Belle Époque
Roma, 3 dicembre 2019
Mi è capitato di assistere a una retrospettiva dei fratelli Lumière.
I signori Lumière, distillando il lavoro dei decenni precedenti, sgomentarono le platee parigine alla fine del 1895 (28 dicembre) proiettando, nel Salon Indien du Gran Café de Paris, L’uscita degli operai dalle Officine Lumière e il fatidico Arrivo del treno alla stazione de La Ciotat.
Da quella data ogni fotografo, curioso o artista anela la cinepresa.
Centinaia di operatori, più o meno improvvisati, si sguinzagliano per il mondo, ormai ridotto a sgabuzzino dell’essere umano, piazzando i nuovi occhi a registrare il quotidiano.
Mosca, Roma, Vancouver, New York saltano dalla realtà all’immagine divenendo fruizione: per il pubblico sempre meno scelto: alla fin fine per il mondo tout court.
Già nel 1896 abbiamo una vasta scelta di immagini. I Francesi conoscono in diretta le capitali d’Europa, gli Americani i sobborghi londinesi, i Canadesi il Ponte Ripetta a Roma; l’Occidente si fa stretto, l’Atlantico si prosciuga, l’Europa si rimpiccolisce a vista d’occhio. Decadono la meraviglia e l’arte, subentra la cronaca minuta.A guardare, con occhio sincero e spaurito, quelle sequenze lattescenti, ci si rende conto che la globalizzazione era compiuta; già nel 1896: c’era solo da rifinire il delitto.
La Terra, l’amabile Terra, si avviava a divenire una città singola, con regole eguali per tutti.
Il mondo si globalizza, allora, in piena Belle Époque: dal 1870, in effetti, viviamo la Belle Époque: pace, progresso tecnico e diritti civili.
Una vera bazza, insomma.La demografia non perdona: dal 1850 (una miliardata di insetti) al 2020 (sette a crescere).
E le due guerre mondiali? Certo, vi furono due guerricciole. Fasi di assestamento. Problemi di crescita. La Prima, quella decisiva, spazzò via tre Imperi, la Seconda iniziò l’incontrastabile operazione Monarchia Universalis.
Due guerre. Venti, trenta milioni di morti? E allora? Cosa sono di fronte a sei miliardi di esseri umani in più?
Nelle more della dissoluzione vennero schiantate due Rome: Bisanzio (Costantinopoli) e Mosca (Czar Romanov, nientemeno). La prima Roma era caduta qualche decennio prima, fra risatine e trombette carbonare.
La libertà universale si sparse secondo il vento dell’ottimismo dei neofiti. La democrazia liberale (liberale poiché basata sulla libertà di metter croci) ebbe a costituirsi quale alternativa unica (un ossimoro presto trasformato in legge).
La Belle Époque è il nostro mondo, il mondo di oggi. Pace, invenzioni mirabolanti e democrazia.
In nemmeno mezzo secolo si sovverte la visione dell’umanità.
Un mondo antico viene liquidato.
Il rubinetto, l’elettricità, la camera d’aria (che consentì spostamenti individuali: bicicletta, moto, automobile), il fonografo; l’estensione della rete ferroviaria, l’aumento della popolazione grazie a scoperte che abbattono la mortalità infantile, dirigibili, aeroplani, la radioattività, la relatività, le rate, il turismo individuale, il lettino freudiano.
L’uomo si fa stregone dominatore degli elementi: il suo imperio si estende sulle acque (transatlantici, sottomarini), sull’aria (dirigibile, aereo), sul fuoco (elettricità) e sulla terra (automobile, treno, alluminio), persino sulla quintessenza eterea (telegrafo, telefono).
Egli è il Prospero invitto. La bacchetta magica rifulge nelle sue mani, Ariele è al suo servizio, Calibano, il freddo mostro del passato, un aborto della strega Sycorax, viene dileggiato e posto ai ferri.
Egli edifica, infine la Torre di Babele, la Tour Eiffel.
L’Esposizione Universale del 1889, a Parigi, è la glorificazione della vittoria sugli elementi naturali e contro la divinità.
Il Globo si dà convegno a Parigi, come lo era stato a Londra.
Londra e Parigi, i due epicentri della Nuova Civiltà, strepitano le buccine dell’Uomo di Vitruvio, opportunamente rimodulato quale misura di tutte le cose.
I due giganteschi corni del Postmoderno ebbero lì, Parigi e Londra, Londra e Parigi, la scaturigine: spirituale e tecnica. I decollamenti del 1789 e la Spinning Jenny divengono l’emblema del Novus Ordo.
Libertà, un termine debitamente falsato e smerciato nelle orecchie dei nuovi sudditi, è la parola chiave.
Libertà. Cambiamento. Si ha da essere liberi, è ora di cambiare.
Da allora sino a oggi (un secolo e mezzo) ogni tentativo di resistenza è stato frantumato. Ridotto in pietrisco, letteralmente.
Le rovine fumanti dell’Italia e della Germania, di Vienna, Bisanzio, Pietroburgo, Kabul, Hiroshima, son lì a dimostrarlo.
Qualche ostinato culo di ferro, tenutosi a distanza, prudentemente, dalle fucine infernali, capitolò nel Secondo Dopoguerra (Spagna, Grecia, Portogallo).
Cosa resta oggi: movimenti di ostilità fuori tempo massimo, anacronistici; perdenti, inevitabilmente, e oramai rimpianti da nessuno, nonostante ci si agghindi ancora degli stemmini dell’ostilità e si giochi a fare l’ostile: con sommo divertimento dei vincitori: dai sovranisti ai fascisti ai veterocomunisti.
Le pietre d’intralcio (Hitler, Franco, Alceste, l’infido Mussolini, i colonnelli e i marescialli sparsi a perseguitare la libertà – la libertà! – in Europa, i divini imperatori, i nostalgici di Cecco Beppe) vennero polverizzate, a qualsiasi costo. A costo di olocausti, atomizzazioni, tradimenti.
La linea storica è definita, chiara, adamantina: la servitù in nome della libertà!
La libertà di votare!
Anche Céline s’impappinò sulla materia. Era troppo a ridosso degli avvenimenti. La sua tesi di laurea, deliziosa a leggersi, sul dottor Semmelweis inizia, con una reprimenda dura contro la Rivoluzione Francese e prosegue con la magnificazione dell’opera del suddetto Semmelweis, pioniere della profilassi nelle sale operatorie. La mortalità delle partorienti, grazie ai suoi accorgimenti, crolla; una nuova pietra nel nuovo edificio della modernità è posta saldamente. L’oscurantismo è sconfitto. Céline, però, non s’accorge che tali lumi derivano proprio dai Lumi del 1789. La contraddizione del sentire di destra è tutta qui.
In Italia Mussolini filosofeggia a uso dei micchi: il fascio littorio, l’Impero, la grandiosità classica, la Città Eterna; anche lui, però, tiene nel proprio seno gli opposti: il Futurismo esalta la benzina, la velocità, l’anticlassicismo; egli stesso s’imbeve di progressismo, colatogli giù dalle frequentazioni giovanili, assai positiviste: le esaltazioni dell’Impero e del vetrocemento hanno il retrogusto di quelle comuniste, fra Soviet e supertrattori siberiani.
Il mondo antico dilegua, sorge una nuova alba. Persino quel Matto di Nietzsche non comprende sino in fondo. Confonde la fine dell’età classica dell’umanità con il sorgere degli spiriti liberi. Scomoda la bestia bionda. Ma così non è. Gli spiriti liberi non sono liberi; sono liberi servi. Ominicchi. L’Ultimo Uomo, deforme e dal pensiero debole, diverrà la norma, non un ponte per transitare verso la Volontà di Potenza. L’ominicchio domina, in ogni dove; la grandezza, invece, residua; tutto ciò che è bello, grande, magnifico, eminente cade sotto l’imperio del disprezzo; da allora in poi sarà etichettato come illiberale, retrogrado, buio, freddo, malsano. Il SuperUomo è una invenzione fantascientifica, un pio desiderio.
Trasvalutazione di tutti i valori! Così ciancia il Nostro. Giusto. Il mondo è stato capovolto, a testa in giù. L’uomo di Vitruvio ha il sangue alla testa; o i coglioni al posto della testa. La razionalità ha abdicato all’emozionalità. Lo Spirito e l’Arte e la Sapienza alla tecnica. L’autentica libertà alla libertà da condominio: il voto. La sanità mentale all’insania, la voglia di grandezza alla piccineria, il materiale nobile alla plastica. Impossibile non vedere in ogni luogo le stimmate del Nulla.
La libertà è una cosa assai singolare. I mezzadri erano molto più liberi di noi. Ora la vita è più comoda, più confortevole, meno rischiosa, ma, a ben vedere (se si hanno occhi arditi per ben vedere), cos’ha a che fare il rischio e l’insicurezza dell’esistenza con la libertà? Nulla. D’altra parte, qual è la nostra libertà? Quando la esercitiamo davvero? Come scrisse Norman Mailer: per comprendere cos’è la libertà basta andare per linea retta mai ascoltando nessuno: prima o poi si verrà fermati. Qual è il raggio d’azione dell’uomo libero, oggi? La catena sembra assai corta. Appena si mette il muso fuori di casa si viene letteralmente assaliti dai divieti. Il mondo postmoderno si basa sul divieto. E tuttavia, poiché è, in realtà, un mondo al contrario, il divieto viene smerciato come libertà. Vietando, si consente a tutti i cittadini et cetera et cetera. Le solite manfrine. Vietando, invece, si vieta; e basta. Un pulviscolo di divieti ci investe come uno sciame di cavallette. Non è consentito, non si può, non oltrepassare; spesso il divieto è occultato dalla tecnica del collo di bottiglia: si è costretti a scegliere ciò che il potere vuole. In tal caso si è portati a pensare d’aver affermato la propria libera scelta in un mondo che ne contempla centinaia: e invece sono una e una sola. I micchi non muoiono mai.
Domanda capitale: l’uomo vuole essere libero o vuole vivere senza rischio?
Date a un uomo la libertà e quello ve la renderà schifato. Ecco perché la Monarchia Universale prosegue senza impacci. Voi, che mi leggete, e la moltitudine che gioca a fare il rivoluzionario … ognuno anela il comodo, non la libertà. La libertà coincide assai poco con la democrazia, la vita comoda e altri simili inganni.
Parodia dell’uomo che anela la vera libertà: Into the wild. Fuori della civiltà. Christopher McCandless crede di eluderla isolandosi, via, sempre più lontano, in Alaska, terra di ghiacci. Poi, di fronte alla morte, vergherà la fatidica frase: “La felicità è vera solo se condivisa”. L’individuo, infatti, non può sfuggire alla morsa della Monarchia; serve una comunità; la comunità e l’amore, però, sono impossibili poiché ci è stata resa impossibile la fruizione di ciò che fummo. Non abbiamo più i mezzi morali e spirituali per compiere una scelta o legarci gli uni agli altri per fronteggiare le conseguenze di una decisione irreversibile. Siamo spauriti, ignoranti, inermi e confusi. Slegati. Monadi che si illudono di far parte di una catena di libertà. Christopher ovvero Cristoforo, il portatore di Cristo, non ha mai avuto le spalle così leggere, liberato del suo dio e della responsabilità della fede; cerca di fuggire, ma in realtà è il suo cuore a essere prigioniero. Inoltrarsi nella wilderness, solo e nudo, privo di compagni, compagni impossibili in un mondo di egoismi, equivale a morire. La sua ribellione è ridicola seppur ammirevole.
La guerra è necessaria. La guerra dà valore alla pace. La guerra rende liberi. Attenzione! Non sto dicendo che voglio la guerra; sto affermando, con un certo grado di disperazione, che l’uomo, per essere davvero libero, necessita della guerra. Ciò che si vuole e ciò che è necessario non sono la stessa cosa.
Negli ultimi duecento anni siamo progrediti. Abbiamo sconfitto la fame, le malattie, la gravità, Dio. Bene, lo ammetto, è così. In ogni snodo della storia, tuttavia, occorre chiedersi: cosa abbiamo dato in cambio?
Il Grande Inquisitore di Dostoevskij, il Grande Monarca Universale, scaccia il Cristo che vuol rendere l’uomo libero. L’uomo invoca, invece, il servaggio: in cambio di un po’ di pane.
Gustavo Zagrebelski commenta: “La tecnologia e il laboratorio, alimentati dalla finanza, saranno forse la fucina dell’essere umano liberato dalla libertà e programmato per essere docile o aggressivo a seconda delle circostanze. I dodicimila per ogni generazione (cioè gli assistenti dell’Inquisitore) saranno forse questi diafani tecnici in camice bianco che maneggiano provette e denaro”.
Fedor Dostoevskij fu uno degli ultimi profeti. La relazione di Dostoevskij dall’Esposizione Universale a Londra, nel 1862 (Note invernali), individua, da subito, cosa c’è in ballo nell’epoca dei Lumi e del postmoderno. Egli è sgomento. Più che impressioni egli annota materiale da incubo. Il Palazzo di Cristallo dell’Esposizione diviene simbolo d’una catabasi infernale, apocalittica: “Sí, l’Esposizione è qualcosa di sbalorditivo. Vi percepite una forza tremenda che ha lì riunito in un unico gregge tutto quell’incalcolabile numero di persone giunte da ogni parte del mondo”. Esposizione Universale, Unico Gregge. Commenta ancora Zagrebelski: “Il Palazzo di Cristallo è rappresentato come un gigantesco crostaceo che stende le sue chele rapaci e, al tempo stesso, come un oggetto di fede, di fronte al quale si piega la ragione collettiva di una moltitudine omologata, razionalizzata, matematicizzata e pacificata dalla tecnica e dal commercio ... Una moltitudine, alla fin fine, resa concorde dal culto del denaro quale unica unità di misura della vita degli uomini, unica perché senza alternative e, soprattutto, glorificata come idolo da una nuova religione monoteista”.
Il Palazzo trasparente, cristallino, tornerà nella distopia di Zamjatin, Noi. L’umanità, resa gregge, deve essere privata dell’individualità sua propria; e il mondo reso un panopticon in cui essere eccitati, domesticati, fustigati in ogni momento della giornata, gli uni contro gli altri, il Potere sopra tutto. Si elimina, in tal modo, l’Ombra, il Segreto, quel residuo che consente la Vita; si elimina la comunità poiché immersi in una comunità talmente vasta da aver necessariamente eliminato le asperità delle differenze, la definizione che deriva dai linguaggi, dai gesti, dal retaggio degli antenati.
Si arriva, così, alla contraddizione massima: Individualismo nella Totalità. Essere egoisti, autoreferenziali e psicopatici in una società aperta, a tutti, talmente aperta da rendere ognuno anonimo, fungibile; armento indifferenziato, non individuo.
Molte persone hanno necessità di vedere ciò che è compiuto, altre intuiscono, dai geni, il corpo già formato. Dostoevskij anticipa Zamjatin; Zamjatin, di trent’anni, Orwell. Orwell fu solo un tardo epigono: a favore del suo successo, svilito da riferimenti all’Unione Sovietica, oggi limitati e datatissimi, giocava la lingua universale, dei dominatori.
L’uomo del Novus Ordo, seriale e autistico al tempo stesso, è una contraddizione apparente: in un mondo al contrario, però, risulta altamente logico.
Altre contraddizioni: il tenore di vita cresce, si combatte la povertà; e però questo si paga, duramente. Il povero, organizzato come povero, e, perciò, resistente quale comunità, è ora allo sbando; il Russo riferisce: “A Haymarket ho visto madri che portavano le loro figlie minorenni a imparare il mestiere. Fanciulline di neanche dodici anni vi afferrano la mano e vi invitano ad andare con loro. Ricordo che una volta, per strada, vidi una bambina di non piú di sei anni, tutta stracciata, lurida, scalza, emaciata, e che era stata picchiata: il corpo che s’intravedeva tra gli stracci era coperto di lividi. Andava come dimentica di sé, senza affrettarsi in alcun luogo, e sa Dio per qual motivo gironzolasse tra quella folla: forse aveva fame. Nessuno le prestava attenzione. Ma quello che sopra ogni altra cosa mi colpí fu che camminasse con una tale aria di dolore, con una tale irrimediabile disperazione sul volto, che il vedere questa creaturina che già portava su di sé tanta maledizione e disperazione era persino in qualche modo innaturale e tremendamente doloroso. Continuava a far oscillare la testa arruffata da una parte all’altra, come se stesse discutendo di chissà cosa, allargava le braccine, gesticolando, e poi all’improvviso intrecciava le mani e le premeva sul petto nudo. Tornai indietro e le allungai un mezzo scellino. Ella afferrò la monetina d’argento e mi guardò negli occhi in modo selvaggio, con uno stupore timoroso, e all’improvviso si gettò in avanti correndo con tutte le forze, temendo che le riprendessi i denari. Storielle amene, insomma …”.
Sembra facile deridere tali resoconti: oggi non è più così! Invece è così. Non è cambiato nulla in termini di disperazione e follia. I rapporti son i medesimi, l’afflato del deraciné identico; non trovo differenze tra la bimbetta stracciata di Dostoevskij e lo sguardo perduto dei nostri figli, totalmente dimentichi di ciò che noi, pallidamente, fummo, ignari del passato, della cultura, dell’Italia, d’ogni cosa che dia identità e orgoglio. 7:2 = 21:6. Non deve fuorviarci quel 21 …
Durante la Belle Époque ciò che ha costruito le trincee sante dell’uomo viene incenerito. La Tecnica si impossessa dell’Arte e della Sapienza, rigettando il Sacro. La Scienza viene gradatamente sussunta nella Tecnica. L’Arte scade a imitazione. La fotografia genera il cinema: entrambe saranno lo sfiatatoio dell’iperrealismo che ancor oggi ci domina. In tal modo si perde la profondità, il simbolo, la sintesi allegorica. Gl’Impressionisti escono dalla bottega (non dalle Accademie, nonostante la vulgata da piagnisteo) disdegnando il mestiere. La loro tecnica è volutamente superficiale. Il colore, cioè, agisce per via orizzontale, tramite il contrasto; si perdono le velature, il grasso su magro e la prassi millenaria; del pari - è inevitabile - si perde la grandezza metafisica della visione. Spariscono i grandi temi per far posto all’oleografia, al resoconto, al giornalismo; si cerca di piacere a tutti (a chi non piacciono gli Impressionisti?); dilaga il fumetto, la caricatura, l’ammicco; al Salon gl’Impressionisti, dapprima dileggiati, celebrano il proprio trionfo (nel 1863, lo stesso anno di pubblicazione delle Note invernali di Dostoevskij). Il pubblico è ormai impressionato dalla biografia individuale, invece che dal magistero di bottega; più il pittore è pervertito, ambiguo, manipolatore, outré, maggiormente il pubblico facilone s’interessa a lui. Si abbandona la tradizione occidentale per far luogo all’esotico, all’africano, alla cineseria; il teatro si adegua con frivolezza; impazza il fonografo; café chantant e bettole hanno il loro bel da fare.
Si ricerca ancora il simbolo, nell’Avanguardia, ma dal punto di vista psicologista, freudiano. L’interiorità è ricca di mostri. D’altra parte tutto ciò che è simbolo, ciò che allude all’Altro, al Sacro, a ciò che è Superiore rispetto all’Umano, viene etichettato come decadente, putrido, malato. Il tema figurativo è irriso, l’astrazione diviene la regola; in seguito dominerà il capriccio individuale, svincolato da qualsivoglia logica tradizionale; l’artista, da artigiano sopraffino che era, diviene saltimbanco, creando, da guitto, una propria corte di cialtroni adoranti; infine, e siamo all’estremo grado di perdizione, l’artista Pagliaccio, che nemmeno sa più cosa sia una matita o un pennello o uno scalpello, condivide le parole d’ordine del Potere che, al solito, si occulta sotto la falsa maschera della libertà: ecco il Pagliaccio a inorridire o scioccare le platee con le scarpette rosse del femminicidio, le persecuzioni omossessuali, la tragedia del migrante: tutto filtrato da una sensibilità posticcia, da un sentimentalismo di maniera; cede, come detto, l’ultimo baluardo della classicità, pur degenerata - la statuaria, la tela - a favore della performance o d’un gioco di suggestioni digitali e audiovisive. Lucette ebefreniche, refrain catacombali, distacchi schizofrenici diluiscono gli ultimi residui di senso in nome dell’ecumenismo da celebrare nel Palazzo di Cristallo: in effetti la morte di ogni cosa, l’abbruciamento compulsivo di ogni fonema o ansimo razionale, regala l’impressione di una libertà infinita.
Il Vecchio Regime arriva presto ai ferri corti con quello nuovo, democratico. Fra il 1914 e il 1945 si regolano i conti in via definitiva. Fra il 1945 e oggi son passati ottant’anni in un fiat: sono caduti, nell’ordine, gli Imperi Centrali, la Turchia, il Giappone, l’Italia, l’Iberia, la Grecia, la Russia, l’Afghanistan, l’Iraq. In piedi rimane la Persia, la Mesopotamia, che, presto, sarà invasa dalla libertà. La nuova Belle Époque è fra noi. Con tali differenze: ora, invece del consumo, si rende appetibile la frugalità (basta carne, basta proprietà, basta automobili) a tradimento: un consumismo diverso, a basso continuo, immateriale, verde, e gestito da un pugno di multinazionali che si sostituiscono allo Stato.
La novità degli ultimi decenni: lo Stato si dissolve, lentamente; i suoi organi costituzionali divengono la mano temporale della Monarchia Universale e, viceversa, quest’ultima, attraverso gli Imperi Commerciali, si occupa della vita del cittadino. Una forma di controllo più potente mai fu inventata. Banche e tribunali vivono in perfetta osmosi. Le banche prestano a usura, i tribunali si incaricano della libbra di carne da riscuotere: magari non una, ma due tre cinque libbre. Le banche, anzi, organismi privati d’un potere diffuso e inestirpabile, si atteggiano a buon padre di famiglia; i tribunali, una volta pallidi garanti della giustizia in nome del popolo, organizzano il banchetto finale. Bassanio deve una libbra di carne a Shylock, e va bene; ma qui non c’è nessun tribunale di Venezia a dissuadere l’usuraio, ma addirittura la concorrenza nel pretendere altro sangue, altra carne. Le banche moltiplicano gli avvocati come i tribunali le parcelle, per qualsiasi stramberia gli venga in mente, compresa la pubblicità. La ferita del debitore si allarga a fronte di pretese sfrontate, incredibili, folli. Come può ottenere giustizia? Ricorrendo, a sua volta, ad avvocati e tribunali: spesso i primi in combutta coi secondi: la ferita s’allarga, la banca prende il decuplo del debito, scremate le somme per il Baal pubblico, ora privato, che allatta faccendieri, cialtroni, psicopatici, furfanti d’ogni risma.
Poi, quando arriva la data fatidica, si fa una bella riunione con Mattarella vestiti da Pagliacci a reclamare una giustizia più giusta.
Ancora Dostoevskij: “Solo dopo aver calcato per qualche giorno il selciato delle strade principali, dopo esser penetrati con grande fatica nel brulicare umano … soltanto allora si rileva che questi londinesi hanno dovuto sacrificare la parte migliore della loro umanità per compiere tutti quei miracoli di civiltà di cui la loro città è piena; che centinaia di forze latenti in essi sono rimaste inattive e sono state soffocate affinché alcune poche potessero svilupparsi piú compiutamente e moltiplicarsi mediante l’unione con quelle di altri … La brutale indifferenza, l’insensibile isolamento di ciascuno nel suo interesse personale emerge in modo tanto piú ripugnante e offensivo, quanto maggiore è il numero di questi singoli individui che si sono ammassati in uno spazio ristretto; e anche se sappiamo che questo isolamento del singolo, questo angusto egoismo è dappertutto il principio fondamentale della nostra odierna società, pure in nessun luogo esso si rivela in modo cosí sfrontato e aperto, in modo cosí consapevole come qui, nella calca della grande città. La decomposizione dell’umanità in monadi, ciascuna delle quali ha un principio di vita particolare e uno scopo particolare, il mondo degli atomi, è stato portato qui alle sue estreme conseguenze … ogni sabato, di notte, mezzo milione di operai e di operaie coi loro bambini si riversano come un mare per l’intera città, raggruppandosi per lo piú in certi quartieri, e che per tutta la notte fino alle cinque del mattino festeggiano il riposo dal lavoro, cioè si ingozzano e si ubriacano come bestie, per tutta la settimana. Quest’intera moltitudine porta là le sue economie settimanali, tutto quello che ha faticosamente messo insieme a forza di duro lavoro e di maledizioni. Nelle botteghe di carne e di generi alimentari arde il gas in ampi fasci di luce, che illuminano a giorno le vie. Parrebbe un vero e proprio ballo, organizzato per questi negri bianchi. Il popolo s’affolla nelle taverne aperte e nelle strade. E qui si mangia e si beve. Le birrerie sono addobbate come palazzi. Questa moltitudine è ubriaca, ma senz’allegria, è cupa, opprimente e, in un certo suo modo, stranamente silenziosa. Solo di tanto in tanto le bestemmie e le risse sanguinose infrangono questo silenzio sospetto, che agisce tristemente su di voi. Tutti si sforzano di ubriacarsi quanto prima possibile, fino a perdere coscienza …”.
Il nepente, la perdita della coscienza, il cubicolo angusto, la cupezza di fondo … Le notazioni psicologiche di allora coincidono con le diagnosi di oggi.
Dostoevskij descrive la fine della civiltà; ogni fine, infatti, si assomiglia. Non diversa fu la fine di Navajos e Aztechi. Dapprima decadde l’umanità più prossima alla fonte dell’infezione e con meno corpo tradizionale; quindi, lentamente, cedettero le difese immunitarie della nazioni forti, corrose con pazienza da ratti pestilenziali. Bastò, quindi, un raffreddore per uccidere l’Italia. Anche qui vale la metafora del tarlo e del mobile; un lavorìo costante, indefesso, pervicace, di chi ha un’utopia: l’utopia della Monarchia. Improvvisamente, lo schianto.
Cosa possiamo opporre a questo? L’ho ripetuto mille volte. Più di tutto conviene rigettare l’arma di legittimazione del Potere: il voto. Basti rilevare come ogni lobby, ogni potentato vogliano far votare o non far votare questo e quello; favorire, nella corsa al cambiamento (tutte le elezioni cambiano, inevitabilmente), o questo o quello; o dileggiando Tizio o minacciando Caio o esaltando Sempronio. Mai, e dico mai, questi satrapi delle coscienze hanno affermato: non si voti! Ci si astenga! Il gioco liberaldemocratico, base della finta democrazia, tiene in piedi la farsa.
Dire no, un “no” definitivo, in ciò consiste la condizione necessaria, ma non sufficiente alla ribellione …
Anche questo, però, l’ho detto mille volte.
I vecchi si ripetono, poi, stanchi di ripetere, farfugliano.