L'albero della storia è sempre verde

L'albero della storia è sempre verde

"Teniamo ben ferma la comprensione del fatto che, di regola, le classi dominanti vincono sempre perché sempre in possesso della comprensione della totalità concettuale della riproduzione sociale, e le classi dominate perdono sempre per la loro stupidità strategica, dovuta all’impossibilità materiale di accedere a questa comprensione intellettuale. Nella storia universale comparata non vi sono assolutamente eccezioni. La prima e l’unica eccezione è il 1917 russo. Per questo, sul piano storico-mondiale, Lenin è molto più grande di Marx. Marx è soltanto il coronamento del grande pensiero idealistico ed umanistico tedesco, ed il fondatore del metodo della comprensione della storia attraverso i modi di produzione. Ma Lenin è molto di più. Lenin è il primo esempio storico in assoluto in cui le classi dominate, sia pure purtroppo soltanto per pochi decenni, hanno potuto vincere contro le classi dominanti. Bisogna dunque studiare con attenzione sia le ragioni della vittoria che le ragioni della sconfitta. Ma esse stanno in un solo complesso di problemi, la natura del partito comunista ed il suo rovesciamento posteriore classistico, individualistico e soprattutto anti- comunitario" Costanzo Preve da "Il modo di produzione comunitario. Il problema del comunismo rimesso sui piedi"

sabato 25 aprile 2020

16 aprile 2020 - Le dirette di Attac Italia: EUROBOND, MES e BCE: la trappola perfetta

Bisognerebbe mettere alla graticola il circo mediatico Conte e Gualtieri per il danno permanente che fanno all'Italia. La soluzione per Euroimbecilandia eè che la Bce diventi banca centrale prestatore di ultima istanza, ma di questo c'è un silenzio pauroso da parte di tutte le istituzioni, dei partiti delle Tv

Vi spiego le (apparenti) incognite sul Recovery Fund

25 aprile 2020


Come funzionerà davvero il Recovery Fund? L’approfondimento di Giuseppe Liturri

Da quando il “pacchetto di ventagli” si è dispiegato in tutta la sua nitidezza, le notizie non sono buone per l’Italia e, cosa ancora più preoccupante, sono avvolte da una ammorbante cappa di propaganda creata ad arte per confondere i cittadini e stordirli a colpi di trilioni di euro (si chiamano fake news istituzionali pompate ad arte dal circo mediatico)

Numeri buoni solo per fare colpo sui creduloni” ha commentato in modo tranciante l’editorialista del Financial Times Wolfgang Munchau. Secondo l’economista francese Jean Pisani-Ferry, la tabella di marcia presentata come base di discussione dal Presidente del Consiglio Charles Michel e dalla Presidente Ursula Von Der Leyen, non era altro che un “documento vuoto”.

Un Paese come il nostro – il cui mercato di Titoli di Stato è tra i più liquidi al mondo e che il 22 aprile ha visto una domanda per 110 miliardi su una offerta di 16 – si vede ridotto a ricorrere ad uno strumento di ultima istanza come il MES per finanziare 37 miliardi di spese sanitarie. Finiremo affiancati a Cipro, Spagna, Portogallo, Grecia e Irlanda, nell'elenco dei Paesi finanziati da uno strumento concepito per Paesi sull'orlo del fallimento e governato da regole pensate a questo fine. E, fino a quando non sarà ratificato un Trattato con nuove regole, chiunque affermi che quelle regole non si applicano in base ad una semplice stretta di mano o un comunicato dell’Eurogruppo, è semplicemente a cavallo tra malafede e totale ignoranza delle basi del diritto.

Sorvolando su Bei, che sarà solo potenziata per continuare a fare solo il suo mestiere, e sul Sure, un fondo sufficiente a finanziare 1 mese di cassa integrazione, tutta l’attenzione dei leader si è concentrata sul fondo per la ripresa.

Nel momento in cui la BCE viene invitata da autorevoli economisti, da ultimo Paul De Grauwe, a svolgere il proprio ruolo di finanziatore del deficit degli Stati e da più parti si fanno concordanti le voci relative ad aumento dei propri acquisti di titoli pubblici, per poi tenerli a lungo in bilancio, l’Italia si arrende, chiedendo ciò che non ci conviene ricevere.

Proprio il ministro Roberto Gualtieri aveva fissato, in un’intervista al Financial Times, l’asticella su cui si sarebbe misurato il successo della sua azione.

Gualtieri riteneva essenziale il rispetto di quattro requisiti: dimensione adeguata, rapidità nell’implementazione, equità nella distribuzione ed erogazione dei fondi come contributi a fondo perduto e non solo prestiti.

La bozza che ha costituito la base di discussione per i leader prevede la costituzione di un “Recovery Fund” alimentato da 320 miliardi di obbligazioni emesse dalla Commissione a scadenza molto lunga o addirittura perpetua. La base per emettere questi bond sarebbe dapprima una garanzia fornita dagli Stati membri e successivamente, quando sarà definito il Quadro Finanziario Pluriennale, risorse proprie del bilancio UE. A tale fondo si aggiungerebbero altri strumenti, tutti dominati dall'inganno verbale delle “risorse mobilitate” e “degli investimenti innescati”, ma quelli che contano sono solo i 320 miliardi.

Ma l’inganno ed il cattivo affare per l’Italia risiede nell'assenza di risposta alle seguenti domande. Che erano proprio quelle che il Consiglio del 23 avrebbe dovuto dare.

1) Chi contribuisce al fondo di garanzia? Qualcuno crede ragionevolmente che la Germania o l’Olanda possano fornire una garanzia solidale e non solo individuale (joint and several), come chiesto dai Paesi del sud, ma vietato dai Trattati? Ed allora se ognuno garantisce per sé, e non c’è solidarietà, che senso ha tutto questo macchinoso armamentario?

2) Ammesso che i titoli siano a lunga scadenza o perpetui, come provvederà la Commissione al pagamento degli interessi? Se l’Italia, come probabile, continuerà ad essere contribuente netto, pagheremo degli interessi su somme che poi non saranno tutte destinate al nostro Paese. E lo faremo o attraverso maggiori contributi alla UE o maggiori tasse. Non si scappa.

3) A quale titolo saranno erogate queste somme? Prestiti o sovvenzioni? Se fossero prestiti, come pretende il blocco tedesco, avremmo solo un altro MES, seppure a lunga scadenza.

4) E come saranno distribuite tra gli Stati? Se il fondo erogasse sovvenzioni sarebbe pure peggio. Saremmo in ogni caso chiamati a coprire il bilancio UE con l’amara sorpresa di ritrovarci contributori netti. O qualcuno crede che i paesi nordici possano consentire all’Italia, il più colpito sia dal punto di vista sanitario che economico, di ricevere somme a fondo perduto superiori al 15% del totale, diventando così beneficiario netto?

L’unica risposta possibile, avendo presente gli articoli 122 e 125 del TFUE è la seguente:

1) Un eventuale fondo finanziato con l’emissione di obbligazioni potrà erogare solo prestiti agli Stati membri. Come un Mes o un Sure, con tutte le condizioni tipiche di questi veicoli finanziari e cioè stretta sorveglianza macroeconomica dello Stato e rigida separazione delle responsabilità finanziarie degli Stati garanti, perché non ci può essere responsabilità solidale. Ma, per emettere bond ci vogliono capitale o garanzie e, su questo fronte, i precedenti non sono confortanti. Nel 2010-2012 l’Italia si indebitò per ben 58 miliardi (inclusi prestiti bilaterali) per contribuire ad Efsf e Mes. Infatti, anche qualora fossero sufficienti solo garanzie, il debito emesso da questo fondo sarebbe imputato pro-quota ai Paesi garanti, come accadde per Efsf. Insomma, nella migliore delle ipotesi, ci indebiteremmo per ricevere prestiti in pari misura. Qualcosa di simile alle 40000 lire di Totò e Peppino. Nell’ipotesi remota che tale fondo erogasse anche sovvenzioni, nella nostra veste di contribuenti netti al bilancio UE, saremmo allora costretti a versare contributi per pagare gli interessi e, anche qui, pagheremmo per aiuti concessi ad altri Stati.

2) Se proprio si devono erogare sovvenzioni, allora il bilancio UE gioca un ruolo centrale. E la musica non cambia per noi. Questo salvadanaio in cui già finiscono circa 1.100 miliardi in 7 anni (1% del PIL UE), distribuiti tra gli Stati membri, dovrebbe essere raddoppiato. La Germania, che ha impedito per ben 18 mesi l’approvazione del nuovo bilancio 2021-27, si è resa disponibile ad aumentare il suo contributo, ma resta il fatto che l’Italia è il terzo contribuente netto e non si capisce come sia possibile che diventi beneficiario netto, o pensiamo di togliere il pane di bocca a polacchi, rumeni, greci ed ungheresi?

La sintesi è stata offerta dal professor Roberto Perotti che, su lavoce.info, ha definito gli Eurobond “un pasticcio economico e giuridico, che genererebbe solo confusione, litigi e recriminazioni”.

Ancora una volta nella storia della UE, inseguiamo obiettivi che danneggiano il nostro Paese e finiamo pure per non conseguirli.

Addirittura esultiamo perché nel comunicato finale appaiono due aggettivi: “Urgente e necessario”. Ma non c’è purtroppo scritto nulla che aiuti a capire a cosa si riferiscano quei due aggettivi. Un vero aiuto per il nostro Paese o il solito meccanismo infernale degli aiuti europei che ci vedono da anni contribuenti netti? Per sbandierare come un grande successo questi due aggettivi, riferiti al fondo europeo per la ripresa (Recovery Fund), ci sono voluti ben 39 giorni, dal primo Eurogruppo del 16 marzo. Una insostenibile lentezza rispetto alla drammaticità della situazione reale del Paese, che sta vivendo sulla propria pelle una crisi sanitaria, democratica ed economica senza precedenti. Il calo del PIL su base annua potrebbe sfiorare il 10% e la disoccupazione attestarsi intorno al 11/12%.

Ma due giorni fa, il comunicato finale del Consiglio ha solo avallato in pieno le proposte dell’Eurogruppo del 9 aprile (Mes/Bei/Sure) e, con riguardo al Recovery Fund, “ha concordato di lavorare all’istituzione di un fondo per la ripresa”. Poco più di quello che c’era già sul tavolo 2 settimane prima. Ma il Consiglio, avendo scoperto che il fondo è “necessario ed urgente”, per non rilanciare il cerino all’ormai esausto Eurogruppo, ha pensato bene di dare due settimane alla Commissione per mettere a punto una proposta.

Ma su cosa dovrà lavorare la Commissione? Il Consiglio non ha risposto a nessuna delle domande sopra esposte. Zero assoluto, perché su questi temi la spaccatura è profonda, come titolato dalla Reuters, ed allora è meglio lanciare la palla in tribuna verso la Commissione e prendere altro tempo, mentre l’Italia brucia.

Il Presidente francese Emmanuel Macron non ha nascosto tutta la sua insoddisfazione per il disaccordo sul punto cruciale: aiuti in forma di prestiti (loans) o di sovvenzioni (grants), queste ultime fortemente sostenute sia da Parigi che da Madrid. Invece Conte, come rivelato da Bloomberg, pare che sia stato il primo a sfilarsi ed accettare anche prestiti.

La realtà è che qualsiasi tentativo di distribuire sovvenzioni in Europa, ci vedrebbe contribuenti e non beneficiari. Per il resto ci sono i prestiti, col guinzaglio del creditore privilegiato. Che essi siano erogati dal MES, dal SURE, dalla Commissione o da un nuovo veicolo finanziario, la sostanza non cambia. Saranno sempre assistiti da un pacchetto di condizioni, peraltro legittime dal punto di vista del creditore e dei Trattati, e metteranno definitivamente sotto tutela il nostro Paese. Ed è proprio lì che ci stanno portando.

Ma per la miseria proprio Conte e Gualtieri? Proposta: Piano di Salvataggio nazionale proposte il 30 marzo 2020

https://www.consulpress.eu/piano-di-salvezza-nazionale-nuovi-paradigmi-economia-poltica-e-professionalita-a-confronto/

I CONTI DELL’ITALIA/ I numeri impietosi che invocano il piano Bazoli-Tremonti

Pubblicazione: 25.04.2020 Ultimo aggiornamento: 07:56 - Sergio Luciano

Il Cdm ha partorito un topolino: la crisi è gravissima, i rimedi annunciati totalmente insufficienti. Il governo non ha soluzioni. Però ha detto al verità sui conti

Giuseppe Conte alla Camera con Paolo Gentiloni e Roberto Gualtieri (LaPresse)

Il mondo è come impazzito, e l’ennesimo topolino partorito dal Consiglio dei ministri italiano può sembrare perfino il fratello maggiore di quella minutissima cavia nata dal Consiglio europeo dell’altro ieri, che ha rinviato al 6 maggio una proposta della Commissione che, di passaggio in passaggio, arriverà a trasformarsi in erogazione concrete di fondi solo da gennaio 2021 in poi.

E dunque come stupirsi degli annunciatissimi e scontati e insufficienti 55 miliardi di scostamento di bilancio autorizzati dal governo per i conti pubblici del 2020, e destinati ora a transitare per l’approvazione del nostro Parlamento prima di potersi trasformare in provvedimenti operativi?

È una vera e propria distopia quella che sembra aver colto Giuseppe Conte e Roberto Gualtieri, i due principali responsabili di queste scelte – ahiloro.

Per capirci: la situazione oggettiva dell’economia – di cui in fondo loro non sono responsabili, il crollo del Pil dell’8 o più probabilmente del 10 per cento sarebbe capitato con qualsiasi governo – porterà il rapporto tra il debito pubblico e il Pil, a fine anno, oltre quota 155%. E cosa fa il governo? Si preoccupa di informarci che tra questo e il prossimo anno privatizzerà beni pubblici per ricavarne 3 miliardi di euro e abbattere il debito dello 0,2%. Tre miliardi, capito? Come curare un malato di Hiv con la pomata per i foruncoli.
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D’altronde, tutta la linea politica del Conte 2, a confronto con lo stile di uno statista, sembra il pensierino di un bimbetto di seconda elementare. Come se Winston Churchill, nel memorabile discorso alla nazione in cui promise “lacrime e sangue” per ottenere la vittoria finale contro Hitler, avesse detto: “Vi prometto the con pasticcini”.
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Tranquilli, sono comunque promesse vane. Vi ricordate la “potenza di fuoco” da 400 miliardi vagheggiata da Gualtieri un mese fa, nel presentare al Paese il decreto liquidità? Appunto: una pistola ad acqua, altro che fuoco. A fronte della quale sono stati stanziati la ridicolaggine di 37 miliardi, per garantire la liquidità. A fronte della quale è stato scaricato sulle banche l’onere di finanziare imprese per lo più infinanziabili, visto che chiedono dichiaratamente soldi per coprire perdite. E visto anche che il governo si è guardato bene dall’offrire alle banche la manleva penale per permettere loro di certificare il merito di credito a vantaggio di debitori dei quali nessuno può in buona fede postulare la continuità aziendale. Dunque se le banche diranno di sì alle richieste di soldi garantiti dallo Stato al 90%, non si accolleranno soltanto il 10% del rischio – sarebbe il minimo – ma anche il rischio ben peggiore di beccarsi, in caso di fallimento dell’insolvente, un’accusa per bancarotta fraudolenta preferenziale, per avere privilegiato un debito garantito agli altri, oltre che una richiesta di rivalsa dallo Stato – che quindi non si rassegnerebbe tanto facilmente a coprire il 90% di sua responsabilità – per incauto esercizio del ruolo di verifica creditizia.

E ancora: a leggere le cifre dell’aggiornamento del Documento economico finanziario approvato ieri vengono i brividi.

Non per la premessa, quasi puerile nel tentativo di giustificare piagnucolando il disastro: “Se non si fosse materializzato il cigno nero della crisi epidemica”, si legge nella bozza del Def, la ripresa economica prevista quest’anno dello 0,6% (ma quale ripresa, la chiamano ripresa?) “avrebbe condotto a una modesta espansione nel primo trimestre dell’anno, rendendo raggiungibile la previsione di crescita annua dello 0,6% formulata nella Nadef di settembre 2019”. Appunto: niente.

Poi c’è stato il virus. Ed ora: i consumi sono previsti in calo del 7,2%, gli investimenti fissi lordi si ridurranno del 12,3%, le esportazioni si ridurranno del 14,4% e le importazioni del 13,5%. I redditi scenderanno del 5,7%. La riduzione sarà comunque più contenuta di quella della spesa delle famiglie, la cui propensione al risparmio – anche grazie a questi risparmi di spesa – aumenterà superando il 13% su base annua. I redditi dovrebbero tornare a crescere nel 2021, con un aumento del 4,6%.

Si arriva così al calcolo del deficit aggiuntivo in 55 miliardi, con 20 miliardi di entrate fiscali in meno, e un fabbisogno da finanziare che dovrebbe superare addirittura i 161 miliardi. L’effetto congiunto della recessione e del deficit innalzerà il rapporto debito/Pil al 155,7%, per un totale di 2.600 miliardi (+190 sull’anno scorso), pari a 43.100 euro per ciascun cittadino italiano…

Il che condanna l’Italia, per riavvicinarsi alla media del debito dell’eurozona, a 10 anni di forti surplus di bilancio, cioè ancora di austerità…

Per la cronaca: il deficit sarà del 10,4%, come nel ’92 – quando Amato scodellò agli italiani la maximanovra finanziaria estiva da 90mila miliardi col prelievo forzoso del 6 per mille dai conti correnti. Tra le altre misure previste ieri, la ricapitalizzazione della Cassa depositi e prestiti, che toccherà i 50 miliardi, più i 30 miliardi stanziati a copertura parziale del decreto liquidità, mentre 12 miliardi andranno a coprire la cassa integrazione e 7 l’indennità di 800 euro (non più 600) per le partite Iva individuali. E vari spiccioli.

A fronte della imponente ma ancora vacua (e futuribile) dimensione degli interventi europei, il governo italiano neanche prova a immaginare misure forti e nazionali di autofinanziamento (quel “altrimenti faremo da noi” promesso/minacciato da Conte un mese fa, nella sua impotente intemerata contro il Mes). Nessun riferimento a quella maxi-emissione di titoli di Stato speciali, magari trentennali, magari riservati a controparti italiane, magari non vendibili per tre anni, magari esentasse ed ereditabili senza imposta di successione che piace a Bazoli, a Tremonti, a tanti altri ma che se venisse proposta da leader senza credibilità rischierebbe di ridicolizzarli costringendoli a dimettersi.

Nell’insieme, la prima e seconda sensazione di inconsistenza – quelle legate ai decreti economici fin qui presentati – si confermano in pieno: siamo nelle mani di nessuno.

Con due piccoli passi avanti, però: finalmente un po’ di verità sui conti, gravissimi, che ci aspettano. Nessuna resipiscenza, è che i numeri sono numeri, e se non sei un dittatore come gli amici Xi Jinping e Vladimir Putin, non li puoi truccare neanche se lo desidereresti.

E soprattutto: per stavolta Standard and Poor’s ci ha graziati, lasciando il rating a Bbb, con prospettive negative (e ci mancherebbe!) e comunque la Banca centrale europea ha fatto sapere che è pronta anche a comprare junk-bond pur di difendere l’euro. Siamo troppo grandi perché ci lascino fallire.

La Francia inietta miliardi nelle aziende strategiche. Come sempre i profitti ai privati e gli aumenti di capitale allo stato c'è ancora chi parla del libero mercato

La Francia ha appena annunciato un pacchetto di aiuti di €7 miliardi per salvare Air France

24 Aprile 2020 - 23:08 

La compagnia di bandiera francese riceverà dallo Stato 7 miliardi di euro. In trattative per un pacchetto di aiuti anche Renault


Il mercato dei voli aerei è andato incontro a perdite ingenti in seguito al blocco dei viaggi dovuto al coronavirus, ed ecco che i Governi corrono in aiuto delle compagnie di bandiera. Air France riceverà così 7 miliardi di euro da parte dell’amministrazione francese per sopperire alla grave crisi di liquidità.

Governo francese salva Air France

Il governo francese ha annunciato venerdì 24 aprile un piano di aiuti in favore di Air France. A dare la notizia è stato il ministro delle Finanze Bruno Le Maire. L’aiuto sarà costituito da un prestito di 4 miliardi di euro, garantito al 90% dallo Stato e che sarà fornito da un consorzio di 6 banche francesi e internazionali. Avrà una scadenza di 12 mesi con due opzioni di rinnovo di un anno.

Gli altri 3 miliardi saranno forniti come prestito diretto come parte di un fondo da 20 miliardi controllato dall’Agence des participations de l’État (l’agenzia che gestisce le controllate statali).

Alla società Air France-KLM, holding nata dalla fusione delle compagnie di bandiera francese e olandese, arriveranno poi altri 2 o 4 miliardi di euro dal governo di Amsterdam.

“Gli aerei di Air France sono a terra, quindi dobbiamo sostenere Air France”, ha detto Le Maire in televisione venerdì sera. I prestiti arriveranno a condizione che “Air France diventi la compagnia più attenta all’ambiente del pianeta”.

Le Maire ha anche confermato che la Francia sta lavorando a un accordo con il produttore di auto Renault, controllato per una quota del 15% dallo Stato francese, che varrà circa 5 miliardi di euro.

Altre trattative sono in queste ore in corso per salvare diverse compagnie di bandiera da tutto il mondo. Lufthansa è in trattative con il governo di Bruxelles per ottenere 290 milioni di euro per salvare la sua sussidiaria belga Brussels Airlines dalla bancarotta.

Korean Air dovrebbe invece ricevere quasi un miliardo di dollari di due banche controllate dal governo di Seul.

La Svezia si è assunto la responsabilità di far lavorare il Sistema immunitario per combattere il covid-19. La letalità potrebbe essere confermata al 1,1% , forse anche meno

Coronavirus: Svezia verso immunità di gregge

25 Aprile 2020 - 10:12 

Nessun lockdown per il Paese scandinavo e ora l’annuncio degli epidemiologi: “Vicini a immunità di gregge”


La Svezia vicina all’immunità di gregge. Ne sono convinti gli immunologi del Paese, secondo cui la popolazione scandinava potrebbe raggiungere una concreta resistenza all’attacco del virus già tra tre settimane.

Questo a seguito dell’esposizione al virus senza far ricorso a nessun blocco o lockdown come fatto dalla maggioranza degli stati mondiali, con la capitale Stoccolma pronta a mostrare nei dati i primi segnali di immunità.

La Svezia è andata controcorrente, mantenendo ogni aspetto della vita pubblica il più libero possibile. Non sono mancati contagi, anche in considerevole aumento nelle ultime due settimane, così come non sono mancate polemiche e considerazioni dell’esecutivo di cedere alle chiusure.

Eppure ora dallo stesso Paese segnalano che la strategia ha mirato fin dai primi giorni a consentire l’esposizione al virus e rafforzare così l’immunità tra la popolazione generale, proteggendo i gruppi ad alto rischio come gli anziani.

Ma le stesse dichiarazioni in arrivo dai vertici di governo sono state controverse, e diversi esperti continuano a paragonare le mosse svedesi a un “gioco alla roulette russa con la salute pubblica”.

Coronavirus: Svezia verso immunità di gregge

Il principale epidemiologo del Paese, Anders Tegnell, ha affermato che la strategia sembra funzionare e che l’immunità del gregge potrebbe essere raggiunta a Stoccolma nel giro di poche settimane:

“Nelle principali aree di Stoccolma abbiamo raggiunto un numero stabile di nuovi casi e stiamo già vedendo l’effetto dell’immunità di gregge; tra qualche settimana sarà ancora più visibile, mentre nel resto del Paese la situazione è sotto controllo”,

ha dichiarato Tegnell alla CNBC.

L’immunità di gregge solitamente si raggiunge attraverso la vaccinazione, quando circa il 60% della popolazione è considerata immune. Senza il vaccino, tuttavia, gli scienziati stanno considerando la possibilità che l’esposizione e le guarigioni dalla Covid-19 possano condurre a un’immunità a lungo termine.

Certezze non ce ne sono affatto, anche considerando che sono state segnalati più casi di reinfezioni di coronavirus.
Per Tegnell i dati di campionamento attuali indicano che il 20% della popolazione di Stoccolma è già immune al virus, e “tra qualche settimana” si potrà raggiungere l’immunità:

“Riteniamo sia per questo che stiamo assistendo a un lento declino dei casi, nonostante i tamponi effettuati siano sempre maggiori. Purtroppo il tasso di mortalità è elevato a causa dell’arrivo del virus nelle case di cura per anziani”.

La maggior parte dei 15.322 casi confermati della Svezia sono a Stoccolma e nelle aree circostanti, con una lievissima incidenza del virus nel resto della Svezia, che conta in totale circa 10 milioni di abitanti e una densità abitativa molto bassa al di fuori della capitale.

Il numero di casi è quasi il doppio di quello registrato nella vicina Danimarca (8.108 casi e 370 morti), così come della Finlandia (4.000 casi e 141 morti), con la differenza che questi ultimi due Paesi hanno imposto rigide misure di blocco.

Dopo aver effettuato test solo alle persone che si recavano in ospedale, ora da Stoccolma i tamponi sono estesi ai lavoratori di comparti a rischio e alle case di cura, per un numero complessivo di circa 20.000 esami settimanali.

Per ora a pagare il prezzo più alto sono stati gli anziani e le persone in condizioni di salute precarie, tanto che lo stesso Tegnell ha ammesso che la situazione negli ospizi svedesi è “preoccupante” e ne vanno al più presto “chiarite le cause”.

24 aprile 2020 - Messaggio a Zingaretti

Togati&istituzioni malate - nessun dubbio su chi è che scarcera i 'ndranghetisti e affini


Sostengono che all’ombra della pandemia la mafia possa radicalizzarsi sul territorio

Gratteri e Maresca, magistrati antimafia, minacciati sul web dai parenti dei detenuti al 41 bis 

BY LA REDAZIONE | 23 APRILE 2020

Due magistrati antimafia sono bersagliati sui social network da minacce espresse da gruppi di odio, si tratta di dei magistrati più esposti: il napoletano Catello Maresca (attuale sostituto procuratore generale a Napoli, dopo oltre dieci anni in Dda e nel pool antiterrorismo) e il procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri.

Pare che dietro quelle minacce, quegli insulti, ci siano i parenti dei detenuti al 41 bis – che nella imminente e scarcerazione del congiunto detenuto, dovuta al decreto Cura Italia che dispone il passaggio ai domiciliari per quei carcerati affetti da malattia, dunque sensibili al contagio del covid 19 – non gradiscono la particolare attenzione sulle mafie da parte di Gratteri e Maresca, specie da quando è scattata l’emergenza coronavirus.

Secondo Catello Maresca, infatti, dietro gli scontri di inizio marzo nelle carceri italiane, ci sarebbe l’esigenza, da parte dei detenuti, di garantirsi canali di comunicazione con il mondo esterno, ovvero, tablet per i contatti Skype. Vale a dire strumenti poco tracciabili e perfino più sicuri e discreti dei colloqui in carcere, bloccati nel timopre di un contagio. Attraverso il nuovo metodo di rapportarsi con l’esterno, a detta di Maresca, anche i detenuti in regime di alta sicurezza sono così tornati a riappropriarsi del potere criminale, dettando ordini, strategie. Le mafie, dunque, uscirebbero rafforzate da questa situazione.

Infine, per il magistrato napoletano, l’emergenza si può affrontare facendo sì che gli istituti penitenziari si adeguino predisponendo al loro interno presidi sanitari specifici per la cura del coronavirus. Niente scarcerazioni, dunque, dettate dalla necessità sanitaria del momento.

Anche Nicola Gratteri ritiene errate le scarcerazioni, ma si sofferma sul rischio che la pandemia in atto possa generare, attraverso gli aiuti da parte della mafia alle famiglie in difficoltà, un consenso e un radicamento economico nel territorio del crimine organizzato.

E' guerra vera è guerra totale, niente illusioni - é chiaro dove si è posizionata l'Australia

ESTERI
Giovedì, 23 aprile 2020 - 15:53:00
Tensioni Usa e Australia-Cina in Mar Cinese Meridionale
Una nave da guerra australiana sta conducendo esercitazioni nel Mar Cinese Meridionale insieme con navi della marina Usa


Crescono le tensioni tra Usa e Australia-Cina nel Mar Cinese Meridionale

La Cina è ferma sulla posizione di salvaguardare la propria sovranità, i propri diritti e i propri interessi nel Mar Cinese Meridionale. Nonostante la posizione contraria della Corte Internazionale di Arbitrato, l'aria reclamata da diversi paesi della regione, Vietnam, Taiwan, Malaysia, Brunei, e le Filippine, è ritenuta dalla Cina territorio proprio. A quanto riferisce oggi la stampa una nave da guerra australiana sta conducendo esercitazioni nel Mar Cinese Meridionale insieme con navi della marina Usa, segnando un inasprimento delle tensioni con la Cina, a riportare la notizia della stampa australiana è l'agenzia Ansa.

Una portavoce della marina australiana ha confermato che la HMAS Parramatta e' impegnata da due mesi in un "esteso dispiegamento" attraverso il sud e il sud-est asiatico per "aiutare a rafforzare la stabilita' e la sicurezza della regione", sottolineando che "l'Australia ha mantenuto un robusto programma di coinvolgimento internazionale con paesi nel Mar Cinese Meridionale e attorno ad esso". 

"Durante le esercitazioni di passaggio, le navi hanno raffinato l'interoperabilita' tra le marine australiana e Usa, con manovre marittime e di comunicazione", ha precisato. Da gennaio, quando ha cominciato a diffondersi l'epidemia di coronavirus, il governo e in particolare la guardia costiera della Cina affiancata dalle milizie marittime, hanno continuato a solcare le acque contestate, confrontandosi con agenzie marittime regionali e ostacolando i pescherecci. Lo scorso weekend il governo di Pechino ha annunciato di aver formalmente stabilito due nuovi distretti nel Mar Cinese Meridionale che includono decine di isolette a scogliere coralline contestate".

Coprendo una superficie di circa 3.500.000 km² è la terza porzione di mare più grande al mondo dopo i cinque oceani, il Mar dei Coralli ed il Mar Arabico. È delimitato a nord dalla costa meridionale della Cina e dallo stretto di Formosa, ad est dalle Filippine, a sud-est dal Borneo e dallo stretto di Karimata e ad ovest dalla penisola dell'Indocina.

Il pubblico deve ricominciare a investire

La Stella polare per ripartire come nell'Italia del Dopoguerra

di Guido Salerno Aletta* - Milano Finanza
20 aprile 2020

Una Stella polare. Per guidare la ripresa del Paese, occorre una strategia chiara: ad un medesimo tempo, come si fece già in Italia nel Dopoguerra, si deve abbattere il debito pubblico esistente, stavolta immettendo liquidità nel sistema bancario, e riportare il risparmio delle famiglie verso l’economia reale.

Solo tenendo fermo il timone del Carro, questo tirerà dritto e le ruote dell’economia torneranno a girare veloci.

Qe per le Imprese - Abbattere il debito pubblico immettendo liquidità nel sistema bancario.

Non è il maggior debito pubblico, il volano principale da attivare per la ripresa economica. Non convincono, quindi, le mozioni degli affetti, gli appelli alla sottoscrizione patriottica di emissioni straordinarie.

Già nel Dopoguerra, il debito pubblico ereditato da quella infausta ventura venne abbattuto in termini reali con una fiammata inflazionistica, allora ritenuta assai preferibile rispetto ad un prelievo patrimoniale.

Le iniziative in corso da parte della Bce devono essere colte al volo, modificandole adeguatamente, per monetizzarne una ben cospicua quota di debito pubblico, immettendo nuova liquidità nell’economia reale, non sui mercati finanziari. Nessun valore sarà sostenibile per gli asset quotati, nonostante le manovre di sostegno da parte delle Banche centrali, se l’economia reale non tornerà ad essere vigorosa.

Stavolta si tratta di immettere nuova liquidità nel sistema bancario a fronte del ritiro definitivo dei titoli di Stato da questo detenute. La Bce deve rinunciare al signoraggio sulla liquidità corrispondente, da destinare al finanziamento dell’economia reale.

Deve essere direttamente la Banca d’Italia, stavolta, a gestire questa componente del Pepp (Pandemic Emergency Purchase Program) già deciso dalla Bce, ed in via di ulteriore ampliamento. Il debito pubblico in circolazione va dunque abbattuto, in ragione del 20% del pil, in ciascun Paese dell’Eurozona.

Dobbiamo uscire dalla crisi con un rapporto debito/pil invariato: questa è l’unica solidarietà europea possibile, realistica e praticabile. Non serve modificare i Trattati, non serve ricorrere al Mes, non serve una emissione comune di Recovery Bond da parte della Unione europea. Occorre solo coordinare la politica monetaria con quella fiscale.

Riducendo le detenzioni bancarie di debito pubblico, soprattutto in Italia, con il Qe per le Imprese si migliora anche il rating degli istituti e si avvia quel processo di riduzione del rischio da debito sovrano che su di esse incombe, e che da tempo è auspicato.

Vanno però cambiate le modalità di immissione della liquidità: le aste devono essere effettuate a livello nazionale, da parte di ciascuna Banca centrale, ritirando unicamente i titoli di Stato detenuti dalle banche sottoposte alla loro rispettiva giurisdizione. Si eviterà così il paradosso cui abbiamo assistito in questi anni per la modalità di gestione accentrata delle aste del Qe sulla Piazza di Francoforte, con la Banca d’Italia che iscriveva in continuazione i titoli di Stato che venivano acquistati all’attivo del proprio bilancio, mentre la liquidità del suo passivo fluiva direttamente all’estero peggiorando il saldo dell’Italia nel sistema di pagamenti Target 2.

Per quanto riguarda gli acquisti di titoli di Stato operati finora dalla Bce, nel complesso, alla data del 13 aprile scorso, le detenzioni di titoli di Stato della Banca d’Italia derivate dalla attivazione dei Qe (principalmente attraverso il PSPP – Public Sector Purchase Program) ammontavano a 382,5 miliardi di euro. L’ammontare complessivo di acquisti di titoli del debito pubblico, nell’eurozona, è stato invece pari a 2.262 miliardi di euro.

Le Banche italiane, alla fine del terzo trimestre del 2018, detenevano titoli di Stato italiani a medio e lungo termine per 317 miliardi di euro: è una cifra che si avvicina al 18% del pil di quell’anno. Ed è questa, grosso modo, la cifra cui si dovrà avvicinare per l’Italia l’ammontare degli acquisti da gestire sulla base del Qe per le Imprese, rimodellando ed ampliando il Pepp già in corso, e su cui c’è l’intenzione da parte della Bce di insistere rispetto ai 750 miliardi già previsti fino alla fine dell’anno in corso.

In pratica, considerando per l’Italia un importo complessivo di nuova liquidità per 300 miliardi di euro, da destinare unicamente al settore bancario, ci si avvicinerebbe al 20% del pil. Questo importo sarebbe destinato per due terzi al finanziamento delle imprese e solo per un terzo alla copertura delle maggiori emissioni nette derivanti dall’incremento del deficit pubblico per l’anno in corso. In pratica, nel portafogli delle banche italiane, le detenzioni di titoli pubblici dovrebbero ridursi ad una ottantina di miliardi di euro.

La liquidità aggiuntiva incassata dalle banche italiane, verrebbe obbligatoriamente destinata, per 250 miliardi di euro, al finanziamento delle imprese e per le sole operazioni relative alle attività produttive localizzate in Italia. Si riprenderebbero i vincoli di destinazione produttiva già più volte introdotti dalla Bce con le Ltro (Long Term refinancing operation), ma con una differenza fondamentale: in questo caso, non si tratterebbe dei finanziamenti a termine, a tre anni, a fronte di collaterali offerti dalle banche: una duplice condizione che ha sempre fortemente pregiudicato sia la efficacia per le imprese delle operazioni di Ltro che la capacità delle banche di offrire a tal fine validi collaterali.

Non casualmente, l’art 7 del decreto legge Salva Italia, il primo provvedimento d’urgenza varato dal governo Monti, compì una autentica acrobazia finanziaria: le banche italiane erano autorizzate ad emettere titoli obbligazionari, su cui lo Stato forniva la propria garanzia sovrana, che sarebbero serviti alle banche stesse come collaterali necessari per ottenere la liquidità da parte della Bce. Con questa liquidità, ottenuta dalla Bce pagandola un niente, le banche si comprarono i titoli di Stato italiani che fruttavano loro ricchi interessi. Anche se lo Stato italiano incassava regolarmente il prezzo fissato per fornire alle banche la sua garanzia, queste si sistemavano alla meglio i bilanci mentre le aziende fallivano. Non è questo il meccanismo, paradossale, che ora va riprodotto.

Un ulteriore vantaggio del Qe per le Imprese risiede nel fatto che la nuova liquidità per le banche non deriva dalla necessità di smobilizzare altri asset che, in questo momento, potrebbe determinare minusvalenze rilevanti.

Sui finanziamenti bancari alle imprese, agevolati dalla nuova liquidità, ben si potrebbe appoggiare la garanzia pubblica di cui si discute, ma senza apporre scadenze di sorta. Il finanziamento dovrebbe essere commisurato in percentuale all’ultimo fatturato, ed essere concesso a tempo indeterminato, fino alla chiusura della attività, senza prevederne la restituzione a termine.

Detassare gli apporti di risparmio al capitale produttivo

Il tanto invidiato patrimonio delle famiglie italiane, le cui attività finanziarie ammontavano nel 2018 a 4.190 miliardi di euro a fronte di passività per appena 941 miliardi, deve tornare al centro del sistema produttivo. Ma deve ritrovare la convenienza legale e fiscale per rimetterlo in moto.

E’ il momento di ribaltare le convenienze: occorre riportare la ricchezza delle famiglie verso gli impieghi nell’economia reale. Da troppo tempo si privilegia l’impiego finanziario, soprattutto all’estero, anziché l’investimento direttamente produttivo.

E’ la nostra stessa Storia che ci insegna come fare, perché è già stato fatto, assai bene e con risultati duraturi. L’Italia del Dopoguerra non fu ricostruita aumentando la spesa pubblica, né finanziandola con nuove tasse né ricorrendo al deficit, ma mobilitando il risparmio privato, silente ed inoperoso. La ricostruzione del patrimonio immobiliare, la realizzazione delle case di “civile abitazione” che sono ancora oggi rappresentano un fattore di enorme stabilità del nostro sistema sociale, fu agevolata fiscalmente, garantendo in cambio di quell’impiego finanziario una esenzione venticinquennale dalle imposte. Lo stesso bisogna fare oggi.

Occorre rendere fiscalmente conveniente, e soprattutto stabile nel tempo, il vantaggio derivante da ogni nuovo apporto finanziario che venga effettuato dall’imprenditore che abbia una partita Iva e dai soci dell’impresa: va disposta la completa defiscalizzazione dalle imposte sul reddito personale e di impresa, per la durata di dieci anni e per un importo pari a dieci volte gli utili, a condizione che questi siano reinvestiti e non vengano distribuiti.

Serve un meccanismo fortemente premiale, che lasci ampia libertà di scelta, ma che incentivi la destinazione delle risorse personali allo sviluppo della impresa.

Bisogna tornare a produrre. Occorre risolvere la contraddizione dell’Italia, che un po’ tutti ormai ci rimproverano: quella di essere diventata un Convento povero, abitato da Frati ricchi e tirchi. Il tempo dei rentier è finito.

venerdì 24 aprile 2020

24 aprile 2020 - SIAMO TUTTI NELL’ESPERIMENTO DI STANFORD? – Adriano Zamperini #Byoblu24

Siamo in una enorme narrazione basate su piccole verità e su enormi fake news da parte del circo mediatico delle istituzioni dagli esperti, ci hanno messo in trappola

Adesso, davvero, basta!

Comunicato AMPAS del 21/4
di Medicina di Segnale


Con serenità, ma anche con determinazione, i medici del gruppo della medicina di segnale (735 iscritti all’AMPAS, la nostra associazione, di cui tanti impegnati in prima linea), preoccupati per le possibili derive autoritarie in atto, desiderano fare chiarezza circa la possibilità che siano lesi dei diritti costituzionalmente garantiti per i cittadini.

1. Lesione libertà costituzionalmente garantite

In questo periodo sono stati gravemente lesi alcuni diritti costituzionali (la libertà di movimento, il diritto allo studio, la possibilità di lavorare, la possibilità di accedere alle cure per tutti i malati non-Coronavirus) e si profila all'orizzonte una grave lesione al nostro diritto alla scelta di cura. Tutto questo in assenza di una vera discussione parlamentare, e a colpi di decreti d’urgenza. Ci siamo svegliati in un incubo senza più poter uscire di casa se non firmando autocertificazioni sulla cui costituzionalità diversi giuristi hanno espresso perplessità, inseguiti da elicotteri, droni e mezzi delle forze dell’ordine con uno spiegamento di forze mai visto neppure nei momenti eversivi più gravi della storia del nostro paese.

Ora sta entrando in vigore un’app per il tracciamento degli spostamenti degli individui, in patente violazione del nostro diritto alla privacy, e che già qualcuno pensa di utilizzare per scopi extrasanitari.

Ma tra le lesioni più gravi ai nostri diritti costituzionali spicca quella legata al diritto di scelta di cura, ben definito sia nella costituzione che nel documento europeo di Oviedo. Noi medici siamo colpevoli di non aver adeguatamente contrastato, due anni fa, una legge che toglieva al pediatra di fatto ogni dignità e autonomia decisionale.

Ricordiamoci che una lesione di diritti non giustificata è sempre la premessa ad altre possibili lesioni.

2. Conflitti di interesse

Gli attori “scientifici” della redazione e della promozione della citata legge Lorenzin non sembrano essere molto diversi dai “consulenti” dell’emergenza di oggi.

Ci chiediamo se le informazioni provenienti dalle figure che operano come consulenti del Ministero della Salute siano diffuse con la comunicazione dei conflitti di interesse che essi possano avere con aziende del settore. Non sarebbe etico né lecito avere consiglieri che collaborano con grandi aziende farmaceutiche.

Sempre in tema di conflitto di interessi: è stato il Parlamento a stabilire i componenti della Task force costituita recentemente per affrontare la cosiddetta fase2? Sono presenti possibili conflitti di interesse? Tali soggetti pare abbiano chiesto l’immunità dalle conseguenze delle loro azioni. Ma non dovrebbero essere figure istituzionali a prendere “decisioni” sul futuro del nostro paese? Una cosa è la consulenza, altro è decidere “in nome e per conto”. Con quale autorità?

3. Libertà di espressione e contraddittorio

Il giornalismo dovrebbe essere confronto di idee, discussione, valutazione di punti di vista diversi. Ci chiediamo quanto sia garantita la libertà di espressione anche di professionisti che non la pensano come noi. Vediamo invece giornalisti che festeggiano la “cattura” di un povero runner sulla spiaggia da parte di un massiccio spiegamento di forze, e la sistematica cancellazione di ogni accenno a diversi sistemi di cura rispetto alla “narrazione ufficiale” del salvifico vaccino, si tratti di vitamina C o di eparina, in totale assenza di contraddittorio.

In questo quadro intossicato, le reti e i giornali maggiori mandano in onda continuamente uno spot, offensivo per l’intelligenza comune, in cui si ribadisce a chiare lettere che la loro è l’unica informazione seria e affidabile: il resto solo fake. Viene così creata l’atmosfera grazie alla quale si interviene su qualunque filmato, profilo social, sito internet che non si reputi in linea con la narrazione ufficiale. Nessuna dittatura può sopravvivere se non ha il supporto di una informazione asservita.

4. Vaccino: soluzione a tutti i mali?

Tutti aspettano come una liberazione il nuovo vaccino (che giornalisti e virologi a senso unico continuano a vantare come l’unica possibile soluzione), dimenticando alcuni fatti. Il primo è che il vaccino viene sviluppato sulla base delle proiezioni teoriche sui virus in circolo l’anno precedente, e dunque è una “scommessa” (è esperienza comune ad ogni inverno che molte persone vaccinate si ammalino comunque). Il secondo è la continua forte variabilità di un virus a RNA come il Coronavirus, di cui pare esistano già diverse varianti. Ciononostante, in dispregio anche del rischio di interferenza virale (per cui il vaccino per un virus diverso può esacerbare la risposta ad un altro virus) la regione Lazio propone l’obbligatorietà per tutti i sanitari e tutti gli over65 di effettuare vaccinazione antinfluenzale ordinaria, violando ancora una volta (se l’obbligo fosse reale) il diritto costituzionale alla scelta di cura. E i difensori della costituzione, muti. Facile immaginare cosa succederà non appena sarà reso disponibile, con iter accelerati e prove di sicurezza minimali, il nuovo vaccino salvavita. Da medici vogliamo ribadire l’importanza del rispetto della libertà di scelta di cura così come costituzionalmente definita.

5. Bambini e movimento fisico

Una nota è necessaria per capire la gravità della situazione anche per quanto concerne movimento fisico e chiusura in casa dei nostri bambini. La stessa OMS si è pronunciata nel merito raccomandando l’uscita all’aria aperta e il movimento fisico come indispensabili presidi di salute e di sostegno immunitario. Quasi tutti gli altri paesi europei hanno consentito l’uscita in solitaria per fare sport e la passeggiata con i bambini. Noi no. Con una regola di incredibile durezza, venata di un inaccettabile paternalismo (“se li lasciamo liberi poi non sono capaci di stare distanti”) abbiamo creato disagi psicologici e fisici (obesità e sedentarietà) e costretto a salti mortali i pochi obbligati al lavoro (sanitari, agricoltori, trasportatori, negozi alimentari).

Non possiamo inoltre non rimarcare la totale disattenzione di questi draconiani provvedimenti nei confronti delle famiglie con figli disabili (e in particolare autistici) per i quali il momento quotidiano di uscita all’aria aperta rappresenta un indispensabile supporto alla propria difficile condizione. I più fragili, come sempre, pagano il pedaggio più duro.

Tutto ciò non bastasse è stata scatenata la guerra del sospetto e della delazione tra gli invidiosi delle libertà altrui.

Come lucidamente scrive Noam Chomsky, mettere i propri sudditi uno contro l’altro è uno splendido sistema per qualunque dittatura per distrarre il popolo da quello che veramente il potere sta perpetrando a suo danno.

L’intervento di squadre di polizia con quad ed elicotteri ad inseguire vecchietti isolati sui sentieri non fa che rafforzare l’idea di poter essere tutti sceriffi, a dimostrazione della perfetta riuscita di induzione della psicosi da parte del potere.

6. Danni economici del lockdown: un disastro epocale

Alcuni comparti, come quello del turismo, della ristorazione o automobilistico hanno avuto riduzioni di fatturato vicine al 100%. Questo significherà, come dicono le prime stime, una decina di milioni di disoccupati. Che smetteranno di pagare i mutui in corso. Smetteranno di acquistare beni di consumo. Perderanno le loro attività o le loro aziende costruite in decenni di sacrifici. Noi medici sappiamo cosa significhi questo a livello sanitario: migliaia e migliaia di nuovi decessi. Persone che si ammaleranno, si suicideranno (le prime avvisaglie sono già visibili), ritireranno i propri risparmi in banca. Serve ripartire subito, tutti, senza tentennamenti. Per ridurre i danni, che comunque, anche si ripartisse oggi, saranno epocali. Se domani si dovesse scoprire che qualcuno ha surrettiziamente prolungato il lockdown italiano (ad oggi il più duro d’Europa) per mantenere alto il panico e trovare un ambiente più pronto all’obbligo vaccinale, ci auguriamo solo che la giustizia possa fare il suo corso con la massima durezza. La gente perde il lavoro e muore di fame, e lorsignori pontificano.

7. Le cure

Anche qui l’argomento è imbarazzante. È comprensibile che un virus nuovo possa spiazzare anche i migliori medici per qualche tempo. Ma via via che le informazioni si accumulano occorrerebbe ascoltare coloro che sul campo hanno potuto meglio capire. Un gruppo Facebook di cui molti di noi fanno parte, nato spontaneamente come auto aiuto, e che conta circa 100.000 iscritti, ha elaborato delle raccomandazioni di cura efficaci poi inviate al ministero.

Oggi che pare chiaro e assodato che il decesso avvenga a causa di una forte coagulazione intravascolare molte vite possono essere salvate con l’uso della semplice eparina. Ma non basta: servono anche attenzioni specifiche a seconda del timing della malattia: ai primi sintomi, ai primi aggravamenti, o in fase procoagulativa. In particolare a noi medici di segnale risulta difficile comprendere l’uso massivo di paracetamolo o di altri antipiretici una volta acclarato che la febbre è un potente antivirale per l’organismo. È in preparazione un documento interassociativo anche su questo delicato argomento che merita più ampia trattazione.

Ove qualcuno, tuttavia, si permetta di ritardare l’adozione di sistemi di cura efficaci, per motivi meno che chiari (e alcuni interventi televisivi volti a screditare l’eparina sembrano andare in quella direzione) si aspetti reazioni forti da chi ha rischiato la propria vita in prima linea.

La magistratura sta ora indagando sui gravi errori commessi in alcune regioni nella gestione delle residenze per anziani, veri e propri focolai d’infezione con purtroppo un numero elevatissimo di decessi, stante la fragilità e la polimorbilità degli ospiti, quasi sempre in trattamento con statine, antipertensivi, analgesici, antidiabetici. Al di là delle responsabilità regionali, che la magistratura valuterà, preme fare dei numeri: dei 22000 decessi totali nazionali ben 7000 (il 30%!) sono di degenti in RSA. Un dato sconvolgente, ma che deve farci riflettere sull'incremento importante dei decessi in alcune province.

Gli errori fatti, in buona o cattiva fede, sono costati la vita a più di 100 medici e ad un alto numero di altri operatori sanitari che sono stati mandati allo sbaraglio senza un piano preciso e senza i necessari dispositivi di protezione. A loro va la nostra più profonda gratitudine.

8. Test sierologici ritardati o non autorizzati

Uno dei modi per capire quante persone hanno già incontrato il virus (smettiamo di chiamarli “contagiati”, perché talvolta hanno avuto solo lievi sintomi influenzali e prodotto splendidi anticorpi) è quello di effettuare un test sierologico, che è di costo contenuto e che evidenzia malattia in corso (IgM+) o malattia superata e presenza di anticorpi memoria (IgG+). Chi sia IgG+ potrebbe già serenamente ricominciare a muoversi senza particolari cautele né per sé né per gli altri. Sensibilità e specificità di questi test sono altissime a differenza di quelle dei tamponi. Perché tanta ostilità da parte di governo e istituzioni sanitarie tanto da vietarne l’uso “fino ad approvazione di un test affidabile”? I casi di Ortisei (45% di positivi) e di Vò Euganeo (75%) ci dicono che probabilmente il virus si è già diffuso molto più di quanto pensiamo e che le misure in essere potrebbero non essere poi così necessarie, almeno in alcune zone d’Italia.

9. Qualche numero

Vi prego risparmiateci il teatrino delle 18. Quei numeri non sono affidabili e fanno parte di una consumata regia. A fianco di Borrelli sfilano talvolta alcune figure i cui potenziali conflitti d’interesse non vengono mai dichiarati.

Il numero dei “contagiati” è privo di senso, visto che dipende dal numero di tamponi effettuato. E la stragrande maggioranza della popolazione potrebbe già avere incontrato il virus senza saperlo. Stime della Oxford University parlano di 11 milioni di potenziali positivi già ora. Se questo dato fosse vero la letalità di Sars-Cov2 sarebbe veramente irrisoria: lo 0,05%, anche prendendo per veri i dati di mortalità. Ma anche su questi permane il terribile dubbio sui decessi PER e CON Coronavirus. Diverse testimonianze mettono in forte dubbio il dato, visto che ogni giorno in Italia ci lasciano circa 1900 persone (dati ISTAT) e non si fa fatica ad estrarne 400, tra questi, che siano anche positivi al virus. Tuttavia è dato chiaro a chi lavori in prima linea che la grave coagulazione intravascolare indotta dall’incontro tra il virus e un terreno per lui fertile (età media decessi 78 anni, media 3,3 patologie presenti) possa portare rapidamente alla morte individui fragili che tuttavia avrebbero volentieri vissuto qualche anno ancora. In Inghilterra hanno rilevato che che il 73% dei pazienti ricoverati in Terapia Intensiva per CoronaVirus è sovrappeso o obeso. Come dice il dr. Lustig: “Il virus non distingue chi infetta ma distingue benissimo chi uccide”.

Questi pazienti fragili comunque avrebbero preferito morire tra le braccia dei loro cari piuttosto che da soli in questo modo terribile.

In altri paesi hanno usato modalità di calcolo diverse. Non potremmo chiedere dati più precisi e affidabili evitando di diffondere panico e preoccupazione?

10. Altri Paesi europei e non: lockdown molto diversi

Altri paesi sia in Europa che nel mondo stanno adottando lockdown parziali molto meno rigidi di quello italiano, tanto che il lockdown completo viene ormai tristemente chiamato “all’italiana”. Eppure abbiamo il problema da prima di tutti gli altri e ci stanno facendo credere che lo chiuderemo buoni ultimi. Per colpa dei runner e dei bimbi a passeggio, ovviamente. Peccato che in molti paesi europei la passeggiata di adulti e bambini, la gita al mare, l’accesso alle seconde case sia quasi ovunque consentito, a patto di mantenere il distanziamento sociale. Ma non eravamo nell’Europa unita? Perché questa crudeltà nella sola Italia? Siamo ancora il paese cavia? Richiediamo con forza di allinearci al più presto alle direttive in essere nella maggior parte dei paesi europei.

11. Sostegno al sistema immunitario: i sani proteggono

Un punto chiave, che è sfuggito totalmente ai nostri governanti e ai nostri media è che i sani (quell’85% delle persone che ha incontrato il virus e nemmeno se ne é accorto, o ha subito lievi sintomi, costruendo presto gli anticorpi necessari) conducono uno stile di vita più sano che ne ha irrobustito e forgiato il sistema immunitario. Mangiare sano, fare sport quotidiano, condurre una vita meno stressante (magari abitando fuori città), assumere vitamine e integratori naturali, fare a meno di farmaci inutili, rinunciare a fumare, a drogarsi o a bere senza controllo, rappresenta un impegno che si vorrebbe vedere in qualche modo valorizzato come comportamento virtuoso quantomeno in relazione al risparmio che consente al sistema sanitario nazionale e, in questo caso, alla protezione dalla diffusione del virus e alla non occupazione di un posto letto, lasciato così libero per un altro.

Invece se accendiamo la TV vediamo solo pubblicità di farmaci e di dolciumi. E tra i pochissimi negozi aperti, in pieno lockdown, lo stato ha pensato bene di lasciare le tabaccherie. Fuma, riempiti di dolci, stai sedentario e ingozzati di farmaci: questo il messaggio che lo stato ci ha dato in questo periodo. Tanto, presto, arriverà il vaccino.

12. Le richieste

Consapevoli del fatto che il futuro sarà nuovo e diverso solo se capiremo che la nostra biologia non ci consente di vivere in città superaffollate, inquinate, fumando, drogandoci e mangiando solo cibi industriali e raffinati in completa sedentarietà, vogliamo sperare che il “dopo emergenza” possa essere migliore del “prima”. Ma questo potrà avvenire solo se avverranno molte delle cose che siamo qui a richiedere, alcune immediate, altre a breve.

Richiediamo dunque con forza, a nome dell’associazione AMPAS e dei 735 medici che ne fanno oggi parte (nonché dei numerosi simpatizzanti non medici):
  • L’immediato ripristino della legalità istituzionale e costituzionale, richiamando il parlamento alle sue funzioni democratiche e al dibattito che necessariamente deve scaturirne.
  • L’immediata cancellazione di task force e di consulenti esterni i cui conflitti di interesse potrebbero essere letti, nel momento in cui si affidino loro responsabilità non previste istituzionalmente, come un aggiramento delle regole democratiche.
  • L’immediato ripristino del diritto al lavoro per milioni di italiani, che se non possono avere il proprio stipendio saranno presto alla fame con conseguenze prevedibili di ordine pubblico (nel rispetto delle nuove regole di distanziamento fino a che sarà necessario)
  • L’immediato ripristino del diritto allo studio per milioni di bambini, ragazzi, studenti universitari che sono stati da un giorno all’altro privati di uno dei loro diritti fondamentali (nel rispetto delle nuove regole, fino a che sarà necessario)
  • La protezione del diritto alla scelta di cura, già violato da precedenti leggi, per impedire l’obbligatorietà di ogni possibile nuovo trattamento sanitario. Ogni nuovo provvedimento emesso in emergenza dovrà obbligatoriamente prevedere una data di fine del provvedimento, al fine di non “tentare” alcuni a rendere le restrizioni alle libertà una regola.
  • Il blocco di qualunque “app” o altro dispositivo informatico volto al controllo dei movimenti delle persone in palese violazione della nostra privacy.
  • L’immediata riapertura della possibilità per adulti e bambini di uscire all’aperto a praticare sport, passeggio, vita sociale, seppur nel rispetto delle regole necessarie.
  • Il ripristino immediato di una par condicio televisiva o mediatica, con ospitalità nelle trasmissioni di esponenti, ovviamente qualificati, di diversi punti di vista, con allontanamento immediato (o retrocessione a mansioni diverse) di conduttori che non abbiano saputo tener fede al loro dovere di giornalisti.
  • Dichiarazione dei propri conflitti di interesse da parte di qualunque professionista sanitario che esprima un parere televisivo o partecipi a un dibattito. L’omissione deve essere punita con un allontanamento mediatico proporzionato. Lo spettatore deve sapere se chi sta parlando riceve milioni di euro da un’azienda, o meno.
  • Il divieto di chiudere o cancellare siti o profili social in assenza di gravi violazioni di legge. Eventuali cancellazioni dovranno comunque essere tempestivamente notificate e giustificate. La rimozione di idee ed opinioni solo perché diverse dal mainstream ufficiale non è degna di un paese civile.
  • Il divieto per le forze dell’ordine di interpretare a propria discrezione le regole di ordine pubblico fissate dai decreti. Qualunque abuso, anche minimo, dovrà essere perseguito.
  • Il divieto di radiazione di medici per la sola espressione di idee diverse da quelle della medicina ordinaria. Da sempre il dialogo e il confronto tra idee diverse ha arricchito la scienza, che cambia e si evolve. Non sopravvalutiamo le nostre attuali misere conoscenze.
  • L’attivazione tempestiva di nuovi protocolli di cura in tutti gli ospedali Covid19 che, oltre a garantire la salute del personale sanitario, prevedano l’utilizzo di vitamine, minerali, ozonoterapia e tutte le cure naturali e di basso costo efficaci e documentate, accompagnando via via con farmaci più a rischio di effetti collaterali solo in caso di aggravamento, e attivando solo per la fase di crisi o pre-crisi l’utilizzo dei farmaci immunosoppressori e dell’eparina.
  • La disponibilità immediata e per tutta la popolazione di test sierologici IgM e IgG che possano consentire da subito sia di monitorare lo stato di diffusione del virus nelle diverse aree, sia dare la possibilità a chi sia IgG+ di riprendere la propria vita senza alcuna limitazione.
  • In una ipotesi di graduale diffusione dell’immunità virale, particolare attenzione dovrà essere riservata alla popolazione fragile: anziani, obesi, ipertesi, diabetici, infartuati (le categorie più colpite). Nel rispetto del diritto di scelta di cura nessun obbligo potrà essere dato se non temporaneamente, ma solo forti raccomandazioni e informazioni dettagliate sui rischi di infezione. Un individuo fragile deve poter scegliere se rischiare di morire abbracciando il suo nipotino, o restare vivo recluso in casa senza vedere nessuno.
  • Una forte campagna informativa sui rischi legati ad un cattivo stile di vita e su come tale stile aumenti il rischio di essere infettati. O vogliamo essere costretti a tenere le mascherine tutta la vita e a non poterci più abbracciare per consentire a qualcuno di fumare e di gonfiarsi di farmaci e di merendine zuccherate, disdegnando qualsiasi tipo di movimento fisico? Ciascuno resterà libero di farsi del male ma almeno lo stato non potrà dirsi complice.
  • Il divieto, almeno in questo periodo, di pubblicizzare sulle reti televisive e sui giornali farmaci e prodotti dolciari ingrassanti, al pari di come già in atto con il fumo.
  • Un aiuto immediato alle tante famiglie in crisi che a causa di questo lockdown totale hanno smesso di lavorare e di produrre reddito, con modalità molto semplici (ad esempio ticket a valore per acquisti di derrate alimentari). L’aiuto migliore per le aziende, invece dell’elemosina, sarà una tempestiva riapertura.

Agenda del covid-19

Per non dimenticare

di Giancarlo Scarpari
24 aprile 2019


Il 31/12/2019 la Commissione sanitaria di Wuhan segnalava all’OMS l’esistenza, in quella località della Cina, di casi “di polmonite ad eziologia sconosciuta”; il 9/1/2020 l’origine del morbo veniva identificato in un nuovo “coronavirus correlato a quello della Sars” ed analoghi episodi venivano segnalati anche in Thailandia, Giappone e Corea del Sud; il Centro Europeo per la prevenzione ed il controllo delle malattie (ECDC), confermando quelle notizie,riteneva peraltro “moderato” il rischio che quel morbo potesse diffondersi in Europa.

Il 22 gennaio, tuttavia,in Italia, con una circolare inviata, tra gli altri, alle Regioni ed a taluni ordini dei medici, il ministro della Salute Speranza forniva una serie di indicazioni sul nuovo coronavirus, prescrivendo all’occorrenza, da parte dei sanitari, l’uso di “mascherine a protezione facciale” (quelle chirurgiche) e, in certi casi, di quelle “a protezione rinforzata” ( quelle denominate FFP2).

Il 30 gennaio L’OMS comunicava che era in atto un’ “epidemia prodotta dal nuovo coronavirus” e dichiarava lo stato di emergenza globale; lo stesso giorno, due turisti cinesi in viaggio in Italia venivano riconosciuti “positivi” al virus e ricoverati in gravi condizioni in un ospedale romano.

Da allora, dunque, la notizia del morbo e della sua capacità infettiva diviene ufficiale e fa il giro del mondo, suscitando reazioni differenti. Non nasconde la sua soddisfazione il Segretario al Commercio americano Wilbur Ross, che il 31 gennaio annuncia che l’epidemia produrrà “un’accelerazione dei ritorni dei posti di lavoro negli USA”; i media dei paesi europei, preoccupati soprattutto della Brexit e delle sue conseguenze, si limitano a sottolineare che gli stranieri fuggono dalla Cina; il governo italiano, già dal 30 gennaio, con una delibera del Consiglio dei ministri, dichiara a sua volta lo stato di emergenza per 6 mesi, mentre il ministro della Salute blocca completamente il traffico aereo con quel lontano paese.

Il 1° febbraio la stampa informa che vi sono ormai 30 morti a Wuhan e 13 nello Hubei in quarantena, che i contagiati sono quasi 10.000 e che oltre 100.000 persone sono in osservazione (ma pure che in pochi giorni sono stati attrezzati due ospedali per circa 2.600 posti letto e che in 15 minuti il kit è in grado di fornire la diagnosi). La Repubblica e il Corriere , il 10 febbraio, annunciano che il coronavirus ha fatto già più vittime della Sars, il 15 segnalano che in Cina il contagio ha fatto vittime anche tra i medici, ma i sondaggi di Pagnoncelli indicano che gli italiani non si preoccupano più di tanto per il morbo e che invece, dopo la sconfitta di Salvini in Emilia, seguono con ansia le tensioni nel governo, le “rotture” di Renzi, tanto che il 41% degli intervistati ritiene ormai che Conte sia giunto al capolinea.

Tutte queste chiacchiere finiscono a Vo’, un paese del padovano, fino ad ora noto agli storici per essere stato, dal dicembre 1943 al maggio del 44, centro di raccolta di ebrei, inviati poi alla Risiera di San Sabba e infine ad Auschwitz; e lì abitava Adriano Trevisan, che muore il 21 febbraio 2020, prima vittima del coronavirus accertata in Italia. In paese si cerca l’untore, si punta subito su alcuni lavoratori cinesi (nei giorni precedenti , in varie parti d’Italia si erano registrati nei confronti di quegli extracomunitari episodi di razzismo), ma dopo un po’ si accerta che in realtà la fonte del contagio è indigena e la malattia è stata diffusa da uno degli amici del bar dello sfortunato Trevisan. Contemporaneamente emergono altri casi a Codogno, ad Alzano e nel Lodigiano; di lì a poco il virus dalla Lombardia si spargerà nella parte occidentale dell’Emilia, a Piacenza, a Parma e a Reggio..

Il risveglio è brusco: l’epidemia è nuova, non c’è un vaccino per farvi fronte e i cittadini si accorgono presto che non c’è neppure una scienza in grado di fornire risposte certe alle loro domande ed alle loro paure, ma solo una pluralità di scienziati – da Roberto Burioni, a Ilaria Capua, a Maria Rita Gismondo – che appaiono sui media e che formulano analisi e prognosi spesso divergenti (per non parlare dei molti “esperti”, più o meno improvvisati, che contribuiscono ad alimentare incertezza e confusione). Il governo procede con cautela: con il Decreto Legge 23/2/2020 n.6, individua il quadro dei possibili interventi (quarantene, sospensione degli eventi, dell’attività scolastica, sospensione o riduzione dei servizi di trasporto, delle attività commerciali, tranne quelle di prima necessità, e delle imprese, escluse quelle fornitrici di servizi essenziali o di pubblica utilità, ecc.) e delega per la realizzazione concreta del programma sia il Presidente del consiglio dei ministri, sia i Presidenti delle Regioni, per quanto di loro territoriale competenza; quindi Conte, con il Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri (DPCM) del 25/2, dispone le prime restrizioni, volte ad evitare le maggiori occasioni di contatto, negli stadi, nelle scuole, negli uffici giudiziari, sui luoghi di lavoro, ecc. restrizioni valide per tutte le Regioni del Nord interessate dal contagio.

L’emergenza crea istituti giuridici nuovi (il decreto legge che moltiplica strumenti attuativi ad opera di diverse autorità locali non è previsto dalla Costituzione), ma si fonda sulla”necessità” di inseguire ogni giorno gli sviluppi di una epidemia sconosciuta (che si espande a velocità imprevista, creando sempre nuovi focolai) e tiene conto dell’articolazione tra poteri dettata dalla “concorrenza” normativa Stato-Regioni, stabilita dal discusso art. 120 Cost. Senonchè questo provvedimento, lungi dal garantire il coordinamento tra il centro e la periferia, viene ben presto utilizzato dall’opposizione per sviluppare una guerriglia mediatica con Conte e il suo governo e trasformare l’emergenza sanitaria in emergenza politica.

Comincia l’ex Capitano che, volendo polemizzare ogni giorno con le decisioni dell’ex alleato, finisce in un inedito testa-coda: il 21 febbraio, quando muore Trevisan, sostiene che bisogna “chiudere, blindare, sigillare” tutto; quando, una settimana dopo, la Confcommercio invita i cittadini a consumare (prenotate viaggi, riempite i ristoranti) e la Confindustria di Bergamo spinge gli operai a continuare a lavorare (“Bergamo is running”), Salvini si associa prontamente al coro: “riaprire, rilanciare fabbriche, discoteche, centri commerciali”. Non sarà il solo, perché subito il sindaco Sala e Zingaretti lo seguono a ruota (“Milano non si ferma”). Presto, in quelle terre, si sarebbero viste le conseguenze di tanto entusiasmo.

Nel weekend successivo, infatti, malgrado le disposizioni dei DPCM promuovessero chiusure e isolamento, intere famiglie di sciatori, provenienti dalla Lombardia e dal Veneto, festeggiavano l’ultima nevicata sulle piste della Val di Scalve e del Trentino; allora Conte , col DPCM dell’8/3, visto che il contagio aveva già prodotto 5 mila malati, creava “zone rosse” in diciannove province della Lombardia, nonché in quelle di Venezia, Padova e Treviso, suscitando una levata di scudi da parte dei Presidenti di quelle Regioni.

Insorgeva subito Zaia, offeso per “l’insulto” arrecato all’eccellenza della sanità veneta, che chiedeva l’immediato stralcio delle “sue” tre province dalla zona rossa, dato che il locale Comitato scientifico aveva assicurato che il contagio era “circoscritto” e giudicato quella misura “ sproporzionata”; e sulla sua scia i Presidenti degli industriali di Padova e Treviso chiedevano le immediate dimissioni di Conte per incapacità, invocando il varo di un “governissimo” (di lì a poco, malgrado le previsioni, Treviso e Padova registreranno il massimo picco di contagi e di decessi di tutto il Veneto).

Fontana, dal canto suo, attaccava Conte per le ragioni opposte: avendo visto l’epidemia crescere in modo non resistito attorno a Milano, chiedeva che il governo “chiudesse tutto, tranne alimentari e farmacie”; ma avrebbe potuto farlo lui, perché sin dal 23 febbraio, come visto, quale Presidente, era stato “delegato” ad intervenire sull’intero comparto della “protezione sanitaria” regionale (evidentemente, rimanendo inerte, aveva aspettato che altri “mettessero la faccia” su scelte impopolari); e, quanto alle chiusure delle imprese, era stato proprio Fontana ad averle sottratte al richiesto rigore, avendo “delegato” la Confindustria a stabilire “la eventuale sospensione o riduzione delle attività lavorative”. Sorvolando su questi particolari ed addebitando a Conte il mancato contenimento dell’epidemia, sulla scia di Fontana l’intera destra e i media al seguito invocavano l’arrivo di un supercommissario, subito individuato nel factotum di Berlusconi, Guido Bertolaso; dalle reti Mediaset Nicola Porro veicolava la richiesta, prendendosela con “quei cialtroni di governo che non lo volevano”; e poiché l’estemporanea proposta non veniva accolta, per continuare ad alimentare opposizione e propaganda, Fontana lo nominava subito consulente della Regione da lui guidata.

Il governissimo, il supercommissario e più avanti la strumentale invocazione di Mario Draghi, tutto è stato proposto dalla destra,pur di uscire dall’ombra di una opposizione rivelatasi impotente, cui l’improvvida decisione estiva di Salvini l’aveva cacciata. Tuttavia la polemica serrata con Conte non la distoglieva dal coltivare, al tempo stesso, anche le proprie dinamiche interne. Sempre utilizzando l’occasione dell’epidemia, infatti, l’assessore al welfare lombardo di Forza Italia, Guido Gallera, “ogni giorno in trincea”, mentre illustrava in televisione il conto crescente di contagi e decessi,trovava anche il tempo di offrirsi quale candidato a futuro sindaco di Milano; e Zaia, che nel frattempo era stato nominato anche Commissario regionale all’emergenza e che poteva vantare, nel confronto della Lombardia, la maggiore resistenza al virus offerta dalla sanità veneta, si proponeva di fatto come valida alternativa ad un Salvini in calo di consensi; e, con una presenza e un attivismo continuo in tutte le tv locali, riusciva a far sì che le ombre del suo passato ( per anni silenzioso e distratto vice di Galan, poi oppositore dell’obbligo dei vaccini nelle scuole, da ultimo autore dell’improvvida uscita “i cinesi mangiano topi vivi” mentre erano in corso gli acquisti delle mascherine da quel paese) venissero in breve sommerse da un plauso generalizzato e in crescita continua.

Ma se questi erano i problemi che agitavano i partiti di opposizione, ben maggiori erano le questioni che dovevano affrontare quelli della maggioranza, che non dovevano avanzare critiche, bensì proporre ed attuare soluzioni concrete.

Certo, la situazione di partenza era stata pregiudicata dal taglio di 37 miliardi operato nell’ultimo decennio da tutti i governi succedutisi nel periodo; e se questa voragine non poteva essere addebitata esclusivamente al PD, è certo che questo partito vi aveva efficacemente contribuito, condividendo l’ideologia dominante, secondo cui anche gli ospedali pubblici dovevano essere gestiti con criteri aziendali, e cioè, nella sostanza, con accorpamenti e tagli nei servizi (mentre, contemporaneamente, ampie risorse venivano destinate dalle Regioni alla sanità privata, convenzionata e non).

In secondo luogo, ma sempre nella medesima logica, è mancata qualsiasi forma di programmazione sanitaria per fronteggiare non la pandemia del Covid 19, che non si poteva prevedere, ma anche solo una “emergenza sanitaria internazionale” (e questa già si era vista con la Sars, la Mers e da ultimo con l’Ebola). Così, dopo la sottovalutazione iniziale e constatata la mancanza di un valido vaccino, è cominciata l’affannosa ricerca di respiratori, tamponi e mascherine protettive (ricerca subito scontratasi con la concorrenza, cioè con l’accaparramento di quei prodotti scatenatosi in silenzio sui mercati internazionali); è poi partita la rincorsa volta a contenere la diffusione del morbo, coi successivi tentativi di isolare focolai e di chiudere i luoghi di “visibile” raccolta delle persone (stadi, discoteche, ristoranti, ecc.); in un secondo tempo ci si è accorti di averne dimenticati altri, quelli “invisibili” (le RSA e le case di riposo, soprattutto e poi le carceri, i conventi, ecc.); ma solo alla fine si è constatato che i focolai più attivi erano quelli sorti nelle case private, in famiglia, e soprattutto negli ospedali, che quel morbo dovevano curare (e medici ed operatori sanitari, per questo, avrebbero pagato un prezzo altissimo).

Tra ritardi, recuperi e successive limitazioni, i DCPM di Conte si sono moltiplicati fino ad imbattersi in un nodo rimasto a lungo,volutamente, sottotraccia, l“affollamento” dei lavoratori negli stabilimenti e nelle fabbriche. Il delicato e quasi impossibile equilibrio da osservare tra esigenze produttive e salute dei lavoratori veniva affrontato solo il 14 marzo, con un accordo di massima Governo-Parti sociali, che prevedeva, per tutto il territorio nazionale, distanze di sicurezza nei luoghi di lavoro, dispositivi di protezione individuali, ricorso allo smart working, ammortizzatori, ecc.; poi, con un nuovo DCPM (annunciato il 21, varato il 23 e rifinito con un nuovo decreto il 25/3, a causa delle contrapposte pressioni di datori di lavoro e sindacati), Conte disponeva la chiusura delle attività produttive e commerciali non essenziali, lasciandone attive un’ottantina di diverse tipologie, affidando ai prefetti la decisione su altre possibili eccezioni.

I riflettori si spostavano così dal controllo dell’epidemia (per fronteggiare la quale si invocava con canti e bandiere l’unità degli italiani) al controllo della produzione (e qui gli interessi contrapposti evidenziavano invece la divisione): se la Confindustria lombarda (“Milano/Bergamo non si ferma”), in febbraio, si era opposta alle richieste di chiusura proprio nelle terre di maggior contagio, quella veneta, di fronte al decreto Conte, aveva reagito addirittura con rabbia: “Un giorno nero per la Repubblica e il diritto. Oggi il sindacato, con il placet del governo, si appropria delle fabbriche” aveva twittato il suo presidente Enrico Carraro; e oltre diecimila imprenditori, spinti dal suo messaggio,avevano subito assediato le prefetture, “autocertificandosi” come essenziali, intasando i controlli e puntando sul silenzio-assenso ( uno strumento invocato sempre dai critici della burocrazia, privilegiato spesso da coloro che più semplicemente non tollerano le regole).

Ma non basta: l’emergenza evidenziava, infatti, che non tutti i lavori erano eguali, visto che alcuni erano “obbligati” e chi doveva praticarli continuava a rimanere quotidianamente esposto al rischio del contagio; e diventavano così visibili anche le diseguaglianze esistenti all’interno della medesima attività essenziale, come nella filiera agro alimentare, ad esempio, ove operavano, in una lunga catena di montaggio (dalla raccolta del prodotto, alla sua lavorazione, al trasporto ed al commercio, all’ingrosso e al minuto), una pluralità di soggetti, tra loro diversi e variamente frammentati (il lavoratore in nero, quello precario, quello a tempo determinato, ecc.), tutti “obbligati” a fornire la merce al cittadino consumatore.

Questi lavoratori ponevano, perciò, come prioritario, il problema della loro salute; quelli impegnati nelle attività “bloccate”, ponevano invece quello, immediato, del loro sostentamento.

Il governo, questa volta con un decreto legge, il “Cura Italia” del 17/3, comprensivo di una manovra di spesa di circa 25 miliardi, provvedeva, tra l’altro, a vietare i licenziamenti, a finanziare una serie di ammortizzatori sociali per i casi di sospensione o riduzione dell’attività lavorativa, a stanziare 600 euro mensili a testa per lavoratori autonomi e stagionali, stabilendo inoltre una serie di garanzie pubbliche per le imprese private, che il Sole definiva “corpose”.

Per coloro che invece quel lavoro non avevano, o che l’avevano “in nero”, il governo provvedeva ad attivare i sindaci con il DPCM 28/3, con cui anticipava ed ampliava il Fondo di solidarietà comunale (4,3 miliardi, più 400 milioni vincolati all’acquisto di bene alimentari e medicine per le prime necessità), quindi, dopo che Draghi aveva autorevolmente avvertito che “in futuro i livelli di debito pubblico molto più elevati diverranno una caratteristica permanente delle nostra economie” e sostenuto, nell’immediato, la necessità di “fornire un reddito di base a coloro che perdono il lavoro e incanalare le liquidità verso le imprese in difficoltà”, il governo, ponendosi sulla sua scia, annunciava a marzo il varo entro Pasqua di due nuovi decreti legge.

Il primo, il D.L. 8/4/2020 n. 23, prevedeva una garanzia di 400 miliardi per i prestiti delle banche alle imprese, ampliava il numero di quelle “strategiche”, rafforzando per loro il golden power, sospendeva i versamenti dei contributi fiscali dovuti dagli imprenditori; il secondo, che doveva “movimentare” 60 miliardi, metà in deficit e che, tra l’altro, prevedeva un Reddito di Emergenza (REM), cioè un bonus di circa 500 euro per coloro che non erano “coperti”da altre misure (compresi i “lavoratori in nero”?), a Pasqua rimaneva, però, ancora a livello di annuncio.

Complessivamente si trattava, sulla carta, di cifre enormi, visto che gli impegni previsti erano pari a quelli di numerose finanziarie; cifre che, peraltro, erano insufficienti per far fronte non più solo ad un’emergenza sanitaria, ma ad una vera e propria emergenza sociale, che, già evidente nella recessione in atto, si prospettava addirittura drammatica nel caso che una prolungata pandemia generasse una vera e propria depressione economica.

Il governo si rivolgeva perciò all’Unione Europea, l’unica istituzione in grado di fornire per una tale evenienza un aiuto determinante, ma la risposta inizialmente ottenuta è stata francamente deludente.

Già alla notizia del coronavirus, l’abbiamo visto, l’ECDC aveva minimizzato il rischio e la UE, dal punto di vista operativo, era stata del tutto assente, malgrado che il Parlamento e il Consiglio europeo avessero, tra i compiti previsti dal Trattato, anche quello di “adottare misure per proteggere la salute, in particolare per lottare contro i grandi flagelli che si propagano oltre frontiera” (art. 168); inoltre alcuni Stati membri, la Francia e la Germania in particolare, avevano addirittura bloccato, in una prima fase, l’ingresso in Italia di presidi sanitari regolarmente acquistati; e, sino a quando il contagio aveva interessato soprattutto i paesi del Sud Europa, i governanti degli altri erano rimasti distanti se non ostili e Cristine Lagarde aveva chiaramente detto, alludendo all’Italia, che non era compito della BCE difendere lo spread in ascesa.

Poi, però, qualcosa aveva cominciato a muoversi: accortasi che il virus non conosceva frontiere e che anche il sistema produttivo degli stati “virtuosi” inevitabilmente rallentava e correva il rischio di fermarsi, la stessa BCE, a distanza di una settimana, lanciava un piano di acquisto di titoli di stato per circa 750 miliardi (e grazie a questo intervento, in un solo giorno, lo spread era sceso di un centinaio di punti), il tabù del pareggio di bilancio veniva temporaneamente sospeso (la Germania ne approfittava subito, mettendo in campo per la sua economia la somma di 550 miliardi di euro) e l’Italia riusciva a formare un’alleanza con altri otto paesi, poi diventati dodici (tra cui Francia, Spagna e Belgio e, questa volta, anche la Grecia) per promuovere uno strumento di “debito comune europeo”, idoneo a rastrellare risorse sul mercato per il finanziamento di politiche economiche di contrasto alla crisi incipiente (i Coronabond o Eurobond, secondo la versione italiana).

La laboriosa trattativa necessaria per vincere l’avversione di Germania ed Olanda a simili strumenti finanziari, veniva immediatamente intralciata, in Italia, da Salvini che definiva“l’Europa una schifezza” e un “covo di serpi e di sciacalli” e ostacolata,in Europa, dai suoi “alleati” (l’AFD in Germania e il Forum per la democrazia in Olanda), che, contrari all’iniziativa italiana, hanno premuto per irrigidire le posizioni dei rispettivi governi (preoccupati delle possibili ricadute elettorali in caso di cedimenti). In sede di Eurogruppo, dopo una serie di rinvii, veniva così raggiunto solo un faticoso compromesso (“un alto tradimento” per la moderata Meloni), che prevedeva una serie di prestiti, quantificabili, per l’Italia, in 32 miliardi per le imprese (dalla BEI), in 20 miliardi per i dipendenti che perdevano il lavoro (progetto Sure) e in 36 miliardi per quello proveniente dal MES, peraltro privo dei tradizionali vincoli, purché finalizzato a sostenere i costi “diretti e indiretti” causati dalla pandemia; gli Eurobond, invece, risultavano esclusi, ma veniva messo in cantiere un piano per la ripresa di altri 500 miliardi, voluto dalla Francia e condiviso dall’Italia, finanziato con debito comune, grazie all’emissione di Recovery bonds. Quest’ultimo, in particolare, da definire in future riunioni tra i capi di governo, quindi con cifre incerte e tempi dilatati.

Ebbene: gli strumenti tradizionali individuati, quello innovativo semplicemente annunciato e la tempistica in concreto adottata hanno reso evidente come, al di là delle chiacchiere sulla solidarietà europea, i governi di Germania e Olanda e degli altri stati del Nord, vincolati dalle loro ideologie e tutti protesi a salvaguardare i propri interessi immediati, abbiano perso di vista quelli da proiettare nel lungo periodo (quale vantaggio deriverebbe loro da un crollo economico dei paesi del Sud Europa?); preoccupati del proprio presente, hanno sinora riproposto strumenti del passato, stentando a capire le dimensioni di questa crisi che è sanitaria, sociale e politica al tempo stesso e che ha carattere epocale (16 milioni di disoccupati in tre settimane nell’America first, col massimo numero di contagi e di morti in continua crescita, non dicono nulla su quello che sta succedendo nel mondo e su quello che presto potrà accadere?).

L’Italia è in difficoltà; ma la campana è suonata per tutti, per l’Unione Europea in particolare: e tuttavia troppi governanti ciechi si fingono anche sordi pur di non sentirla.