dalla partita e di recedere dal contratto d’affitto.

La reazione dell’esecutivo tricolore non si è fatta attendere e proprio Conte ha convocato a Palazzo Chigi sia alcuni dei suoi più illustri colleghi sia i vertici del colosso dell’acciaio, il quale però non è sembrato propenso a trovare l’intesa.

Nazionalizzazione Ilva è possibile?

Nella giornata di mercoledì il Governo ha offerto agli indiani un nuovo scudo penale, da far valere non soltanto a Taranto, ma su tutti i casi simili a questo. ArcelorMittal però ha continuato per la sua strada ribadendo l’intenzione di sfilarsi dall’Ilva.

Secondo i più scettici, il colosso ha chiesto sia un taglio della produzione che 5.000 esuberi con l’obiettivo di mettere i bastoni fra le ruote a qualsiasi tentativo di riavvicinamento.

Le condizioni infatti sono risultate inaccettabili per l’esecutivo che ha dato 48 ore di tempo agli indiani per tornare indietro e ripensarci.


Molto probabilmente però ArcelorMittal si sfilerà, cosa che renderà la situazione ancora più drammatica. Ad oggi, infatti, neanche l’idea di una possibile cordata estera pronta a farsi carico dell’acciaieria sembra essere più così plausibile.

Da qui l’ipotesi di nazionalizzazione dell’Ilva, o magari quella di un iniziale commissariamento. L’obiettivo? Sempre lo stesso, salvarla a ogni costo.

Cosa come quanto produrre, è il prodotto di una visione paese che non c'è

Ilva, la fine delle cazzate neoliberiste



Ilva e Alitalia, Fca in fuga, Whirlpool ed Embraco, e poi altri mille “tavoli di crisi” che disegnano il tramonto del sistema industriale italiano. Chi si concentra solo sulle notizie del giorno – “è colpa di chi ha messo in discussione lo ‘scudo legale’”, “non si cambiano le regole in corso d’opera”, “ArcelorMittal voleva solo 5.000 esuberi e ha giocato sporco”, ecc – è destinato a non vedere luce.

O, come si dice ragionando seriamente, a guardare l’albero e non vedere la foresta.

C’è un paese che sta affondando nella de-industrializzazione, senza peraltro avere mai costruito un modello di sviluppo alternativo, senza aver programmato e incentivato qualcosa di diverso.

Le colpe vanno equamente divise tra una classe imprenditoriale di inqualificabile viltà e una classe politica, 
se si può, anche peggiore. Entrambe, davanti alla costruzione europea che toglieva sovranità alle scelte economiche, hanno reagito fuggendo. Gli imprenditori girando i loro profitti nella finanza speculativa, i politici – tutti, nessuno escluso, e quelli parafascisti per primi (da Berlusconi a Salvini) – accettando I diktat europei, spogliandosi di qualsiasi responsabilità e rifugiandosi nella bolla della “comunicazione”. Ossia nella menzogna professionale.

Da quasi trenta anni, dagli accordi di Maastricht in poi, 
la “politica industriale” di tutti i governi è consistita in privatizzazioni e soldi a pioggia alle imprese. 
Ossia in “regali industriali” – da Telecom a Italsider, ad Autostrade – accompagnati da generose “dazioni” liquide (sotto forma di decontribuzione, finanziamenti a fondo perduto, taglio del cuneo fiscale), oltre che da politiche criminali sul lavoro (precarietà contrattuale legalizzata, allungamento dell’età lavorativa, eliminazione delle tutele dei lavoratori, deflazione salariale, complicità di CgilCislUil). Ma accettando sempre la tagliola del “divieto agli aiuti di Stato” imposta dall’Unione Europea.

Di fatto, sono state consegnate alle imprese le chiavi dello sviluppo o della morte del paese.

E le imprese hanno fatto i loro affari ognuna chinata soltanto sul proprio profitto a breve termine – “i mercati” valutano le relazioni trimestrali, mica le prospettive strategiche – e sul calcolo costi/benefici (tra costo del lavoro, incentivi a pioggia, efficienza delle infrastrutture, politiche fiscali nazionali, ecc).

Inevitabile, dunque, che decidessero per la morte, ponendo ogni volta il ricatto con modalità mafiose: “o ci date mano libera o ce ne andiamo da un’altra parte”.

C’erano una volta i lavoratori che si trasferivano là dove c’erano le industrie, con la valigia di cartone legata con lo spago.

Oggi sono le imprese multinazionali a viaggiare spostando linee di montaggio e casseforti gonfie di soldi.

Da questa condizione storica non si esce con misure una tantum, con un finanziamento in più e neanche con una “partecipazione pubblica” nei casi più disperati (dopo anni, è arrivato a chiederla – per la sola Ilva – persino il segretario della Cgil!).

Di fronte alla dimensione del disastro, economico e sociale, c’è bisogno di una visione e di una programmazione di lungo periodo. C’è bisogno di decidere che cosa produrre e come farlo (e quanto). C’è bisogno di investire in barba a qualsiasi “patto di stabilità europeo”, perché un paese di 60 milioni di persone non può accettare di finire nel baratro della Storia solo per rispettare “regole” scritte per favorire altri sistemi industriali, altri paesi e altre multinazionali (Progetto Criminale dell'Euro).

Abbiamo provato già a dirlo: nazionalizzare si deve, ma al punto cui siamo arrivati neanche questo basta più.

Occorre un progetto strategico che solo una diversa visione del mondo e della produzione può assicurare.

Senza cadere negli slogan da “massimi sistemi”, si tratta di prendere atto che il capitalismo neoliberista non funziona più e va superato prima che esploda seminando, come sempre nella Storia, morte e distruzione.

In questo paese, in quest’area del mondo, in tutto il mondo.

Notizia del: 07/11/2019

Cinghiali sono tanti sono troppi

Emergenza cinghiali, gli italiani si schierano: vanno fermati

7 Novembre 2019 - 17:17 

Continua a far discutere l’emergenza cinghiali che secondo Coldiretti causa danni economici e alla salute. Circa l’81% degli italiani pensa che bisogna fare ricorso agli abbattimenti e invita la politica ad agire


Continua l’emergenza cinghiali in Italia che secondo Coldiretti causano ogni giorno almeno 200 milioni di euro di danni alle colture e non solo. Infatti a preoccupare sono soprattutto i rischi per la salute provocati dalla diffusione di malattie e gli incidenti stradali in grande aumento.

Proprio per questo, secondo quanto espresso dal primo dossier redatto da Coldiretti e da Ixè sull’emergenza animali selvatici in Italia, oltre otto italiani su dieci, precisamente l’81%, pensa che la questione dei cinghiali vada affrontata con il ricorso agli abbattimenti, soprattutto incaricando personale specializzato per ridurne il numero.

Il dossier è stato presentato in occasione del blitz in Piazza Montecitorio migliaia di agricoltori, allevatori, pastori insieme al presidente della Coldiretti Ettore Prandini oltre a cittadini e rappresentanti delle istituzioni e dell’ambientalismo.

Emergenza cinghiali: limitare rischio di diffusione di malattie

L’allarme lanciato in questi giorni da Coldiretti e in generale dagli italiani è stato condiviso anche dall’Autorità per la sicurezza alimentare Europea (EFSA) che ha lanciato un appello urgente agli Stati dell’Unione Europea chiedendo misure straordinarie per:
evitare l’accesso dei cinghiali al cibo;
realizzare una riduzione del numero di capi per limitare il rischio di diffusione di malattie come la peste suina africana.

Come si evince dai dati della ricerca sviluppata da Coldiretti e Ixè, il 90% degli italiani afferma che la fauna selvatica rappresenta un grosso problema. In particolare, quella che più desta preoccupazione ai cittadini del Bel Paese - con una percentuale del 69% - è la presenza eccessiva di cinghiali.

Ma non è tutto. Infatti, il 58% degli italiani ritiene che i cinghiali siano troppo numerosi e li considera una vera e propria minaccia per la popolazione, oltre che un serio problema per le coltivazioni e per l’equilibrio ambientale come pensa il 75% degli intervistati che si sono formati un’opinione.
Chi deve risolvere l’emergenza cinghiali?

Oltre ai dati finora esposti, il dossier sull’emergenza animali selvatici in Italia dimostra altri due dati molto importanti: il 62% degli italiani ha una reale paura dei cinghiali e il 48% non prenderebbe casa in una zona infestata proprio da questi animali.

Alla domanda su chi debba risolvere l’emergenza cinghiali, il 53% degli italiani ritiene che spetti alle Regioni, mentre per un 25% è compito del Governo e un 22% tocca ai Comuni.

Come dichiara il Presidente di Coldiretti Ettore Prandini “i risultati dell’indagine sono la prova evidente del fatto che ormai anche la maggioranza degli italiani considera l’eccessiva presenza degli animali selvatici come una vera e propria emergenza nazionale che incide sulla sicurezza delle persone oltre che sull’economia e sul lavoro, specie nelle zone più svantaggiate” .