L'albero della storia è sempre verde

L'albero della storia è sempre verde

"Teniamo ben ferma la comprensione del fatto che, di regola, le classi dominanti vincono sempre perché sempre in possesso della comprensione della totalità concettuale della riproduzione sociale, e le classi dominate perdono sempre per la loro stupidità strategica, dovuta all’impossibilità materiale di accedere a questa comprensione intellettuale. Nella storia universale comparata non vi sono assolutamente eccezioni. La prima e l’unica eccezione è il 1917 russo. Per questo, sul piano storico-mondiale, Lenin è molto più grande di Marx. Marx è soltanto il coronamento del grande pensiero idealistico ed umanistico tedesco, ed il fondatore del metodo della comprensione della storia attraverso i modi di produzione. Ma Lenin è molto di più. Lenin è il primo esempio storico in assoluto in cui le classi dominate, sia pure purtroppo soltanto per pochi decenni, hanno potuto vincere contro le classi dominanti. Bisogna dunque studiare con attenzione sia le ragioni della vittoria che le ragioni della sconfitta. Ma esse stanno in un solo complesso di problemi, la natura del partito comunista ed il suo rovesciamento posteriore classistico, individualistico e soprattutto anti- comunitario" Costanzo Preve da "Il modo di produzione comunitario. Il problema del comunismo rimesso sui piedi"

sabato 23 maggio 2020

Sarà difficile recuperare il vecchio concetto di umanità nella formazione a distanza

Il valore della formazione nel rilancio del Paese. Parla Milan (Aif)


Il valore della formazione nel rilancio del Paese. Parla Milan (Aif)

Verdiana Garau intervista oggi Maurizio Milan, Director di Ernst&Young nella funzione People Advisory Service e Presidente Nazionale di AIF, Associazione Italiana Formatori, sul tema dell’importanza della formazione aziendale e professionale come chiave per il rilancio dell’economia e della cultura aziendale nel Paese.

V.G. Presidente Milan, grazie per il tempo a noi dedicato. In questa conversazione puntiamo introdurre ai nostri lettori il mondo della formazione aziendale e professionale in Italia, come si costituisce, come si svolge e quali sono i suoi obiettivi. La sua lunga esperienza, Presidente Milan, l’ha portata a confrontarsi con le vere realtà del tessuto connettivo sociale e il suo operato resta qualitativamente il faro in Italia nel settore. Qual è ad oggi secondo lei, il grado della percezione nel nostro Paese sull’importanza della formazione?

M.M. Vede, il mio ruolo in associazione è un ruolo di volontariato attivo e le spiego perché: penso che chi come me ha avuto l’opportunità e la fortuna di frequentare grandi scuole di formazione aziendale, il minimo che deve fare è rimettere al beneficio della comunità le proprie esperienze, per incontrare, mettersi in contatto e maturare; è questo un ruolo che si ricopre con grande passione e che viene svolto nelle ore notturne, nei week end, nei ritagli di tempo possibile e mai come in questo periodo lo faccio con molto entusiasmo e anche la fatica fisica passa in secondo piano.

Questo è un momento di grande fermento per il nostro settore, quello della formazione.

La consulenza che offriamo sta cercando di ritrovare nuove e giuste modalità per la ripartenza, che è certamente complessa, per vari motivi, come i problemi strutturali e i temi legati al mindset people.

Questa emergenza sanitaria ha amplificato situazioni che erano già critiche certamente, ma sta regalando anche grandi opportunità.

V.G. Come coniugare l’attività fisica con quella mentale che richiede in modo massiccio l’uso del computer? Il digitale sta diventando la nostra nuova casa.

M.M. Noi lo definiamo new ways of working, diversa dalla definizione di smart working, dove intendiamo l’approccio lavorativo in modo differente.

Ho personalmente curato in Vodafone, cominciando otto anni fa, il passaggio dell’azienda verso le logiche di smart working; Vodafone fu una delle prime ad adottare questa nuova metodologia di lavoro in Italia. Certamente un’azienda che appartiene al mondo TLC è già predisposta e più spinta sull’ICT e a questi approcci. Ricordo che, fin dall’inizio, il tema forte è sempre stato molto legato alla centralità delle persone.

Lo smart working all’epoca prevedeva 1 o 2 giorni di lavoro da casa, facilitando certe dinamiche di vita quotidiana.

Quello che stiamo vivendo adesso va guardato in continuità, senza soffermarsi su queste settimane che sono anomale e particolarmente critiche per via del virus. Abbiamo comunque di fronte un nuovo modello di società e di vita.

Dal confronto che emerge con i colleghi e lavorando in questo momento con sei atenei diversi, che presentano tagli di ricerca differenti, ci si trova di fronte a scenari di grandissima trasformazione, che le stesse persone stanno vivendo. Primo, perché come dicevi tu, l’approccio fisico è differente, con tutte le problematiche del caso, quando ad esempio si parla di vita quotidiana in famiglia, dove si deve condividere uno stesso Pc per far fare lezione ai figli e anche lavorare da casa, secondo perché si comincia a dedicare più ore ad un nuovo metodo. 

V.G. Un termine: prossemica. Come si muove l’uomo “nuovo” in questi ambienti nuovi, ambienti che ancora sono in fase di esplorazione, dove ogni singolo cervello certamente recepisce in modo differente questa particolare esperienza.

Quale grado di apprendimento si sviluppa con questo nuovo approccio, quanto l’interazione umana incide sul grado di apprendimento dell’individuo in formazione? Come si fa a condividere le stesse emozioni che si trasmettono di solito condividendo anche lo stesso ambiente?

M.M. Abbiamo studiato alcuni di questi aspetti lo scorso anno, e come associazione ci dedichiamo di volta in volta ad un tema che poi sviluppiamo in convegni, workshop e ricerche. Quest’anno il tema è stato quello della sostenibilità, pensato prima dell’emergenza sanitaria e della pandemia; lo stiamo declinando adesso con Mauro Magatti e il team della Università Cattolica.

Avevo già precedentemente portato all’attenzione della nostra comunità proprio il tema delle neuroscienze, per studiare queste interazioni che mi stai raccontando, analizzando le sintesi di alcuni percorsi che abbiamo preso in riferimento.

Con alcuni neuroscienziati, con le due Università principali in Italia che sono a Parma e Milano, abbiamo indagato a fondo e ci hanno fatto scoprire cose interessanti sulla parte più emozionale dell’apprendimento, in argomenti ritenuti più soft e meno complessi. Poi c’è un apprendimento legato ai contenuti più tecnologici e lì è ovvio che quello che si può fare sulle piattaforme online, ovvero in modalità sincrona, utilizzando cioè strumenti che in alcuni Paesi dell’Europa fanno già parte della didattica scolastica, (come Service Design o AP Classroom per fare due esempi), sia già entrato nel DNA dello studente, con elementi diversi, amplificando i dati per cui tutto ciò che si apprende a livello nozionistico, si applica con efficacia maggiore sul rendimento da piattaforma web.

La nostra associazione, che si occupa della formazione più professionale come quello aziendale, è ben gradita dalle aziende.

Quando si toccano dinamiche più soft, – per fare un esempio, le tematiche legate all’empatia e la creatività -, si fa certamente fatica ad eliminare l’interazione d’aula e dunque fisica. In definitiva c’è sempre bisogno di uno spazio fisico per il set di sperimentazione.

Certo è vero che, con molta sorpresa, l’associazione ha organizzato molto le dirette Facebook, i webinar, per stare vicino ai nostri soci (che sono circa 2000 formatori, iscritti ad ambienti professionali diversi), alla nostra davvero interessante community (abbiamo 12000 persone che interagiscono con noi su tanti touch-point) e tutti i colleghi delle nostre delegazioni. Partecipando a questi seminari, dove si coinvolgono più le soft skills e per i quali abbiamo ricevuto grande adesione, soprattutto per quanto riguarda gli insegnanti delle scuole, abbiamo notato che il grado di apprendimento, che comporta la condivisione, ad esempio parlando di un tema come quello della gestione dello stress, ha fornito reazioni straordinarie. Mi sono calato personalmente in una doppia veste: introducendo gli argomenti di lavoro all’apertura del webinar, lasciando poi spazio alla docente di sviluppare il percorso della lezione e poi mi sono calato nel discente, sperimentando.

Si deve ammettere che il grado di apprendimento, se dall’altra parte dello schermo c’è una persona coinvolta, e se l’interazione diventa continua con le persone, funziona e funziona bene.

In questi giorni abbiamo infine ricevuto tante richieste per sviluppare questo tipo di percorsi ed anche sui temi che ho messo a disposizione del Ministro per l’istruzione Azzolina, temi che riguardano proprio le scuole, per la capacità introspettiva di comunicare, sperimentando direttamente nei Licei e riprogettando la didattica, per riportarla infine sulle logiche delle piattaforme web; noi siamo molto consapevoli della difficoltà che la scuola sta attraversando su queste tematiche, indipendentemente dal periodo, e questi sono i temi che vorremmo mettere a disposizione a fattore comune della scuola e del MIUR.

V.G. Campo motivazionale: tante adesioni e il termometro della concentrazione aumenta, poiché è colui che già vuole apprendere che si presta all’ascolto. È così?

M.M. Mi viene da pensare che in questo momento c’è una bulimia di contenuti, con una quantità di webinar che non sempre possono risultare utili.

Certamente la nostra associazione lo fa in modo propositivo.

Sono partecipazioni vere e devo dire che i riscontri sono davvero importanti, in quattro settimane abbiamo fatto quasi 60 webinar. Inizialmente abbiamo ricevuto richieste di informazione sulle modalità di utilizzo degli strumenti, gli insegnanti si stavano cimentando in qualcosa con cui non avevano fino a quel momento avuto dimestichezza, perché poco avvezzi. Abbiamo dunque fatto una culture action con una cinquantina di nostri soci e abbiamo iniziato a spiegare come utilizzare questi strumenti dal punto di vista tecnico, in modo efficace. Poi infine, proprio dagli insegnanti abbiamo accolto la richiesta che tu hai posto in domanda: come possiamo gestire le dinamiche comportamentali a distanza? E queste dinamiche, ci siamo resi conto, non riguardano solo i bambini e la scuola, ma anche il mondo degli adulti.

V.G. Cosa chiedono invece le grandi aziende che già avevano un piede sull’acceleratore rispetto all’introduzione di questi metodi al loro interno?

Dopo qualche anno di sperimentazione, cosa se ne evince?

M.M. Tra in nostri soci ci sono aziende importanti come Banca d’Italia, o INPS, Generali, Unipol, che sono anche iscritti ad AIF; anche loro si rivolgono a noi per costruire piattaforme di dialogo tra aziende ed istituzioni. Pur occupandoci anche di priorità come il mismatch su domanda/offerta, queste aziende ci stanno chiedendo di interagire con la parte accademica e degli istituti tecnici, per selezionare i ragazzi nelle università che abbiano le skills necessarie e performanti rispetto alle reali necessità, così da essere anche loro meglio introdotti un domani nel mondo del lavoro.

V.G. Come mediare fra le istituzioni e i privati? PMI e Pubblica Amministrazione: come si recupera ciò che sta sotto le grandi aziende, che certamente sono già avanti da anni, e che però riguarda il 90% del tessuto italiano?

M.M. Certamente alcuni hanno già degli atteggiamenti consolidati nei confronti delle università e degli atenei. In Vodafone, ad esempio, per dieci anni mi sono sempre occupato delle relazioni con le università. Ma come dicevo prima, stiamo cominciando a ricevere feedback positivi e ci stiamo adoperando per trovare un “manifesto comune” da porre al mondo universitario, perché solo unendosi, si sono resi conto, possono essere davvero competitivi e incisivi nelle logiche dei percorsi formativi, nella scuola universitaria come in quella secondaria. L’associazione ha un suo posizionamento istituzionale, con 45 anni di storia e quindi un suo accreditamento al MIUR e presso il Ministero dell’Industria, ci facciamo dunque portavoci di queste iniziative.

Come associazione abbiamo l’idea di far partire una ricerca coordinata proprio da Magatti su questi temi della nuova sostenibilità, dove da una parte si indaga sui temi delle skills e del mismatch, consapevoli che la lista delle skills è lunghissima e si rischierebbe di produrre una bulimia di rendicontazione su questa possibile redazione di un manifesto comune, poiché potrebbe anche poter essere smentito dopo poco tempo, dato che gli elementi si aggiornano e vanno aggiornati rapidamente; dall’altra pensiamo che andando sulla parte più soft dell’apprendimento e indagando molto bene sulle tematiche del pensiero critico, (di non facile traduzione), potremmo essere in Italia gli unici e i primi a porre il tema sul tavolo.

V.G. La multidisciplinarietà aiuta a sviluppare il pensiero critico?

Scavando settore per settore, analizzando e studiando le criticità, sollevandole, voi riuscite a costruire una didattica e una formazione inserendo gli strumenti tecnologici nuovi da utilizzare in queste nuove tipologie di approccio alla formazione e all’apprendimento, e divulgandole.

Questa nuova finestra che si apre, è caratterizzata dalla multidisciplinarietà: fino ad oggi si è sempre pensato alla priorità della specializzazione e allo studio monotematico, ma questo approccio sembra confermare che la strada sia un’altra.

M.M. Con questa osservazione dai corpo ad un mia convinzione personale e anche dell’associazione, che ho riscontrato sul campo con l’esperienza.

Dove si riesce ad inserire approcci multidisciplinari diversi tra loro, mescolati tra tecnico e apertura comportamentale, si può far fronte a molte difficoltà nel settore.

Non solo in questi anni, ma nei prossimi anni, faremo fatica ad avere una verticalità, poiché l’update tecnologico è davvero veloce.

Le precedenti rivoluzioni tecnologiche, prevedevano lassi di tempo di venti o trenta anni per l’aggiornamento, oggi è diverso e la rotazione viaggia di sei mesi in sei mesi. Dove sono nate realtà come la Silicon Valley, l’approccio che era stato introdotto era basilarmente multidisciplinare. Un peccato che certe metodologie non abbiano attecchito fin da subito da noi.

Uno dei miei punti di riferimento, stella polare, è sempre stato Adriano Olivetti.

Come associazione abbiamo fin da subito introdotto il “metodo olivettiano”, a cui i media hanno cominciato a dare spazio soltanto recentemente. Come industria italiana e come cultura italiana, Olivetti è la sintesi di tutto ciò che ci stiamo dicendo: tecnologia, approccio soft, introduzione di pensiero diverso dentro l’azienda, elementi come la creatività, e tutto questo fa parte del DNA italiano.

V.G. Apriamo al tema dei finanziamenti. Come si muove il Paese su questo tema?

M.M. Questo è un altro aspetto che riguarda sia le grandi aziende che le PMI, per cui molte agenzie formative che abbiamo come soci e lavorano su quel tessuto, ci richiedono di essere più incisivi sui fondi di finanziamento alla formazione.

I fondi in Italia e parrà bizzarro, sono tantissimi, pensare che soltanto uno di questi da solo arriva ad avere una gestione di 60milioni di euro all’anno, a cui le aziende possono attingere. Purtroppo però, l’accesso a quel credito non è facilitato per il finanziamento alla formazione e così non si riesce ad essere vicini al mondo delle imprese.

V.G. C’è uno scollamento tra la preparazione delle Pubbliche Amministrazione in merito, senza continuità pragmatica, dove questi milioni di euro ad esempio, una volta stanziati, sono accessibili secondo criteri che in verità non incontrano le vere esigenze delle PMI?

M.M. Incontrano le esigenze soltanto in parte. Manca certamente una cabina di regia, in cui il punto nave deve essere uno e dove, dal mio punto di vista, i fondi intra-professionali dovrebbero essere supportati dalle osservazioni che ci offrono coloro che studiano questi fenomeni, come, per citarne uno, il Politecnico di Milano, che si trova ad essere molto addentro alle evoluzioni con i suoi osservatori, e resta un’eccellenza italiana e a livello europeo. Ahimé, sia per le emergenze in corso, che per dinamiche politico-diplomatiche, a volte si perdono queste opportunità. Certo non possiamo risolverlo noi di AIF questo problema. Noi però mettiamo insieme una ricerca più strutturata che coniughi i vari pezzi del puzzle, per poi presentarlo alle istituzioni.

V.G. Le istituzioni come rispondono a questo sollecito?

M.M. Con la Pubblica Amministrazione cominciano adesso i primi timidi segnali. Siamo all’inizio di un percorso, avviato proprio con il mondo della scuola, con la richiesta di presenza al Ministro Azzolina. Proprio sul tema della scuola, abbiamo cercato di metterci accanto ad altre istituzioni, anche più forti di noi, sull’entratura istituzionale, avviando una progettualità comune ad esempio con il Telefono Azzurro, dove la nostra metodologia si applica ai loro argomenti, sicurezza in rete e digital culture per gli insegnanti. Ci sarebbe l’idea di progettare un grosso intervento per il prossimo autunno, in modo massiccio proprio sui temi dell’educazione digitale. Rispetto al mondo delle professioni, l’approccio di dialogo inizierà con una spinta legata al mondo sindacale e confindustriale e stiamo infatti cercando anche con loro di costruire un link. Con Confindustria abbiamo già cominciato a dialogare con le PMI e con il mondo sindacale attraverso alcuni pezzi della CGIL e CISL. Con CISL, Marco Bentivogli, ha già inquadrato i temi legati a questi fenomeni ed è stato anche relatore a dei nostri convegni lo scorso anno.

La nostra società vuole certamente muoversi in questo ampio perimetro, cercando di fare sintesi sulla piattaforma e mettere questo tassello che io chiamo “manifesto comune”.

V.G. Immagino che il perimetro sia ampio e la necessità di unire tutti questi puntini vi porta a prendere una grande sfida per il Paese. Soprattutto la sincronizzazione è fondamentale tra i due mondi, industria, imprenditoria e istituzioni. Ma l’Italia è creativa nel DNA come ha ricordato lei, siamo portati a trovare soluzioni out of the box.

Ci chiamiamo però tutti responsabili in questo scenario, voi formatori, gli imprenditori e i lavoratori, le istituzioni e i cittadini.

Con che velocità cambieremo e usciremo fuori da questo stallo secondo Lei?

M.M. Sono molto positivo e lo credo veramente. Se riusciamo a superare una crisi che è economico finanziaria in primis, a tirar fuori tutto ciò che ci ha sempre davvero contraddistinti dal Rinascimento in poi, penso che ne uscirà un’Italia migliore. Innanzitutto abbiamo fatto un salto culturale di venti anni in poco tempo sul piano digitale. Abbiamo ancora in parte un’arretratezza sulle infrastrutture e si dovrebbe chiedere alle aziende di TLC di farsi carico di questo problema per far sì che l’Italia sia allineata agli standard degli altri Paesi europei. Ci siamo inoltre tutti trovati per gioco o per forza a dialogare con la tecnologia in maniera molto spinta e abbiamo capito che possiamo riformulare la dinamica al nostro approccio al lavoro con metodologie altamente diverse. Questo è quello che ha permesso il salto improvviso di emancipazione. Nel tessuto legato ad alcuni settori in particolare,- ne cito due su altri come il design o la moda-, la tecnologia sappiamo essere un acceleratore molto forte. Abbiamo già tantissimi esempi virtuosi presenti nel nostro Paese. Nella scuola certamente, anche se dovremmo attraversare un anno di sofferenza, avverrà un grande cambiamento. Per allineare le competenze degli insegnanti, dove vanno viste le dinamiche attuative dei decreti, con l’innesto di insegnanti di generazioni diverse tra loro e dove molti sono cresciuti e si sono istruiti sui libri, tutti sanno che l’obiettivo non è commutare il contenuto, ma rivederne le metodologie e le logiche progettuali diverse per insegnare questi contenuti. Sono molto fiducioso. È bello vedere come le aziende di ICT oggi si mettano a disposizione affinché questo si realizzi.

Ci sono delle aziende che hanno messo ingenti quantità di danaro a disposizione in termini di erogazione finanziaria, come Microsoft, dove tra i temi messi sul tavolo spicca proprio quello della scuola. La spinta è forte e se la regia sarà accolta nei vari comparti, usciremo presto da questo stallo, certamente in maniera diversa, ma con un nuovo modello di società, che è ancora tutto da costruire e che noi stiamo cercando di capire meglio.

V.G. Si può trovare un equilibrio in questo momento di incertezze?

M.M. Quanto più le organizzazioni sono in grado di tenere ed ascoltare le necessità e le logiche come quelle suggerite dal modello Olivetti, da quelle del benessere e dell’ascolto in azienda, affinché si organizzi la persona, che non è solo appunto un dipendente, tanto più saremo in grado di rendere attuale quel modello e sapremo accelerare quello di uscita. Il nostro DNA ci aiuta.

Noto grandissima preoccupazioni tra gli interlocutori, ma l’ottimismo e l’energia positiva è importante e c’è. Prendiamo gli insegnanti, si sono messi in gioco e alla fine, nonostante il periodo critico che hanno dovuto affrontare, si sono resi conto che cambiare non è semplice, ma stimolante, e molti di loro ci hanno raccontano che si sono rimessi persino a studiare con entusiasmo e hanno tirato fuori nuovi metodi di approccio per il loro insegnamento.

Nel cambiamento si può sempre trovare un equilibrio.

V.G. Niente è semplice. Come dice lei: “cercare soluzioni semplici a problemi complessi”. Mi sembra che lei più che ottimista, sia intelligentemente positivista.

L’ottimismo proietta verso il successo a tutti i costi senza mai considerare tutti i passaggi fondamentali, che sono fare esperienza, imparare, sbagliare, costruire, ottimizzare e sono questi passaggi che rendono positivisti, dando la forza necessaria per risolvere i problemi e maturare individualmente e nella società.

Virtuoso il vostro tentativo di cambiamento sulla progettualità e le operazioni legate alla charity: nell’approccio inclusivo della comunità l’individuo viene rimesso al centro, con l’opportunità di acquisire la consapevolezza di vivere in un sistema interconnesso, in questo cambio di paradigma che necessariamente avverrà e di cui lei si fa portavoce con l’attività che svolgete come AIF. C’è la formazione, la didattica e l’inserimento nel mondo del lavoro. Il mondo del lavoro a sua volta dovrà cambiare ed essere ottimizzato, verso un metodo sostenibile, a lunga durata e performativo.

Questi criteri come si inseriscono nei vostri progetti?

Le nuove metodologie sono challenging? Penso a questi insegnanti che hanno sfidato i loro limiti per rendere più performativa la lezione e dare qualità all’apprendimento dei loro studenti.

M.M. Sono tre le categorie dei macro obiettivi su cui decliniamo la nostra offerta formativa: come già detto il nostro pragmatismo progettuale prevede una community di 2000 professionisti che lavorano a stretto contatto con il mondo della PA e dei privati, come il terzo settore. Al nostro interno abbiamo molta dimestichezza con la didattica digitale e banalmente mettiamo a disposizione la nostra expertise nell’ambito dei contenuti tecnologi e contenuti più soft. Sul mondo delle organizzazioni invece, il nostro obiettivo ha una duplice direzione: da un lato, ridurre la distanza che esiste nel mismatch domanda/offerta, con il tema delle politiche attive nel lavoro ad esempio, e altri soggetti pubblici che necessitano di essere sollecitati e ci diano una fotografia reale che ameremmo fare sulle PMI, che sono quelle che necessitano di più di essere rappresentate da questo punto di vista e in cui l’idea è quella di essere l’osservatorio, un osservatorio che produca ipotesi su cui ci cimentarsi pragmaticamente.

L’ultimo tema invece, che non abbiamo ancora toccato, è proprio quello delle skills.

La presenza più forte sui fondi intra-professionali, affinché sia più coesa, tocca le vere skills delle persone. Ci sarà d’ora in poi un forte investimento delle aziende sui dipendenti nei prossimi sei mesi, per portarli dentro un mondo produttivo digitale, dove questo certamente può essere fatto nel mondo commerciale, dei servizi, le banche, le assicurazioni e così via, ma dove l’età media del dipendente è già molto alta. Ciò che infatti si prefigge la nostra associazione è di certificare corsi utili, che non siano semplicemente dei prontuari che non servono forse nemmeno alla cultura generale. La volontà dell’imprenditore e dell’aziende per investire c’è, gli ingredienti ci sono tutti, la finanza pubblica che sta già agevolando questo, e anche l’interesse della persona, l’insegnante come il dipendente, che individualmente vogliono mettersi prima possibile in discussione.

La pandemia in questo senso ha accelerato questo sblocco mentale.

Vorremmo che quelle otto ore, quella giornata che dedicano queste persone alla loro formazione, siano utili. Sono programmi non solo pragmatici, ma che cercano di aprire gli orizzonti mentali, anche con la cultura digitale.

V.G. Come riuscite ad aprire questi orizzonti?

M.M. Le porto un esempio: abbiamo fatto un esperimento molto importante con una grande organizzazione che aveva un dipartimento formativo al suo interno in cui le sue persone vedevano la formazione soltanto nella vecchia accezione. Attuando dinamiche con il gaming e l’engagement sui contenuti con metodi alternativi, tutto sindacalmente dichiarato, svolgendosi in maniera volontaria con il massimo della serenità e facendo sentire tutti a proprio agio, siamo riusciti a coinvolgere qualche migliaio di persone in attività serale, in cui questi colleghi, queste persone, si sono cimentati nella logica dell’apprendimento attraverso il gioco sfidandosi l’un l’altro nella lezione, con dei metodi di gioco da noi inventati, e in poco tempo abbiamo portato il loro grado di apprendimento, misurandolo, vicino all’80% di successo. Quindi in realtà, anche laddove ci sono organizzazioni diciamo incrostate, se si riesce a toccare il punto giusto ed emozionale della persona, in questo caso emozionale-ludico ovviamente, questo crea quell’extra mind che nessuno mai si aspetta e che crea grande soddisfazione tra chi si mette in gioco.

V.G. Per stare sul mercato sono elementi che si devono affrontare e conoscere tutti. Veniamo all’educazione finanziaria: si parla molto di tecnologia digitale, ma oltre a questo l’educazione ai numeri e alla matematica, e quindi all’economia e alla finanza, resta spesso in secondo piano. Un impiegato comune o qualsiasi altro professionista e lavoratore, spesso non ha idea di cosa sia un’obbligazione.

M.M. Partirei subito da una considerazione importante e non positiva per il nostro Paese che lo trova al penultimo posto nel G20 per le conoscenze finanziarie.

Questo “analfabetismo”, rende la nostra società e di conseguenza l’individuo, molto debole rispetto a un modello sociale e di welfare complesso, che richiede queste competenze per fare fronte alle scelte più consapevoli e sostenibili per la persona.

I motivi di questa carenza sono molteplici e hanno radici già nella totale assenza dei programmi scolastici (ad esempio da sviluppare all’interno delle lezioni di educazione civica), e dalla mistificazione del tema, a cui ha contribuito la fiction e il cinema in generale.

Ho avuto modo di constatare, da alcuni progetti sviluppati nelle scuole delle Fondazioni per lo più di origine bancaria, che è venuta meno la convinzione che la persona non ha particolari limiti costrittivi e decisionali nella gestione del denaro. L’homo economicus perfettamente razionale, non esiste, poiché tutti siamo soggetti a distorsioni mentali che spesso portano a risultati insoddisfacenti.

Un’ultima evidenza importante riguarda la riduzione del gender gap che dipende anche, a mio avviso, dalla scarsa consapevolezza delle donne sui temi economici, ciò evidenzia infatti una supremazia della parte maschile diffusa nella larga parte del Paese.

AIF, su questi aspetti può favorire metodologicamente la progettualità formativa dedicate alla “persona”, progettualità che abbiano al loro interno i seguenti aspetti: conoscenza dell’evoluzione dei cambiamenti degli ultimi decenni (cicli di vita), obiettivi personali di vita e consapevolezza di come investimento e indebitamento siano passaggi necessari per raggiungere tali obiettivi, conoscenza delle forme di protezione e pianificazione finanziaria dei propri obiettivi.

V.G. Cosa ne pensa dell’Europa che sappiamo essere arrivata in ritardo sul panorama tecnologico, surclassata dai due Paesi dei grandi spazi come sono gli Stati Uniti e la Cina con le loro big tech? Può essere questo ritardo giocato a nostro vantaggio? Arrivando per ultimi in un momento in cui i concorrenti hanno già raggiunto l’apice, da buoni osservatori e pensatori quali siamo noi italiani ed europei, potremmo essere in grado di staccare un posto sul podio? Studiate le criticità del sistema, potremmo essere in grado di creare nuovi metodi di utilizzo degli strumenti? Non basta avere gli strumenti, vanno saputi utilizzare, al meglio. Che ne pensa?

M.M. Credo proprio di sì. Hai citato i due big per produzioni di piattaforme e devices e posso anche dare la certezza che questo racchiude le ultime nostre riflessioni affrontate sui temi nostri più italiani. Nell’ultimo anno e mezzo mi sono ritrovato a lavorare con alcune aziende importanti nel panorama della cultura italiana.

Quello che la Cina ci sta chiedendo a noi italiani è di entrare, e favorire la digitalizzazione e il metodo utilizzato per digitalizzare il capitale culturale nel nostro Paese ed esportarlo come processo e come approccio in Cina. Secondo me questo è un trend molto interessante. Non si può dire in modo scontato che noi riusciamo perché siamo coloro che hanno i contenuti, pensiamo anche tra l’altro, che il punto più critico da affrontare nei prossimi mesi sarà l’industria del turismo. Il dibattito interessante però, poggia su quanto saremo in grado di essere all’avanguardia, riuscendo a digitalizzare i nostri contenuti e lavorare sulle emozioni e l’esperienza virtuale dei musei ad esempio. Alcuni precedenti progetti analoghi, hanno davvero già funzionato bene, lo posso dire per esperienza, sia in termini di risposta di interesse che soprattutto economica. Tanto più dunque saremo in grado di partire dalle nostre esperienze per lavorare sui contenuti, tanto più i nostri contenuti saranno un grande assist per questo tipo di sfida. La rincorsa ai due grandi colossi tecnologici resta complessa nella sua totalità, ma molto avvicinabile nel campo della microcomponentistica, dove tante aziende in Italia già stanno mettendo in crisi alcuni Paesi come la Germania, ad esempio sulla meccatronica, perché alla fine, in Italia, ci riconoscono grande capacità di costruire quel pezzo che può diventare fondamentale nella costruzione totale, ad esempio di una grande automobile.

Se puntiamo infatti sulla metodologia di utilizzo e sulle parti di questo nuovo completo scenario, il gap sarà totalmente recuperabile. Fa parte, positivamente, della mentalità italiana.

V.G. L’Italia incubatrice?

M.M. Sicuramente nel panorama europeo a brillare nel settore della formazione abbiamo la Finlandia, e alcune politiche attive del lavoro, che sono state portate avanti negli ultimi anni in modo brillante, si trovano in Germania. L’Italia dovrebbe guardare subito, ad oggi, con più interesse al mondo delle sue start-up. Avendo lavorato in H-FARM per molti anni mi sono reso conto che all’interno delle realtà delle start-up c’è davvero molto knowledge e sarebbe un peccato se venisse sprecato. Questo ha permesso alla stessa H-FARM di divenire un megapolo educativo, partendo all’inizio con un piccolo progetto che si chiamava digital accademia, incentrato sul tema del knowledge che io avevo trovato nelle start-up e nei ragazzi; unito al metodo delle università abbiamo costruito delle bellissime progettualità, che poi hanno seguito la via della vera e propria educazione.

V.G. Sono queste le scuole del futuro? Il mondo dell’istruzione si dovrebbe ispirare a questo tipo di progettualità, no?

M.M. Si, se gli istituti tecnici avessero questo tipo di approccio e impiegassero questo tipo di processi, la domanda/offerta, il famoso mismatch, sarebbe meno ampia come forbice, perché sarebbero più addentro la realtà. Le nostre realtà sono quelle che hanno più un tessuto connettivo con la società, bisognerebbe guardare del cannocchiale dell’ “atteggiamento disruptive”, rispetto ai canoni scolastici classici. Nel mondo della scuola sarebbe interessante infatti capire quali start-up, legate al mondo della scuola, fanno più sperimentazione; ci sono alcune che già lavorano sui metodi di condivisione di studio, ma sarebbe altrettanto interessante mappare queste realtà.

V.G. C’è un grande scollamento tra istituti professionali ad esempio e il mondo del lavoro. Spesso molte scuole pubbliche che si trovano magari in territori dove la densità delle aziende è forte, non offrono programmi di studi adeguati agli studenti che dovranno inserirsi. L’inglese obbligatorio nelle scuole è stato introdotto molto tardivamente, come la tecnologia, se si pensa che si dovrebbe, da programma, insegnare informatica e questo già da trenta anni.

M.M. Purtroppo è così. Un’eccezione che conferma la regola potrebbe essere il Politecnico di Torino, che con FCA, tutto l’R&D viene fatto dal Politecnico, già dopo il biennio comincia l’innesto in azienda e molti continuano all’interno di questa il loro percorso ed è quel processo, a mio avviso, il processo virtuoso; ce ne sono anche altri, ma non sono abbastanza, se si pensa che la tecnologia non è alla portata di tutti, sapendo che molti ancora in Italia, con i dati che sono emersi durante il CoVid-19 , non hanno a volte nemmeno un pc in casa.

V.G. Serve l’intervento dello Stato. Il mercato delle TLC è inoltre in competizione, mercato molto ricco, ma che ha bisogno di regia ferrea e solida.

M.M. Con il commissario Vittorio Colao, che si trova a capo della task force, già amministratore delegato di una delle più grande compagnie di telefonia al mondo, chi meglio di lui può gestire con capacità di visione e può tirare una buona quadratura? Molti altri in commissione inoltre hanno grande dimestichezza con le tecnologie. Mi rimetto alle parole di Mariana Mazzucato ovvero “serve intervento molto spinto dello Stato”.

Spillover - salto di specie - covid 19 è the Next Big One? Amiamo la nostra unica casa la Terra?

Quammen: Covid, AIDS e altre epidemie

23 maggio 2020

Solo da poco ho finito di leggere Spillover, il libro di David Quammen di cui tanto si è parlato negli ultimi mesi. Uscito presso Norton (New York) nel 2012, era stato pubblicato da Adelphi piuttosto tempestivamente, due anni dopo. La versione italiana ha scelto di conservare il titolo originale, senza dubbio efficace, anche se la bella traduzione di Luigi Civalleri ricorre spesso all’equivalente italiano «salto di specie». D’altro canto, poiché al lettore italiano il termine inglese spillover non poteva dir molto, è apparso necessario aggiustare il sottotitolo. L’evoluzione delle pandemie è dicitura appropriata, e esplicativa quanto basta; ma certo meno precisa e soprattutto molto meno allarmante di Animal Infections and the Next Human Pandemic, che poneva in evidenza il dato a posteriori più clamoroso, cioè la previsione esatta di quanto sarebbe potuto succedere di lì a qualche anno. Il dato più clamoroso, e il più stupefacente: ma solo per i profani, giacché gli esperti discettavano da parecchio tempo del «prossimo disastro», the Next Big One. Che si è puntualmente verificato nell’inverno 2019-2020 ad opera del nuovo coronavirus. 

Non entro nei dettagli delle previsioni di Quammen, che suonano come una profezia. Conviene tuttavia sottolineare due circostanze notevoli: 1) non si trattava affatto di una profezia, ma di valutazioni fondate su ricerche scientifiche in corso da decenni; 2) gli esiti di tali ricerche sono stati poco meno che ignorati dai governi, che non ne hanno tratto le dovute conseguenze. Lasciamo ora perdere i governi non democratici, o pochissimo democratici: a non tener adeguato conto dell’allarme che proveniva da solidissimi studi di infettivologi e virologi sono state anche quasi tutte le democrazie liberali dell’Occidente. Di questo non dovremmo sorprenderci. Non è un episodio isolato: le evidenze scientifiche sul surriscaldamento globale e sui catastrofici effetti che ne derivano sono vecchi di decenni, ed è spaventoso il divario fra le tante parole dette e scritte e le concrete misure intraprese. Ma forse c’è un’altra considerazione, meno scontata, che potremmo aggiungere. 

Com’è noto, David Quammen non è uno scienziato, è un divulgatore. Ora, sulla parola «divulgazione» pesa una secolare ipoteca limitativa. Divulgativo è spesso qualificato ciò che manca di originalità; quando va bene, si dice di volonterose semplificazioni, da sogguardare con indulgente sussiego; accezioni positive, semplicemente, non se ne registrano. Il problema è la radice «volgo»: divulgare significa diffondere tra la moltitudine, la massa, sprovveduta e manipolabile (tipicamente, ad essere divulgate sono le notizie false e tendenziose), e quindi mai considerata con il rispetto che meriterebbe, nemmeno dove è invalso da tempo il principio della sovranità popolare. Ebbene, a me pare di poter dire non solo che i divulgatori svolgono un’opera di importanza assolutamente decisiva sul piano culturale e politico, ma che i divulgatori davvero bravi sono più rari dei bravi ricercatori. Studiosi di valore, in ogni campo – in primo luogo, in campo scientifico – non ne mancano; pochi sono invece gli scrittori capaci, come Quammen, di esporre gli esiti di complesse ricerche in maniera insieme rigorosa e chiara, efficace ed affabile, talvolta addirittura avvincente. Certe pagine di Spillover non hanno molto da invidiare a un romanzo di Michael Crichton. E infatti Quammen ha avuto moltissimi lettori. Il «volgo», da sempre imputato di passività e incapacità di scelta, sceglie, eccome: lo dimostra, in altro campo, lo straordinario successo sul web dello storico Alessandro Barbero, che alle competenze dello studioso unisce capacità comunicative di prim’ordine (a parte i sorprendenti numeri degli ascolti, è sintomatico che sia diventato oggetto di riuscite parodie). 

Oltre alle preziose, irrinunciabili virtù della divulgazione, bisognerebbe anche parlare – questa volta soprattutto per le scienze naturali – delle presenti lacune nella formazione scolastica. La didattica delle scienze è la cenerentola in ogni settore scientifico-disciplinare: tant’è che a occuparsi di didattica è soprattutto chi non è riuscito a farsi strada nella ricerca. Non è questa la sede per entrare nei dettagli (che peraltro investono direttamente l’organizzazione del comparto universitario); mi limito a ribadire un punto. Senza bravi insegnanti di materie scientifiche (alcuni ci sono, ma dovrebbero esserlo tutti) la formazione scolastica è carente, e la democrazia è mutila: perché una cittadinanza ignara dei fondamenti della cultura scientifica non è in grado di decidere con cognizione di causa, e quindi di agire per il (proprio) meglio. L’Italia ha bisogno più che mai di docenti capaci non solo di impartire nozioni di matematica, fisica, chimica, biologia, ma di far capire alle nuove generazioni che il loro futuro dipende dalla possibilità che i risultati della ricerca scientifica non rimangano lettera morta. E che posizioni di vertice non vengano occupate, come purtroppo accade in alcune grandi democrazie di oggi, da incompetenti vanesi e irresponsabili.

Ma qualcosa di specifico su Spillover vorrei pur dire. In questi mesi sono state richiamate e commentate soprattutto le parti che hanno a che fare con i coronavirus, come la Sars e l’aviaria. A mio avviso merita invece un’attenta riflessione il lungo capitolo dedicato all’AIDS, perché dall’epoca in cui divampò quella che allora fu battezzata «la peste del secolo» sono passati ormai quarant’anni, e la storia di quell’epidemia è stata ricostruita in maniera molto accurata praticamente in ogni sua fase. La ragione è che alcune acquisizioni decisive sono state raggiunte molto dopo che l’allarme sulla diffusione del virus Hiv-1 era uscito dai radar dell’attenzione mediatica: ad esempio, il fondamentale contributo del microbiologo canadese Jacques Pépin The Origins of AIDS è uscito solo nel 2011. 

In sintesi, la storia è questa. Il salto di specie dell’agente patogeno ha avuto luogo nel 1908 nel Camerun sud-orientale, presso una delle popolazioni che (ahimè) considerano una prelibatezza, propria anche di certi rituali tradizionali, la carne di scimpanzé. L’ipotesi più plausibile è quella del cosiddetto «cacciatore ferito»: basta una scalfittura su una mano o su un braccio perché possa verificarsi un contatto sangue-sangue, non tanto durante la predazione vera e propria, quanto nella macellazione dell’animale ucciso. Il virus Hiv-1 si è poi diffuso, essenzialmente per via sessuale, lungo il bacino del fiume Congo, fino alla cosiddetta palude di Stanley (oggi palude di Malebo), su cui si affacciano le città di Brazzaville e di Léopoldville (oggi Kinshasa), allora rispettivamente capitali del Congo francese e del Congo belga. La trasmissione sessuale, di per sé, sarebbe lenta e limitata, ma a favorire il virus sono stati due fattori contingenti: l’incremento demografico, che ha favorito l’urbanizzazione, e l’introduzione di pratiche sanitarie moderne, come le massicce campagne contro la malaria, la sifilide, la malattia del sonno, per cui venivano usate siringhe non sempre sterilizzate. Dopodiché intervengono fatti di ordine più strettamente politico. Quando il Belgio si ritira (piuttosto precipitosamente) dalla sua colonia africana, la maggior parte dei bianchi, tutti componenti della classe media, preferiscono tornare in Europa. Le conseguenze sono enormi: nel 1960 non c’è in tutto il Congo un solo nativo africano laureato in medicina. Per far fronte all’emergenza, le organizzazioni internazionali – ONU, Unesco, OMS – lanciano un appello: mancano insegnanti, tecnici, medici, infermieri. Benché la filantropia esista, non ci si poteva certo aspettare una mobilitazione di massa da parte di agiati professionisti di Parigi, Ginevra o Montréal. E infatti a rispondere sono soprattutto cittadini di più o meno remota ascendenza africana che vivono in un paese francofono afflitto da una dittatura, cioè Haiti: sono svariate migliaia gli haitiani che si trasferiscono in Congo. 


Pochi anni più tardi, però, un colpo di Stato dà avvio anche in Congo (ora ribattezzato Zaire) a una dittatura, e gli stranieri, mal tollerati, tornano nei rispettivi luoghi di provenienza. Qualche migliaio di haitiani infetti bastano a spiegare la successiva diffusione del virus negli Stati Uniti? No: a intervenire è un’altra circostanza. Da sempre chi non ha nulla si riduce a vendere il proprio corpo; e fra l’antica prassi della prostituzione e la moderna atrocità del commercio di organi esiste anche la donazione mercenaria di sangue. La allora recente invenzione della plasmaferesi, che separa la parte liquida del sangue da quella corpuscolata, rendeva possibile subire frequenti salassi senza diventare anemici. Risultato: all’inizio degli anni Settanta una società statunitense insediata a Port-au-Prince, la Hemo Caribbean, esporta negli USA da Haiti ogni mese 5-6000 litri di plasma congelato. E a questo punto ci sono tutti i presupposti perché esploda l’epidemia fra i sottogruppi sociali che conosciamo: i politrasfusi (per lo più emofiliaci), i tossicodipendenti che si scambiano siringhe infette, i maschi gay dalla vita sessuale molto promiscua. 

Ora, la cosa più istruttiva in questa vicenda è la pluralità di dimensioni coinvolte. Non manca nulla: i mali del colonialismo e i guai della decolonizzazione, la cultura ancestrale dei nativi e la tecnologia moderna, i regimi dittatoriali e il sottosviluppo, il nazionalismo e la cooperazione internazionale, la distruzione degli ecosistemi e il disagio sociale all’interno del mondo industrializzato, gli effetti collaterali del progresso della medicina e lo sfruttamento economico della povertà. Quale insegnamento ne dobbiamo trarre? Molto semplicemente, che la globalizzazione da conquistare è quella dei nostri orizzonti mentali. Perché la pandemia più grave, nel mondo attuale – tale il punto d’arrivo di Spillover – è quella di Homo sapiens.

Non occorre indugiare su numeri che tutti più o meno conoscono. La popolazione umana sulla Terra ha superato i 7,7 miliardi. Ma quello che impressiona è la rapidità della crescita. Non solo quella in corso – fatevi un giro sul sito worldometers.info per averne un’idea – ma quella avvenuta negli ultimi tre o quattro secoli, o meglio, negli ultimi 10 o 20 mila anni. In termini ecologici, un’esplosione incontrollata. Una catastrofe. 

L’unico motivo che impedisce di abbandonarsi al pessimismo più cupo è che gli umani, a differenza dei batteri e dei virus, sono capaci di ragionare. E di conseguenza possono adattare il proprio comportamento alle necessità, senza dipendere dalla roulette delle mutazioni genetiche e dalla mannaia della selezione naturale. «Un essere umano», scrive Quammen nell’ultimo capitolo di Spillover, passando in rassegna le zoonosi degli ultimi decenni, «può scegliere di non bere la linfa di palma, di non mangiare scimpanzé, di non mettere il recinto dei maiali sotto un albero di mango, di non liberare le vie aeree di un cavallo da corsa a mani nude, di non fare sesso non protetto con una prostituta, di non drogarsi con una siringa usata, di non tossire senza coprirsi la bocca, di non salire a bordo di un aereo se non si sente bene», eccetera. 

Ma evitare di commettere imprudenze non basta. Per evitare che la catastrofe travolga anche la nostra specie, come di norma avviene nelle epidemie – gli agenti patogeni si moltiplicano a dismisura, poi crollano repentinamente – è più che mai necessario ragionare in termini globali. Innanzi tutto prendendo serie misure di tipo socio-sanitario, finanziario e organizzativo. In un articolo sul «New Yorker» dell’11 maggio, rapidamente tradotto da Adelphi nell’ebook Perché non eravamo pronti (pp. 24, € 1,99), Quammen cita quanto aveva scritto il virologo Ali S. Khan in The Next Pandemic (2016): «ricerca sul campo finalizzata alla scoperta di nuovi virus; vigile monitoraggio degli spillover; sistemi per produrre test diagnostici rapidamente e in gran numero; migliore capacità di risposta da parte delle strutture mediche; filiere agili per la produzione e distribuzione dei dispositivi di protezione individuale e dei respiratori, e programmi coordinati per spostarli da una giurisdizione all’altra; pianificazione coordinata tra città, Stati, province, nazioni e agenzie internazionali per contenere infezioni catastrofiche; educazione della collettività per rafforzare la disponibilità generale a sopportare il distanziamento sociale e il controllo della quarantena; migliore amministrazione della sanità pubblica e cicli di finanziamento sicuri; e, cosa più cruciale di tutte, la volontà politica di assumersi il rischio di sostenere le spese per una preparazione di cui forse non ci sarà bisogno».

Ma oltre a tutto questo, occorre che si agisca risolutamente su due fronti: il dissesto ambientale e le diseguaglianze economiche. Nelle popolazioni che muoiono di fame e di sete in un altro continente, nelle foreste distrutte all’altro capo del pianeta, è in gioco il nostro futuro comune. Sta a noi non solo evitare piccoli gesti imprudenti che nella loro banalità possono risultare pericolosi qui e ora, non solo preparaci nel modo migliore ad affrontare la prossima pandemia, ma anche adeguare le nostre priorità alle condizioni attuali del mondo, e ad esse informare le nostre strategie, il nostro modello di sviluppo, le nostre gerarchie di valori. 

Molti, in questo tempo di pandemia, hanno parlato di guerra. Altri hanno sollevato obiezioni tutt’altro che infondate. Una guerra, il Covid-19? Tanto per cominciare, questa tutto fuorché imprevedibile malattia sarebbe meglio chiamarla sars-CoV-2, così da ricordarci che non avevamo colto il campanello d’allarme della sars-CoV-1. E poi, a mio avviso, no: non è una guerra, è una cosa diversa. È un’apocalisse. Auguriamoci che sia vissuta davvero come tale, secondo una laica etimologia della parola: cioè come una rivelazione. La rivelazione di uno stato di cose che a questo punto sarebbe davvero stolto ostinarsi ad ignorare. 


Mentana creatore di fake news



Thomas Fazi 
23/05/2020 

Sta facendo molto discutere un post di Enrico Mentana* in cui il giornalista si chiede, a proposito del famigerato Meccanismo europeo di stabilità (MES), «perché si dovrebbe rinunciare a un prestito decennale senza condizioni a interesse 0,1% per un valore di 37 miliardi, nel momento di maggiore necessità di finanziamenti per il nostro paese»?

Insomma, dice Mentana, perché dovremmo prendere a prestito soldi dai mercati, a tassi decisamente più onerosi, se possiamo prenderli in prestito dal MES a un tasso praticamente pari allo zero, per di più “senza condizionalità”? Detta così sembrerebbe avere un senso.

In verità, vi sarebbero ottime ragioni per opporsi al MES** anche se il prestito fosse così conveniente, a partire dal fatto che il MES “senza condizionalità” non esiste***. Peccato, però, che la storia del tasso annuo dello 0,1% – così come quella del MES “senza condizionalità” – sia una colossale bufala.

Lo 0,1%, infatti, è il cosiddetto “tasso marginale”, che però – come si può leggere sul sito del MES**** – va sommato, oltre a tutta una serie di altri costi operativi, al “tasso base”, cioè a quello che paga il MES per reperire sui mercati i soldi che a sua volta ripresterà (con una piccola cresta, ça va sans dire) agli Stati. Sommando questi vari costi si ottiene il tasso finale effettivo che andranno a pagare gli Stati.

Come riportato sempre sul sito del MES*****, questo ad oggi ammonta ad una media dello 0,76% – poco meno dell’1% insomma. Una bella differenza!
Soprattutto se consideriamo che i BTP a breve a scadenza (da tre mesi a tre anni) hanno tutti un rendimento più basso di quello offerto dal MES: un BTP a tre anni “costa” lo 0,5%, un BTP a un anno lo 0,1%, mentre i titoli a sei mesi hanno addirittura un rendimento negativo!

Da gennaio a fine aprile, infatti, l’Italia ha piazzato titoli a breve scadenza per un totale di quasi 70 miliardi ad un tasso di interesse medio annuo negativo: -0,03%!

Se invece prendiamo i titoli a più lunga durata (5-10 anni, la durata massima di un prestito del MES), i tassi di interesse risultano un po’ più alti di quelli offerti dal MES: tra l’1,3 e l’1,6%.

Ma in questo caso, seguendo la logica di Mentana, bisognerebbe innanzitutto chiedere alla BCE perché abbia permesso ai tassi di salire in un momento di emergenza come questo – i tassi sui BTP a 10 anni sono letteralmente raddoppiati rispetto al periodo pre-pandemia –, quando quello che dovrebbe fare una banca centrale in tempo di crisi – e che infatti hanno fatto e stanno facendo tutte le altre banche centrali – è l’opposto: far scendere i tassi di interesse per facilitare le necessità di finanziamento dei governi.
Curioso che Mentana e gli altri – che adesso vorrebbero farci credere che indebitarci sul mercato piuttosto che col MES rappresenterebbe il più colossale sperpero di soldi della storia (parliamo di un costo aggiuntivo, in termini di spesa per interessi, di uno o due miliardi) – non abbiano avuto nulla da ridire su questo aumento dei tassi, che alla fine ci costerà molto di più rispetto a quello che potremmo risparmiare col MES, visto che parliamo di cifre infinitamente più grandi dei 36 miliardi del MES.

Ciò detto, c’è un altro punto da tenere in considerazione: è vero che (per colpa della paradossale architettura dell’euro) sui BTP paghiamo tassi di interesse un po’ più alti di quelli offerti dal MES. Ma una parte significativa di quegli interessi andrà ad investitori italiani e dunque rimarrà nel paese, mentre nel caso del MES verrebbero versati per intero al fondo lussemburghese.

Se prendiamo l’ultima emissione di BTP Italia, infatti, vediamo che dei 23 miliardi raccolti – due terzi del massimale di un ipotetico ricorso al MES –, la quasi totalità dei 14 miliardi acquistati dagli investitori individuali e il 51,9% della parte istituzionale sono stati sottoscritti da investitori domestici. Inoltre, è lecito aspettarsi che una parte dei titoli sottoscritti dagli investitori esteri verrà acquistata della BCE, che a sua volta rigirerà una parte degli interessi all’Italia.

E comunque, anche se la spesa per interessi dei BTP finisse tutta all’estero, il gioco varrebbe comunque la candela, visto che sono soldi che possiamo decidere in autonomia come spendere e che non comportano vincoli di destinazione, condizionalità o sorveglianze. Ciò detto, in prospettiva l’Italia non ha altra scelta che affidarsi ai BTP: quest’anno il paese avrà un fabbisogno aggiuntivo di 100-150 miliardi, per un totale di circa 500-550 miliardi di emissioni di debito. Ora, lo capisce anche Mentana che coi 36 miliardi del MES non andiamo molto lontano.

Certo, data l’architettura dell’euro e in particolare l’assenza di una banca centrale che faccia da prestatrice di ultima istanza e il fatto che l’Italia si indebita in quella che di fatto una valuta “estera”, anche affidarsi ai mercati per le proprie esigenze di finanziamento presenta dei rischi, giacché vuol dire rimettersi, in ultima analisi, alla mercé e alla “buona volontà” della BCE, che, come abbiamo visto in passato, non si fa scrupoli ad usare il proprio potere di emissione monetaria per ricattare interi paesi. Per questo riteniamo che sia assolutamente fondamentale per l’Italia riappropriarsi della propria sovranità monetaria.

Ma, nelle condizioni date, indebitarsi sui mercati è indubbiamente meglio che indebitarsi col MES. D’altronde se gli altri paesi europei hanno tutti dichiarato di non voler fare uso del MES un motivo ci sarà. O forse è solo che non leggono Mentana…

*https://www.facebook.com/enricomentanaLa7/posts/10157724169332545
** http://temi.repubblica.it/micromega-online/ue-appello-di-101-economisti-al-governo-non-firmate-quell-accordo/
*** https://www.lafionda.org/2020/04/05/la-truffa-del-mes-senza-condizionalita/
****https://www.esm.europa.eu/content/europe-response-corona-crisis
*****https://www.esm.europa.eu/lending-rates

23 maggio 2020 - In memoria di Giovanni Falcone





Ventotto anni sono passati da quel tragico 1992 di sangue e bombe che hanno dilaniato il nostro Paese, con il sacrificio dei nostri martiri. Come ogni anno, da allora, si avvicinano i giorni delle commemorazioni, nel ricordo di Giovanni Falcone, Francesca Morvillo e gli agenti della scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro, e che si concluderanno 57 giorni dopo, il 19 luglio, quando verrà il tempo della memoria di Paolo Borsellino, e gli agenti Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina. Ventotto anni di misteri, interrogativi ed inquietanti verità taciute e nascoste. Vicende che vanno ricordate se non si vuole assistere all'ennesimo trionfo dell’ipocrisia, della sterile retorica e dei molti che fingono di commemorare i morti dopo averli mortificati da vivi. Da quando è uscito il primo numero di ANTIMAFIADuemila abbiamo sempre cercato di trovare una risposta a queste domande cercando di dare il nostro piccolo contributo nella ricerca della verità sui mandanti esterni delle stragi del 1992-1993 perché, ne siamo fermamente convinti, è sul sangue di Falcone e Borsellino che è crollata la Prima Repubblica ed è nata la Seconda. Quest'anno a causa della pandemia, l'emergenza sanitaria del Coronavirus, non potremo celebrare il tradizionale convegno in memoria di Falcone. Un appuntamento fisso, che abbiamo tenuto il più delle volte nella Facoltà di Giurisprudenza. Tuttavia continuiamo a rinnovare il nostro impegno, ponendoci proprio quelle domande scomode che aspettano risposta, ed onorando la memoria di Falcone con ampi articoli e pubblicazioni incentrate sulla sua figura e sulla ricerca della verità sulle stragi. Anche per far sì che la storia non si ripeta. Esser vicini a rappresentanti delle istituzioni, a magistrati retti, agli investigatori, ai familiari vittime di mafia nella pretesa di verità e giustizia è il nostro rinnovato impegno, perché senza verità, in questo Paese, non saremo mai veramente liberi. A cura di Aaron Pettinari @Antimafia Duemila

23 maggio 2020 - DIEGO FUSARO: Agghiacciante! A Milano compare ora il treno per portare v...

VENERDÌ 22 MAGGIO 2020


“Il bene dell’umanità è sempre l’alibi dei tiranni” 
(Albert Camus)

Inciso incidentale: Riccardo Ricciardi, deputato Cinque Stelle, soggetto-oggetto della gazzarra leghista in parlamento per due ottime ragioni: essersi reso colpevole di un del tutto ingiustificato servo encomio nei confronti del Torquemada d’Italia, Conte Pippo, ed essersi reso meritevole di coraggioso oltraggio all’indirizzo di un ceto politico lombardo, che ha reso i propri cittadini i più inquinati d’Europa, i più elettromagnetizzati dal 5G e, anche per questo, i più colpiti da quello che si vuole sia la pandemia del coronavirus.
Di buono, per Conte a padrini, hanno però di aver fornito l’alibi al trucco della lombardizzazione dell’Italia intera, fin lì dove l’ultimo virus s’era visto all’epoca di Renzo e Lucia.

La Germania com’è e come è vista dal Fatto Quotidiano

”Siamo il popolo, Obbedienza = dittatura, Fermate la pazzia Corona, Proteggete la Costituzione, mai vaccinazioni di massa, Fermate la Merkel”

Titolo di Marco Travaglio

Ieri tedeschi tutti nazisti, oggi tutti nazisti coloro che manifestano per la libertà. Dal confronto, si vede come siamo messi noi e come, per la rabbia di Travaglio, sono messi altri. In ispecie in Germania che, secondo la vulgata post-1945, è tutta una passione per autorità e disciplina. Invece no, è Brecht, Marx, Engels, Hegel, Goethe, Adorno, Mann, Sophie Scholl. Non solo Merkel, Bundesbank, Monsanto-Bayer, ecologisti guerrafondai e Schaeuble. Nel video che qui riproduco ve ne farete un’idea: https://youtu.be/yKIRgZ8uhO4 E solo uno degli episodi che si succedono da settimane.
“Ora basta!” Stoccarda contro il lockdown.

Aufgrund der stetig zunehmenden Zensurpraktiken von YouTube zieht der Rubikon auf die alternative Video-Streaming-Plattform Dailymotion um. Wir laden Sie herzlich dazu ein, unseren neuen Kanal zu abonnieren, um unsere Arbeit weiterhin zensurfrei nutzen zu können: https://www.dailymotion.com/RubikonMa.... (A causa delle sempre crescenti pratiche di censura di YouTube, Rubicon si sta spostando sulla piattaforma di streaming video alternativa Dailymotion. Ti invitiamo cordialmente a iscriverti al nostro nuovo canale in modo da poter continuare a utilizzare il nostro lavoro senza censura)

E’ la stampa al tempo del virus, bellezza


Come un’idea vi potete fare, stomachevole, del quotidiano un tempo visto come tracimante di Catoni impegnati nella fustigazione del malcostume, politico e mediatico e, ora, eccellenza suprema dello stesso malcostume, in versione terrorismo a scopo di annientamento sociale, unito a quotidiano panegirico della cricca di untori cui è stato demandato il nostro destino.

Travaglio, principe della categoria che ogni giorno, da direttore di un giornale davvero “Indipendente”, si inebria delle imprese di un governo che avrebbe scandalizzato Attila e trasuda anatemi contro gli sporchi, brutti e cattivi che non ne invocano la santità subito, si è aggiunta ieri un’eccellenza femminile procuratasi una certa visibilità pop, un po’ con la posta del cuore e un po’ col mestiere ad alto punteggio di giurata negli studi del meglio trash televisivo. Ieri, avvertita dell’ira di Burioni per chi rischia di annichilire il suo vaccino con altra terapia, ha alzato il tasso della sua ingiustificata spocchia, aggredendo il Prof De Donno. De Donno, dell’ospedale Poma di Mantova, è colui a cui dobbiamo, assieme ai colleghi di Pavia, il recupero di una vincente terapia anti-virus da sangue immune e, dunque, la possibilità di scampare al vaccino cum global dictatura di Bill Gates.
Selvaggia Lucarelli e Rocco Siffredi


Di male in peggio, con un trio di VIP che, diversamente da quelli cui alludo nel titolo, sono pulitissimi, bellissimi, e buonissimi.

Gestapizzazione regionale


Penso che sia dalle incursioni di certi signori, puliti, belli e buoni, nei villaggi abissini e libici, o tra le leghe operaie e contadine qualche anno prima, che non si sia più visto un tale cranio e udite tali parole: https://youtu.be/rezRcw3rgIU 
...andiamo a scovarli casa per casa...

Siccome il modello è la Kristallnacht, la Notte dei Cristalli, dal 9 al 10 novembre 1938, un pogrom anti-ebraico in Germania, condotto dalle SA (Sturmabteilung) con la distruzione di oltre mille sinagoghe, c’è solo da augurarsi che ad analoghi esiti non porti il metodo Bonaccini di “andare e prendere casa per casa e rinchiudere” i simil-ebrei emiliani, forse, molto forse, più probabilmente no, affetti da coronavirus. Comunque la sorpresa, qui, è fuoriluogo. Avremmo dovuto capire tutto del personaggio fin da quando imperversava contro l’ambiente e la sanità dell’Emilia-Romagna e, ancora meglio, quando si circondava di sardine andate a male, imperdonabile offesa ai nobili pesci omonimi.

E fuori uno. Anzi, dentro uno, se solo la magistratura italiana, salvo poche eccezioni, non fosse quell’eccellenza di trasparenza e legalità che lo sconfinato giro di clienti di Palamara (compreso il procuratore nazionale Antimafia che aveva segato Di Matteo dal Pool Stragi!) ha rivelato e che l’ordine dall’altissimo al ministro della Giustizia, di soprassedere alla nomina di Nino Di Matteo alla direzione delle carceri (DAP) e, quindi, dei rapporti criminali dentro-criminali fuori, ha confermato.

Rockizzare Bilderberg

Agli ordini!

Dentro un altro (al gabbio, s’intende), sempre che, a comandare in Italia e in almeno metà dell’universo mondo, non ci fossero proprio quei pulitissimi, bellissimi e buonissimi che ogni tanto si riuniscono molto discretamente in alberghj a una dozzina di stelle, spesso svizzeri, e solo tra loro e relativi cortigiane e chierichetti, pifferai e violinisti. Abbiamo assistito con intima soddisfazione al lavaggio più bianco del bianco, da parte di Bonino e Lilli-Bilderberg-Gruber, del filantropo George Soros, insozzato da ogni genere di oltraggio e insolenza da parte, appunto degli sporchi, brutti e cattivi. Abbiamo goduto come scimmie con Formigli, quando Gad Lerner si è arrampicato a forza di encomi e inni sull’altissima statura morale del miliardario che abbatte i cattivi a forza di ONG e di colpi di Stato.

Non ci resta ora, dopo avergli perdonato la leggera sventatezza della devastazione di ambienti marini e montani col suo megaconcerto dello scorso anno, che rendere grazie e incensi al più puro dei giullari musicali alla corte dei puliti, belli e buoni, dell’incontro con la cui eletta cuspide (Bilderberg? Trilateral? Aspen? Davos?) ci narra felice in questo filmato:

(estratto), 
(intero, e vale la pena),

E se a Bonino-Gruber-Lerner-Formigli è bastato il solo George Soros da riporre nel tabernacolo, il canarino nella gabbia dorata dell’élite si è fatto celebrante e agiografo dei meglio paperoni dei cinque continenti, con particolare dedizione a farmaceutici e digitali. Proprio quelli all’opera nella congiuntura fortunata in cui, liberi e felici, noialtri, brutti, sporchi e cattivi asintomatici, verremo prelevati dai nostri covi e finiremo nelle varie Villa Triste, o Via Tasso, dalle parti di Bologna. Hanno dischiuso un mondo affascinante al nostro canarino. Il mondo in cui la politica, rappresentante il popolo e da esso eletta, e destinata agli stessi inceneritori in cui sono finiti alcune migliaia di “morti da coronavirus” Il mondo da cantare e decantare, invece, è quello in cui ogni cosa è diretta dai farmaceutici e digitali. Quelli che decidono vita, morte e connessione.

La sgorbizzazione della satira


Dopo quello del monatto ai tortellini e l’altro del rock per polli nel nome delle volpi, abbiamo un campione della satira invertita, che è oggi quasi tutta: anziché contro i potenti, dalla loro parte: c’est plus facile.
Stefano Di Segni (che si mimetizza da “Disegni”) traccia col cacciavite delle orrende strisce sul giornale di Selvaggia Lucarelli, degne di lei e del suo direttore. Al tempo della guerra Nato alla Serbia, mi chiese di mandare reportage da Belgrado per il giornale satirico “Cuore”. Sia “Cuore” che gli altri farlocchi di “Radio Popolare” di Milano, mi segarono quando si accorsero che contro i serbi e Milosevic non lanciavo le attese contumelie di accompagnamento alle bombe di D’Alema. Ecco l’ultima striscia, di servizio ai suoi riferimenti e correligionari Bill Gates, Soros, Rockefeller, all’OMS, con abusivo reclutamento anche di Gandhi. La satira invertita consiste nella furbata-paradosso di rappresentarli come assurdamente li vedrebbero, diffamandoli, quei cialtroni di complottisti. Ora, nobilitare un bucaniere golpista come Soros è già impresa fumanbolica. Ma riabilitare il tipo che ha sterilizzato migliaia di giovani donne in Africa e India, nel nome della depopolazione, facendone morire un bel po’, va al di là di quanto è successo a Gesù tre giorni dopo Pasqua.

Notizie di reato. Lo diciamo a Palamara?

Pendagli da forca no, siamo contro esiti punitivi di quel tipo, ma pendagli da gogna di sicuro, per l’appassionato impegno al servizio dei nemici della patria e di tutte le patrie. Ma, prima che si faccia davvero la rivoluzione, ormai unica via di scampo, non succederà. Governi infetti di coronavirusite hanno la magistratura corrotta che si meritano. E ministri della Giustizia dimostratosi alla fine in perfetta continuità con predecessori che, in sintonia con scale gerarchiche varie, hanno regolarmente garantito il consociativismo società civile (politica e non) - società criminale. Quel connubio ideologico-operativo che morti defunti e morti in cammino, come Chinnici, Falcone, Borsellino e Di Matteo, hanno svelato. Di conseguenza certuni – politici, “giornalisti”, canarini, imbrattatori di schermi e carta e rispettivi mandanti - meritevoli di anni di galera per averci rovinato la vita e il mondo, imprigionato 60 milioni di innocenti su falsi presupposti, inesistenti minacce e delitti immaginari, i dovuti anni al gabbio non li faranno. Anzi, verranno lasciati e incoraggiati a proseguire nella loro missione di intorcinamento della verità a maggiore gloria, denaro e potere dei burattinai, appesi ai cui fili fanno la loro danza macabra.


Sono provati i reati di circonvenzione di incapace, di favoreggiamento, di apologia di reato, di violazione della Costituzione, di minacce, di procurato allarme e procurata morte, di induzione al suicidio, di provocato disastro ambientale, sanitario, sociale, economico, di in-incitamento all’odio… Ma figurati se uno Stato capace di imprigionare tutti i suoi cittadini per due mesi e più, di inseguirli in tutti i loro comportamenti e in tutti i loro momenti di vita, alla ricerca di colpe da punire, per poi iniettargli qualcosa preparato da chi vuole ridurre la popolazione, si preoccupa di simili colletti dal bianco abbagliante.
Quali reati? Mascherine-bavaglio e ricettacolo di virus e agenti patogeni tuoi e altrui, riduttori di ossigeno nel sangue e perciò di difese immunitarie, oltre a strumento di sociocidio. Guanti che soffocano la pelle, il suo ph, non la lasciano interagire con l’aria, la luce, il sole, che raccattano agenti patogeni e li trasmettono da un soggetto all’altro, ma non si lavano, come si lavano le mani (vedi “American Society of Microbiology”, giugno 2016). Tamponi che al 60-80% falsano il risultato. Distanze idiote che servono solo come pretesto per punizioni (calciatori che non si devono stringere la mano, o scambiare gagliardetti, ma poi si scontrano o s’intrecciano rotolando per terra).
Ma non gli bastavano i morti da ventilazione sfascia-polmoni, ora in disuso per mancanza di soggetti da terapia intensiva, o piuttosto perché la malattia e, quindi, il rimedio, erano altri? A fine anno annegheremo in otto miliardi di mascherine che, assieme ai guanti, produrranno 450 mila tonnellate di spazzaturai da Covid, tutti nei rifiuti differenziati e, da lì, in discarica, o inceneritore (1.700 euro a tonnellata). Una pacchia per il territorio da risanare.

Col tele, tutte formiche ammassate.

Morti che vengono, morti che vanno
Vabbè che tocca rilanciare l’economia, specie quella degli amici che si occupano storicamente di rifiuti, ma un reato di disastro ambientale non ci scappa? O, alla vista dei media di convenienza, uno di “falso di massa” (esempio: lo Stato di polizia chiama alla rappresaglia contro gli infami che passeggiano sui Navigli, o qua e là? Pronta l’astuzia tecnoscientifica: gente distanziata ripresa col teleobiettivo in modo da farla apparire tutta ammassata). E uno di strage, quanto meno colposa per tutti quei morti cremati istantaneamente, fuori dagli affetti, e soprattutto dalla vista, dei parenti. Falso in atto pubblico? Peccato che Nino Di Matteo è tutto assorbito dalla mafia. E dallo Stato.
A New York, dove regna il Democratico Cuomo, intimo di Bill Gates, si può forse parlare di strage dolosa. Così la chiamano certe gole profonde dell’ambiente ospedaliero. Di certo dolose sono le cifre diffuse da Cuomo e dal suo compare di Washington, il capovirologo Anthony Fauci, altro pupillo di Gates, detestato da Trump. Al 21 maggio i decessi “accertati” sarebbero stati 16.000, più 4000 “probabili”, cioè indebitamente presunti, come da noi. Con 51mila ricoverati in ospedale e circa 20.000 di questi deceduti (si dice anche di ventilazione), il tasso di mortalità risulta orrendo: dal 31 al 39%. Ma calcolando 1,8 milioni di contagiati su 8,4 milioni di abitanti, il vero tasso di mortalità scende a 0,9%
E a proposito di numeri, fino a fine febbraio in Italia i morti, pur in presenza del virus, ma senza clausura (!), erano parecchio sotto la media dei cinque anni precedenti (13 casi su mille, anziché 15). Poi qualcuno ha preso in mano la situazione, ci hanno chiusi e sono esplosi gli aumenti esponenziali. Quelli dei morti tutti di coronavirus, subito cremati e, assolutamente, senza autopsia. Quelli che, da Roma (INPS) a Berlino a New York, vengono messi in dubbio da colleghi virologhi, ed epidemiologhi più rinomati e meno omologati. Ma anche quelli che, stupefacentemente, sarebbero invece meno di quanto riferisce la Protezione Civile. Dal calcolo ne mancherebbero quasi 20mila. E chi mai potrebbero essere? Un’idea, da profano, incompetente e complottista, ce l’avrei. Visto che di covid-19 si muore di media a 81 anni, che tra quei 20.000 non ci siano tanti vecchietti “single” e non autonomi, abbandonati dalle loro badanti in fuga verso Romania, o Ucraina, o ristrette in casa, lasciati a marcire/morire senza cibo, igiene, moto, cure, conforto, come da DPCM del Pippo Conte e dei suoi suggeritori?

Giovanni Falcone ha creato una serie di tecnologie giuridiche d’avanguardia dimostratesi di micidiale efficacia ovunque esse siano state applicate

Giovanni Falcone ventotto anni dopo


23 Mag , 2020|Pino Arlacchi|Voci

N.d.R: Pubblichiamo un commento del Prof. Arlacchi che è stato uno dei più stretti collaboratori di Giovanni Falcone.


L’ anniversario di Capaci non merita di annegare nella retorica. I valori colpiti il 23 maggio del 1992 con l’assassinio di Giovanni Falcone, di Francesca Morvillo e della loro scorta, sono oggi perfettamente attuali. Non solo in Italia, ma nel mondo.

Ma in che cosa consiste l’eredità di Falcone, la ragione principale per la quale lo ricordiamo a quasi trent’anni dalla sua scomparsa?

Sono stato il suo più stretto collaboratore e amico al di fuori dell’ambiente giudiziario, e provo qui ad esporre i miei pensieri sul tema.

La memoria di Falcone è viva non solo e non tanto per le doti di coraggio e di umanità che lo contraddistinguevano. Esistevano allora molti altri uomini di legge coraggiosi ed onesti, che esercitavano la propria professione con scrupolo ed imparzialità, combattendo per ciò stesso il malaffare. E Falcone era senza dubbio uno di loro, un servitore della legge senza pretese di straordinarietà. Chi lo ha conosciuto davvero sa quanto «normale» e discreta fosse la persona.

No. La differenza tra Falcone e tutti gli altri stava in un talento professionale al confine con la genialità. Non si spiegherebbe altrimenti la solidità dei processi da lui istruiti, tutti conclusosi con condanne severe a feroci capimafia.

E non si spiegherebbe il fatto che le misure antimafia da lui propugnate siano diventate lo standard mondiale in materia. E sono fiero di aver dedicato gran parte del mio mandato all’ ONU a realizzare il sogno più grande di Giovanni Falcone: far nascere un trattato universale antimafia. Quello firmato proprio a Palermo nel dicembre del 2000 da 124 paesi. 

Tra il 1982 – data dell’assassinio Dalla Chiesa e del varo della prima legge di reale contrasto della mafia – e la Conferenza di Palermo, l’Italia è stata il laboratorio più avanzato della lotta contro la criminalità transnazionale. Assieme a un gruppo di colleghi e collaboratori che hanno poi proseguito quell'impegno, Giovanni Falcone ha creato una serie di tecnologie giuridiche d’avanguardia dimostratesi di micidiale efficacia ovunque esse siano state applicate.

I pool antimafia, la confisca dei beni, la protezione dei testimoni, l’abolizione del segreto bancario, la specializzazione delle polizie e l’unificazione degli spazi giuridici sono alla base della Convenzione di Palermo e sono oggi il linguaggio comune delle polizie e dei pubblici ministeri di tutto il pianeta.

Concepire tutto ciò nella realtà di 30-40 anni addietro, quando ancora molti si chiedevano se la mafia esistesse davvero, e quando tutti gli altri paesi europei guardavano all’Italia come l’ammalato cronico del continente, è equivalso ad una piccola rivoluzione. Diventata poi una medaglia del nostro paese. Medaglia pagata a caro prezzo. E uno dei prezzi più cari è stato proprio il sacrificio di Giovanni Falcone.

E la mafia? Come ha reagito Cosa Nostra al post-Capaci?

La risposta dello Stato alle stragi del ‘92 e il ricambio politico avviato da Mani Pulite hanno costretto la mafia dentro una posizione difensiva che dura tuttora. Cosa Nostra è riuscita a sopravvivere alla grande offensiva del post-Capaci e post- Via d’ Amelio (l’assassinio di Paolo Borsellino), ma ha subito una sconfitta di storiche proporzioni.

Le mafie non sono scomparse, nevvero, ed affliggono ancora larghe zone della Sicilia e dell’Italia del Sud. Ma sono state costrette a ridurre al minimo l’uso della violenza, e ad inabissarsi nella società civile e nella politica regionale e comunale. I boss si sono integrati quasi ovunque nelle reti della corruzione politica dominate dai gattopardi locali.

Non sono più in grado di far cadere i governi, ma hanno moltiplicato le estorsioni, i racket ed il controllo delle risorse degli enti pubblici.

Queste attività non hanno però compensato la diminuzione delle entrate del mercato internazionale della droga e l’esclusione dai nuovi business mondiali. I fatturati criminali di oggi sono una modesta frazione di quelli dell’epoca d’oro del malaffare.

Perché la mafia riacquisti quella sicurezza in se stessa necessaria per rientrare a pieno titolo nei piani alti del palazzo occorrono tre cose.

In primo luogo occorre una iniezione straordinaria di risorse paragonabile a quella ottenuta a metà degli anni 70 con il monopolio della rotta transatlantica dell’eroina. Ed è possibile che l’occasione venga fornita dall'iniezione di spesa pubblica post-COVID e dai fondi europei per la ricostruzione.

In secondo luogo occorre una spallata agli apparati investigativi antimafia che abbiamo costruito assieme a Falcone lungo gli anni 90. E non vedo segnali rilevanti in questa direzione.

Ma ciò che più conta è l’atteggiamento del governo centrale verso le mafie. I colpi subiti dalla mafia siciliana dopo il 1992 in poi sono stati quasi letali. La Commissione regionale e le Commissioni provinciali di Cosa Nostra sono in disarmo da decenni. La pressione del popolo mafioso sulla società è rimasta pervasiva, ma non si è formata una nuova leadership. Una «testa» capace di ribaltare l’attuale subordinazione alla politica. Se dalla politica corrotta arrivassero nuovi segnali di incoraggiamento, Cosa Nostra potrebbe abbandonare il basso profilo e ritornare alla ribalta.

Se ciò avvenisse senza adeguata opposizione, vorrebbe dire che Capaci non ci ha insegnato niente.