Gli Stati Uniti bruciano. Ma sono già affogati nel sangue della rabbiaDi
Eugenio Palazzini -30 Maggio 2020
Roma, 30 mag – “Capisco la rabbia, ma la situazione è incredibilmente pericolosa. Tutto questo non riguarda la morte di George Floyd, né le diseguaglianze, che sono reali. Questo è il caos. Ci sono persone là fuori che vogliono solo creare conflitti”. Così il governatore del Minnesota, Tim Waltz, ha fotografato le rivolte che stanno andando in scena a Minneapolis. Waltz è tutto tranne che uno sceriffo, è un pacato politico di lungo corso del Partito Democratico. Eletto deputato alla Camera dei Rappresentanti nel 2006, dal gennaio 2019 è governatore del Minnesota e ha sempre portato avanti posizioni fortemente progressiste che hanno ricevuto l’appoggio di organizzazioni come Planned Parenthood (associazione che si batte da anni a favore di una legislazione abortista) e Human Rights Campaign (la più grande associazione Lgbt degli Stati Uniti). Waltz non è insomma tacciabile di tendenze securitarie, eppure di fronte alla devastazione ha evidenziato stringatamente le contraddizioni che emergono dalle arterie americane.
L’American dream era già morto
Parole rassicuranti, che gettano acqua dolce su fuochi mai spenti. Un ricorso all’equilibrio che sa forse di paludato equilibrismo, eppure fuori di allitterazione è apprezzabile perché difficilmente rinvenibile in una società crivellata da proiettili rabbiosi sparati da e verso tutti i punti cardinali. E’ il nonsense degli States, a volte ignorato da struzzi all'occorrenza, ma ormai descritto fino alla nausea. Siamo insomma di fronte all’ennesimo deja vu di una cloaca narrata a lungo come pronta a esplodere. L’American dream è in realtà già affogato da decenni, come nella catastrofe post apocalittica di McCarthy. Si ciba però delle sue macerie e sopravvive. Non importa quali siano queste macerie, vanno comunque bene per un fast food, rappresentazione plastica e lapidaria del vuoto di radici. Il fanatismo bianco millenarista, la criminalità nera da strada, la cultura del piagnisteo democratico, l’ottusa prepotenza repubblicana. Nessuno ha ragione, nessuno è innocente. E anche questo si sapeva già, non serviva un Minnesota’s burning per comprenderlo.
Il ghetto del multirazzismo
Si potrebbe reperire l’origine di questo magma indomabile nei topi di Steinbeck, nella ricerca di guai di Mark Twain, nella polvere di Fante, nella generation di Kerouac. Oppure no. Perché conta poco l’interpretazione letteraria del battesimo di fuoco, a contare è solo la spietata realtà di un perpetuo Far West. E questa ci dice, senza girarci troppo intorno, che negli Stati Uniti non si intravedono possibilità di integrazione e orizzonti di convivenza pacifica. Il multiculturalismo americano è in realtà uno spietato multirazzismo dove domina il richiamo del sangue e dove si torna sempre al sangue. Back to blood, per dirla con Tom Wolf. E’ qui che l’appartenenza all’etnia si è sempre fatta ghetto, dove il miraggio di una simpatica Babilonia oscilla tra l’anelito di dorate supremazie e cavernicoli slum in cui sfogare la rabbia del presente.
Non c’è spazio per alcun sogno, ci si insozza della propria merda e si abbandona la speranza. Un girone dantesco che non prevede purgatori, si passa dall’inferno al paradiso consapevoli che li divide una sottile linea rosso sangue: nel ghetto tutto fa schifo ma è l’unico spazio dove si può contare qualcosa. Ne emerge un’unica certezza: di fronte a questa varietà umana, spesso avvilente, si distinguono per arrendevolezza i bianchi angloamericani, in preda al tramonto psicofisico (e metafisico) che campa di una rendita ormai lacera. Loro non riescono a rifugiarsi neppure nel ghetto. Senza più sangue, restano le menti sospese di Elvis, the Pelvis. In the Minneapolis.
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