L'albero della storia è sempre verde

L'albero della storia è sempre verde

"Teniamo ben ferma la comprensione del fatto che, di regola, le classi dominanti vincono sempre perché sempre in possesso della comprensione della totalità concettuale della riproduzione sociale, e le classi dominate perdono sempre per la loro stupidità strategica, dovuta all’impossibilità materiale di accedere a questa comprensione intellettuale. Nella storia universale comparata non vi sono assolutamente eccezioni. La prima e l’unica eccezione è il 1917 russo. Per questo, sul piano storico-mondiale, Lenin è molto più grande di Marx. Marx è soltanto il coronamento del grande pensiero idealistico ed umanistico tedesco, ed il fondatore del metodo della comprensione della storia attraverso i modi di produzione. Ma Lenin è molto di più. Lenin è il primo esempio storico in assoluto in cui le classi dominate, sia pure purtroppo soltanto per pochi decenni, hanno potuto vincere contro le classi dominanti. Bisogna dunque studiare con attenzione sia le ragioni della vittoria che le ragioni della sconfitta. Ma esse stanno in un solo complesso di problemi, la natura del partito comunista ed il suo rovesciamento posteriore classistico, individualistico e soprattutto anti- comunitario" Costanzo Preve da "Il modo di produzione comunitario. Il problema del comunismo rimesso sui piedi"

sabato 4 gennaio 2020

Rimane solo la strategia del Caos e della Paura un vuoto pauroso di pensiero MA l'Iran è un boccone troppo enorme per questi imbecilli

Usa-Iran, ma Trump ha un piano? Le 4 domande chiave dopo l’uccisione di Soleimani

Qual è l’obiettivo di Trump? E qualcuno, nell’amministrazione Usa, ha davvero un piano? La crisi tra Usa e Iran vista dal miglior giornale del Medioriente

di Gianluca Mercuri
4 gennaio 2020 (modifica il 4 gennaio 2020 | 08:21)


L’assassinio del generale iraniano Qassem Soleimani da parte degli americani è un fatto sconvolgente che — visto dal miglior giornale del Medioriente, Haaretz, e dal suo miglior analista, Anshel Pfeffer — pone «due questioni critiche sull’Iran e due sugli Usa». Vediamole.

1) L’Iran abbandonerà la sua prudenza?
Dalla tremenda guerra degli anni ‘80 con l’Iraq, che gli costò oltre un milione di morti, l’essenza della strategia del regime — totalmente incarnata da Soleimani — è stata evitare un altro conflitto in campo aperto. «Ora sia la sua assenza nelle discussioni tra i leader sia la rabbia generata dalla sua morte possono scalfire questa cautela». La gamma di obiettivi possibili per la rappresaglia è ampia. In ogni caso, l’Iran deve calibrare l’escalation, se non vuole che il conflitto tocchi il suo territorio. E il suo stratega principe non c’è più.

2) Come influirà la morte di Soleimani sull’assetto di potere interno?
Il suo ruolo era di importanza gigantesca: comandava le Guardie della Rivoluzione da 22 anni ed era dato perfino tra i possibili successori di Khamenei come Guida Suprema. C’era lui dietro tutte le scelte decisive, dalla destabilizzazione dell’Iraq dopo l’invasione Usa al salvataggio di Assad in Siria. E Khamenei ha continuato a sostenerlo anche dopo i colpi a vuoto: l’impossibilità di creare basi stabili in Siria per via degli attacchi israeliani e le manifestazioni popolari che (come la fazione legata al presidente Rouhani) chiedevano di investire nelle riforme anziché nelle guerre. Senza Soleimani, «l’Iran potrebbe per una volta calcolare male la sua risposta e andare a una guerra totale. Ma se le conseguenze sono contenute, c’è anche la speranza che cominci a limitare le sue ambizioni regionali».

3) Qual è l’obiettivo di Trump?
Difficile decifrare la strategia del presidente, che è passato dalla denuncia del trattato sul nucleare iraniano alla richiesta (respinta) di un incontro con Rouhani, dall’annuncio del ritiro dalla Siria a un cambio di 180 gradi con il dispiegamento di combat troops, gli attacchi alle milizie filo iraniane e l’uccisione di Soleimani. Il generale poteva essere eliminato anche in passato, ma l’America aveva perfino collaborato con lui in funzione anti Isis e anti Al Qaeda. È possibile che il presidente abbia colto in modo estemporaneo la possibilità di colpire un obiettivo di cui, anche nella distrazione con cui segue i briefing, ha capito la grandezza. Forse gli serve per la campagna elettorale. Forse si prepara alla guerra.

4) Qualcuno nell’amministrazione ha un piano?
Fino a quattro mesi fa Trump era circondato da falchi nel National Security Council, poi ha licenziato John Bolton. Ora attorno a lui «c’è a malapena uno scheletro di staff professionale e soprattutto un gruppo di adulatori». Ha ancora le migliori forze armate e la migliore intelligence del pianeta, «ma nessuno capace di pensiero strategico». Potrebbe quindi infilarsi in una guerra feroce senza un piano. L’America è mille volte più potente «ma l’Iran, dal 1979, si è dimostrato in grado di sfruttare ogni esitazione, ogni errore e ogni vuoto temporaneo da parte delle amministrazioni Usa». Per questo siamo nel regno dell’imprevedibile. «Un presidente vanaglorioso e una leadership iraniana che ha perso il suo esponente più saggio — entrambi in lotta per sopravvivere — si affrontano sull’orlo del precipizio».

Guerra senza limiti fatta con operazioni militari diverse dalla guerra - L'Unica strategia che rimane in piedi è quella del Caos e della Paura non ideata da Trump ma eredità e che nasce sotto Bush 11 settembre 2001


SABATO 4 GENNAIO 2020 
Cosa diavolo vuole fare Trump con l’Iran? 

Storia di tre anni di strategie aggressive e imprevedibili, per provare a trovarci un senso (che secondo qualcuno non c'è) 


 
 (Alex Wong/Getty Images)

L’uccisione del potente generale iraniano Qassem Suleimani, compiuta dagli Stati Uniti nella notte tra giovedì e venerdì con un lancio di droni all’aeroporto internazionale di Baghdad (Iraq), è la mossa più spericolata realizzata finora dal presidente statunitense Donald Trump nei confronti dell’Iran. Il governo iraniano l’ha definita un «atto di guerra» e ha minacciato ritorsioni, anche se per ora non si sa di che portata saranno e se provocheranno l’inizio di un nuovo conflitto.

Non è chiaro quale sia la strategia di Trump: ieri il presidente americano ha ripetuto di non voler iniziare una guerra con l’Iran, ma con le sue azioni potrebbe arrivare a provocarla. Quello che si sa è che Trump non è nuovo a decisioni imprevedibili in politica estera: nel corso della sua presidenza ha dimostrato in più occasioni di avere idee confuse e contraddittorie, anche verso l’Iran, paese che è nemico degli Stati Uniti ma con cui gli Stati Uniti, almeno formalmente, non sono in guerra.


Per capire come siamo arrivati a questo punto c’è da tornare indietro all’8 maggio 2018, giorno in cui Trump annunciò il ritiro degli Stati Uniti dall’accordo sul nucleare iraniano. Quella decisione provocò un aumento improvviso della tensione tra i due paesi e da allora la politica americana in Iran è stata una serie di decisioni non spiegabili da una strategia precisa, ma solo dall’obiettivo generale di indebolire il regime iraniano e le sue azioni all’estero, e distanziarsi dall’approccio più disteso e diplomatico adottato negli anni precedenti da Barack Obama.

Il ritiro americano dall’accordo sul nucleare, quando iniziò tutto

L’accordo sul nucleare iraniano, definito da molti «storico», era stato voluto e firmato dal predecessore di Trump, Barack Obama, e si basava su uno scambio: l’Iran avrebbe ridotto la sua capacità di arricchire l’uranio, privandosi della possibilità di costruire la bomba nucleare, mentre gli Stati Uniti e gli altri paesi firmatari avrebbero rimosso alcune delle sanzioni imposte negli anni precedenti.

Era il risultato di uno sforzo diplomatico enorme, iniziato diversi anni prima e sviluppato sull’idea che un Iran propenso a collaborare, quindi non eccessivamente ostile, avrebbe permesso alla comunità internazionale di frenare l’eventuale costruzione della bomba nucleare, tenendo sotto controllo gli impianti e le centrali iraniane. L’accordo doveva servire anche per ridurre la tensione tra Stati Uniti e Iran, esistente tra i due paesi dal 1979, anno della Rivoluzione khomeinista, che aveva trasformato l’Iran in una Repubblica Islamica ostile all’Occidente.


Da sinistra a destra: l’Alto rappresentante per gli Affari esteri europei, Federica Mogherini, il ministro degli Esteri iraniano, Mohammad Javad Zarif, il segretario di Stato britannico, Philip Hammond, e il segretario di Stato americano, John Kerry, annunciano il raggiungimento dell’accordo sul nucleare iraniano il 2 aprile 2015 in Svizzera (AP Photo/Keystone, Jean-Christophe Bott, File)

Trump era già stato critico verso l’intesa durante la campagna elettorale del 2016: lui e buona parte dei conservatori statunitensi ritenevano che l’accordo non fosse abbastanza favorevole agli Stati Uniti e pensavano che la rimozione delle sanzioni non avrebbe fatto altro che rafforzare l’Iran, che avrebbe avuto più soldi da investire nei suoi programmi missilistici e nelle sue campagne di aggressione in altri paesi del Medio Oriente, come quelle portate avanti proprio dal generale Suleimani.


È importante ricordare che quando l’8 maggio 2018 Trump annunciò il ritiro degli Stati Uniti dall’accordo sul nucleare, l’Iran non aveva compiuto alcuna violazione consistente dei termini del trattato. A violare l’accordo, semmai, era stato Trump, che aveva deciso di reintrodurre unilateralmente le sanzioni tolte tre anni prima. E questa cosa fece arrabbiare molto gli iraniani.

Un nuovo accordo sul nucleare o un cambio di regime in Iran?

Ancora oggi non è chiaro il motivo per cui Trump decise di fare quella mossa, molto inusuale nella politica internazionale, dove gli stati tendono a mantenere fede agli impegni presi nonostante i cambi di governo.

Allora si disse che Trump era stato condizionato dai suoi consiglieri più conservatori e dai suoi alleati più intransigenti (come Arabia Saudita e Israele), che volesse indebolire l’eredità politica di Obama, e che pensasse davvero che l’accordo fosse svantaggioso per gli Stati Uniti. Molti si chiesero quale fosse l’obiettivo finale di quella mossa: era quello di costringere il governo iraniano a negoziare un nuovo accordo sul nucleare, come disse più volte il governo americano? Oppure quello di fare pressione affinché in Iran ci fosse un “cambio di regime” che rimuovesse dal potere i religiosi più radicali, come invece suggerirono alcuni consiglieri dell’amministrazione, come l’allora consigliere per la Sicurezza nazionale John Bolton?

Congratulations to all involved in eliminating Qassem Soleimani. Long in the making, this was a decisive blow against Iran's malign Quds Force activities worldwide. Hope this is the first step to regime change in Tehran.

Un tweet di John Bolton – recente, del 3 gennaio, pubblicato dopo l’uccisione di Suleimani – che termina dicendo: «Spero che questo sia il primo passo per il cambio di regime a Teheran»

Nei mesi successivi, la decisione di Trump di ritirarsi dall’accordo sul nucleare cominciò a produrre i primi significativi effetti, alcuni dei quali in apparente contrasto con l’intenzione del governo americano di indebolire le forze più conservatrici dell’Iran.

Da una parte la reintroduzione delle sanzioni statunitensi cominciò ad avere conseguenze dirette sull’economia iraniana, in particolare rendendo difficoltosa la vendita del petrolio, e rese molto complicato per i paesi europei rispettare la loro parte dell’accordo (la questione è spiegata estesamente qui). Da questo punto di vista, la politica di Trump – che spingeva per il “massimo isolamento” dell’Iran – sembrò funzionare.

Il problema però è che il ritiro degli Stati Uniti dell’intesa aveva cambiato gli equilibri nella politica iraniana: aveva indebolito quella parte del regime che l’accordo l’aveva negoziato e voluto, cioè la fazione più moderata guidata dal presidente Hassan Rohuani, e aveva rafforzato le élite più conservatrici, quelle contrarie a scendere a patti con l’Occidente, cioè la Guida suprema Ali Khamenei e le stesse Guardie rivoluzionarie, il corpo militare a cui apparteneva Suleimani.

In altre parole: la decisione di Trump non aveva fatto nascere nuove forze conservatrici, né aveva rivoluzionato la politica iraniana, da quarant’anni particolarmente ostile verso l’Occidente: aveva però ridato forza alle fazioni più aggressive ed estremiste, che sulla scia dell’entusiasmo per il raggiungimento dell’accordo sul nucleare avevano perso consensi.

Da sinistra a destra: la Guida suprema iraniana, Ali Khamenei, il religioso sciita Muqtada al Sadr, e Qassem Suleimani (Office of the Iranian Supreme Leader via AP)

Già allora emersero nuovi dubbi sull’approccio di Trump. Con il rafforzamento della fazione ultraconservatrice, l’ipotesi di riaprire i colloqui sul nucleare si faceva sempre più irrealizzabile, e allo stesso tempo l’idea di un cambio di regime non sembrava praticabile. Nella seconda metà del 2019 la situazione peggiorò ulteriormente e iniziò una nuova lunga fase di crisi che fece parlare del possibile inizio di una guerra.

Gli attacchi nel Golfo Persico e il problema del disimpegno militare

A partire dall’estate del 2019 le Guardie rivoluzionarie iraniane iniziarono a compiere diversi attacchi contro petroliere straniere nel Golfo Persico e nello Stretto di Hormuz, il tratto di mare che divide il Golfo Persico dal Golfo dell’Oman. Sequestrarono navi ed equipaggi, violarono per la prima volta l’accordo sul nucleare del 2015 e abbatterono un drone americano provocando la reazione furiosa degli Stati Uniti.

Il 20 giugno Trump annunciò di avere approvato e poi annullato all’ultimo secondo un’operazione militare contro l’Iran che avrebbe dovuto essere una ritorsione contro l’abbattimento del drone. In maniera del tutto inusuale per un presidente di un paese così potente, Trump spiegò su Twitter di avere cambiato idea perché «un generale» gli aveva detto che a causa del lancio del missile sarebbero potuto morire 150 persone, un bilancio troppo elevato per quelle circostanze.

La spiegazione non convinse del tutto, e secondo i giornali americani ci furono altre ragioni che spinsero Trump a cambiare idea: per esempio la pressione esercitata su di lui dai membri più prudenti della sua amministrazione, e lo scetticismo verso l’attacco espresso da Tucker Carlson, ospite fisso di Fox News, praticamente l’unico canale di informazione americano che tratta il presidente in maniera benevola (e che si dice eserciti una certa influenza su di lui).

Trump fu accusato di nuovo di non avere una strategia sull’Iran e di non riuscire a dare continuità e coerenza alle sue politiche, facendosi influenzare in maniera eccessiva dal consigliere o dal militare più influente in quel momento.

Qassem Suleimani in una foto del febbraio 2016 (AP Photo/Ebrahim Noroozi)

Gli Stati Uniti pagarono le loro incertezze sull’Iran anche in Siria, dove mantenevano un piccolo contingente militare con gli obiettivi di assicurarsi la definitiva sconfitta dell’ISIS e di frenare la sempre crescente presenza iraniana nel paese, garantita dall’azione delle Guardie Rivoluzionarie e del corpo speciale guidato da Suleimani. La cosa che più preoccupava il governo americano era l’intenzione iraniana di creare una specie di “corridoio” tra l’Iran e il sud del Libano, passando da Iraq e Siria – un progetto che se realizzato avrebbe rafforzato molto l’influenza e il potere iraniani in questo pezzo di Medio Oriente.

Spinto dalla volontà di ritirare i soldati americani dalla Siria, come aveva promesso di fare in campagna elettorale e durante i suoi primi anni di presidenza, e allo stesso tempo dalla necessità di mantenere una presenza militare, tra la fine del 2018 e l’inizio del 2019 Trump fece dichiarazioni contraddittorie su quelli che sarebbero stati i successivi passi degli Stati Uniti: prima annunciò, tra lo stupore di avversari e alleati, che i militari americani avrebbero lasciato la Siria nel giro di 30 giorni; poi, un mese dopo, fece un passo indietro, annunciando nuove condizioni per il ritiro, che di fatto lo rallentarono e ridimensionarono.

La questione del ritiro dei soldati americani dalla Siria e da tutto il Medio Oriente, molto cara a Trump, continua a essere al centro del dibattito ancora oggi. Dopo l’uccisione di Suleimani, il governo statunitense ha annunciato l’invio di altri soldati nella regione, per reagire adeguatamente a una eventuale ritorsione dell’Iran.

Perché uccidere Suleimani, e perché proprio ora?

Gli sviluppi degli ultimi giorni hanno creato ancora più confusione. Molti si sono chiesti come mai Trump abbia deciso di ordinare l’uccisione di Suleimani, soprattutto quando i due presidenti prima di lui avevano rifiutato di farlo per paura dell’inizio di una nuova guerra. E inoltre, perché proprio ora?

Il governo americano ha sostenuto che Suleimani stesse preparando attacchi contro obiettivi statunitensi in Libano e Iraq, ma finora non ha fornito prove delle sue affermazioni e un’indagine di NBC News ha mostrato come i deputati statunitensi non fossero a conoscenza di alcuna minaccia imminente e fuori dall’ordinario proveniente dall’Iran.

Secondo fonti consultate dalla stampa americana, la decisione di Trump di uccidere Suleimani era stata presa la scorsa settimana, dopo l’uccisione di un contractor americano in una base militare irachena durante un bombardamento compiuto dalla milizia filo-iraniana Kataib Hezbollah. Non è chiaro invece che peso abbia avuto l’assedio all’ambasciata americana a Baghdad, compiuto da milizie sciite filo-iraniane tra martedì e mercoledì di questa settimana.

L’interpretazione più diffusa è che l’uccisione di Suleimani sia stata il risultato della progressiva escalation di tensione avvenuta nell’ultimo anno e mezzo tra Iran e Stati Uniti, e delle azioni sempre più aggressive e violente compiute dalle Guardie Rivoluzionarie iraniane soprattutto in Iraq. Quello che non è chiaro, comunque, è se gli Stati Uniti abbiano una strategia per rispondere a eventuali ritorsioni iraniane e se siano in grado di tenere sotto controllo la situazione tanto da non arrivare a un conflitto ancora più violento con l’Iran.

Secondo diversi esperti, Trump potrebbe avere sottovalutato i rischi derivanti dall’uccisione di Suleimani, per esempio non considerando «un atto di guerra» l’operazione di giovedì notte. Come ha detto al New Yorker Douglas Silliman, ambasciatore americano in Iraq fino allo scorso inverno, l’uccisione di Suleimani si potrebbe paragonare all’ipotetica uccisione del comandante delle operazioni militari americane in Medio Oriente e Nordafrica (Centcom). Cosa farebbero gli Stati Uniti se un paese straniero uccidesse il comandante in capo del Centcom? Con molta probabilità il governo americano parlerebbe di «un atto di guerra», proprio come ha fatto l’Iran venerdì (e come invece si è rifiutato di fare Trump).

Il punto è che non è chiaro come la morte di Suleimani possa contribuire in qualche modo al raggiungimento degli obiettivi di Trump.

L’attacco statunitense ha attirato moltissime critiche anche tra i moderati e i riformatori iraniani, cioè quelle forze che nella politica dell’Iran cercano di bilanciare il potere degli ultraconservatori. L’impressione è che gli sviluppi degli ultimi giorni abbiano affossato definitivamente qualsiasi speranza di riaprire un dialogo sul nucleare iraniano e abbiano rafforzato la posizione di quelli che detengono le posizioni di maggiore potere nella complicata struttura istituzionale iraniana, cioè le fazioni più radicali e più ostili a qualsiasi cambiamento.

Negar Mortazavi, corrispondente dell’Independent ed esperta di Iran, ha scritto: «Ricordate: Trump si è ritirato dal trattato sul nucleare iraniano contro il parere praticamente di tutti. Ha detto che l’accordo non era abbastanza buono e che ne avrebbe trovato uno migliore, perché lui era il miglior negoziatore in circolazione. Beh, non ha ottenuto un nuovo accordo, ha ottenuto una nuova guerra». Ali Vaez, esperto di Iran dell’International Crisis Group, ha scritto, riferendosi invece al rafforzamento degli ultraconservatori iraniani a scapito dei moderati: «Trump sembra sia riuscito a ottenere un cambio di regime, ma non del tipo che si aspettava».

10| Also 2) Killing Muhandis and so blatantly undermining Iraqi sovereignty again & again have rendered defending US presence and military bases in Iraq an impossible task for Iraqi security forces. A humiliating departure for the US from Iraq now seems inevitable.

11| As for 3) it's now almost guaranteed that the Iranian parliament will fall into the hands of the most hardline and militant elements within Iran. So in the words of @valinasr, @realDonaldTrump seems to have managed to get regime change in Iran but not the kind that he wanted.

Oggi gli Stati Uniti hanno dichiarato guerra a Iran e Iraq. E la guerra è ciò che avranno.

Oggi Gli Stati Uniti Hanno Dichiarato Guerra A Iran E Iraq (Sull’assassinio Di Qassim Soleimani)

By Davide Gen 3, 2020 5,383

FONTE: MOON OF ALABAMA

Oggi gli Stati Uniti hanno dichiarato guerra a Iran e Iraq

E la guerra è ciò che avranno.

Oggi, un drone o elicottero statunitense ha ucciso il maggiore generale Qassim Soleimani, il famoso comandante della forza iraniana Quds (“Gerusalemme”), mentre lasciava l’aeroporto di Baghdad dove era appena arrivato. Aveva programmato di partecipare al funerale dei 31 soldati iracheni che gli Stati Uniti avevano ucciso il 29 dicembre al confine siriano-iracheno vicino ad Al-Qaim.
La forza di Quds è il braccio esterno del Corpo delle guardie rivoluzionarie islamiche iraniane. Soleiman era responsabile di tutte le relazioni tra l’Iran e movimenti politici e militanti al di fuori dell’Iran. Hajji Qassim ha consigliato gli Hisbullah libanese durante la guerra del 2006 contro Israele. Il suo sostegno ai gruppi iracheni ha permesso loro di cacciare gli invasori statunitensi fuori dall’Iraq. Era l’uomo responsabile della sconfitta lo Stato islamico in Iraq e Siria. Nel 2015 Soleimani si è recato a Mosca e ha convinto la Russia a intervenire in Siria. Il suo sostegno agli Houthi nello Yemen ha permesso loro di resistere agli aggressori sauditi.

Soleimani era arrivato a Baghdad su un normale volo dal Libano. Non ha viaggiato in segreto. E’ stato prelevato all’aeroporto da Abu Mahdi al-Muhandes, il vice comandante di al-Hashd al-Shaabi, una forza di sicurezza irachena ufficiale sotto il comando del Primo Ministro iracheno. Le due auto in cui viaggiavano sono state colpite durante l’attacco degli Stati Uniti. Sono morti con loro anche gli autisti e le loro guardie.

Gli Stati Uniti hanno creato due martiri che ora diventeranno i modelli e gli idoli per decine di milioni di giovani in Medio Oriente.

Gli Houthi in Yemen, Hezbollah in Libano, la Jihad islamica in Palestina, le forze paramilitari in Siria, Iraq e altrove hanno beneficiato del consiglio e del sostegno di Soleimani. Prenderanno tutti provvedimenti per vendicarlo.

Moqtada al-Sadr, il clericale sciita ribelle che comanda milioni di seguaci in Iraq, ha dato l’ordine di riattivare il suo ramo militare “Jaish al-Imam al-Mahdi”. Tra il 2004 e il 2008 le forze del Mahdi hanno combattuto l’occupazione americana dell’Iraq. Lo faranno di nuovo.

L’assassinio diretto di un comandante del peso di Soleimani richiede una reazione iraniana di almeno dimensioni simili. Tutti i generali o alti politici statunitensi che viaggiano in Medio Oriente o altrove dovranno ora guardarsi le spalle. Non ci sarà sicurezza per loro ovunque.

Nessun politico iracheno sarà in grado di discutere per mantenere le forze statunitensi nel paese. Il primo ministro iracheno Abdel Mahdi ha chiesto una riunione di emergenza del parlamento per chiedere il ritiro di tutte le truppe statunitensi:

“L’assassinio mirato di un comandante iracheno è una violazione dell’accordo. Può scatenare una guerra in Iraq e nella regione. È una chiara violazione delle condizioni della presenza americana in Iraq. Chiedo al parlamento di prendere le misure necessarie passi “.

Il Consiglio di sicurezza nazionale dell’Iran sta incontrando il leader supremo Ali Khamenei per “studiare le opzioni di risposta”. Esistono molte opzioni di questo tipo. Gli Stati Uniti hanno forze di stanza in molti paesi intorno all’Iran. D’ora in poi nessuno di loro sarà al sicuro.

L’ayatollah Ali Khamenei, ha rilasciato una dichiarazione in cui chiedeva tre giorni di lutto pubblico e poi ritorsioni.

“La sua partenza per Dio non pone fine al suo cammino o alla sua missione”, afferma la dichiarazione, “ma una forte vendetta attende i criminali che hanno il sangue e il sangue degli altri martiri ieri sera nelle loro mani”.

L’Iran legherà la sua risposta al calendario politico. Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump entrerà nella sua campagna di rielezione con truppe statunitensi sotto minaccia ovunque. Possiamo aspettarci che incidenti come l’attentato alla caserma di Beirut si ripetano quando è più vulnerabile.

Trump imparerà che uccidere il nemico è la parte facile di una guerra. Le difficoltà vengono dopo che è successo.

Nel 2018 Soleimani ha risposto pubblicamente a un tweet in cui Trump aveva minacciato l’Iran:

“Sig. Trump, il giocatore d’azzardo! […] Sei ben consapevole del nostro potere e delle nostre capacità nella regione. Sai quanto siamo potenti nella guerra asimmetrica. Vieni, ti stiamo aspettando. Siamo i veri uomini sulla scena, per quanto ti riguarda. Sai che una guerra significherebbe la perdita di tutte le tue capacità. Puoi iniziare la guerra, ma saremo noi a determinarne la fine. “

Da maggio 2019 gli Stati Uniti hanno dispiegato almeno 14.800 soldati aggiuntivi in ​​Medio Oriente. Negli ultimi tre giorni sono seguiti elementi aerotrasportati e forze speciali. Gli Stati Uniti hanno chiaramente pianificato un’escalation.

Soleimani sarà sostituito dal generale di brigata Ismail Ghani, un veterano della guerra Iran-Iraq che da decenni è attivo nella Forza Quds e ha combattuto contro l’ISIS in Siria. È un ufficiale di uguale statura e capacità.

Le politiche e il sostegno dell’Iran ai gruppi stranieri si intensificheranno. Gli Stati Uniti non hanno vinto nulla con il loro attacco ma sentiranno le conseguenze per i decenni a venire. D’ora in poi la sua posizione in Medio Oriente sarà fortemente limitata. Altri si trasferiranno per prendere il suo posto.



3.01.2019

Traduzione per www,comednchisciotte.org a cura della redazione

Diritto internazionale fottiti questo sono gli Stati Uniti

Soleimani: Cina chiede 'calma e moderazione' dopo raid Usa

Xinhua
03 gennaio 2020 15:52 NEWS

(ANSA-XINHUA) - PECHINO, 3 GEN - La Cina ha esortato oggi tutte le parti interessate, in particolare gli Stati Uniti, a mantenere la calma e la moderazione per evitare di intensificare ulteriormente le attuali tensioni nel Golfo, dopo il raid aereo statunitense che ha ucciso in Iraq il generale iraniano Soleimani.
"La Cina si è sempre opposta all'uso della forza nei rapporti internazionali e ha insistito sul fatto che tutte le parti dovrebbero attenersi agli scopi e ai principi della Carta delle Nazioni Unite e alle norme di base che regolano le relazioni internazionali", ha sottolineato il portavoce del ministero degli Esteri cinese, Geng Shuang. La sovranità, l'indipendenza e l'integrità territoriale dell'Iraq, ha aggiunto il portavoce cinese, dovrebbero essere rispettate, come dovrebbero essere salvaguardate la pace e la stabilità del Golfo in Medio Oriente. (ANSA-XINHUA)

Hong Kong - cambio di strategia

ESTERO
La Cina cambia l'inviato a Hong Kong dopo sette mesi di proteste

12:32, 04 gennaio 2020

La rimozione di Wang Zhimin potrebbe segnare la volontà di ricercare una soluzione per le tensioni nel territorio

HONG KONG
CINA

Dopo quasi sette mesi di proteste e disordini a Hong Kong, Pechino ha nominato un nuovo capo dell'Ufficio di collegamento nell'ex colonia britannica. Wang Zhimin, che dal 2017 era stato il principale rappresentante cinese nella regione ad amministrazione speciale, è stato sostituito con l'ex segretario del partito nella provincia dello Shanxi, Luo Huini, in quella che potrebbe essere una mossa per ricercare una soluzione alle tensioni nel territorio. Il bilancio delle proteste pro-democrazia nell'ex colonia britannica è di almeno due morti, migliaia di feriti e oltre 7 mila arresti.

E' guerra illimitata fatta con operazioni militari diverse dalla guerra - Impossibilitati di invadere l'Iran usano l'assassinio di stato

Ecco i 5 effetti dello strike Usa contro Soleimani in Iran. Gli scenari di Gagliano

4 gennaio 2019


Tutti gli scenari possibili dopo che il generale iraniano Soleimani è stato ucciso il 3 gennaio da un raid ordinato da Trump. L’approfondimento di Giuseppe Gagliano

Il comandante delle Quds Force, unità del Corpo delle guardie della rivoluzione islamica (IRGC) iraniane, il generale Qassem Soleimani, è stato ucciso venerdì 3 gennaio da un raid ordinato dal presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, sull’aeroporto internazionale della capitale irachena Baghdad, secondo quanto riferito dal Pentagono e dalla Casa Bianca.

Soleimani, 62 anni, non solo aveva coordinato le operazioni extraterritoriali iraniane in particolare in Iraq, in Siria, in Libano e Yemen ma aveva in particolare contribuito in modo decisivo a sostenere il presidente siriano Assad. Inoltre, durante la guerra in Iraq, Soleimani servendosi abilmente delle Forze di Mobilitazione Popolare, unità paramilitari sciite appoggiate proprio dall’Iran, aveva dato un contributo militare di grande rilievo nel fermarne il radicamento dell’Isis in Iraq.

L’operazione americana, che rappresenta un successo sotto il profilo della Intelligence, è stato realizzata grazie all’uso di un drone MQ-9 Reaper che ha anche eliminato il generale delle milizie irachene Abu Mahdi al-Muhandis, vice comandante delle Forze di Mobilitazione Popolare, il Generale Hussein Jaafari Naya, il Colonnello Shahroud Muzaffari Niya, il Maggiore Hadi Tarmi ed il Capitano Waheed Zamanian.

Sotto il profilo strettamente politico-strategico, l’operazione militare è stato attuata a scopo preventivo – per sventare operazioni offensive iraniane contro funzionari americani, come indicato dal Times sulla base delle informazioni del Pentagono – e dissuasivo.

Vediamo di spiegare a tale proposito cosa significa esattamente dissuasivo. Ora, al di là delle comprensibili e scontate reazioni di condanna da parte del leader supremo dell’Iran, l’Ayatollah Ali Khamenei e del presidente iraniano, Hassan Rouhani, l’operazione attuata dagli Stati Uniti deve essere contestualizzata sul piano militare in primo luogo all’interno di una più ampia operazione di ritorsione in stile israeliano determinata sia da quella del 27 dicembre in cui un attacco missilistico è stato posto in essere contro una base militare irachena cagionando la morte di un civile americano sia a causa delle violente proteste del 31 dicembre presso l’ambasciata statunitense a Baghdad, situata nella cosiddetta Green Zone, coordinate dalle Brigate di Hezbollah e dalle Forze di Mobilitazione Popolare, proteste volte a chiedere il ritiro delle forze statunitensi dall’Iraq.

Inoltre, sotto il profilo strettamente politico, Mike Pompeo proprio il 13 dicembre aveva avvertito Teheran che qualsiasi azione offensiva sotto il profilo militare nei confronti degli Stati Uniti avrebbe ricevuto una risposta adeguata.

In secondo luogo, sotto il profilo della strategia globale posta in essere da Trump, questa operazione militare risulta essere pienamente coerente con l’obiettivo di contrastare in modo ampio, sistematico e capillare la presenza sciita in Iran, Iraq, Siria, Libano e Yemen.

In terzo luogo, questa operazione militare, può essere inquadrata anche per consolidare il suo consenso interno e per allontanare lo spettro della messa in stato di accusa da parte del Congresso. D’altronde l’uso della politica estera come strumento per rafforzare il consenso al livello di politica interna costituisce non l’eccezione ma una costante a livello storico.

In quarto luogo tutto ciò non farà altro che consolidare la partnership militare degli Usa con l’Arabia Saudita e Israele i cui servizi di sicurezza hanno certamente svolto un ruolo di rilievo nella individuazione di Soleimani.

SCENARI POSSIBILI

Fra gli scenari possibili da escludere vi è certamente l’invasione militare americana determinata dalla natura geografica della Repubblica Islamica. Sebbene gli Usa abbiano infrastrutture militari in 14 Paesi e cioè in Egitto, Israele, Libano, Siria, Turchia, Giordania, Iraq, Kuwait, Arabia Saudita, Yemen, Oman, Emirati Arabi Uniti, Qatar e Bahrein, l’Iran oltre ad avere una estensione di 1.684.000 chilometri quadrati, è una fortezza naturale – pensiamo ad esempio all’uso strategico che Teheran farebbe dei Monti Zagros che dividono l’Iran dalla Turchia – e una eventuale operazione terrestre proveniente dall’Afghanistan non solo implicherebbe mesi di pianificazione ma implicherebbe il dispiegamento di una forza terrestre di almeno 300 mila soldati operazione che andrebbe autorizzata dal Congresso che, allo stato attuale, sta ponendo in essere un procedimento di messa in stato di accusa proprio contro Trump. Inoltre sarebbe necessaria da parte dell’Iran e/o dei suoi alleati una azione terroristica analoga a quella dell’11 settembre per conseguire una coesione politica necessaria per un intervento di queste proporzioni.

Quanto ad un intervento nucleare limitato da parte degli Stati Uniti questo avrebbe delle conseguenze ancora più imprevedibili sul piano internazionale poiché non soltanto determinerebbe una condanna unanime da parte di tutte le istituzioni internazionali ma soprattutto determinerebbe una reazione anche di natura militare da parte della Russia.

Non c’è dubbio che in primo luogo questa offensiva statunitense porterà in primo luogo a un aumento della conflittualità da parte sia degli alleati dell’Iran nei confronti di Israele – stiamo naturalmente alludendo a Hezbollah – sia ad un ulteriore incremento della instabilità in Iraq.

In secondo luogo il sostegno militare e di intelligence fornito dall’Iran agli Houthi, attori centrali nel conflitto yemenita, potrebbe determinare una risposta rapida e diretta stando proprio alle dichiarazioni di Mohammed Ali al-Houthi capo del Comitato supremo rivoluzionario Houthi – cioè ad una ritorsione militare.

In terzo luogo i rapporti tra Cina e Usa potrebbero subire un ulteriore peggioramento dal momento che proprio la Cina sostiene l’Iran nel contesto della Nuova Via della Seta. 

In terzo luogo l’Iran potrebbe mettere in campo il tentativo di utilizzare lo Stretto di Hormuz come strumento di deterrenza militare.

In quarto luogo, l’Iran potrebbe attuare operazione terroristiche ai danni delle basi militari americane in Qatar e Bahrein.

In quinto luogo questa azione militare da un lato aumenterà in modo rilevante la destabilizzazione in Medio Oriente e dall’altro lato certamente rafforzerà il ruolo politico-religioso sciita a livello globale.

https://www.startmag.it/mondo/soleimani-iran-usa-iraq/?ct=t(RSS_EMAIL_CAMPAIGN)

Militari statunitensi diventano assassini

Medio Oriente, un raid Usa ha ucciso il leader iraniano Qassem Soleimani: scenario da terza guerra mondiale

-03/01/2020ULTIMO AGGIORNAMENTO 13:02

Ph Reuters/AFP

I militari Usa hanno compiuto un raid aereo a Baghdad: nel corso di questa operazione militare è deceduto il leader Qassem Soleimani. Sui social si parla di Terza Guerra mondiale

Il generale iraniano, nonché capo delle Forze Iraniane al-Quds, Qassem Soleimani è stato ucciso nel corso di un raid compiuto a Baghdad dalle forze militari statunitensi. Un evento militare di una portata tale da aver fatto piombare anche i social networks nella paura: da ore sta spopolando, infatti, l’hashtag #WWIII (World War III, cioè terza guerra mondiale). In molti stanno criticando l’operato del governo Trump e si teme che il terzo decennio del XXI secolo si possa aprire con una nuova crisi politica e militare in Medio Oriente.

Ucciso in un raid Qassem Soleimani, Ali Khamenei ha promesso una dura vendetta nei confronti degli Usa

Qassem Soleimani, generale iraniano, è stato ucciso nel corso di un raid aereo compiuto nella notte dalle forze militari Usa all’aeroporto di Baghdad. Il generale viaggiava su un’automobile che stava lasciando l’aeroporto (pare che l’uomo fosse appena sceso da un aereo proveniente da Libano o Siria) quando il suo mezzo di trasporto è stato colpito da un drone armato. Il bilancio è di nove morti in tutto.

Ali Khamenei, attuale Guida Suprema dell’Iran, ha promesso una dura vendetta, non appena appreso dell’accaduto; questo sta facendo piombare il mondo nella preoccupazione che possano emergere delle nuove tensioni militari in Medio Oriente.

In particolare, sui social sono in molti a paventare un’ipotesi terza guerra mondiale attraverso un hashtag divenuto virale nelle ultime ore. I commenti sono perlopiù ironici, ma mascherano delle preoccupazioni fondate. In molti hanno colto l’occasione per criticare l’operato di Trump. Come sottolinea il Metro.co.uk, le ricerche inerenti l’Iran sono schizzate (su Google) a oltre 500mila: tanto sono diventati “popolare” l’argomento e i timori a esso connesso.
Ucciso in un raid Qassem Soleimani, il raid dopo mesi di tensioni tra Usa e Iran

L’attacco statunitense è arrivato dopo mesi di tensioni tra il governo di Washington e quello di Teherean. In precedenza, le forze iraniane hanno abbattuto un drone di sorveglianza statunitense. Gli Usa, dal canto loro, incolpano il Paese del massiccio attacco portato contro gli stabilimenti petroliferi dell’Arabia Saudita, avvenuto nel settembre scorso e rivendicato da ribelli houthi dello Yemen.

Proprio in questa settimana Trump ha incolpato il governo iraniano dello scoppio di una protesta durante la quale i manifestanti hanno fatto irruzione nell’ambasciata Usa che ha sede a Baghdad per incendiarla. Dopo questo gesto Trump aveva dichiarato che l’Iran avrebbe pagato un prezzo molto alto.

Non abbiamo responsabilità se Salvini e un vero e proprio imbecille, un euroimbecille

UN VERO FESSO – QUALCUNO LO CONTROLLI

Maurizio Blondet 4 Gennaio 2020 


Salvini esulta per la morte del ‘terrorista’ Soleimani: ma nel 2015 sosteneva Assad (e il generale)

Il capo della Lega è ora a tappetino verso Trump e Netanyahu. Ma quando stava a tappetino per Putin difendeva il regime di Damasco tenuto in piedi proprio dalle milizie iraniane di Soleimani

Oggi Salvini, che è steso a tappetino sulle posizioni di Trump e di Netanyahu, ha detto: “Donne e uomini liberi devono ringraziare il presidente Trump e la democrazia americana per aver eliminato #Soleimani, uno degli uomini più pericolosi e spietati al mondo, un terrorista islamico, un nemico dell’Occidente, di Israele, dei diritti e delle libertà”.
Dichiarazioni un tanto al chilo che dimostrano la rozzezza politica di un personaggio che tra una Madonna, un rosario, e un attacco (rimangiato) alla Nutella ambisce ai ‘pieni poteri’.
Ma si tratta dell’ennesima capriola. Perché fin a poco tempo ordino Salvini insieme con i suoi camerati fascisti di CasaPound e altri fascisti era schierato a tappetino con Assad che, diceva, preferiva all’Isis.

Tanto che Lega Salvini premier scriveva: “Sì, diciamolo: Assad aveva ragione, l’Occidente torto. Assad era nel giusto, l’Occidente si sbagliava. Assad è il buono, l’Occidente è quanto meno complice dei cattivi. Quindi se vogliamo salvare il salvabile, cominciamo a sostenere la Siria sovrana in modo serio, magari trovando anche il tempo di scrivere due righe di scuse da far recapitare in ambasciata. Questo è quello che c’è da fare. Ma la crociata per difendere l’Occidente no, vi prego. Quella fatevela da soli”.
Ma in quel momento Salvini era steso a tappetino verso Putin e difendeva Assad il suo regime è stato salvato dall’Isis e dai cosiddetti ‘ribelli’ siriani grazie alla Russia ma soprattutto grazie alla presenza sul campo delle Milizie della mobilitazione popolare (Hashd Shaabi), create nel 2014 per combattere l’Isis e organizzate proprio dal generale Qassem Soleimani.
Ossia oggi Qassem Soleimani è il terrorista islamico che è stato giusto uccidere. Ieri Qassem Soleimani difendeva Assad (che secondo la Lega aveva ragione) a sconfiggere il terrorismo dall’Isis.

Quante cose sono cambiate dal Metropol a oggi…

Salvini esulta per la morte dell’eroe antiterrorismo Soleimani. Il leghista è solo un servo sciocco di Washington

Commenta con entusiasmo l’omicidio del generale Soleimani per ordine di Donald Trump: è l’ennesima presa in giro di Matteo Salvini.

Mi rivolgo ai leghisti.

Il vostro Capitano ha appena commentato con entusiasmo l’assassinio di questa notte del generale iraniano Soleimani ordinato da Trump. E ha definito “pavide l’Unione Europea e l’Italia” che a differenza di Trump preferiscono la diplomazia alle bombe.


(commento Blondet):

Evidentemente non ha seguito il consiglio di Giorgetti: tenersi sulla scrivania la foto di Renzi, per ricordare come si passa dal 40% al 4.

Non riesce nemmeno a capire quanti voti ha perso a favore della Meloni e persino di Casa Pound. Ha regalato a Simone Di Stefano, leader di Casapound, il rango di uno statista: “In politica estera un sovranista deve guardare al solo esclusivo interesse nazionale. Applaudire a comando gli Stati Uniti anche di fronte ad un assassinio sconsiderato, non fa dell’Italia una potenza, ma la ridicolizza al rango di scimmietta ammaestrata”.

Il peggio è che anche la scimmietta ammaestrata riceve un compenso per aver eseguito il suo numero ridicolo; e lo chiede pure. Anche una scimmietta ammaestrata dunque è più “politica” di costui: che ha eseguito il numero gratis, senza ottenere nulla da padrone, per giunta – si capisce – per puro sfogo della pancia, la gioia del vigliacco di fronte a una crudeltà, la vile crudeltà gratuita che lo conferma nella sua immagine mediatica diffusa dei suoi nemici: è quello che Diffonde Odio. Si scava la fossa senza nemmeno accorgersene-

Sicché obiettiamo all’articolo di Globalist Sindication che gli attribuisce un calcolo machiavellico, lo schierarsi verso gli Usa e prendere le distanze da Putin. E’ troppo. E sbagliatissimo, colleghi, la parola categoria sotto cui avete messo la vostra valutazione: “Intelligence”.

Qui, proprio, di intelligence nemmeno l’ombra.

Salvini leccaculo

Salvini esulta per la morte dell'eroe antiterrorismo Soleimani. Il leghista è solo un servo sciocco di Washington


di Fabrizio Verde

Il commento al barbaro omicidio del generale iraniano Soleimani per mano degli Stati Uniti ha confermato ancora una volta, ove mai ve ne fosse ancora bisogno, la reale natura di Matteo Salvini. Altro che prima gli italiani o gli interessi dell’Italia. Matteo Salvini è l’ennesimo servo sciocco di Washington come tanti ce ne sono stati prima di lui. Al pari del suo sodale Bolsonaro. La voce grossa la riescono a fare sono con i deboli per poi divenire docili cagnolini di fronte agli interessi statunitensi e israeliani. 

«Donne e uomini liberi devono ringraziare il presidente Trump e la democrazia americana per aver eliminato #Soleimani, uno degli uomini più pericolosi e spietati al mondo, un terrorista islamico, un nemico dell’Occidente, di Israele, dei diritti e delle libertà».

Questo il tweet di Salvini. Mancano davvero le parole - o forse ci sarebbero ma sono indicibili - per commentare.

Salvini esulta per il barbaro omicidio di un eroe della lotta antiterrorismo. I terroristi sono finanziati, foraggiati e armati dai suoi padroni. L’uscita del leader leghista per noi non rappresenta motivo di stupore. Si conferma per quello che è: un utile idiota al servizio dell’imperialismo.

NoTav - Decidere di non chiedere nulla, affermare che non si è disponibili a essere carcerieri di se stessi, è la scelta consapevole di una donna che ha spiegato che non aveva nulla per cui doversi “riabilitare”

post — 3 Gennaio 2020 at 12:16


Le parole sulla carcerazione di Nicoletta Dosio del Procuratore generale della Repubblica di Torino, che ha evidentemente ritenuto di dover replicare alle molte critiche e proteste contro questo provvedimento nei confronti di una ex professoressa, devono spingere a una riflessione.

In primo luogo, ciò che il Procuratore non pare voler cogliere è il significato profondo della scelta della prof. Dosio. Decidere di non chiedere nulla, affermare che non si è disponibili a essere carcerieri di se stessi, è la scelta consapevole di una donna che ha spiegato che non aveva nulla per cui doversi “riabilitare”. La Dosio è stata condannata a un anno per violenza privata e interruzione di pubblico servizio in concorso con altri perché aveva tenuto uno striscione, al bordo dell’autostrada, nel corso di una manifestazione No Tav. Una condotta che giustificava, secondo la Procura, una pena di ben tre anni (chiesti in primo grado dal pm), e che ha condotto alla condanna a un anno di carcere.

Non stupisce, dunque, che alcuni non vogliano cogliere il senso di estrema dignità e coerenza della decisione di non utilizzare quelle pur sacrosante misure alternative alla detenzione. Nulla ritiene di avere la Dosio per cui doversi rieducare, e nulla ritiene di aver fatto per aver “meritato” un anno di carcere. Nulla ha dunque da chiedere alla clemenza del sovrano, e altro non può fare che subire quello che le viene imposto. Quel che piuttosto con la sua scelta di coerenza e dignità la Dosio ha voluto scoprire e denunciare, facendo del suo corpo detenuto un’arma non violenta, è l’uso, anzi l’abuso, del sistema repressivo penale utilizzato contro il movimento No Tav in particolare, e contro tutti i movimenti che esprimono istanze di dissenso e conflitto sociale. Decine di processi, centinaia di indagati e condannati, misure di prevenzione, fogli di via sono l’unico modo che lo Stato ha trovato per rispondere alla protesta (a volte violenta certo, ma più spesso pacifica e non violenta) dei No Tav, e sono spesso l’unico modo che lo Stato trova per rispondere al conflitto sociale. Conflitto che, è bene precisare subito, non è antitetico alla democrazia, ma ne è anzi elemento essenziale di vitalità. E allora Nicoletta Dosio non aveva altra scelta che rifiutarsi di chiedere scusa e non fuggire dal carcere nel quale ingiustamente la si è voluta rinchiudere.

Risposta repressiva, si diceva, dello Stato: quando una manifestazione viene contrastata e repressa con lacrimogeni e manganelli, quando le persone vengono arrestate, processate e condannate per aver manifestato, è lo Stato che sta lanciando lacrimogeni, che sta manganellando, che sta arrestando, processando, condannando. E quando queste sono le uniche risposte che lo Stato è un grado di mettere in campo contro il conflitto sociale e il dissenso, come nel caso del movimento No Tav, allora a entrare in crisi è la tenuta del sistema democratico.

Certo, si può obiettare che un giudice ha valutato che quelle condotte costituiscono reato, e che quindi ha condannato i suoi autori seguendo una procedura garantita dalla legge. Formalmente tutto vero: il problema è che perseguire una determinata condotta è spesso frutto di una scelta di politica giudiziaria, frutto di attività interpretativa non sempre e non solo tecnica: si noti che per i reati per i quali la Dosio è stata condannata la legge prevede una pena minima di quindici giorni. Decidere di condannare a un anno ha quindi un preciso significato ed è solo l’ultima di una serie di valutazioni fondamentalmente politiche. Le sbarre che dal 30 dicembre circondano il corpo di Nicoletta Dosio ci impongono, quindi, di prendere atto che tutto ciò deve preoccuparci, interrogandoci su questa discrezionale giustizializzazione contro quello che si considera non coerente con l’“ordine costituito.

Gianluca Vitale (avvocato presso il foro di Torino e co-presidente dell’ass. Legal Team)

da FQ 03/01/2019

La monneza diventa oro

Milano, Vigili del Fuoco accerchiati e aggrediti mentre spegnevano un rogo

16:17 01.01.2020


Un gruppo di vandali ha aggredito con lanci di bottiglia una squadra di pompieri, mentre spegneva un rogo di cumuli di spazzatura a cui qualcuno aveva dato fuoco. E' successo a Milano in via Gola.

Un'aggressione sconcertante avvenuta mentre la squadra dei vigili del fuoco del Comando Provinciale di Milano tentava di domare un rogo appiccato per strada. I pompieri, poco dopo la mezzanotte, erano accorsi in via Gola per spegnere dei cumuli di spazzatura dati alle fiamme, quando un gruppo di balordi li ha circondati e aggrediti. 

Contro i vigili del fuoco sono volati non solo insulti ma anche bottiglie di vetro. Il fine degli aggressori sarebbe stato proprio quello di impedire ai pompieri di spegnere le fiamme. Addirittura il gruppo avrebbe persino rubato le chiavi dell'autopompa. A comunicarlo è lo stesso comando provinciale che ha documentato l'avvenuto sulla propria pagina facebook. 

L'intervento della polizia ha posto fine all'assalto e un mezzo suppletivo dei vigili del fuoco è giunto per agevolare i soccorsi e poter sedare il fuoco. 
Il quartiere in cui è avvenuta l'aggressione non sarebbe nuova a fatti del genere. Secondo quanto riferito dallo stesso comando provinciale, in queste zone di solito le squadre di pompieri si muovono accompagnati dalle forze dell'ordine, per poter intervenire rischiare di essere oggetto di atti vandalici.
Questa volta, date le dimensioni dell'incendio che minacciavano la sicurezza della zone e delle aree vicine, come quella dei navigli, la squadra aveva deciso di partire autonomamente, senza la scorta delle forze dell'ordine, per non rischiare di giungere troppo tardi.

3 gennaio 2020 - Gianluigi Paragone e Alessandro Di Battista, i custodi di pietra del M5S.

3 gennaio 2020 - DIEGO FUSARO: Barbaro attentato USA contro Soleimani e l'Iran. Inaccetta...

L'assassinio di Soleimani

Alberto Negri - Ex agente Usa aveva previsto ieri l'attacco a Soleimani su Al Arabiya


di Alberto Negri

Michael Pregent, ex agente Usa consulente del governo iracheno, aveva previsto ieri sul sito della tv saudita Al Arabiya l'attacco a Qassem Soleimani e Mohandes. "E' tempo di colpirli sono loro i nemici degli Usa e dell'Arabia Saudita", ha scritto.

Più chiaro di così.

C'è sempre qualcuno che la sa più lunga degli altri.

Notizia del: 03/01/2020

2003 si dispiega con l'invasione dell'Iraq la Strategia del Caos e della Paura

MA DI CHI È LA COLPA? DELL’IRAN NATURALMENTE, DICONO I BURATTINI

Pubblicato 03/01/2020
DI ALBERTO NEGRI

La stampa italica e internazionale incolpa l’Iran della destabilizzazione irachena. Pensano di farci dimenticare che l’Iraq e il Medio Oriente è precipitato nel caos dopo l’attacco americano del 2003 e gli interventi militari in Libia e in Siria con la guerra per procura contro Assad. L’accordo sul nucleare l’ha violato Trump non Teheran accollando sanzioni a tutti. Propaganda alimentata da un finto giornalismo e da politici italiani, da sinistra a destra, che non hanno mai nulla da dire su nulla, camerieri ai quali gli Usa neppure lasciano la mancia. Per farli fuori più che le sardine servono degli squali

Aumenta il Caos aumenta la Paura, la strategia degli Stati Uniti si dispiega come una vela e prende il largo, il mondo perde i vandali depredano le ricchezze della terra, l'erba muore muoiono gli alberi i mari si riempiono di veleni


STAMPADettagli Pubblicato: 03 Gennaio 2020


di Giulietto Chiesa

"Damned if you do it , damned if you don't". Traduzione: "Se lo fai sei fregato, ma sei fregato anche se non lo fai". Chi è il "fregato"? Donald Trump. Sulla graticola c'è lui. E non per sua scelta. La prova è che pochi giorni fa ha scritto: "Questa guerra non la vuole l'America e non la vuole l'Iran". Invece c'è chi la vuole. A tutti i costi. L'uccisione del generale iraniano Suleimanì, all'aeroporto di Baghdad (un atto terroristico compiuto dagli Stati Uniti sul territorio di un paese sovrano, cosa che tutti gli osservatori si dimenticano di notare) è una colossale provocazione il cui obiettivo è fare precipitare la situazione e innescare la guerra tra Stati Uniti e Iran.
Chi vuole questo esito? Lo vuole Israele, nella persona di Benjamin Netanyhau. Lo vuole il Deep State americano, cioè Pentagono, CIA, FBI, NSA. Lo vuole il Partito Democratico (Obama, Clinton, Biden, Soros, con tutto il codazzo dei maggiori media americani). Non bisogna farsi illusioni, il momento è gravissimo. Come è chiara la successione degli eventi che l'hanno preceduto negli ultimi giorni dell'anno che si è appena concluso. A cominciare da un attacco contro una base USA in territorio siriano che - è stato detto - avrebbe provocato la morte di un "contractor" USA. Cosa ci stesse a fare il mercenario americano laggiù non è chiaro. Chiara è invece la risposta militare americana, che bombarda le milizie iraniane in Irak e in Siria, provocando decine di morti. C'è la protesta di massa a Baghdad. Migliaia di dimostranti assediano e attaccano furibondi l'ambasciata americana. Sfondano le prime difese ma vengono fermati. Però il Pentagono e tutti i media strillano che si ripeterà la tragedia di Bengazi, in Libia, quando l'ambasciatore USA fu ucciso dalla folla (dalla folla?). Ma non c'è il morto americano a Baghdad. Per ora. Fin qui a Baghdad. Ma a Mar-a-lago, negli Stati Uniti, dove il presidente americano sta riposando, arrivano all'improvviso (è il 29 dicembre) il Segretario di Stato Mike Pompeo, il Segretario alla Difesa, Mark Esper e il Capo degli Stati Maggiori Riuniti del Pentagono, Mike Miley. Vanno a "informare" Donald Trump (che, si noti, è il comandante in capo di tutte le forze statunitensi). E fanno un conferenza stampa per, appunto, "informare il Presidente sulle attività che si sono svolte in Medio Oriente nelle ultime 72 ore". Che è come dire che Trump non ne era al corrente. Ma Donald Trump non solo non è presente alla conferenza stampa. Addirittura prende il volo per andarsene a West Palm Beach, al suo campo da golf privato. Senza neanche scrivere un tweet, lui che ne fa cinque al giorno per molto meno. Cioè resta in silenzio. Inoltre: Che ci faceva Pompeo a Mar-a-lago? Lui non è un capo militare. Il tutto aveva l'aria di un pronunciamiento (meglio dirlo alla sud-americana): "o agisci o sei un inetto!".
Cioè: l'impeachment non funzionerà? La crisi economica sarà rimandata a dopo le elezioni? Allora occorre costringere il Presidente in carica a fare un gesto inconsulto, mettendolo con le spalle al muro. Cioè guerra contro l'Iran. Il Cremlino guarda con grande preoccupazione e affida a una figura di secondo piano, Andrej Bystritsky, presidente del Club Valdai, il compito di far capire che a Mosca vedono "un rischio, e un rischio molto serio" che Donald Trump sia messo in una situazione "senza via d'uscita". Tutto questo avveniva prima dell'assassinio di Suleimani. Trump twitta una bandiera americana, senza dire altro. E il Pentagono dichiara che la decisione di uccidere è stata presa da Donald Trump. Dall'Iran giungono dichiarazioni furibonde di vendetta per il "martirio" di Suleimani. Salvini ringrazia il Presidente Trump per avere ucciso il terrorista numero uno. Dimostrando così che il livello di stupidità assoluta è stato superato con un balzo record.
L'Italia non ha dirigenti capaci di dire l'unica cosa sensata: noi non vogliamo una guerra contro l'Iran e non parteciperemo a questa guerra, se ci sarà.


ARTICOLI CORRELATI

L'assassinio di Soleimani si innesta sulla guerra all'Iraq con il pretesto di armi mai avute da questo paese, si innesta sull'incapacità politica degli Stati Uniti che sa solo elaborare piani di morte e distruzioni, che sa creare solo paura e caos in cui prolifica il suo genio maledetto di incapacità e inettitudine a costruire

IL 3 GENNAIO È MORTO UN NEMICO, È NATO UN MARTIRE


(di Giuseppe De Giorgi)
03/01/20 

Che il maggior generale Iraniano Qasem Soleimani, dal 1998 comandante della Quds Force responsabile delle operazioni clandestine all’estero di Teheran, specializzata in guerra asimmetrica fosse un pericolo per gli Stati Uniti non è in dubbio. Il punto è che il gen. Soleimani rappresentava una minaccia da almeno 15 anni. Quindi perché assassinarlo proprio adesso insieme con il suo comandante in seconda e quali finalità politiche e militari hanno determinato la decisione del presidente Trump?

Il segretario di Stato Pompeo ha detto oggi in un’intervista alla CNN, che la decisione è stata presa su segnalazione dell’intelligence americano per impedire un attacco imminente a obiettivi statunitensi in Medio Oriente e per proteggere vite americane. Le conseguenze di tale uccisione potrebbero tuttavia essere devastanti per gli interessi e la sicurezza degli americani in Golfo Persico e verosimilmente anche al di fuori.

Per inquadrare la portata dell’eliminazione di Soleimani rispetto all’uccisione di Osama bin Laden basta considerare che quest’ultimo non rivestiva una posizione ufficiale all’interno di una Nazione, ma era il capo in fuga da anni di un’organizzazione terroristica.

L’ultima volta che gli Stati Uniti hanno ucciso un capo militare è stata durante la seconda guerra mondiale, quando il presidente Roosevelt, informato dall’intelligence aveva disposto di uccidere l’ammiraglio giapponese Yamamoto abbattendo il suo aereo in un’imboscata. La differenza è che gli Stati Uniti e il Giappone erano in guerra. L’Iran e gli USA no, almeno non ancora.

La decisione di Trump avrà delle conseguenze certamente destabilizzanti di ampia portata non solo nei rapporti con Terhan ma anche con il governo Iracheno che vive con crescente difficoltà la presenza delle truppe USA sul suo territorio.

Le manifestazioni di piazza e gli attacchi all’ambasciata USA di Bagdad dimostrano come l’accettazione della presenza straniera sia sempre più precaria. L’azione americana condotta il 3 gennaio arriva dopo mesi di passività degli USA in Medio Oriente e in Mediterraneo. Basti pensare alla decisione di abbandonare la Siria al controllo di Turchia/Russia, i Curdi al loro destino, di non intervenire dopo lo spettacolare attacco di droni alla raffineria di Buqyaqin Arabia Saudita, all’abbattimento di Droni USA nello stretto di Hormuz, mantenendo un basso profilo in occasione delle ultime provocazioni di Kim Jon- un e l’assenza dalla scena libica.

Vista l’importanza del generale ucciso, le conseguenze potrebbero estendersi oltre il Golfo Persico, in Mediterraneo, in Siria e in Libia, ad esempio mettendo in ombra la crisi libica in attesa delle mosse Iraniane, lasciando di fatto maggiore libertà d’azione alla Turchia nell’inserire truppe regolari a sostegno di al-Sarraj e alla Russia di muoversi in modo più aggressivo.

La speranza è che la decisione di Trump faccia parte di una strategia complessiva di ampio respiro che abbia previsto come contenere le inevitabili ritorsioni Iraniane, la destabilizzazione ulteriore dell’Iraq, del Golfo Persico, dello Yemen etc. e che non sia invece una mossa finalizzata a ribaltare l’immagine di un presidente distratto o addirittura debole in politica estera all’avvicinarsi delle elezioni presidenziali. La storia è ricca di esempi di decisioni azzardate in politica estera per rafforzare il consenso del popolo tramite l’orgoglio nazionale e il mito della Patria in pericolo. Potrebbe funzionare. Ma a quale prezzo?

Intanto, da oggi la causa sciita ha un nuovo luminoso martire.

Foto: IRNA

Energia pulita - l'eolico è fondante

VENERDÌ 3 GENNAIO 2020
L’anno scorso la Danimarca ha prodotto con il vento quasi la metà della sua energia

E senza condizioni meteorologiche particolarmente favorevoli, ma soprattutto grazie a investimenti e sovvenzioni

 
(Jens Dresling/Polfoto File via AP)

Quasi la metà dell’energia consumata in Danimarca nel 2019 – il 47 per cento – proveniva dal vento. Lo ha reso noto Energinet, il gestore danese della fornitura elettrica e di gas, il cui proposito per il 2020 è raggiungere il 50 per cento, con l’obiettivo finale di ricavare energia esclusivamente da fonti rinnovabili entro il 2035.

L’Europa produce circa il 75 per cento dell’energia eolica mondiale e la Danimarca è il primo paese europeo per consumo di energia eolica (in percentuale), anche se non il primo per consumo di energie rinnovabili in generale, che rimane la Svezia. In Danimarca, è la prima volta che il dato sull’energia eolica raggiunge un numero così alto: era stato il 43 per cento nel 2017 e il 41 per cento nel 2018. Per farsi un’idea, il secondo paese europeo è l’Irlanda che nel 2018 produceva il 28 per cento di energia eolica. Sempre per farsi un’idea dei numeri, l’obiettivo europeo per il 2030 è raggiungere il 32 per cento di energia prodotta con fonti rinnovabili; quello italiano il 30 per cento.

Il grosso dell’energia eolica danese proviene dalle pale eoliche che si trovano nei territori a ovest del paese o sulle isole, ma recentemente stanno crescendo anche gli impianti in mare, in zone dove l’acqua è poco profonda e dove la velocità del vento è significativamente più alta. In Danimarca le condizioni meteorologiche sono favorevoli, anche se non eccezionali rispetto agli altri paesi europei la cui velocità del vento viene considerata mediamente alta.

La Danimarca cominciò a investire nell’energia eolica negli anni Ottanta, quando dovette fare i conti con la crisi del petrolio e le elevate emissioni di CO2 che provenivano dalle centrali elettriche a carbone molto diffuse in quegli anni. L’energia nucleare fu ai tempi molto osteggiata dalla cittadinanza, e l’energia eolica divenne quindi una scelta quasi obbligata.

La necessità di investire in questa nuova fonte energetica portò a incentivi e sovvenzioni statali che, mentre in altri paesi europei ebbero scarso successo, in Danimarca furono particolarmente efficaci. Tra le aziende che ne approfittarono ci fu in particolare Vestas, che produceva inizialmente elettrodomestici e che in quegli anni cominciò a costruire pale eoliche sempre più alte (oggi superano i 100 metri). Oggi Vestas è la più grande società di costruzione di pale eoliche al mondo e la città dove ha sede, Aarhus, è uno dei centri più importanti per la ricerca e la produzione in tema di energie rinnovabili a livello internazionale.