L'albero della storia è sempre verde

L'albero della storia è sempre verde

"Teniamo ben ferma la comprensione del fatto che, di regola, le classi dominanti vincono sempre perché sempre in possesso della comprensione della totalità concettuale della riproduzione sociale, e le classi dominate perdono sempre per la loro stupidità strategica, dovuta all’impossibilità materiale di accedere a questa comprensione intellettuale. Nella storia universale comparata non vi sono assolutamente eccezioni. La prima e l’unica eccezione è il 1917 russo. Per questo, sul piano storico-mondiale, Lenin è molto più grande di Marx. Marx è soltanto il coronamento del grande pensiero idealistico ed umanistico tedesco, ed il fondatore del metodo della comprensione della storia attraverso i modi di produzione. Ma Lenin è molto di più. Lenin è il primo esempio storico in assoluto in cui le classi dominate, sia pure purtroppo soltanto per pochi decenni, hanno potuto vincere contro le classi dominanti. Bisogna dunque studiare con attenzione sia le ragioni della vittoria che le ragioni della sconfitta. Ma esse stanno in un solo complesso di problemi, la natura del partito comunista ed il suo rovesciamento posteriore classistico, individualistico e soprattutto anti- comunitario" Costanzo Preve da "Il modo di produzione comunitario. Il problema del comunismo rimesso sui piedi"

sabato 16 novembre 2019

15 novembre 2019 - DIEGO FUSARO: Interventi a "Coffeebreak" (La7)

100 miliardi l'anno per cinque anni è l'investimento necessario che non sarà ne questo governo e non un eventuale governo della Lega a volerlo fare, non hanno come obiettivo l'Interessa Nazionale, quello degli italiani

Senza investimenti (anche) pubblici, Italia e Ue scricchioleranno. Il commento del prof Piga

16 novembre 2019


E’urgente rilanciare il ruolo degli investimenti pubblici e far partire la golden rule. Il commento dell’economista Gustavo Piga

Al di là del fatto che i provvedimenti presi sinora a riguardo dell’accelerare la celerità della realizzazione delle opere non paiono andare nella giusta direzione – dimostrazione eloquente ne è quella che il presidente dell’Ance, Buia, ha definito l’idra a sette teste costituita dalle ora sette strutture che a vario titolo dovrebbero occuparsi di sbloccare le infrastrutture e che dopo più di un anno non sono nemmeno operative – a preoccupare maggiormente è che i maggiori stanziamenti per gli investimenti pubblici continuano a non trasformarsi in erogazioni di liquidità per i cantieri.

Sarebbe miope continuare a sostenere che ciò avviene perché “non sappiamo spendere” (anche se lo spaventoso blocco del turn over che in questi anni sta colpendo specialmente il Meridione non può non giocare un ruolo) o a causa del “contenzioso amministrativo” (che riguarda per il biennio 17-18 solo l’1,5% complessivo dei bandi di lavori, secondo i dati del Consiglio di Stato): no, è evidente che sono le regole europee che limitano la possibilità per l’Italia di effettuare deficit maggiori (anche quando contenuti entro il 3% del PIL) a spiegare il crollo costante degli investimenti pubblici di questo decennio e la mancata ripresa attuale, malgrado i maggiori stanziamenti dedicati proprio a questi.

Che siano i vincoli a mordere si vede anche in fase di stanziamento: se il Governo annuncia a gran voce un apprezzabile grande piano di investimenti sostenibili di 55 miliardi e poi aggiunge “per i prossimi 15 anni” (dunque poco più di 3 miliardi l’anno in media) e poi aggiunge ancora che per il 2020 se ne stanziano solo 690 milioni (l’1,1%) è evidente che il problema è l’oggi ed i vincoli europei che sull’oggi vanno ad incidere. E sia chiaro: quei 690 milioni, 0,033% di PIL, una briciola rispetto a quanto necessario, saranno i primi a saltare ed a essere bloccati nel momento in cui si dovesse notare che mancano le risorse per raggiungere quel deficit del 2,2% di PIL sciaguratamente promesso all’Europa.

Perché sciaguratamente? Perché è evidente ormai anche ad un bambino che il famoso motto clintoniano “it’s the economy, stupid!” che il Presidente americano usò per rammentare a tutti che è l’economia a trainare i risultati politici, sia quanto mai attuale per riassumere lo stato di ebetudine in cui poggiano i nostri leader nazionali ed europei, che nel distruggere l’edilizia italiana e gli investimenti pubblici ad essa connessi non stanno solo distruggendo le tante costruzioni utili ai cittadini, ma la costruzione della casa più importante di tutte, quella Casa Europea che avevamo sognato con i Padri Fondatori alla fine della seconda guerra mondiale per dare un futuro di pace e prosperità alle future generazioni del nostro continente. E’ soprattutto per questa casa che dobbiamo fare presto, prestissimo, rilanciando il ruolo degli investimenti pubblici e facendo partire ora e non in futuro remoto la golden rule che riserva il 3% del Pil ad essi acconsentendo ad un deficit dello stesso ammontare.

(estratto dal blog di Gustavo Piga; qui la versione integrale)

Il Sistema massonico mafioso politico calabrese è ben collaudato. E' nei processi che la 'ndrangheta è fortissima e non è un caso

«Magistrati e avvocati nelle logge massoniche parallele non registrate»

Le rivelazioni del pentito Simone Canale al processo “’Ndrangheta stragista”. E spuntano i nomi di due giudici reggini molto noti. Sulle stragi: «Vi fu un accordo fra Cosa nostra e ‘ndrangheta»

di Consolato Minniti 
15 novembre 2019 13:29


«Giudici e avvocati all’interno di logge massoniche parallele e non registrate». È quanto ha dichiarato il pentito Simone Canale al processo “’Ndrangheta stragista” in corso davanti alla Corte d’assise di Reggio Calabria e che vede imputati il boss di Cosa nostra, Giuseppe Graviano, e Rocco Filippone, ritenuti i mandanti degli omicidi dei carabinieri Fava e Garofalo, nonché degli altri attentati perpetrati contro gli appartenenti all’Arma fra il 1993 e il 1994. 

Questa mattina, collegato in videoconferenza da sito riservato, il collaboratore di giustizia Simone Canale ha dapprima ripercorso le tappe del suo inizio di collaborazione con la giustizia e poi approfondito le conoscenze acquisite. Canale, cresciuto nel biellese e già affiliato alla cosca Raso, è poi passato con gli Alvaro di Sinopoli. Questa mattina ha ricordato di aver commesso diversi omicidi su commissione della ‘ndrangheta. Per uno, addirittura, le sue dichiarazioni sono ancora coperte da segreto investigativo. 

La carica incappucciata riservata

Le domande del procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo portano subito Canale al punto nevralgico della sua deposizione: la sua conoscenza con Nino Penna, pezzo da novanta della ‘ndrangheta e ritenuto uomo assai feroce in orbita Alvaro. «Quando mi disse che aveva commesso un reato come una violenza di gruppo e che stava cercando qualcuno per far sì che ci potesse essere una revisione del processo, io mi resi disponibile. Scrissi anche un memoriale molto dettagliato. Quando Penna lo fece sapere alla sua famiglia all’esterno, loro gli dissero che un ragazzo che dà la vita per uno di loro non bisogna mai abbandonarlo». È così che nasce il forte legame fra i due, anche se poi Canale non ha necessità di accollarsi il reato perché inizia a collaborare con la giustizia. Tuttavia, quel gesto è sufficiente a far aprire Penna e farsi raccontare anche aspetti che sarebbero dovuti rimanere riservati. Uno su tutti: l’esistenza della cosiddetta carica “incappucciata riservata”. «Sono delle doti che sono dati quando ci sono in mezzo altri contatti più potenti. Solo tu sai cos’hai e chi te l’ha data – rivela Canale – che poi inizia a parlare delle logge parallele

Le logge non registrate

Sempre da Penna, Canale apprende dell’esistenza di logge massoniche particolari: sono parallele (rispetto a quelle ufficiali) perché non registrate. Il pentito fa anche dei nomi, ovviamente da prendere con tutte le cautele del caso. «C’era il barone Nesci, tale Monteleone, ma anche tanti altri». Il pm Lombardo chiede se vi fossero giudici o avvocati. «Sì – sottolinea il collaboratore – mi fece il nome di Alberto Cisterna». Il procuratore fa notare che nel verbale c’era un altro nome, ossia quello del giudice Tuccio. «Sì – aggiunge – mi fece anche il nome di Tuccio. In relazione al processo Olimpia, mi disse che Tuccio era uno di loro. Mi parlò anche di avvocati come Giorgio De Stefano e dell’avvocato Romeo. Mi disse anche dell’avvocato Giuseppe Luppino, legato ad ambienti massonici e ‘ndranghetistici». Fra le famiglie coinvolte quelle dei Piromalli, Mancuso ed Alvaro. «Erano molto legate nella gestione del porto».
 
Omicidi eccellenti e stragi di mafia

Ma Simone Canale ne ha anche per altri personaggi di ‘ndrangheta. Riferisce di aver saputo che nell’omicidio del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa fu coinvolto anche «Nicola Alvaro». Anche con riferimento al duplice omicidio Fava-Garofalo, oggetto del processo, Canale spiega che gli fu detto di una alleanza fra Palermo e Reggio Calabria: «Me l’hanno detto diverse persone, Domenico Nirta, Nino Penna, Corica, i Macrì». Il pentito poi elenca una serie di persone a suo avviso legate da rapporti di mafia: Totò Riina, Nitto Santapaola, i Graviano e Filippone. Il pm chiede se conosca il nome di Filippone, la risposta è immediata: «Rocco Filppone. Era la prima volta che sentivo quel nome, da parte di Corica. Credo fosse uno dei Tegano-Condello o un Piromalli». 

Si pensò ad un attentato a Riina?

Canale ricorda anche la figura di Franco Coco Trovato. «Mi dissero che lui, tramite Gaetano Fidanzati, era stato agganciato da Cosa nostra che chiese appoggio per fare le stragi a Palermo. Lui rispose che non poteva prendere una decisione simile da solo, ma ne avrebbe dovuto parlare con la società. Questa gli disse di farsi da parte. Ed allora, Coco Trovato, per non dire di no, aveva piazzato un’autobomba per Totò Riina, anche se poi fu reindirizzata su Di Pietro, dato che all’epoca era in corso il processo “Mani pulite”. Riina – conclude il pentito – lo volevano nascondere su Gioia Tauro, nel reggino o a Sinopoli. Fu lui a intervenire, durante la guerra di ‘ndrangheta, per fare da paciere».

Hong Kong - gli imbecilli che hanno tirato troppo la corda e che vogliono gli stranieri in Patria hanno un sentiero sempre più stretto e pericoloso

ESTERO
Perché l'intervento militare della Cina a Hong Kong non sarebbe incostituzionale

17:30, 14 novembre 2019

Un'azione militare di Pechino non contravverrebbe la legge fondamentale almeno a certe condizioni, la cui interpretazione si presta a un grande margine di discrezionalità

Proteste a Hong Kong

Le ipotesi di un intervento militare della Repubblica Popolare Cinese a Hong Kong, sempre più probabili dopo le parole di Xi Jinping di oggi e dopo il crescendo delle violenze negli ultimi giorni, vanno lette alla luce dell'articolo 14 della Basic Law, la mini Costituzione che regola per cinquant'anni il regime giuridico della regione amministrativa speciale e che "scadrà" nel 2047.
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Un'azione militare di Pechino non contravverrebbe la legge fondamentale almeno a certe condizioni, la cui interpretazione si presta a un grande margine di discrezionalità . 

Secondo l'articolo 14, il governo centrale di Pechino è responsabile della sicurezza ("defence") di Hong Kong, mentre il governo locale è responsabile del mantenimento dell'ordine pubblico ("public order") e la guarnigione militare cinese che staziona nell'ex colonia "non interferisce negli affari locali della Regione".

Tuttavia il governo di Hong Kong, "qualora necessario", può chiedere l'aiuto delle truppe della Repubblica Popolare per il mantenimento dell'ordine pubblico o in caso di calamità naturali. Una formulazione che rende sfumata, se non ambigua, qualsiasi opzione nell'attuale situazione.

Sarebbe difficile o impossibile contestare giuridicamente l'intervento militare, poiché in termini formali non configurerebbe una violazione della Basic Law.

Gli ebrei palestinesi sono un cancro da estirpare, sono la malattia e non la cura

15 NOVEMBRE 2019 12:28
Iran, Khamenei: vogliamo distruggere Israele, non gli ebrei


"La distruzione di Israele significa la distruzione di quel regime e di criminali come Netanyahu, non degli ebrei". Lo ha detto incontrando alcuni funzionari la Guida suprema iraniana, l'ayatollah Ali Khamenei, respingendo le accuse di antisemitismo rivolte alla Repubblica islamica. "L'eliminazione di Israele significa che i palestinesi, musulmani, cristiani ed ebrei, veri proprietari della terra palestinese, devono poter decidere il loro destino".

E' nella logica delle cose che chi invoca valori stranieri venga battuto ed emarginato

MONDO16 novembre 2019

Hong Kong, soldati in strada per aiutare militari pro-Cina a rimuovere le barricate

Per la prima volta dall'inizio delle proteste, soldati dell'Epc sono usciti dalle caserme. Non in tenuta militare ma in divisa da lavoro, per rimuovere, insieme ai residenti, le macerie delle barricate



Soldati dell'Esercito popolare cinese, di stanza ad Hong Kong, nelle strade dell'ex colonia britannica per la prima volta dall'inizio delle proteste anti-governative (PERCHÉ SI PROTESTA).
In divisa da lavoro

Lo riferiscono i media locali: i soldati sono usciti dalle caserme non in divisa ma in tenuta da lavoro - pantaloncini neri e t-shirt verdi - per rimuovere mattoni e altri oggetti usati dai manifestanti per impedire la circolazione, affiancando agenti e residenti nell'operazione di sgombero e pulizia delle strade. L'operazione, limitata all'area di Kowloon Tong, è durata circa trenta minuti e tutto si è svolto rapidamente. L'ultima volta che i militari dell'Esercito popolare cinese erano scesi per le strade di Hong Kong è stata in occasione del passaggio del tifone Magkhut, a ottobre 2018.

Manifestazioni pro-Cina

La giornata è stata caratterizzata dalle manifestazioni a favore del governo, con centinaia di persone che hanno sfilato a sostegno della polizia, dopo cinque giorni di caos, blocco dei trasporti ed episodi di violenza. La calma sembra essere tornata, il tratto autostradale chiuso al traffico da giorni dagli studenti della Chinese University è stato riaperto e nelle strade si sono formate vere e proprie catene umane di residenti intente a rimuovere i detriti delle barricate erette dagli attivisti.



Gli imbecilli che manifestano con la bandierina statunitense e vogliono la libertà straniera in Patria

ECONOMIA
Hong Kong e Pechino sono legate da una rete commerciale inseparabile
18:00, 14 novembre 2019

L'inasprimento dei rapporti a causa delle proteste non conviene a nessuna delle due. Almeno dal punto di vista economico


E' fittissima la relazione commerciale tra Hong Kong e la Cina. Lo dimostra il fatto che da quando sono iniziate le proteste nell'ex colonia britannica, il suo export verso Pechino è calato del 4% segnando la sua peggiore performance in dieci anni. Non conviene a nessuno, dal punto di vista commerciale, un inasprimento dei rapporti.
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Tutte le eccellenze di Hong Kong

Hong Kong rappresenta una piattaforma di eccellenza per il commercio, considerato il fatto che il suo porto mercantile è il sesto a livello mondiale per movimentazione di container dietro a Shanghai, Singapore, Shenzhen, Ningbo-Zhoushan e Busan. Anche il suo aeroporto, classificato più volte come uno dei migliori del mondo, è uno dei principali hub della regione oltre ad essere l'ottavo piu' trafficato su scala globale in termini di passeggeri.

In altri termini, per la sua rete di infrastrutture, Hong Kong costituisce un passaggio strategico verso il Paese del Dragone, grazie anche ad una profondità del fondale adatta a ogni tipo di imbarcazione e a delle infrastrutture portuali efficientissime. Basti pensare che ci sono due dogane che connettono Hong Kong a Shenzhen raggiungibili con metropolitana e quattro valichi doganali per le autovetture.
Cosa lega l'ex colonia britannica a Pechino

Pechino, dal canto suo, è un hub commerciale indispensabile per Hong Kong, se si tiene presente che i paesi cui importa principalmente sono appunto la Cina (255 miliardi di dollari), Singapore (60,8 miliardi di dollari), Altri Asia (40,8 miliardi di dollari), Corea del Sud (34,8 miliardi di dollari) e Giappone (32,1 miliardi di dollari). Per quanto riguarda l'export, al primo posto c'è sempre la Cina (16,4 miliardi di dollari), seguita dalla Thailandia (12,5 miliardi di dollari), Asia (12 miliardi di dollari), India (10,3 miliardi di dollari) e Vietnam (10,1 miliardi di dollari).

Tra Cina e Hong Kong, i rapporti commerciali sono quindi molto stretti: nell'ottica di un progressivo rafforzamento dell'integrazione economica, nel 2003 è stato sottoscritto il CEPA (Closer Economic Partnership Arrangement), che comporta l'esenzione dai dazi per una gamma di prodotti e la liberalizzazione graduale di alcuni settori di attività. Il 29 agosto 2013 è stato firmato il Supplemento X del CEPA.

La firma dell'Accordo per la liberalizzazione di base del commercio dei servizi tra il Guangdong e Hong Kong ha rappresentato un ulteriore passo in avanti per l'attuazione del CEPA, a cui si è aggiunto l'Accordo per la liberalizzazione del commercio dei servizi, entrato in vigore il 1 giugno 2016, gli Accordi sugli investimenti e sulla cooperazione tecnica ed economica, entrati in vigore il 1 gennaio 2018, e l'Accordo bilaterale sul commercio dei beni, in vigore dal 1 gennaio 2019.

Nell'ambito di tale accordo, le merci di origine di Hong Kong godono della "tariffa zero" attraverso l'accordo migliorato per le regole di origine (ROO) e più in generale vengono stabiliti dei principi di facilitazione degli scambi commerciali, compresa la stipula dell'impegno delle due parti nel facilitare gli scambi commerciali semplificando le procedure doganali, migliorando la trasparenza delle misure connesse e rafforzando la cooperazione nei settori pertinenti, e in particolare stabilendo misure per rendere più veloce lo sdoganamento delle merci.

Perché non conviene alla Cina

Se si inasprissero i rapporti tra Cina e Hong Kong, ne soffrirebbero entrambi: la Cina perché le imprese estere usano Hong Kong come trampolino per investire nel Dragone (vista appunto la sua rete di infrastrutture che non ha uguali al mondo): protezione degli investitori, sistema giudiziario trasparente ed efficiente, certezza del diritto.

Non solo, ma è stata anche un valido test per Pechino per una serie di riforme finanziarie: l'accettazione dello yuan come valuta di riserva globale è iniziata a Hong Kong nel 2009 con un esperimento sulla regolazione degli scambi di valuta; Hong Kong è anche sede del principale mercato borsistico di obbligazioni "dim sum" - titoli obbligazionari denominati in yuan emessi all'estero.

Tutto ciò garantisce alla città di poter rimanere una piazza finanziaria cruciale per i capitali cinesi. L'esposizione di Hong Kong verso il resto della Cina è molto più grande di quella cinese verso la città: se Pechino volesse compromettere la loro relazione cosi' speciale, a pagarne di più le conseguenze sarebbe di certo Hong Kong. Ma di sicuro anche il paese del Dragone ne soffrirebbe.

La Lega e Forza Italia si sono mangiati Venezia, il corrotto euroimbecille Pd vuole continuare a mangiarsi Firenze

Ambiente14 Novembre 2019 di: Redazione

FIRENZE COME VENEZIA? CHI PROGETTA UN FUTURO SOSTENIBILE PER LA CITTÀ PATRIMONIO DELL’UMANITÀ?

Ma a qualcuno interessa, lassù nei Palazzi, lasciare un mondo possibile alle generazioni che prenderanno il nostro posto? I disastri che si accavallano – gli ultimissimi da Venezia a Matera – hanno qualche cambio di rotta da insegnarci?

Sentiamo cosa ci fa sapere il presidente della Regione Veneto Luca Zaia a proposito di quella ‘grande opera’ chiamata MOSE che, con le sue ultradighe sott’acqua in laguna, avrebbe dovuto proteggere Venezia dall’ultima inondazione. Ieri a “Tagadà”, su La7 (https://www.la7.it/tagada/video/mose-zaia-che-fine-ha-fatto-bella-domanda-non-sappiamo-nemmeno-se-funziona-13-11-2019-293051):

“Il MOSE? Sarebbe una bella domanda. Hanno speso 5 miliardi di euro, è ancora lì sott’acqua. Non si è ben capito cosa manchi ancora per farlo funzionare. E vedremo anche se funziona. E se funzionerà, vorrei ricordare magari a quelli che non sono molto informati che l’area di Piazza San Marco continuerà ad andare sotto l’acqua […]. Le dico che il MOSE non è un cantiere della Regione, […] è un cantiere dello Stato, la Regione non c’entra niente con il MOSE […]. Io non ho nessuna competenza, nessuna responsabilità. […]. Il problema è che il funzionamento del MOSE costerà ai cittadini 80-100 milioni di euro [l’anno, ndr] di gestione. E questa gestione.. si proponeva che questi 80-100 milioni provenissero da una nuova legge, da una nuova tassa da mettere sui veneziani. Questo è quello che posso dire. Dopo di che si sono succeduti talmente tanti governi in questi 30 anni di Mose che potrebbero riempire uno stadio e fare una domanda allo stadio intero”.

Questo MOSE somiglia terribilmente alla nostra TAV di Firenze. Che però sta messa anche peggio, perché si decanta, sì, da decenni, ma non è arrivata a vedere scavato neppure un metro cubo dei due lunghi tunnel progettati sotto Firenze fra Campo di Marte e Rifredi passando nelle viscere di Piazza Libertà, del Viale Lavagnini e della Fortezza medicea di San Giovanni. Però intanto, ci dice il nostro Zaia, 800 milioni di euro se ne sono già andati. E altri 800 sarebbero lì che aspettano solo di essere finiti di spendere.

Da Enrico Rossi ci piacerebbe sapere però, come fa oggi Zaia, quanto costerà la manutenzione e la gestione di questo buco nero erariale una volta realizzato. Eppure anche qui si parla di dighe, e sono due, questa volta sotto terra, contro-falda, lunghe 6.444 metri l’una. Ci sono palazzi e opere d’arte, sopra, che rischiano di ‘ballare’.

Ci domandiamo, allora: non rischiamo anche noi, fra qualche anno, quando la ‘grande opera’ sarà scavata, se mai sarà scavata, di sentirci dire dallo Zaia-Rossi di turno, che “la TAV non è un cantiere della Regione, è un cantiere dello Stato, la Regione non c’entra niente con la TAV, e io non ho nessuna competenza, nessuna responsabilità”?

Non rischiamo di sentirci dire che “il problema è che il funzionamento della TAV costerà ai cittadini tot milioni di euro l’anno di gestione, se non altro per proteggere i 277 fra edifici residenziali e manufatti storici in superficie sottoposti a testimoniale di stato e/o monitoraggio topografico dagli impatti dovuti all’interruzione della falda o alle vibrazioni”? E che per giunta questi tot milioni debbano provenire “da una nuova legge, da una nuova tassa da mettere sui fiorentini”?

Pensiamoci adesso! Anche per Firenze si potrà dire infatti (già adesso si può!) che si sono “succeduti talmente tanti governi in questi tot anni di TAV che potrebbero riempire uno stadio”. Potrebbe allora, cortesemente, l’attuale presidente della Regione Toscana, che tanto si batte per la realizzazione di questo doppio sotto-attraversamento nonostante la grande cifra già spesa quando le gallerie sono ancora da avviare, preannunciarci adesso quanto è previsto che venga a costare la sua manutenzione, la sua gestione e la sicurezza sua e della città che ci sta sopra, e a carico di chi saranno questi costi? Ci sembra che questo tipo di trasparenza nei confronti delle nuove generazioni sarebbe un bel punto di merito per una sana amministrazione. Trascurare il conteggio dei costi di manutenzione delle opere pubbliche, del resto, è un classico nel nostro Paese: e non è una virtù.

Sottolineiamo che, in tema di TAV, la Corte dei Conti ha messo nero su bianco ben 11 anni fa (Relazione accollo debiti FS, RFI, TAV e ISPA, 11.12.’08) un monito che, prima ancora che finanziario, è morale: “L’analisi critica della Corte si sofferma sul mancato rapporto tra l’entità e la durata degli investimenti e quelle dei beni acquisiti attraverso il pertinente indebitamento. […] Quel che è più grave, queste operazioni pregiudicano l’equità intergenerazionale, caricando in modo sproporzionato su generazioni future (si arriva in alcuni casi al 2060) ipotetici vantaggi goduti da quelle attuali. Sotto questo profilo la vicenda in esame è considerata dalla Corte paradigmatica delle patologiche tendenze – della finanza pubblica – a scaricare sulle generazioni future oneri relativi ad investimenti, la cui eventuale utilità è beneficiata soltanto da chi li pone in essere, accrescendo il debito pubblico, in contrasto con i canoni comunitari”.


11 settembre 1973 i militari rovesciano il governo legittimo in Cile. 10 novembre 2019 i militari rovesciano il governo legittimo in Bolivia. Militari venduti e traditori al servizio degli Stati Uniti

In Bolivia è golpe con la complicità degli Stati Uniti: alla luce gli audio che confermano


Dopo il colpo di Stato contro Evo Morales, perpetrato domenica scorsa, il 10 novembre, sono venuti alla luce una serie di audio che rivelano i dettagli della cospirazione e la partecipazione degli Stati Uniti agli eventi che hanno avuto luogo in Bolivia. Tutt’ora in fase di svolgimento.

L’emersione di questi 16 file audio conferma la cospirazione forgiata tra leader dell'opposizione e militari boliviani per guidare le azioni destabilizzanti che hanno portato al colpo di Stato contro Evo Morales.

Il presidente Evo Morales aveva ripetutamente denunciato che l'opposizione politica e civile stava guidando una cospirazione contro di lui e che avevano un sostegno esterno.

Gli audio e il piano

Il piano si concentrava sul fatto che se Evo Morales avesse vinto le elezioni il 20 ottobre, sarebbe stato istituito un governo di transizione civile-militare. Il nuovo governo avrebbe denunciato la frode nel processo elettorale e non avrebbe riconosciuto la vittoria elettorale di Morales.

Gli audio rivelano la trama della cospirazione contro il governo boliviano che contemplava la separazione e la divisione dell'esercito boliviano e della polizia nazionale, facendo ribellare queste forze contro il presidente Evo Morales.

Inoltre, prevedeva la manipolazione dei settori strategici della società boliviana per creare un clima di caos e destabilizzazione al fine di costringere il governo boliviano a dimettersi.

Gli audio rivelano interferenze degli Stati Uniti e l'uso di ambasciate accreditate nel Paese e nella Chiesa evangelica, per accedere alle risorse che serviranno da motore per realizzare l'operazione golpista.

Nelle conversazioni filtrate, si fa menzione anche dei presunti impegni dei senatori statunitensi Ted Cruz, Marco Rubio e Bob Menéndez, che apparentemente sarebbero in diretto contatto con l'opposizione in Bolivia per fomentare il rovesciamento violento di Evo Morales.

Viene confermato anche il coinvolgimento dei principali agenti politici boliviani con residenza negli Stati Uniti: Gonzalo Sánchez de Lozada, Manfred Reyes Villa, Mario Cossio e Carlos Sánchez Berzain e il coordinamento con i leader dell'associazione di opposizione "National Military Coordinator", composto da ex ufficiali dell'esercito, tra cui il generale Rumberto Siles, i colonnelli Julius Maldonado, Oscar Pacello e Carlos Calderón.

Gli ex ufficiali sono indicati come gli uomini deputati a inviare i fondi dagli Stati Uniti, necessari per la cospirazione e il successivo colpo di Stato.

I leader dell'opposizione boliviana: Waldo Albarracín, presidente della Confederazione Nazionale Democratica (CONADE), Jaime Antonio Alarcón Daza, presidente del Comitato Civico di La Paz, Jorge Quiroga, ex presidente della Bolivia, Juan Carlos Rivero, Rolando Villena, ex Difensore del Popolo e Samuel Doria Medina del Partido de Unidad Nacional sono anch’essi coinvolti in azioni di coordinamento.

Nonostante il colpo di Stato, movimenti e settori popolari e indigeni continuano a protestare denunciando le azioni contro Evo Morales, che lo hanno costretto a chiedere asilo in Messico e chiedono il suo ritorno nel Paese.

Fonte: teleSUR
Notizia del: 14/11/2019

venerdì 15 novembre 2019

Mentre Galan si papava Venezia la Lega governava con lui

Che fine hanno fatto i 6 miliardi del Mose? Una parte è stata sprecata e l’altra direttamente rubata

14 Novembre 2019 di Gaetano Pedullà


Il governatore Luca Zaia è furente perché non ha idea di dove siano i sei miliardi spesi per il Mose. Forse è andato in Regione quanto Matteo Salvini al Viminale per non sapere che una parte di quei soldi è stata sprecata e l’altra direttamente rubata. Di tutto questo ovviamente non è solo colpa della Lega e del Centrodestra che da decenni governano con grande apprezzamento popolare il Veneto.

Il Mose, l’avveniristico sistema per non fare affondare Venezia, è stato spinto dalla politica di tutti i colori, dal Pd a Forza Italia e al Carroccio, così come secondo le indagini si arrivò a usare proprio i colori per distinguere una dall’altra le numerosissime tangenti versate per l’opera. Su quei fatti, il doge degli anni d’oro di Berlusconi premier, Giancarlo Galan, è stato condannato per corruzione e di tanto in tanto nelle cronache leggiamo di qualche milione che salta fuori all’estero o nelle proprietà accaparrate a quei tempi.

Senza mettere oltre il dito nella piaga, o immaginare di cosa avrebbe straparlato la propaganda leghista se il sindaco di Venezia fosse stato Virginia Raggi, la città sommersa come mai nella sua storia ci riporta al valore della legalità e del rispetto del denaro pubblico. Ieri su questo giornale segnalavamo che solo in Lombardia la Lega conta 52 esponenti con guai giudiziari, e non teniamo più il conto su quelli di Forza Italia.

Nonostante sia chiaro che i soldi fatti sparire dalla corruzione sono sottratti alle opere, e quindi a tutti noi, la questione morale è un tema che interessa poco gli elettori del Centrodestra, che paradossalmente a ogni scandalo aumentano. Anzi, solo a porre il tema, lo zoccolo duro della Lega prima nega l’evidenza e poi fa spallucce perché nulla è più importante di mandare a casa i Cinque Stelle e le sinistre, gente che ha in testa solo “tasse, manette e sbarchi”, come ripete incessantemente la retorica salviniana.

Campagna elettorale a parte, quello che fa la differenza tra fare sul serio i nostri interessi e lasciarsi invece trascinare in una fideistica tifoseria politica sta nel pretendere rispetto per la cosa pubblica, cioè anche del nostro denaro, sottraendolo a chi ha rubato ieri, oggi e non si capisce perché non dovrebbe continuare a fare lo stesso anche domani.

100 miliardi l'anno per cinque anni e l'economia riparte. Ma in Euroimbecilandia non si può vige il Progetto Criminale dell'Euro


Una provocazione, come immettere 300 miliardi nell’economia

Davide 15 Novembre 2019 , 5:10

DI PAOLO BECCHI E GIOVANNI ZIBORDI

milanofinanza.it

Il problema fondamentale dell’economia italiana (non l’unico, ma il più importante) è che mancano circa 300 miliardi di euro in circolazione perché possa funzionare normalmente, come le economie degli altri paesi industriali avanzati. Perché diciamo circa 300 miliardi? Perché le banche hanno tagliato il credito alle imprese da 930 miliardi nel 2008 a circa 640 miliardi. Ora è questo il denaro che circola. Come noto rispetto a dieci anni fa la nostra produzione industriale è calata di più del 20%, il reddito procapite di circa l’8%, 300mila giovani in larga parte laur sono emigrati e la natalità è crollata al livello più basso del mondo (il più basso in assoluto). Questo è l’effetto di togliere quasi 300 miliardi da un economia da 1.700 miliardi l’anno di pil. Allo stesso tempo però la ricchezza finanziaria in Italia non è calata ed è tuttora (procapite) una delle più alte del mondo, siamo in surplus con l’estero e i nostri Btp hanno reso l’80% circa negli ultimi dieci anni, a dispetto dello “spread”. Anche come come debito complessivo, cioè di stato, famiglie, banche e imprese siamo nella media Ocse.

Ok… il titolo del nostro pezzo oggi su MilanoFinanza non è corretto, con questa soluzione sposti soldi che gli italiani hanno nei conti correnti e prodotti finanziari a finanziare il Tesoro ..però è difficile riassumere il discorso in uno spazio limitato https://t.co/GDozPQOpIJ

— Giovanni Zibordi (@gzibordi) November 11, 2019

La capacità di produrre, beni e servizi, ma anche proprio di riprodursi con i figli in Italia è peggiorata più che ogni altro paese industriale (eccetto la Grecia, che però non è un vero paese industriale). Il nostro paese è però solido dal punto di vista finanziario, come conti con l’estero e come ricchezza finanziaria. Ad esempio contrariamente a quello che hanno instillato anni di propaganda sul debito pubblico, alla fine chi avesse detenuto BTP avrebbe guadagnato 80% circa dal 2009, vale a dire più che con qualsiasi altro titolo di stato simile al mondo. Il primo aspetto, crollo della produzione, del reddito e della natalità indica che mancano soldi in circolazione. Ma il secondo aspetto, buona ricchezza finanziaria, alti rendimenti e buoni conti con estero, indica che i soldi si possono “trovare”. Un paese infatti molto indebitato e in passivo con l’estero effettivamente “non ha soldi”, ma il nostro caso è diverso, noi non abbiamo questi problemi, da noi mancano soldi che circolino tra le imprese e i consumatori. Se fossimo un paese con la propria Banca Centrale potremmo farle stampare i soldi che mancano come fanno in Cina, Giappone e Usa e farle finanziare i deficit. La Bce in realtà lo fa anche lei, ma pone come condizione di non aumentare i deficit e il governo italiano deve obbedire. Draghi ora che non è piu Presidente della banca centrale ha detto che sarebbe meglio aumentare i deficit visto che la Bce di fatto li finanzia comprando Btp, ma non poteva dirlo quando era in carica.
La soluzione qual è allora restando nell’euro, visto che 
ormai neppure (gli euroimbecilli del) la Lega vuole (vogliono) uscire
Cambiare le regole europee? Consentiteci un modesto scetticismo al riguardo. A noi è venuta in mente un’altra idea e ci illudiamo che si possa aprire un dibattito su questo. Gli italiani hanno in banca, oltre 4mila miliardi di cui 1.400 in conti correnti e il resto in fondi, polizze, titoli, gestioni e prodotti vari che offrono le banche. Occorre che lo Stato offra un nuovo tipo di debito pubblico, che possa essere usato come moneta, cioè per effettuare ogni tipo di pagamenti esattamente come il conto corrente. La tecnologia attuale e il funzionamento dei mercati moderni consente di farlo. È possibile predisporre un circuito per cui si depositano i soldi presso il Tesoro e non in banca, il Tesoro paga questo denaro come un Btp a 5 anni, quindi circa un 1% e però si offre la possibilità di usare bancomat e carta di credito direttamente da questo conto remunerato dal Tesoro.

In cambio di questo servizio lo Stato cosa riceve? Questo nuovo tipo di debito pubblico non ha scadenza, è permanente, ma se uno vuole rivenderlo lo Stato lo compra alla pari, cioè non oscilla di prezzo. Perché oggi questa non sarebbe una cattiva idea? Perchè oggi siamo in un momento storico in cui persino i titoli di stato greci rendono zero e quelli tedeschi o francesi meno di zero e i Bot pure meno di zero. Se lo stato ti offre invece un rendimento e in più ti consente di usare questo conto per qualunque pagamento, centinaia di miliardi si sposteranno su questo tipo di debito pubblico permanente. In pratica lo Stato trasforma il debito pubblico in moneta, denaro che si può utilizzare immediatamente, liquidità che si può immettere nell’economia, quella liquidità che manca e che continuerà a mancare perché l’ Unione europea ci impedisce di aumentare il deficit. Questa soluzione, abbastanza geniale, per la verità non è nostra, viene da un economista noto di Chicago, John Cochrane che l’ha pensata per gli Stati Uniti, quando si troveranno in difficoltà coi loro 22mila miliardi di debito pubblico, ma secondo noi è perfetta per l’Italia. Già oggi. Vogliamo parlarne o dobbiamo continuare a parlare solo della “caccia alle streghe“? (riproduzione riservata)

Paolo Becchi e Giovanni Zibordi

Fonte: www.milanofinanza.it

Link: https://www.milanofinanza.it/news/una-provocazione-come-immettere-300-miliardi-nell-economia-201911111723541934

11.11.2019
 

L'economia non sta bene - "prestiti a leva”, concessi ad aziende ad alto rischio che hanno in media un debito superiore quattro volte rispetto alle entrate

Il mondo rischia una nuova crisi finanziaria, esattamente 90 anni dopo il crollo di Wall Street del 1929
 
Sbagliando non si impara
 
di Andrea Fioravanti
13 novembre 2019

La guerra dei dazi e il rallentamento della crescita mondiale sembrano segnali di una recessione che potrebbe creare un nuovo shock. L’economista Emiliano Brancaccio: «C’è nuova bolla finanziaria legata all’aumento spropositato dei prezzi delle azioni sganciati dai dividendi»

Sono passati esattamente novant'anni dalla Crisi del '29 e undici dal fallimento della Lehman Brothers, ma non abbiamo ancora imparato la lezione. Il mondo rischia di vivere una nuova crisi economica e potrebbe non avere gli strumenti giusti per affrontarla. La guerra dei dazi, il rallentamento della crescita del Pil Usa, la crisi del debito cinese, la mini recessione in Germania e l’inflazione galoppante in Venezuela e Argentina sono campanelli d’allarme da non sottovalutare. Il mondo soffre e ha paura di una nuova recessione. A dirlo non è un apocalittico ma un super integrato come l’ex capo della Banca d’Inghilterra, Marvyn King durante il meeting internazionale a Washington del Fondo monetario internazionale, lo scorso 20 ottobre. «L'economia mondiale è rimasta bloccata in una trappola a bassa crescita e la ripresa dalla crisi del 2008-09 è stata più debole di quella dopo la Grande Depressione. Dopo la Grande Inflazione, la Grande Stabilità e la Grande Recessione, siamo entrati nell'era della Grande Stagnazione.

Anche il 26 ottobre a Sky, l’ex ministro dell’Economia Giulio Tremonti ha avvertito: «Siamo a crescita zero da un bel po’ di tempo e penso che andremo sotto zero o non certo meglio. Metterei in conto anche una crisi come quella che è iniziata nel 2008. Non essendo state corrette le cause è molto probabile che torni peggio di prima».

In effetti nell’ultimo World Economic Outlook pubblicato a ottobre dal Fondo Monetario Internazionale ci sono alcuni segnali da tenere d’occhio. A rischio non sono tanto le banche che stanno a poco a poco rinforzando le loro difese dopo la grande recessione del 2008, quanto le istituzioni finanziarie non bancarie. Per capirci, 
i fondi pensione e gli hedge funds hanno tassi di vulnerabilità più elevati rispetto a quelli che si registravano alla vigilia del crollo della Lehman Brothers
«In undici anni i rischi per il sistema finanziario non si sono complessivamente ridotti, ma solo spostati», spiega Emiliano Brancaccio, professore di politica economica all'Università del Sannio. L’indebitamento generale delle imprese negli Stati Uniti è alto, ma secondo un report del della Banca dei regolamenti internazionali il vero problema è quello dei leverage loans. Ovvero dei  
“prestiti a leva”, concessi ad aziende ad alto rischio che hanno in media un debito superiore quattro volte rispetto alle entrate. 
A oggi ammontano a quasi 1400 miliardi e rischiano di ripetere il fenomeno che ha innescato la crisi economica del 2008: i mutui subprime concessi a persone che non potevano restituirli.

Non è l’unico problema. Se guardiamo agli Stati Uniti e all’Europa c’è il rischio di una nuova bolla finanziaria legata a un aumento spropositato dei prezzi delle azioni rispetto ai dividendi dati agli azionisti. «Basta guardare all'indice di sopravvalutazione del mercato azionario, lo Shiller ratio che calcola il rapporto tra l'andamento dei prezzi azionari e una media dei dividendi che quelle azioni hanno dato negli ultimi dieci anni. Questo rapporto è in realtà è molto alto rispetto alle medie storiche. E quando raddoppia c’è da preoccuparsi», spiega Brancaccio. «Per esempio negli Stati Uniti si aggira intorno ai 33 punti. Mentre invece la media storica è di 16 punti. Anche Germania si registra un Shiller ratio fuori dalla media: il rapporto tra prezzi dividendi intorno ai 20 punti, mentre di solito la media storica è molto più bassa, intorno ai 10». Tradotto: i prezzi continuano a salire e si sganciano fuori da ogni logica rispetto ai dividendi effettivi delle azioni che rimangono più o meno sempre allo stesso livello. Bisognerà capire per quanto tempo il sistema finanziario potrà reggere questa sproporzione. Ma perché i prezzi continuano a salire? La risposta è sempre la stessa quando si parla di bolle: il guadagno frutto della speculazione finanziaria. Lo speculatore si fa prestare del denaro, compra azioni a prezzi correnti. Aspetta che queste azioni salgano di prezzo nell'arco di un certo tempo per poi rivenderle e ottenere un guadagno dopo aver restituito il denaro al prestatore.

A luglio, una delle candidate alle primarie dei democratici Elizabeth Warren ha proposto un piano per regolare le grandi banche di Wall Street. L'idea concreta è monitorare e ridurre i leverage loans. «La fondazione economica del nostro Paese è fragile. Un solo shock potrebbe far crollare tutto», ha detto Warren. Ridurre i leverage loans potrebbe essere una misura riduttiva. Serve qualcosa in più. «Non basta usare un pannicello caldo nella speranza che piccoli interventi di regolazione riescano a stabilizzare il mercato in futuro. Bisogna prendere atto di una evidenza scientifica ormai consolidata: Viviamo in un regime di accumulazione capitalistica trainato dal mercato finanziario. È inefficiente e destabilizzante per l’economia reale», chiarisce Brancaccio. Ma non si può eliminare dalla sera alla mattina il mercato finanziario. «Si può però ridimensionarlo ripristinando le forme di repressione della finanza: controlli sui movimenti di capitale, vincoli amministrativi ai prestiti bancari e un po’ di intervento pubblico nei processi generali di gestione della finanza e del credito. L’unico modo di disinnescare la bomba dei mercati finanziari».

Un altro problema da non sottovalutare è quello delle banche. Basta guardare l'andamento dei cosidetti non performing loans, ovvero dei prestiti che le banche hanno erogato e sanno con relativa certezza che non riavranno indietro. «Questi crediti deteriorati sono l'eredità degli anni allegri pre 2009 dove si erogavano prestiti anche a soggetti potenzialmente insolventi. Com'è accaduto con i mutui sub prime. Purtroppo non sono mai stati smaltiti del tutto. Restano ancora nei bilanci delle banche», spiega Brancaccio. «Negli ultimi anni c'è stata una moderata ripresa internazionale e i crediti deteriorati sono stati tenuti sotto controllo e stabilizzati. Ma non appena ripartirà una recessione i non performing loans riprenderanno a salire, perché se i molti debitori non saranno in grado di rimborsare il prestito». E questo metterà nuovamente in difficoltà le banche tradizionali.
 

Valori occidentali puah è solo per imbecilli creduloni tipo Hong Kong

ESTERI
LA CASA BIANCA E’ DIVENTATA LA MACELLERIA DI TRUMP

Pubblicato 14/11/2019

DI ALBERTO NEGRI



Trump incontra oggi alla Casa Bianca Erdogan, amico dei jihadisti, al quale lui stesso ha dato via libera per il massacro dei curdi siriani del Rojava. Un altro degli amici suoi, come il principe saudita Mohammed bin Salman, mandante dell’assassino del giornalista Jamal Khashoggi e a sua volta massacratore di yemeniti. La Casa Bianca è la passerella di assassini, macellai e golpisti. I governi europei e italiani approvano senza dire una parola. Non venite più a parlare di valori occidentali. Sotto il pezzo del Financial Times diretto ora da un’araba dell’establishment alla quale i giornali nostrani, emblema del provincialismo, elevano peana senza neppure conoscerla.
 

giovedì 14 novembre 2019

La Lega si nasconde dietro lo zombi Berlusconi, il corrotto euroimbecille Pd tace, ma tutti hanno mangiato a quattro ganasce sul Mose la grande opera pubblica che serve solo a crescere prebende ma non ad essere utile e così il Tav Torino-Lione, il buco sotto Firenze



Costanzo Preve e l'idealismo di Marx

Pensieri Talebani- 
Marx, l’idealista.. 

di Beatrice Mantovani
Redazione 15 novembre 2019

Ho sempre ritenuto Marx il filosofo materialista per eccellenza, colui che, criticando Feuerbach e la sinistra hegeliana, per primo offre un’interpretazione materialistica – in quanto considera determinanti per lo sviluppo della storia umana e per la creazione di un ordine sociale strutture materiali come la tecnologia e l’economia – della storia e della società. In questo modo Marx si distacca dall’idealismo che pone elementi sovrastrutturali, come la religione, la filosofia o l’arte, alla base dei cambiamenti politici e sociali.


Recentemente, Costanzo Preve ha espresso la convinzione che Marx sia da annoverare come un filosofo idealista in quanto unico e vero erede di Hegel. Nonostante Marx stesso si definisse materialista e ci tenesse particolarmente a distanziarsi da coloro che dispregiativamente annoverava tra gli idealisti, ovvero coloro che volontariamente offrivano un’interpretazione distorta della realtà, l’interpretazione di Preve ha scombinato i giudizi che reputavano Marx il filosofo materialista per antonomasia.

Preve, a sostegno del proprio ragionamento, adduce vari argomenti che, secondo lui, rivelano l’idealismo sostanziale di Marx. Gli argomenti di Preve possono essere riassunti in quattro punti centrali:
  1. concetto di alienazione 
  2. feticismo delle merci 
  3. definizione di modo di produzione e struttura economica 
  4. uso del principio logico di contraddizione dialettica
Esaminando brevemente le questioni elencate per accertarci che Marx possa seriamente essere considerato un filosofo idealista, è possibile notare diverse incongruenze. Preve afferma che per Marx la categoria di alienazione è una categoria di tipo qualitativo (riguarda la spiritualità umana in generale da intendere come la qualità spirituale che precede la quantità corporale estensiva). Secondo Marx, l’alienazione è un fenomeno psicologico-sociale che si manifesta quando i lavoratori salariati vengono estraniati durante il processo produttivo verso il prodotto della loro attività, verso l’attività lavorativa stessa, verso la loro essenza e verso il prossimo. La rivoluzione industriale capitalistica comportò lo smantellamento delle corporazioni, l’allungamento illimitato dell’orario di lavoro (il che provocò il Luddismo, cioè il sabotaggio delle macchine), lo sfruttamento forsennato della popolazione, compresi i bambini. Insicurezza, precarietà, distruzione dell’artigianato, controllo spietato dei ritmi di lavoro, licenziamento senza nessuna giusta causa: questo fu quello che poi fu chiamato progresso.

L’umanesimo degli illuministi contro l’umanità. Preve, rifacendosi al concetto di lavoro nel mondo greco e medievale dove quest’ultimo era inteso come poìesis, ossia come un agire guidato da un eidòs (un’idea) che implicava in sé creatività e poesia con cui una persona attuava il proprio bene e quello altrui, afferma che il più importante aspetto dell’alienazione è sicuramente quello che riguarda lo stravolgimento dell’essenza (Wesen) dell’uomo, poiché questi non lavora più per un progetto consapevole e creativo, ma solo per il profitto del capitale. Il valore materiale del denaro va a dominare la spiritualità fondamentale in cui ogni uomo può realizzare pienamente la propria personalità: ossia il lavoro, che è l’attività che rende libero e pienamente consapevole di sé una persona. “Il lavoro forma” scriveva Hegel nel descrivere la figura servo-signore, in cui il servo grazie al lavoro si emancipa dal signore. Con l’industrialismo capitalistico il lavoro diventa invece ripetizione scimmiesca, parcellizzazione, riduzione del lavoratore a macchina con la conseguente deformazione della natura umana. Ora se l’alienazione è da intendersi come una qualità spirituale, ossia come una determinazione propria dell’esserci umano, a rigore si avrebbe la conseguenza che l’economia capitalistica, che è soprattutto quantitativa, dovrebbe essere generata dall’alienazione stessa. Ma questa per Marx, in realtà, è il prodotto e la conseguenza del modo di produzione capitalistico. In altre parole col capitalismo la quantità, sotto tutti gli aspetti, da quello produttivo a quello scientifico, s’impone sulla qualità, provocando una distorsione dell’essenza umana che viene trasmutata in essenza alienata. Perciò in Marx la quantità precede la qualità, e in questo senso si viene a negare il suo presunto idealismo. Essa poi dovrebbe essere tolta (superata) attraverso la misura che rappresenta nella logica speculativa la negazione della negazione, ossia la sintesi fra qualità quantificata e la quantità qualificata.

Il secondo aspetto preso in esame è strettamente connesso con il primo, ed è il famoso e importante concetto del “feticismo delle merci”. Il feticismo delle merci dimostra in modo illuminante come gli uomini, o meglio i consumatori, siano completamente succubi di un mondo da loro prodotto attraverso il lavoro. La quantità ottenuta con la meccanizzazione e la riproduzione allargata domina sulla capacità di scelta dei più e quindi sulla qualità. Il terzo aspetto riguarda il concetto di modo di produzione, che è quello più importante perché concerne il pensiero fondamentale di Marx che era incentrato sulla concezione materialistica della storia, detta anche materialismo storico. Per questo la struttura economica (Struktur) in un determinato periodo storico costituisce la base su cui e attorno alla quale, secondo il filosofo, ruota la vita degli uomini. Ecco quindi che il modo di produzione socio-economico sostituisce, o meglio capovolge l’Idea hegeliana, cioè lo Spirito Assoluto. Il rovesciamento della filosofia di Hegel sta qui, sebbene il movimento logico interno della struttura sia quello della dialettica speculativa hegeliana. Per Marx le forze produttive materiali e i rapporti di produzione costituiscono la struttura sulla quale si eleva una gigantesca sovrastruttura composta dai rapporti politici, giuridici in generale, e dalle forme religiose, artistiche ecc., che dipende dalla struttura stessa. Questo suscita sicuramente dubbi sul suo ipotetico idealismo 

( continua )

Beatrice Mantovani

Quegli euroimbecilli di Banca Italia vorrebbero farci credere che si sono convertiti sulla via di Damasco

Conta la sostenibilità e non il livello del debito pubblico. Parola (finalmente) di Bankitalia

14 novembre 2019


Cosa ha detto a sorpresa il vicedirettore generale di Bankitalia, Signorini, in audizione alla commissione Bilancio su debito pubblico e non solo. L’approfondimento di Giuseppe Liturri pubblicato su La Verità

Non sono mancate le sorprese ieri durante l’audizione del vice direttore generale della Banca d’Italia Luigi Federico Signorini presso la Commissione Bilancio di Senato e Camera in seduta congiunta. È infatti arrivata l’autorevolezza della Banca Centrale a dirci che 
il livello del debito pubblico, su cui si esercita costantemente il miglior terrorismo mediatico di casa nostra, conta poco o nulla.

Infatti, per illustrare i dettagli della manovra di bilancio per il 2020, Signorini ha presentato un documento che, nelle pagine finali, mostrava un grafico con l’andamento del rapporto debito/PIL attestatosi per il 2018 al 135% circa.

A quel punto al deputato Claudio Borghi, presidente della Commissione Bilancio, non è sembrato vero poter fare la domanda che va ripetendo da alcune settimane: come mai quel livello è balzato al 135%, quando tutti i documenti ufficiali, tra cui la NADEF a fine settembre, e perfino lo stesso grafico nella relazione dello stesso Signorini, il 9 novembre 2018, riportavano il 132% circa? Cosa è accaduto nottetempo che ha fatto aumentare di 3-4 punti il debito/PIL relativo allo stesso periodo? Nella sua domanda, Borghi ha sottolineato l’enormità della faccenda, se solo si pensa che quest’anno la Commissione UE riteneva appropriato raccomandare al Consiglio Europeo l’apertura della procedura per debito eccessivo di fronte ad uno scostamento di pochi decimali. Conoscendo anche la risposta (una riclassificazione contabile), Borghi non ha perso l’occasione di sottolineare l’assurdità di tanti ragionamenti sul livello di debito pubblico, a partire dal metaforico fardello sulle spalle delle future generazioni, e la opportunità di parlare invece solo di stabilizzazione del suo livello, cosa ben diversa.

Ma perché siamo finiti dal 132 al 135%, addirittura cambiando retroattivamente le cifre fino al 1998, in una notte ed i mercati non hanno fatto una piega? Perché a fine 2018 c’erano in circolazione circa €13 miliardi di Buoni Postali Fruttiferi i cui interessi (€58 miliardi circa maturati al 2018) saranno pagabili in unica soluzione al momento del rimborso degli stessi che avverrà progressivamente fino al 2031. Ad agosto di quest’anno Eurostat ha cambiato le regole contabili ed ha preteso che anche quei 58 miliardi fossero contabilizzati nel debito. Da notare che tale nuovo criterio contabile è decisivo ai fini del calcolo del valore facciale del debito, rilevante per la procedura per debito eccessivo. Quindi nonostante se ne tenesse conto sia nei conti finanziari di Banca d’Italia che nella contabilità nazionale (indebitamento netto delle pubbliche amministrazioni), mancava il tassello più importante, quello del calcolo del rapporto ai fini della procedura per debito (e non deficit) eccessivo.

Ma nessuno ha fatto una piega perché, ai fini della dinamica del debito/PIL, pur partendo da un livello più elevato, la discesa dal 2015 al 2017 e, ancor più, quella fino al 2024 dovrebbe essere più rapida, proprio a causa del rimborso di tali titoli e dei relativi interessi. Insomma, l’ennesima conferma che conta la dinamica e non il livello del debito/PIL.

La risposta di Signorini è stata altrettanto netta. Ribadendo che la riclassificazione contabile ha effetti decrescenti nel tempo, ha dichiarato apertamente, che non rileva il livello quanto la sostenibilità nel tempo del debito pubblico, poiché gli investitori hanno bisogno di chiarezza di prospettive e su queste basano le proprie decisioni.

Queste considerazioni trovano un importante sostegno teorico in un articolo pubblicato nello scorso ottobre sul sito Voxeu.org dal prestigioso economista Paul De Grauwe, in cui si chiede se non sia giunto il momento di un ripensamento delle politiche fiscali nell’eurozona.

L’assunto di partenza di De Grauwe è che, per stabilizzare il debito/PIL è sufficiente avere un tasso nominale di crescita del Pil superiore al tasso di interesse sul debito, senza necessità di conseguire un avanzo primario di bilancio. Ha quindi analizzato la situazione dei paesi dell’eurozona ed ha concluso che quasi tutti i Paesi, esclusa la Grecia, hanno spazio per ridurre l’avanzo primario di bilancio.

In questa speciale classifica dei paesi che hanno più spazio fiscale, l’Italia figura tra quelli che hanno meno spazio di manovra, perché la differenza tra crescita del PIL e tasso di interesse sul debito è davvero esigua, seppur positiva. Tuttavia, questo per il nostro Paese significa poter avere un saldo primario pari a zero e quindi evitare di sottrarre all’economia la bellezza del 1,2% del PIL, come evita di fare la Francia che si permette un abbondante disavanzo primario del 1,5% senza destabilizzare il rapporto debito/PIL.

Dal 1995 l’Italia ha conseguito avanzi primari cumulati per ben €724 miliardi. È un miracolo se siamo ancora vivi. 
L’amara realtà di questi anni è invece quella di essere costretti a conseguire un obiettivo di deficit strutturale tendente a zero sulla base di regole che la gran parte degli economisti ritengono controproducenti, con l’aggiunta della beffa di subire il quotidiano bombardamento mediatico sul livello del debito con tanto di ridicoli contatori in giro per il Paese.



Gli Stati Uniti hanno invaso la Siria e non se ne vogliono andare


Siria, Pentagono: manterremo 600 soldati 

'Ma numeri potrebbero cambiare con rinforzi da alleati europei' 

© ANSA/AP

Redazione ANSAWASHINGTON
14 novembre 201904:25NEWS

(ANSA) - WASHINGTON, 14 NOV - Gli Stati Uniti manterranno complessivamente circa 600 soldati in Siria. Lo ha annunciato il capo del Pentagono, Mark Esper, durante il suo viaggio a Seul, dove inizia un tour in Asia.

Esper ha tuttavia precisato che i numeri potrebbero cambiare, ad esempio se gli alleati europei rafforzeranno la loro presenza in Siria. Una risposta potrebbe arrivare oggi dal vertice a Washington dei ministri degli Esteri della coalizione globale anti Isis, a cui partecipa anche Luigi Di Maio.


Solo gli euroimbecilli di tutte le razze considerano il debito pubblico separato dai risparmi privati

Debito pubblico. Zibordi (consulente finanziario), “trasformarlo in moneta. Il debito perpetuo è legale”

13 Novembre 2019


Agenpress – “Le banche hanno tagliato circa 300 miliardi alle imprese. Il motivo principale della crisi della produzione industriale è che da noi le banche hanno tagliato il credito di un quarto alle imprese, cosa che non è successa da nessun’altra parte tranne la Grecia. Logicamente migliaia di imprese sono fallite. Noi siamo penalizzati dal debito pubblico per le regole dell’UE e abbiamo fatto più austerità”.

Così Giovanni Zibordi, consulente finanziario, intervenuto ai microfoni di Radio Cusano Campus, emittente dell’Università Niccolò Cusano.

Per Zibordi occorre che lo Stato offra un nuovo tipo di debito pubblico, che possa essere utilizzato come moneta.

“E poi abbiamo banche che sono quasi tutte in mano a stranieri, che preferiscono comprare bond turchi. Siccome il debito pubblico è sempre il perno di questo problema, bisogna trovare il modo di risolvere il problema del debito pubblico e dello spread. In Italia possiamo farlo perché ci sono 5mila miliardi di ricchezza finanziaria.

Soltanto gli svizzeri e i danesi hanno una ricchezza patrimoniale netta più alta della nostra. Se devi risolvere questo problema il modo più semplice è trasformare il debito pubblico in moneta. Tecnicamente è semplicissimo perché oggi è tutto digitale, i costi delle transazioni sono praticamente azzerati. Tu hai i tuoi soldi, invece di averli a Banca Intesa o a Unicredit, tu li hai al Ministero del Tesoro che ti riconosce un tasso d’interesse.

Per fare ogni tipo di acquisto, istantaneamente tu addebiti i tuoi acquisti al tuo portafoglio di btp. Tu offri del debito perpetuo ed è perfettamente legale. In questo modo ti liberi del ricatto del mercato finanziario”.

Gli Stati Uniti non sono nostri alleati ci impongono dazi. In Euroimbecilandia la Francia vuole una difesa sotto il suo dominio. L'Italia veleggia non è ne carne ne pesce è serva degli euroimbecilli e degli statunitensi

Vi spiego i perché dell’affondo di Macron sulla Nato. Il commento di Gaiani

13 novembre 2019


Dopo l’incursione di Macron, l’Italia rischia infatti di trovarsi schiacciata tra Stati Uniti e le due potenze europee continentali. Il commento di Gianandrea Gaiani, direttore di Analisidifesa

Nonostante le reazioni suscitate in Europa e negli Stati Uniti, le dichiarazioni del presidente francese Emmanuel Macron sullo stato di “morte cerebrale” in cui si troverebbe la Nato non dovrebbero risultare sorprendenti.

Già un anno or sono l’inquilino dell’Eliseo aveva espresso la necessità di sviluppare una maggiore indipendenza nella difesa europea, perché “dobbiamo proteggerci nei confronti della Cina, della Russia e persino degli Stati Uniti”.

Una frase che ha scandalizzato solo coloro che si ostinano a fingere che i rapporti tra gli alleati occidentali sulle due sponde dell’Atlantico non siano profondamente mutati negli ultimi anni.

Inoltre Macron ha costituito nel giugno 2018 la European Intervention Initiative (EI2), al di fuori sia dagli ambiti Nato sia della Pesco (Cooperazione Strutturata Permanente nel settore della Difesa) prevista dai Trattati dell’Unione Europea (qui l’analisi).

Per queste ragioni non sorprendono le dichiarazioni del presidente francese mentre la mole di reazioni registratesi un po’ ovunque in difesa dell’Alleanza, dalla Germania agli Stati Uniti, confermano come Macron abbia messo il dito nella piaga.

In una lunga intervista all’Economist, a poche settimane dal summit dell’Alleanza di dicembre a Londra, il presidente francese ha dichiarato che “stiamo vivendo la morte cerebrale della Nato: non c’è alcun coordinamento del processo decisionale strategico tra gli Stati Uniti e i suoi alleati. C’è un’azione aggressiva non coordinata da parte di un altro alleato della Nato, la Turchia, in un’area in cui sono in gioco i nostri interessi”.

Macron s’interroga sull’articolo 5 del patto atlantico, che prevede la solidarietà fra i paesi membri in caso uno di loro venga attaccato. E si chiede cosa succederà se la Siria attaccherà la Turchia, in risposta all’offensiva di Ankara nel nord del paese arabo.

“Se il regime di Bashar Assad decide di replicare alla Turchia, noi ci impegneremo? Questa è la vera questione. Noi ci siamo impegnati per lottare contro Daesh (lo Stato Islamico). Il paradosso è che la decisione americana e l’offensiva turca hanno avuto lo stesso risultato: il sacrificio dei nostri partner che si sono battuti contro Daesh”, ha detto Macron, riferendosi ai curdi.

L’Europa “sparirà” se non inizia a pensarsi come potenza mondiale, ha ammonito Macron, insistendo nuovamente sull’importanza di una difesa europea, di un Europa “con un’autonomia strategica e di capacità sul piano militare”. Valutazione che ha almeno due pregi.

Il primo è di spazzare via tutta la fragile e futile retorica che da anni vede dipinta l’iniziativa di difesa comune della Ue come “complementare ma non alternativa” alla Nato.

Luogo comune la cui inconsistenza è dimostrata anche solo dal fatto che, dopo il referendum per il Brexit che ha tolto di mezzo l’ostilità con cui Londra ha sempre ostacolato ogni iniziativa militare europea, la Ue ha fatto consistenti passi avanti nella Pesco (Cooperazione Strutturata Permanente) e nella definizione di programmi congiunti per la Difesa.

Il secondo pregio è legato al fatto che, mentre i programmi militari targati Ue sono a evidente “trazione” franco-tedesca, l’appello di Macron all’autonomia strategica dell’Europa non riesce a celare le velleità di Parigi di porsi da sola alla guida indiscussa di un’Europa della difesa alternativa alla Nato.

Un’alleanza in cui l’ombrello nucleare statunitense (che Trump fa tanto pesare chiedendo ai partner europei di ricambiare la cortesia acquistando in misura ancora maggiore armamenti “made in USA”) può essere sostituito solo dall’arsenale nucleare della Francia, unica potenza atomica della Ue dopo l’uscita della Gran Bretagna.

Un concetto su cui è meglio soffermarsi: Parigi non sembra certo voler condividere la “Force de Frappe” con greci, finlandesi, italiani estoni e altri governi europei, ma mira piuttosto a garantire ai partner la deterrenza del suo ombrello atomico per assicurarsi la leadership strategica sull’Unione.

Le capacità belliche, la disponibilità a “fare la guerra” (rara oggi in Europa e del tutto assente in paesi quali Germania e Italia), costituiscono con l’arsenale nucleare prerogative strategiche nazionali che Macron intende sfruttare al meglio anche nei confronti di una Germania con cui l’asse privilegiato emerso col trattato di Aquisgrana non sembra decollare proprio a causa delle divergenze circa export militare, politica di difesa e priorità industriali.

Del resto la pretesa egemonica francese non poteva non cozzare contro la reazione della Germania che già con il Libro Bianco della Difesa del 2016 del ministro Ursula von der Leyen si candidava, “superando vecchi preconcetti, ad assumere la guida anche militare dell’Europa”.

La cancelliera tedesca Angela Merkel, che pure guida in paese da anni impegnato in un braccio di ferro con gli Usa in diversi campi, ha detto che Macron “ha usato parole drastiche, che non collimano con la mia visione della cooperazione nella Nato. Non abbiamo bisogno di opinioni così generiche, anche di fronte all’ esistenza di problemi ai quali bisogna applicarsi insieme”.

Benché lo stesso Trump abbia più volte definito la Nato “inutile” e composta da parassiti (gli europei) che lasciano sulle spalle degli Stati Uniti il peso finanziario della loro difesa, a Washington le parole del presidente francese hanno fatto scalpore.

Per Macron il presidente Trump “pone la questione della Nato come un progetto commerciale, un progetto in cui gli Stati Uniti assicurano una sorta di ombrello geostrategico, ma come contropartita c’è un’esclusiva commerciale. Bisogna comprare americano. La Francia non ha firmato per questo”.

“Credo che la Nato resti una delle partnership più cruciali e strategiche nella storia”, ha affermato il segretario di Stato americano, Mike Pompeo, nel corso di una visita a Lipsia. Ecco perché “è un imperativo assoluto che ciascun Paese membro contribuisca in modo adeguato alla missione per una sicurezza comune”.

Risposta scontata poiché il progetto espresso dal presidente francese punta a ridurre l’influenza di Washington sull’Europa. Non stupisce quindi il consenso espresso da Mosca alle parole di Macron. La portavoce del ministero degli Esteri, Maria Zakharova, ha definito quelle di Macron “parole d’ oro” e “sincere, che riflettono l’essenziale, una definizione precisa dello stato attuale della Nato”.

Più cauto e ironico il portavoce del Cremlino, Dmitri Peskov, per il quale “non spetta a noi decidere se la Nato sia viva o morta e quali parti del corpo di questa alleanza siano in stato comatoso. Non siamo le persone giuste per decidere, non siamo patologi”.

Del resto negare la crisi profonda della Nato è impossibile pur riconoscendo che non sembra esistere attualmente nulla che la possa sostituire.

L’Alleanza non ha ancora metabolizzato la sonora sconfitta sofferta contro i Talebani in Afghanistan, mascherata da ritiro programmato delle forze da combattimento né il ruolo passivo dell’Europa emerso palesemente con il “golpe” in Ucraina del 2014, una crisi creata ad hoc dagli Usa con alcune complicità europee che ha portato a una nuova guerra fredda sostenuta da Usa e Gran Bretagna, principali azionisti “ della Nato).

Ma non certo da gran parte del resto d’Europa che aspira invece ad avere rapporti distesi con Mosca e vorrebbe occuparsi della reale minaccia jihadista e la destabilizzazione del “Fianco Sud” invece che della minaccia creata ad hoc sul “Fianco Est”.

La crisi turco-siriana ha dato infine il colpo di grazia alla credibilità della Nato, con la Ue pronta a non alzare i toni con Erdogan per timore che riversi milioni di immigrati illegali verso l’Europa e gli Usa e la Nato preoccupati che Ankara si avvicini ancora di più a Mosca, come ha detto chiaramente il segretario alla Difesa, Mark Esper, invitando gli alleati a non essere troppo severi con la Turchia.

Il problema sollevato provocatoriamente da Macron dovrebbe (in teoria) aprire un vivace dibattito anche in Italia dove le linee programmatiche della Difesa espresse recentemente dal ministro Lorenzo Guerini ribadiscono il collocamento strategico nazionale tra i “pilastri” Nato e Ue.

Formula datata che forse merita una rivisitazione ora che l’Italia rischia infatti di trovarsi schiacciata tra le diverse pretese egemoniche degli “alleati” americani e delle due potenze europee continentali.

In base alle linee programmatiche resteremo in Iraq e in Afghanistan (ma senza combattere) perché ce lo chiede Washington ma solo in attesa che le esigenze di rielezione alla Casa Bianca non inducano Trump (come prima di lui Obama) a ritirare le truppe statunitensi da quei teatri operativi senza neppure chiedere il nostro parere e vanificando anni di sudore, sangue e miliardi spesi.

Del resto dovremmo anche chiederci se sia possibile considerare militarmente e politicamente amica e alleata una nazione che minaccia di porci dazi commerciali come se fossimo uno “Stato canaglia”.

Nel Sahel il ministro della Difesa ha indicato in maggiori sinergie con la Francia la strada da perseguire nonostante il disastro libico sia stato creato e poi alimentato contro i nostri interessi soprattutto da Parigi (con Washington e Londra) e che per molto tempo i francesi abbiano “imposto” il congelamento della nostra missione in Niger semplicemente perché non era stata pianificata sotto la loro egida.

Nel Mediterraneo Guerini ha parlato della possibilità di riaprire la componente navale dell’operazione europea Sophia sospesa dopo che il precedente governo aveva preteso che ogni nave europea sbarcasse nei propri porti i migranti illegali raccolti in mare. Oggi i nostri partner sono pronti a riavviare l’operazione, peraltro rivelatasi inconcludente nel contrastare i trafficanti, ma solo se l’Italia accetterà di nuovo che gli sbarchi avvengano nei suoi porti.

La provocazione di Macron suona quindi come l’ennesima conferma che gli assetti strategici stanno rapidamente mutando e le pretese egemoniche di partner e alleati che sono causa di gran parte dei nostri guai impongono all’Italia di giocare le sue carte tenendo il timone ben fermo sugli interessi nazionali.

(Estratto di un articolo pubblicato su Analisidifesa.it)