L'albero della storia è sempre verde

L'albero della storia è sempre verde

"Teniamo ben ferma la comprensione del fatto che, di regola, le classi dominanti vincono sempre perché sempre in possesso della comprensione della totalità concettuale della riproduzione sociale, e le classi dominate perdono sempre per la loro stupidità strategica, dovuta all’impossibilità materiale di accedere a questa comprensione intellettuale. Nella storia universale comparata non vi sono assolutamente eccezioni. La prima e l’unica eccezione è il 1917 russo. Per questo, sul piano storico-mondiale, Lenin è molto più grande di Marx. Marx è soltanto il coronamento del grande pensiero idealistico ed umanistico tedesco, ed il fondatore del metodo della comprensione della storia attraverso i modi di produzione. Ma Lenin è molto di più. Lenin è il primo esempio storico in assoluto in cui le classi dominate, sia pure purtroppo soltanto per pochi decenni, hanno potuto vincere contro le classi dominanti. Bisogna dunque studiare con attenzione sia le ragioni della vittoria che le ragioni della sconfitta. Ma esse stanno in un solo complesso di problemi, la natura del partito comunista ed il suo rovesciamento posteriore classistico, individualistico e soprattutto anti- comunitario" Costanzo Preve da "Il modo di produzione comunitario. Il problema del comunismo rimesso sui piedi"

sabato 15 agosto 2020

Gli Emirati Arabi Uniti sempre più protagonisti

Thu 13-08-2020 11:18 AM
Il quarto aereo umanitario degli Emirati Arabi Uniti arriva a Beirut


ABU DHABI, 13 agosto 2020 (WAM) - Un aereo umanitario degli Emirati Arabi Uniti è arrivato in Libano equipaggiato con circa 100 tonnellate di medicinali, cibo e integratori alimentari per bambini, oltre ad altri aiuti per aiutare le persone colpite dall'esplosione di Beirut .

La mossa segue le direttive di Sua Altezza la sceicca Fatima bint Mubarak, presidente dell'Unione generale delle donne, presidente del Consiglio supremo per la maternità e l'infanzia, presidente supremo della Fondazione per lo sviluppo della famiglia e presidente onorario della Mezzaluna Rossa degli Emirati, supervisionato da Sua Altezza lo Sceicco Hamdan bin Zayed Al Nahyan, Rappresentante del Sovrano nella Regione di Al Dhafra e Presidente della Mezzaluna Rossa degli Emirati.

Questo è il quarto velivolo spedito dagli Emirati Arabi Uniti e il secondo con il coordinamento e la supervisione della Mezzaluna Rossa degli Emirati, nell'ambito degli sforzi degli Emirati Arabi Uniti per ridurre le sofferenze delle persone colpite dall'esplosione.

L'aereo trasportava anche una delegazione della Mezzaluna Rossa degli Emirati che svolgerà varie attività umanitarie come la fornitura di aiuti, la valutazione della situazione sul terreno e l'identificazione di ulteriori esigenze umanitarie.

La sceicca Fatima ha già donato 10 milioni di AED all'indomani dell'esplosione a sostegno dei programmi di soccorso della Mezzaluna Rossa degli Emirati in Libano.


WAM/Italian

La pochezza statunitense sempre più evidente

Niente estensione dell'embargo sulle armi all'Iran. Usa isolati all'Onu 

Bocciata la proposta americana di estendere l'embargo che scadrà il prossimo ottobre. Il rischio è far precipitare il Consiglio in una delle peggiori crisi diplomatiche di sempre

aggiornato alle 10:27 15 agosto 2020

Donald Trump, all'Onu

AGI - All'indomani dell'accordo tra Iran ed Emirati Arabi Uniti, che aveva offerto alla Casa Bianca l'occasione per celebrare lo "storico successo" sulla scena mediorientale, l'amministrazione Trump inciampa in un clamoroso fallimento all'Onu.

Gli Stati Uniti non sono riusciti a convincere il Consiglio di sicurezza a estendere indefinitamente l'embargo sulle armi imposto all'Iran dal 2015 e che scadrà il prossimo ottobre.

Una bocciatura che adesso potrebbe avere ripercussioni sull'accordo sul nucleare iraniano, ma anche far precipitare il Consiglio in una delle peggiori crisi diplomatiche di sempre. Dei 15 membri del Consiglio di sicurezza, gli Stati Uniti hanno ottenuto solo l'appoggio della Repubblica Dominicana.

Al di là dei veti annunciati di Cina e Russia, Francia, Germania e Regno Unito insieme ad altri otto membri del massimo organo del Palazzo di Vetro (Belgio, Estonia,Indonesia, Niger, StVincent/Grenadines, SudAfrica, Tunisia e Vietnam) hanno scelto di astenersi. E la risoluzione si è arenata.

A poco è servito il fatto che, poche ore prima del voto, il rappresentante permanente della Casa Bianca all'Onu, Kelly Craft, avesse rimarcato che la proposta fosse il frutto di "mesi di attiva diplomazia" da parte degli Usa.

In una breve nota, la missione belga in Consiglio di Sicurezza ha spiegato la posizione dei partner europei: la priorità rimane "contenere il programma nucleare dell'Iran" ma nel quadro dell'accordo nucleare firmato nel 2015 con Teheran, "il miglior strumento multilaterale per affrontare le nostre preoccupazioni comuni".

Immediata la reazione degli Stati Uniti che, attraverso il segretario di Stato, Mike Pompeo, hanno denunciato il fallimento "imperdonabile" dell'Onu. Secondo Pompeo, il Consiglio di Sicurezza "non è riuscito a compiere la sua missione fondamentale", che è quella di "mantenere la pace e la sicurezza internazionale".

"Il risultato mostra ancora una vota che l''unilateralismo non ha sostegno, e che l'atteggiamento arrogante è destinato a fallire", ha invece 'twittato' rapidamente la rappresentanza cinese.

E adesso si pensa al dopo. Gli Stati Uniti avevano comunque avvertito che se l'estensione dell'embargo non fosse andata in porto avrebbero utilizzato altri mezzi per mantenerlo in vigore; e la Casa Bianca aveva suggerito di poter invocare una clausola (la cosiddetta 'snapback') che fa parte dell'accordo sul nucleare (una clausola pensata per reimporre a Teheran tutte le sanzioni delle Nazioni Unite revocate, ma solo se si scopra che Teheran abbia violato il patto).

Le potenze europee, ma anche Cina e Russia, si chiedono se gli Stati Uniti abbiano il diritto di usare quel meccanismo, dato che hanno abbandonato l'accordo del 2015. Di certo, l'eventuale passo statunitense metterebbe in grave crisi la tenuta dell'accordo nucleare, che per ora l'Iran e le potenze firmatarie - a parte gli Stati Uniti - continuano a cercare di mantenere in vita.

Sembra che gli Stati Uniti vogliano consegnare la lettera di 'snapback' già la prossima settimana e così cercare di forzare unilateralmente il ripristino delle sanzioni delle Nazioni Unite.

Ecco perché c'è chi sospetta che Washington abbia presentato intenzionalmente una bozza rigida, perché sapeva che i membri del Consiglio non sarebbero stati in grado di accettarla.

Insomma la risoluzione è stata il preludio al tentativo degli Stati Uniti di innescare lo 'snapback' e affondare definitivamente l'accordo sul nucleare iraniano prima delle elezioni presidenziali di novembre. 

15 agosto 2020 - DIEGO FUSARO: Meno sovranità nazionale significa meno democrazia e più p...

Si avvicina inesorabilmente l'approssimarsi del redde rationam proprio nei confronti della bolla di liquidità creata dalla Fed da settembre 2019, secchiate di miliardi di dollari. La foglia di fico del covid-19 è troppo piccola per coprire la realtà

La Federal Reserve studia con il Mit una criptovaluta per l’helicopter money automatico in caso di crisi

15 agosto 2020

Getty Images

Il titolo dell’evento, in sé, tradiva un profilo per addetti ai lavori: An update on digital currencies. Ma quanto emerso il 13 agosto al convegno organizzato dalla Fed potrebbe rivelarsi uno spartiacque nello sviluppo estremo del regime di Qe perenne già in atto. Ovvero, l’utilizzo delle criptovalute come scorciatoia verso l’helicopter money e la transizione verso un mondo di virtualità ontologica del concetto stesso di debito. Il discorso principale era affidato a una dei governatori più influenti del board della Banca centrale Usa, Lael Brainard, ex brillante consigliera del segretario al Tesoro dal 2009 al 2013, incarico che le è valso l’Alexander Hamilton Award. Insomma, un pezzo da novanta. La quale, dopo le parole di prammatica, ha sganciato con consumata nonchalance la seguente bomba: “Per migliorare la conoscenza in materia di monete digitali della Federal Reserve, la Fed di Boston sta collaborando con i ricercatori del Massachusetts Institute of Technology in quello che si preannuncia come un piano poliennale finalizzato a costruire e testare un’ipotetica moneta digitale orientata all’uso tipico di una Banca centrale”.

Ma non basta. “Potrebbe esserci richiesto un significativo processo di politica monetaria per considerare l’emissione di una CBDC (Central Bank Digital Currency, ndr), questo in contempoanea con una serie di estensive deliberazioni e accordi con altre componenti del governo federale”, ha proseguito la Brainard, a detta della quale “è importante capire come le condizioni di intervento previste dall’attuale Federal Reserve Act riguardo l’emissione di valuta possano applicarsi a una CBDC e come quest’ultima potrebbe ottenere uno status legale, in base ai criteri in cui sarà designata“.

E nonostante l’influente relatrice abbia sottolineato come la Fed sia ancora in fase di discussione e non operativa, in molti hanno preferito saltare i convenevoli della forma e arrovellarsi da subito come l’unica domanda che pare stringente: cosa potrebbe accorciare i tempi e spingere la Fed a compiere questo “significativo processo di politica monetaria”? La riposta, a mezza bocca, è stata unanime: un’altra crisi sistemica. O una correzione di mercato ben più marcata di quella che lo scorso marzo costrinse Jerome Powell a intervenire all-in. Anche perché le parole della Brainard sono giunte solo a una settimana di distanza da un’altra clamorosa apertura della Fed verso soluzioni monetarie ed espansive estreme.

iStock

Intervistati nel corso di una tavola rotonda organizzata da Bloomberg, infatti, Simon Potter, capo dei market groups della Fed di New York ed ex numero uno nientemente che del Plunge Protection Team e Julia Coronado, per otto anni economista presso il Board of Governors della Banca centrale Usa, hanno infatti lanciato la loro proposta rivoluzionaria per una nuova idea strutturale di contrasto della povertà, nell’evenienza di crisi macro-economiche come quella innescata dal Covid.

Il nuovo strumento risponderebbe al nome di Recession insurance bonds, una sorta di salvagente monetario immediatamente utilizzabile in caso di fall-out occupazionale e che garantirebbe accreditamento elettronico in tempo reale di denaro sui conti degli americani attraverso una semplice app dello smartphone. E come funzionerebbe il nuovo meccanismo? Il Congresso dovrebbe garantire alla Fed la possibilità di operare direttamente su una frazione del Pil che venga ridistribuita in automatico ai cittadini in caso di recessione. Come? Appunto attraverso i Recession insurance bonds, i quali opererebbero come obbligazioni zero-coupon dormienti e che verrebbero invece attivati in automatico una volta che i tassi di interesse raggiungessero l’area dello 0% o che il livello della disoccupazione segnasse un aumento dello 0,5%.

A quel punto, la Federal Reserve farebbe ricorso alle securities e depositerebbe i fondi generati digitalmente sulle app dei cittadini. Trasferimento elettronico diretto, un sussidio che scatta di default in base a un impulso legato al raggiungimento di target macro predefiniti. Così Simon Potter ha spiegato la ratio della proposta: “Il Congresso necessita di troppo tempo per decidere e deliberare, mentre negli stati di crisi i cittadini hanno bisogno di trasferimenti rapidi e automatici. Per questo serve un’infrastruttura ad hoc e separata. La Fed potrebbe comprare bonds rapidamente senza doversi rivolgere al mercato privato. Ad esempio, se il 15 marzo il Paese si trovasse con i tassi virtualmente a 0%, attraverso il nuovo strumento potremmo attivare un X ammontare di quei bonds. In contemporanea, la Federal Reserve manterrebbe monitorato il tasso di disoccupazione e se questo superasse una determinata soglia, compreremmo un ammontare maggiore. In parole povere, i bonds si andrebbero a determinare sul lato degli assets in attivo del bilancio della Banca centrale, mentre i dollari digitali che verrebbero bonificati sui conti della gente andrebbero a contabilizzare sul lato delle passività. Garantendo denaro ai consumatori, puoi limitare la profondità e la durata di una recessione”.

Infine, l’affondo: “Si potrebbe anche generare vera inflazione. E questo potrebbe essere di beneficio non solo per evitare la discesa a tassi negativi ma anche per creare un mercato dei tassi di interesse più sano, una più sana curva dei rendimenti”. E per capire la portata di quanto emerso fra le pieghe nascoste dal profilo alto e accademico della discussione, basta fare riferimento a questo grafico

Bloomberg/Zerohedge

il quale mostra in prospettiva la crescita esponenziale della cosiddetta transfer window federale rispetto al reddito degli americani. Stando ai dati relativi al mese di giugno, i trasferimenti diretti del governo hanno pesato per un quarto di quanto a disposizione dei cittadini per vivere. Di fatto, già il prodromo dell’helicopter money. Realtà testimoniata, non a caso, dalla decisione di Donald Trump di bypassare il Congresso ed emanare quattro ordini esecutivi per la prosecuzione della politica di sussidio di disoccupazione settimanale scaduta il 1 agosto.

Ma come mostrano questi altri due grafici

Bloomberg/Zerohedge
Bloomberg/Zerohedge

alla base di quanto è allo studio della Fed e delle menti del Mit ci sarebbe qualcosa di più: l’utilizzo del principio di valuta digitale o criptovaluta come strumento parallelo di mantenimento in vita delle politiche di Qe classiche, destinate quindi a divenire strutturali e orientate unicamente alla copertura dei deficit federali sempre crescenti e al sostegno sistemico degli indici azionari. Insomma, Bitcoin rischia di divenire strumento fondamentale e strategico proprio di quei soggetti, le Banche centrali, per contrastare lo strapotere delle quali era nato. Un qualcosa di dantesco ma che ha un suo fondamento, vista proprio la correlazione che Bitcoin ha con le scelte della Fed: più si opera in maniera espansiva, più la criptovaluta si comporta da strategia di hedging contro il rischio strutturale di debasement del dollaro, esattamente come l’oro.

Sia rispetto al crollo di massa dei rendimenti in negativo, sia rispetto all’esplosione di bolle sulle equities. In parole povere, in un mondo dove la valuta fiat perde ogni giorno di credibilità reale di mercato e valore di benchmark, venendo ormai stampata in modalità ciclostile, tutto ciò che opera in contrasto con l’estremizzazione del monetarismo diviene bene rifugio. Insomma, non potendo battere Bitcoin, la Fed parrebbe decisa a copiarlo.

Anche perché, come mostra questo ultimo grafico

Bloomberg/Zerohedge

il susseguirsi a breve distanza di due prese di posizioni ufficiali come quelle raccontate in precedenza, tradisce i timori per l’approssimarsi del redde rationem proprio nei confronti della bolla di liquidità creata dalla Fed, come addirittura denunciato da George Soros. Dopo l’asta record di Treasuries a 30 anni per 26 miliardi di dollari di controvalore tenutasi il 13 agosto, i rendimenti dei titoli Usa sono saliti. E parecchio, tanto che il decennale è arrivato a sfondare lo 0,70%. Troppo, stante il regime di controllo della curva instaurato dalla Fed. E se soltanto le traiettorie di Nasdaq e rendimento del benchmark di debito Usa dovessere incontrarsi a metà strada, per Wall Street sarebbe una catastrofe. Ma per la Fed, forse, l’occasione di passare dal mero dibattito accademico ai fatti. Come testimonia il coinvolgimento dell’Mit.

Mercenari tagliagola terroristi cercasi, i militari statunitensi si affidano a costoro per rapinare il petrolio ai siriani

Siria: fonti stampa, Stati Uniti reclutano mercenari per difendere pozzi petroliferi ad Al Hasaka

Damasco , 14 ago 10:14 - (Agenzia Nova) - 

Le forze statunitensi starebbero cercando di reclutare mercenari tramite le Forze democratiche siriane (Fds) nel governatorato di Al Hasaka, nel nord-est della Siria, allo scopo di “proteggere le installazioni petrolifere”. Lo riferisce il portale siriano filo-governativo “Al Watan”, citando fonti locali. Le operazioni di reclutamento farebbero seguito all’accordo per l’estrazione, il trattamento e il commercio di petrolio siglato la scorsa settimana tra le Fds e la compagnia petrolifera statunitense Delta Crescent Energy Llc, alcuni esponenti della quale sarebbero stati già visti ieri in visita ai giacimenti petroliferi di Rumailan, a nord-est di Al Hasaka. Secondo le fonti, le forze statunitensi avrebbero, inoltre, fatto giungere “illegalmente” dall’Iraq, tramite il valico di Al Walid, un altro convoglio con rifornimenti logistici e militari per sostenere le operazioni negli impianti petroliferi del nord est.

Come prevedibile il Mediterraneo Orientale, ricco di petrolio e gas, è l'oggetto del contendere. Non è un caso che il porto di Beirut è saltato eliminando la disputa con gli ebrei sionisti palestinesi che vogliono accaparrarsi tutto

COLLISIONE TRA UN’UNITÀ MILITARE GRECA ED UNA TURCA NEL MEDITERRANEO ORIENTALE: COSA STA SUCCEDENDO?


14/08/20 

I rapporti tra Grecia e Turchia hanno subito negli anni frequenti riacutizzazioni, ma quest'ultima situazione ha qualcosa di esplosivo perché va a toccare un settore molto delicato ovvero i diritti marittimi sulle riserve di gas e petrolio del Mediterraneo orientale.

Premessa

Storicamente le relazioni tra Grecia e Turchia sono state caratterizzate da periodi alternati di reciproca ostilità e riconciliazione sin da quando la Grecia ottenne l'indipendenza dall'impero ottomano nel 1830. In seguito i due Paesi mediterranei si affrontarono in quattro grandi guerre: la guerra greco-turca (1897), la prima guerra balcanica del 1912-1913, la prima guerra mondiale (1914-1918) e infine la guerra greco-turca (1919-1922), seguite da un periodo di "apparentemente buone" relazioni negli anni '30 e '40.

Dopo la seconda guerra mondiale, nel periodo della guerra fredda, entrambi i Paesi si ritrovarono alleati nella NATO anche se non mancarono situazioni di crisi.

Le relazioni si deteriorarono di nuovo negli anni '50 a causa dei disordini di Istanbul del 1955, quando un saccheggio, tollerato dalle autorità turche, diretto a colpire la minoranza greca di Istanbul (composta allora da circa 100.000 persone) riaprì vecchie ferite. I disordini, organizzati dal partito democratico turco, furono mirati ad incentivare l'emigrazione dell'etnia greca, riducendone la presenza da circa 200.000 persone (nel 1924) ad appena 2.500 nel 2006.


Altra situazione di crisi fu l’invasione turca di Cipro nel 1974, che fu divisa con la parte settentrionale controllata dalla Turchia (riconosciuta come repubblica solo da Ankara) e la crisi militare del 1996 che avvenne al largo degli isolotti disabitati di Imia (Kardak in turco), di fatto sotto il controllo della Grecia ma rivendicati dalla Turchia che fece sfiorare un conflitto tra i due Paesi.

Dopo il 1999 ci fu un riavvicinamento, con un cambiamento della posizione precedentemente negativa del governo greco sull'adesione della Turchia all'Unione europea. Il cambiamento di regime in Turchia ha evidenziato una ripresa della politica ostativa precedente con fini chiaramente economici. Grecia e Cipro ritengono che le pretese turche di condurre esplorazioni sui giacimenti di petrolio e gas nel Mediterraneo orientale violino la loro sovranità. Nella faccenda è intervenuta anche l'Unione Europea sotto la Presidenza tedesca che ha ripetutamente condannato Ankara, ottenendo solo una calma apparente.

La Grecia ha promesso di difendere la propria sovranità e l'Unione Europea ha richiesto ad Ankara di riaprire un pacato dialogo sulle reciproche ambizioni sulle riserve di gas in quelle aree chiave del Mediterraneo orientale, in particolare su quelle aree economiche marittime che ritengono sovrapposte, in quanto vi sono differenti disegni sulle estensioni delle rispettive piattaforme continentali. In altre parole Atene ritiene che Ankara stia violando il diritto internazionale ma Ankara non fa un passo indietro.

Cerchiamo di capire meglio

Dopo l'intervento tedesco della Merkel, all'inizio di agosto Grecia e l’Egitto hanno firmato "un accordo che traccia le frontiere marittime" fra i due stati e "crea una zona economica esclusiva fra i due Paesi". Il ministro degli Esteri egiziano Shoukry, in una conferenza stampa congiunta con il collega ellenico, ha sottolineato che l'intesa "riflette le relazioni privilegiate fra i due Paesi e consente di trarre profitto dalle risorse che si trovano nell'area", in particolare gli idrocarburi. Dal canto suo il ministro greco ha affermato che questa intesa è "l'opposto" di quella firmata l'anno scorso fra Turchia e governo libico di Tripoli, che "andrebbe gettata nel cestino".


La Turchia ha dichiarato di non riconoscere il cosiddetto “accordo sulle frontiere marittime" e ne dimostrerà l'inefficacia "sul terreno e nei tavoli" internazionali, sostenendo che l'intesa riguarda un'area "riconosciuta anche dall'Onu come piattaforma continentale turca". Secondo la Turchia "non c'è alcun confine marittimo tra la Grecia e l'Egitto".

In sintesi, a parte le acque territoriali, che la Turchia potrebbe portare a 12 miglia, esistono forti disaccordi sulle zone economiche esclusive (ZEE), come quella citata tra Turchia e Libia, ma anche gli accordi della ZEE cipriota con Libano, Egitto e Israele che non sono accettati dalla Turchia e coinvolgono anche le piattaforme continentali, che possono estendersi fino a 200 miglia.

Una nuova grana che non sembra limitarsi a schermaglie politiche. In ballo ci sono enormi riserve di gas e petrolio nelle acque al largo di Cipro, che vedono il governo cipriota, la Grecia, Israele e l'Egitto in una sinergia per sfruttare quelle risorse che sarebbero poi dirette in Europa tramite un gasdotto di 1.200 miglia nel Mediterraneo. Questo non è gradito alla Turchia che ha le sue mire.

Dopo la firma dell'accordo con Grecia-Egitto sulla delimitazione delle zone di mare, Ankara ha riavviato l'esplorazione sismica nelle aree contese, inviando il 10 agosto una nave oceanografica la Oruç Reis (foto apertura) sotto la protezione di cinque navi della marina turca nelle acque al largo dell'isola greca di Kastellorizo.


Una provocazione alla quale Atene ha risposto inviando la fregata Limnos (foto) che sembra abbia tentato un avvicinamento dissuasivo alla Oruç Reis. Secondo i media ellenici, a questo punto la TCG Kemal Reis si è avvicinata speronando la HS Limnos. Le dinamiche non sono state confermate dalle rispettive Marine militari. Difficile quantificare i danni per entrambe le parti, ma è chiaro che un incidente di questa portata può avere ripercussioni importanti nei rapporti tra Atene e Ankara in uno dei momenti più bui delle relazioni tra i due Paesi.

Per adesso non sono arrivate conferme ufficiali da parte della marina turca né di quella greca che minimizzano l'evento. Ma alcuni segnali fanno intendere che qualcosa nell’Egeo sia accaduto davvero. Alcune foto iniziate a circolare sui social mostrerebbero un danno sulla prua della HS Limnos, secondo alcuni costretta a tornare in porto. Altri, di parte greca, ritengono invece il contrario ovvero che sia l’imbarcazione turca quella con maggiori danni.

Durante un convegno del suo partito, Giustizia e sviluppo, il presidente turco Erdogan ha parlato di un presunto attacco della flotta greca alla nave Oruç Reis, inviata per esplorazioni dei fondali vicino Kastellorizo (Castelrosso). Erdogan, rivolgendosi all'assemblea ha detto che il messaggio alla Grecia è stato chiarissimo: “Abbiamo detto loro, non osate attaccare la nostra Oruç Reis. Pagherete un caro prezzo se ci attaccate. E hanno ottenuto la loro prima risposta oggi”. Una frase che indicherebbe una conferma dello scontro nelle acque del Mediterraneo orientale. Conferme dell'evento arrivano anche da parte greca. Secondo il portale Ekathimerini, l’incidente tra la Limnos e la Kemal Reis sarà affrontato dal ministro degli Esteri Nikos Dendias nel Consiglio straordinario per gli affari esteri dell’Unione europea che si terrà il 14 agosto dopo la convocazione d’urgenza da parte dell’Alto commissario Josep Borrell. Per ora non sono previste sanzioni nei confronti della Turchia ma i media greci sembrano decisi a voler informare i partner europei di “incidenti operativi” con tanto di materiale fotografico di quelle acque dove è in corso un’esercitazione bilaterale tra la marina francese e quella greca.


Un altro passo di Parigi nell'area

E i Francesi entrano nel gioco. Un'esercitazione navale congiunta con la marina greca è in corso nell'Egeo. Essa rappresenta un forte segnale politico, come sottolineato dallo stesso Emmanuel Macron, di fatto affermando la necessità di appoggiare Atene sul rispetto dei trattati internazionali. Perché? Non bisogna essere sorpresi. Si tratta del proseguimento della politica di Parigi di volersi porre come ago della bilancia nel Mediterraneo orientale, dove la Francia, partendo dalla Libia, ha forti interessi economici nel campo energetico. L’invio di unità francesi è quindi un segnale da tenere da conto considerando che Macron ha concluso un accordo con Cipro per l’uso di una sua base navale. Il ministro della Difesa cipriota Savvas Angelides e quello francese Florence Parly hanno infatti trovato un accordo per consentire alla Marina francese di usare la base navale di Mari, sulla costa meridionale dell’isola.

Il problema è che la Turchia è anche un Paese alleato nella NATO, un tempo il più fedele degli Stati Uniti. Washington non può che osservare con preoccupazione lo sviluppo della situazione nel Mediterraneo. Anche la NATO non ha ancora emanato nessuna dichiarazione stampa ma la tensione nei corridoi di Bruxelles deve essere palpabile. Una spina nel cuore dell’Alleanza che non può permettersi di perdere la Turchia ma nemmeno di aprire una ferita profonda nel suo interno.

Andrea Mucedola (www.ocean4future.org)

Foto: web / Türk Silahlı Kuvvetleri / presidency of the republic of Turkey / U.S. Navy / Marine Nationale

E' normale speronare una nave militare di un altro Paese? Euroimbecilandia guarda in silenzio dimostrando la sua inutilità

TURCHI E GRECI COMINCIANO A SCONTRARSI


(di Tiziano Ciocchetti)
14/08/20 

Sale ulteriormente la tensione tra Grecia e Turchia nel Mediterraneo Orientale, al largo dell’isola di Rodi.

Secondo la ricostruzione dei media turchi, la notte scorsa una fregata greca (probabilmente un’unita classe Idra), ha effettuato una azione di disturbo nei confronti della nave da esplorazione turca Oruç Reis, impegnata in operazioni di ricerca di giacimenti di gas naturale nella zona (contesa, appunto, tra le due nazioni).

A difesa della Oruç Reis sarebbe intervenuta la fregata di scorta Kemalreis (foto), la quale ha subito fronteggiato l’unità greca, speronandola e costringendola quindi a battere in ritirata.

Secondo i media greci, invece, si sarebbe trattato di un errore di manovra del comandante dell’unità turca che avrebbe, per giunta, riportato i danni maggiori.

Comunque si siano svolti realmente i fatti, la tensione tra Grecia e Turchia sta toccando livelli che non si registravano dal 1974.

La Francia sta cercando di supportare i greci svolgendo esercitazioni congiunte ma i turchi continuano con la loro strategia.

Tanto per cambiare l’Unione Europea ha indetto un vertice straordinario per valutare la situazione, credo non sia azzardato affermare che il sultano Erdoğan non ne rimarrà intimorito.

Foto: U.S. Navy

Bertolt Brecht - Hollywood

Hollywood

Ogni mattina, per guadagnarmi da vivere,
Vado al mercato dove si comprano le bugie.
Pieno di speranza
Mi metto tra chi vende.

Bertolt Brecht

Libano - richiesta di un governo di unità nazionale, spazzare via i residui di ogni tipo di rivoluzione colorata diretta dai paesi stranieri

MEDIO ORIENTE
Esplosione a Beirut: Iran, spetta ai libanesi decidere il loro governo. Erdogan accusa Macron di colonialismo. «Danni per oltre 15 miliardi di dollari». 17 tonnellate aiuti Ue

14 agosto  2020

● Lunedì, al termine del Consiglio dei ministri, nel corso di un discorso televisivo al paese, il premier Diab ha annunciato le dimissioni del Governo da lui presieduto
● Il Paese ha scorte di grano per quattro mesi
● Dalla conferenza internazionale aiuti per 250 milioni di euro

22:32
Nasrallah propone governo di unità nazionale

Il leader del movimento sciita libanese Hezbollah, Sheikh Hassan Nasrallah, ha chiesto questa sera la formazione di un governo di unità nazionale, pochi giorni dopo le dimissioni del gabinetto presieduto da Hassan Diab, sulla scia delle violente manifestazioni popolari in seguito alla devastante esplosione a Beirut della scorsa settimana. Nel suo secondo discorso dall'esplosione, Nasrallah ha liquidato l'idea di un “governo neutrale” come una “perdita di tempo” per un Paese dove il potere e l'influenza sono distribuiti secondo le sette religiose.

“Non crediamo che ci siano (candidati) neutrali in Libano per formare un governo (neutrale)”, ha detto Nasrallah. Invece, il capo di Hezbollah ha chiesto un modello di governo che dura da anni, nonostante le crisi politiche ed economiche prolungate e le richieste di cambiamento. “Chiediamo che si tenti di formare un governo di unità nazionale, e se ciò non è possibile, allora un governo che assicuri la più ampia rappresentanza possibile per politici ed esperti”, ha detto Nasrallah.

16:31
Del Re (Esteri): dall’Italia aiuti a Beirut ma anche al resto del Paese

“L'ultima grave emergenza di Beirut non deve mettere in secondo piano i bisogni delle categorie più vulnerabili della popolazione in tutto il Libano, ad iniziare dall'accesso ai servizi, come l'istruzione, e dalla tutela dei diritti, nella prospettiva di una risposta complessiva alla crisi politico-finanziaria e alle crisi regionali che interessano il Paese dei Cedri''. Lo ha sottolineato la vice ministra degli Esteri, Emanuela Del Re che ha presieduto una riunione sull'emergenza in Libano con le Organizzazioni della società civile italiane (OSC) italiane che operano in Libano.

In video conferenza è stato fatto il punto anche sulla risposta all'emergenza umanitaria libanese a seguito della tragica esplosione del porto di Beirut, e inoltre sono stati acquisiti contributi e idee delle OSC riguardo a tempi e modi del sostegno italiano al piano di risposta internazionale all'emergenza e più in generale alle prossime iniziative della strategia italiana umanitaria e di sviluppo in Libano. “Le OSC - ha sottolineato Del Re - sono elemento fondamentale del sistema della cooperazione italiana e il loro contributo alla risposta italiana all'emergenza-Libano costituisce per noi un valore aggiunto”. “Ciò postula la necessità che le OSC italiane in Libano accrescano ulteriormente il già significativo coordinamento in loco facendo massa critica”, ha detto Del Re. La vice ministra ha anche annunciato che la prossima settimana presiederà un tavolo di coordinamento degli aiuti umanitari italiani in Libano con la partecipazione dei soggetti pubblici e privati interessati.

11:28
Ministro degli Esteri iraniano: spetta ai libanesi decidere il loro governo. Aiuteremo a ripristinare i servizi elettrici

I libanesi dovrebbero decidere da soli il loro futuro governo, ha detto venerdì a Beirut il ministro degli Esteri iraniano Mohammad Javad Zarif. Parlando dopo un incontro con la sua libanese, ha detto che l'Iran e le società private iraniane sono pronte ad aiutare il Libano con la ricostruzione dopo la catastrofica esplosione nel porto di Beirut la scorsa settimana, e con ripristinare i servizi elettrici.

18:48
La Difesa offre ospedale da campo e team interforze

“L'Italia è vicina al popolo libanese. La Difesa italiana contribuirà con ogni sforzo necessario per sostenere il Paese in questo momento difficile, come facciamo dal 1978. Non siete soli”. Lo ha detto il ministro della Difesa, Lorenzo Guerini, che entro la fine del mese si recherà in Libano per esprimere la vicinanza della Difesa italiana e di tutto il governo. “Ancora una volta - ha proseguito Guerini - il mio pensiero va alle numerosissime vittime e alle loro famiglie, e con grande speranza auguro ai feriti una pronta e completa guarigione. Il Libano ha sempre mostrato solidarietà ai popoli vicini, ai rifugiati. Un esempio per tutto il Mediterraneo e per l'Europa. Per questo l'Italia non farà mancare al popolo libanese la sua vicinanza e il suo contributo”.

Dopo le esplosioni che hanno devastato Beirut, il ministro Guerini ha messo a disposizione della Protezione Civile due velivoli C-130J dell'Aeronautica Militare per il trasporto di un team composto da Vigili del Fuoco e 4 militari dell'Esercito specializzati in attività Nbc. Sono stati effettuati inoltre altri 2 voli (6-12 agosto) con un velivolo C-130J dell'Aeronautica per il trasporto di materiale sanitario acquistato con fondi MAECI (10 tonnellate) da donare alla popolazione libanese.

Il ministero della Difesa sta inoltre predisponendo un contributo umanitario che prevede lo schieramento di un dispositivo interforze, con un Nucleo di comando e controllo, un Nucleo di rilevamento chimico/batteriologico, un Team del genio con mezzi movimento terra e un ospedale da campo completo di personale sanitario, tecnico e di supporto. Il dispositivo sarà operativo a Beirut già nei prossimi giorni, d'intesa con le Forze armate libanesi, attraverso l'impiego di unità navali della Marina militare e di aerei dell'Aeronautica.

18:03
Parlamento libanese approva stato d'emergenza di 2 settimane

Il parlamento libanese ha ratificato lo stato di emergenza di due settimane dichiarato a Beirut dopo la devastante esplosione al porto del 4 agosto. Per un provvedimento del genere, oltre gli 8 giorni, era necessario il consenso dei deputati. Il governo, dichiarando lo stato d'emergenza, aveva specificato che la gestione della sicurezza sarebbe stata affidata ad un “potere militare supremo”. Ma secondo la ong Legal Agenda, tale misura potrebbe “minare la libertà di manifestare” e consentire all'esercito “di prevenire i raduni considerati una minaccia alla sicurezza”. In una fase in cui le proteste di piazze sono ricominciate con forza, contro una classe politica ritenuta responsabile della tragedia a causa della sua negligenza. Proteste spesso degenerate in scontri con le forze dell'ordine. Una fonte militare ha però mitigato questi timori, assicurando che l'obiettivo dello stato d'emergenza “non è reprimere le libertà”.

15:29
Erdogan accusa Macron di colonialismo in Libano

Il presidente turco Recep Tayyip Erdogan ha accusato il francese Emmanuel Macron di “voler ristabilire l'ordine coloniale” in Libano e definito “uno spettacolo” la visita del capo dell'Eliseo a Beirut dopo la devastante esplosione del 4 agosto. Gli attacchi di Erdogan arrivano in un momento di crescenti tensioni tra Turchia e Francia sulla Libia e sul Mediterraneo orientale, dove Macron ha deciso di rafforzare la presenza militare francese.

15:28
Onu, aiuti vadano anche a rifugiati palestinesi

La comunità internazionale deve garantire che gli aiuti alla popolazione libanese colpita dall'esplosione di Beirut vadano anche ai rifugiati palestinesi in Libano. E' l'appello che arriva dalle Nazioni Unite che sottolineano l'importanza di aiutare queste persone a superare la nuova tempesta che potrebbe spingere questa comunità, tra le più vulnerabili del Paese, verso il baratro. La maggior parte degli oltre 200.000 palestinesi rifugiatisi in Libano vive attualmente al di sotto della soglia di povertà, la loro situazione è aggravata dall'aumento della crisi economica e dalle misure restrittive innescate dalla pandemia di Covidi-19. Secondo il responsabile della missione delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi nel vicino Oriente e Libano, Claudio Cordone, queste persone subiscono quotidianamente restrizioni al loro diritto al lavoro e alla proprietà. “Negli ultimi giorni abbiamo assistito a incoraggianti atti di solidarietà da parte dei rifugiati palestinesi nei confronti delle comunità di accoglienza, con volontari che hanno partecipato agli sforzi di soccorso e alla rimozione delle macerie. Sono parte integrante del Paese e qualsiasi piano di salvataggio globale dovrà soddisfare anche le loro esigenze”, ha sostenuto Cordone. Per proseguire il programma di sostegno dell'Onu ai rifugiati palestinesi in Libano, che si prevede di avviare in autunno, si stima servano 10,6 milioni di euro. “I fondi che stiamo cercando sono un piccolo prezzo da pagare per alleviare le difficoltà di una comunità in grave crisi e contribuire alla sua sicurezza e alla stabilità complessiva del paese”, ha concluso Cordone.

15:23
Oltre 17 tonnellate aiuti Ue a Beirut

Un volo del ponte aereo umanitario dell'Ue è atterrato stamani a Beirut, con oltre 17 tonnellate di medicinali e attrezzature mediche. I materiali di emergenza garantiranno l'accesso all'assistenza sanitaria ai più vulnerabili, dopo le esplosioni del 4 agosto, che hanno aggiunto pressione sul sistema sanitario libanese, già saturo a causa della pandemia da Coronavirus. Si legge in una nota della Commissione europea. L'aiuto umanitario si aggiunge alla risposta immediata dell'Ue, dopo le devastanti esplosioni nella capitale libanese.

13:08
Sereni: Italia pronta a sostenere rinascita del Libano

«La terribile esplosione nel porto di Beirut ha fatto precipitare una situazione già difficilissima», scrive in un intervento dedicato al Libano pubblicato giovedì sul Foglio la vice ministra degli Esteri Marina Sereni. «L'Italia - nota la vice ministra - ha fatto da tempo un investimento di lungo periodo nella sicurezza e nello sviluppo del Libano. Un investimento che dobbiamo continuare a coltivare. Del resto, i rapporti bilaterali con il Paese dei Cedri sono significativi: nel campo della difesa, con la missione di addestramento Mibil, sul piano economico con la presenza di importanti aziende nazionali, in materia di cooperazione internazionale, con il Libano inserito tra i Paesi prioritari». Sono tutti argomenti, sottolinea Marina Sereni, «che militano per un forte impegno e protagonismo del nostro Paese, a fianco della Francia e nella cornice europea, per mettere in campo nuove risorse e progetti, andando oltre - conclude Sereni - la pur importante solidarietà nell'emergenza di queste ore, per aiutare i Libanesi nella ricostruzione di Beirut e nelle riforme necessarie ad uscire dalla crisi».

“Di fronte a sé il Libano ha una triplice sfida da vincere. Sul piano politico, raggiungere, attraverso un dialogo di unità nazionale, un nuovo punto di equilibrio rispetto a un sistema confessionale che se ha garantito la pace al Paese, ha tuttavia ormai mostrato anche i suoi limiti. Sul piano economico, realizzare le riforme necessarie per favorire un nuovo sistema produttivo, non più basato solo sulla finanza e il ruolo delle banche, ma in grado di generare uno sviluppo sostenibile a beneficio dell'intero Paese. Sul piano geopolitico, evitare di farsi trascinare nelle tensioni e nelle crisi regionali che lo circondano, con i relativi effetti destabilizzanti. Ma il sentiero è stretto e il tempo per intervenire estremamente ridotto”. “In questo contesto davvero drammatico - scrive ancora Sereni - non c'è bisogno di ricordare l'interesse della comunità internazionale - e in primis dell'Europa e dell'Italia - di evitare in ogni modo il collasso del Paese. Basti ricordare le dinamiche tra Libano e Israele che rimangono particolarmente complesse e conflittuali. La missione Unifil vede la partecipazione di un nostro importante contingente militare. Questo ruolo di primo piano, il cui valore ed equilibrio ci viene riconosciuto da tutti, ci carica anche della responsabilità di mettere in campo ogni iniziativa utile a sostenere il Libano in questo momento così difficile”.

11:54
Rientrati in Italia i vigili del fuoco impegnati a Beirut

Atterrato mercoledì sera all'aeroporto militare di Pisa il velivolo C-130 dell'Aeronautica Militare che ha riportato in Italia il team di vigili del fuoco e Esercito impegnato in Libano. La missione di soccorso internazionale era partita il 5 agosto, nell'ambito del Meccanismo europeo di Protezione Civile con il coordinamento del Dipartimento di Protezione Civile, a seguito dell'esplosione avvenuta nella zona portuale di Beirut. Il personale del Corpo Nazionale dopo aver svolto all'atterraggio tutti i controlli medici del caso, imposti dall'emergenza Coronavirus, effettuerà a Firenze un periodo di isolamento. Durante la missione internazionale gli specialisti NBCR (nucleare biologico chimico radiologico) hanno svolto campionamenti e controlli delle acque marine, del suolo e dell'aria intorno al cratere generato dall'esplosione. Nei giorni successivi, spenti gli ultimi focolai nella nave proiettata dall'esplosione sulla banchina del porto, i vigili italiani hanno verificato la qualità dell'aria all'interno escludendo la presenza di sostanze pericolose e consentendo il successivo ingresso delle squadre locali per l'ispezione e la ricerca di eventuali vittime all'interno del relitto. Ingegneri strutturisti hanno svolto verifica di stabilità su alcuni edifici d'interesse posti a distanza dall'area immediatamente più colpita, riscontrando danni alle parti esterne come pannelli e soprattutto alle vetrate.

20:24
Presidente, oltre 15 miliardi di dollari i danni a Beirut

Ammontano a oltre 15 miliardi di dollari i danni provocati dalla terribile esplosione che ha distrutto il porto di Beirut il 4 agosto scorso. Lo ha reso noto il presidente libanese Michel Aoun.

20:23
Coronavirus: Msf,a Beirut salgono casi tra feriti e sfollati

A una settimana dall'esplosione di Beirut, restano enormi i bisogni degli oltre 6.000 feriti, dei 300.000 sfollati e di un'intera popolazione duramente provata, mentre aumentano i casi di Covid-19 nella capitale e in tutto il Libano. Lo indica in un comunicato Medici Senza Frontiere (MSF) i cui team sono al lavoro su tre principali aree di intervento: la cura dei feriti, la continuità di cura per i pazienti con malattie croniche e la salute mentale delle persone colpite. Dopo le prime valutazioni e donazioni di forniture mediche, Medici Senza Frontiere (MSF) ha allestito due punti medici fissi nei quartieri di Mar Mikhael e Karantina, le aree più colpite dalla deflagrazione, installato serbatoi d'acqua e distribuito kit igienici ai pazienti, mentre un team mobile visita i quartieri porta a porta per rispondere nel miglior modo possibile ai bisogni delle persone nell'area. “Prima dell'esplosione il sistema sanitario libanese stava gestendo con difficoltà un numero crescente di casi di Covid-19” dice Julien Raickman, capomissione di MSF in Libano. “Da allora, c'è stato un forte aumento dei contagi nel paese, dove in una settimana si sono registrati più di 1.500 nuovi casi, quasi il 25% di tutti i casi dall'inizio della pandemia, soprattutto a Beirut. La sera dell'esplosione c'è stato un enorme afflusso di pazienti nelle strutture sanitarie di tutta la città e non è stato possibile attuare correttamente le misure di prevenzione e controllo, così i casi si sono moltiplicati. Oltre 300.000 persone hanno perso la casa e hanno dovuto trovare altri posti dove stare, il che non semplifica le cose”. “Questo aumento di casi - prosegue Raickman - è una delle nostre principali preoccupazioni e stiamo valutando come adattare al meglio i nostri progetti alla situazione”.

Covid-19 - "contagiato non vuol dire malato" e stare in Rianimazione non vuol dire avere il covid. Le televisioni non lo sanno. Il lerciume sanitario al potere. Svezia docet imparare con umiltà

Alberto Zangrillo e i malati di coronavirus, dati alla mano contro Andrea Crisanti: "Le bugie hanno le gambe corte"


14 agosto 2020

Dopo la frase "il virus clinicamente non esiste più", Alberto Zangrillo torna a fare scalpore. Il responsabile del reparto di Terapia intensiva dell'ospedale San Raffaele di Milano ha dichiarato che "contagiato non vuol dire malato". Apriti cielo, non l'avesse mai detto. Non bastava infatti l'attacco di Nino Cartabellotta, presidente Gimbe, a picchiare duro contro l'esperto anche Andrea Crisanti. Il virologo dell'Università di Padova, ospite a In Onda su La7, ha replicato: "Quelle di Zangrillo sono affermazioni estremamente pericolose". Per l'ex commissario per l'emergenza coronavirus di Luca Zaia Zangrillo ha sbagliato a dire che non entrano più malati di Covid-19 in rianimazione. "Forse - ha tuonato - si riferisce al suo ospedale, perché qui non è vero e non penso che possa riferirsi a piano nazionale. In Veneto abbiamo decine e decine di malati in reparto e in rianimazione e non capisco su quali basi faccia questa affermazione".

venerdì 14 agosto 2020

L'Euro è un Progetto Criminale

La collocazione dell'uscita dall'UE nella strategia per il socialismo

di Domenico Moro
8 agosto 2020


Il dibattito intorno all’Unione Europea e alla permanenza dell’Italia al suo interno ha attinto nuova linfa dalla crisi sanitaria del Covid 19 e dalle conseguenti contrattazioni tra i paesi europei per l’individuazione dei meccanismi di sostegno agli Stati. Ciò che è, però, largamente assente dalla discussione è una posizione autonoma dei comunisti che approfondisca le condizioni attuali del processo di integrazione europea, la complessità delle relazioni competitive tra paesi capitalistici e i meccanismi di controllo e oppressione messi in campo attraverso le istituzioni dell’Unione Europea.

Con il seguente articolo inauguriamo una rubrica di discussione sul tema e intendiamo lanciare un’ampia riflessione strategica sul ruolo dei comunisti nella lotta contro le istituzioni europee. Lo faremo grazie a diversi contributi che si soffermeranno sui vari aspetti che compongono la questione, attraverso una molteplicità di punti di vista provenienti, anche, dai partiti comunisti degli altri paesi membri, con il fine di contribuire a far avanzare il dibattito tra i comunisti su questa importantissima tematica.

* * * *

La questione del giudizio da dare sull’Ue e sull’euro appare oggi ancora più centrale che nel passato alla luce della recente crisi del Covid-19. Come già verificatosi nel corso della crisi precedente, quella del 2007-2008, l’Ue e l’euro presentano delle caratteristiche intrinseche che impediscono di far fronte alla crisi e soprattutto di rispondere al peggioramento delle condizioni del lavoro salariato, a partire dai suoi settori più deboli quali quelli precari e sottoccupati.

Le varie posizioni sull’uscita dalla Ue e dall’euro

In questo contesto, caratterizzato da un crollo del Pil nella zona euro e in Italia, che ha paragoni solo con il periodo degli ultimi anni della Seconda guerra mondiale, si è, quindi, riaccesa la discussione sull’uscita dall’euro che, del resto, è stato un tema abbastanza dibattuto negli ultimi anni. Purtroppo, tale discussione tende a polarizzarsi in due posizioni estreme. La prima, e più diffusa all’interno della sinistra, anche radicale, è quella secondo cui l’uscita dall’euro sarebbe da rigettare. Sulle ragioni di questo rigetto c’è una certa differenziazione. Alcuni ritengono che uscire dall’euro sarebbe antistorico, comportando il ritorno allo Stato nazione, e quindi prospettano la necessità di una lotta internazionale per la modifica della Ue. Altri, pur riconoscendo immodificabile l’Ue, ritengono che il vero problema sia il capitalismo, e che l’uscita dall’Ue ci riporterebbe nelle braccia dello Stato nazione, che ha, comunque, un preciso carattere di classe, dando al contempo nuova vitalità agli imperialismi nazionali. La seconda posizione è, invece, caratterizzata da chi, non solo mette al centro di tutto la questione dell’uscita dall’euro, ma pensa che, di per sé, l’uscita dalla Ue risolverebbe tutti i problemi delle classi subalterne, favorendo il ritorno al dettato costituzionale. Spesso questa posizione vede l’Italia come una specie di colonia e la sua classe dirigente asservita agli interessi nazionali stranieri, nella fattispecie a quelli tedeschi, sfociando nell’interclassismo e puntando così, di conseguenza, a mettere insieme un blocco sociale eterogeno composto anche da settori del capitale, presunti anti-euro.

Per quanto riguarda la prima posizione, pensare che si possa modificare la Ue è irrealistico, in quanto i trattati che regolano il funzionamento dell’Ue sono modificabili solo all’unanimità. Inoltre, si è visto molto chiaramente nell’ultimo decennio che la crisi dell’integrazione europea non ha certo favorito la crescita di lotte internazionali per la sua modificazione, bensì, semmai, ha approfondito, insieme ai divari tra le nazioni, anche le contraddizioni all’interno e tra le frazioni nazionali del proletariato europeo, con l’aumento, ad esempio, della xenofobia e del nazionalismo a livello popolare. Sempre all’interno della prima posizione, chi, invece, pensa che il problema è il capitalismo e non la Ue si condanna all’irrilevanza politica, perché rimane su una posizione astrattamente teorica che non tiene conto dei rapporti economici e politici reali, cioè della situazione concreta. Infatti, oggi il capitalismo europeo ha nella Ue e nell’euro un elemento costitutivo decisivo. Un errore speculare, anche se di segno opposto, viene commesso anche da chi ritiene che basti uscire dall’euro per risolvere tutti i problemi. In questo caso, si dimentica la questione dei rapporti di forza e soprattutto la natura non neutrale dello Stato, dando quasi per scontato che fuori dalla Ue e dall’euro si possano svolgere politiche antiliberiste.

Ue come strumento di governabilità del capitale monopolistico

Si tratta di un errore speculare perché entrambe le posizioni nascono da una concezione parziale e non materialistica dello Stato. Lo Stato è non solo lo strumento della classe economicamente dominante ma anche il luogo della mediazione tra le classi sociali e la forma che lo Stato assume è la cristallizzazione di questi rapporti di forza.

Ciò è ben visibile negli Stati che sono usciti dalla Seconda guerra mondiale, dove, pur all’interno di un contesto capitalistico, i rapporti di forza si erano modificati a favore della classe lavoratrice, che ha continuato a fare passi in avanti per alcuni decenni grazie a una serie continua di lotte sul cui esito positivo non fu estranea l’esistenza della competizione tra Paesi imperialisti e Urss. È stato a partire dagli anni ’80 e ’90 che i rapporti di forza tra le classi hanno cominciato e continuano a modificarsi a sfavore della classe lavoratrice. Tali modificazioni hanno avuto un riflesso anche nello Stato, e nel modo di funzionare delle sue istituzioni.

L’elemento su cui dobbiamo soffermarci è che tale modificazione è avvenuta, specialmente ma non solamente in Italia, grazie all’integrazione europea. Significative sono le parole di Guido Carli, ex governatore della Banca d’Italia e una delle figure più importanti dei capitalismo italiano tra gli anni ’60 e la i primi ‘90: “L’Unione europea ha rappresentato una via alternativa alla soluzione di problemi che non riuscivamo ad affrontare per le vie ordinarie del governo e del Parlamento.” Fu a metà degli anni ’70, contemporaneamente alla riproposizione della crisi da sovrapproduzione di capitale, che il capitale europeo cominciò a pensare al concetto di governabilità, cioè a come ridare forza agli esecutivi, cioè ai governi, a detrimento dei legislativi, cioè dei parlamenti, che in qualche modo rappresentavano le spinte che venivano dalla società. Il tema della governabilità fu al centro dell’incontro a Tokio nel 1975 della Trilaterale, una organizzazione che mette insieme l’élite del capitalismo mondiale. A introdurre quell’incontro fu un testo intitolato La crisi della democrazia, dove si possono leggere le parole seguenti:

“L’interdipendenza europea forza le nazioni europee ad affrontare l’impossibile problema dell’unità. Quello di un’Europa unita è stato per lungo tempo l’ideale che ha consentito di conservare la spinta a superare gli obsoleti modi di governo che prevalgono nei sistemi statali nazionali. Ma i fautori della unificazione europea hanno esitato troppo davanti all’ostacolo rappresentato dalla gestione nodale del potere dello Stato centrale, che le crisi attuali hanno ulteriormente rafforzato, affinché si possa sperare nel futuro immediato. Ciononostante l’investimento in una comune capacità europea rimane indispensabile non solo per il bene dell’Europa ma per la capacità di ogni singolo Paese di superare i suoi problemi.”1

La crisi della democrazia, per gli estensori del rapporto della Trilaterale, era dovuta all’”eccesso di democrazia”, cioè al potere delle masse e dei partiti di massa che si era sviluppato in modo per l’appunto eccessivo negli anni precedenti. Gli “obsoleti modi di governo” sono quelli improntati allo sviluppo del settore economico pubblico, del welfare e dei diritti dei lavoratori. Per superarli c’è bisogno, è questo il senso del discorso, che ci sia meno Stato e più privato e questo è permesso dall’integrazione europea, in particolare dalla alienazione ad organismi sovrannazionali di alcune funzioni essenziali dello Stato come il bilancio, il debito pubblico e la moneta. Che una moneta unica potesse essere la soluzione ai problemi del capitale europeo era chiaro già nel 1958, come appare da un estratto della conferenza, tenutasi a Buxton, del Gruppo Bilderberg, un’altra organizzazione del capitale internazionale:

Uno dei maggiori problemi coi quali la Comunità economica europea si confronta è quello del coordinamento delle politiche monetarie. […] La politica monetaria è strettamente legata ai bilanci nazionali e la disciplina di bilancio è notoriamente difficile da raggiungere. I ministri delle finanze sono di solito più ragionevoli e potrebbero occasionalmente accettare pressioni esterne ma è molto più difficile convincere i parlamenti nazionali. Chi parla dubita che a lungo termine il problema possa essere risolto con successo senza un appropriato meccanismo istituzionale. Questo punto è trattato da un altro partecipante che guarda a una valuta comune come a una soluzione definitiva.”2

Appare evidente che la valuta comune, quella che poi sarà l’euro, è uno strumento di controllo del bilancio pubblico e quindi delle richieste popolari in termini di welfare, pensioni, ecc. In questo contesto rientra anche la separazione della banca centrale dal governo, ossia la sua autonomia, che comincia proprio nello stesso periodo a essere caldeggiata dai mass media legati al grande capitale. Già prima della costituzione della Banca centrale europea, in Italia si produsse la separazione della Banca d’Italia dal Tesoro nel 1981. In questo modo la Banca d’Italia non poteva più acquistare direttamente i titoli di stato emessi dal Tesoro e con ciò calmierare i tassi d’interesse sul debito, cosa che contribuì grandemente al raddoppio (da 20 mila miliardi di lire a 127 mila miliardi del 1990) del debito pubblico italiano in pochi anni, tra 1981 e 1994.

Il punto è che la classe dominante italiana ha utilizzato l’integrazione europea e il percorso per arrivare ad essa come strumento per imporre quelle controriforme che altrimenti non sarebbero passate e per modificare i rapporti di forza all’interno dello Stato a proprio favore. “Ce lo chiede l’Europa” è stato per vent’anni lo slogan che serviva a tacitare le voci contrarie.

L’integrazione europea ha permesso di raggiungere una piena governabilità, perché l’organismo più importante dell’Ue, come abbiamo avuto conferma durante le recenti trattative sul Recovery Fund, è il Consiglio europeo, che è composto dai capi di governo della Ue. Il Consiglio europeo, oltre a definire le priorità e gli orientamenti generali dell’Ue, propone il Presidente della Commissione europea e soprattutto nomina i membri della Bce e il suo presidente. Quindi, ciò davanti a cui ci troviamo non è una perdita della sovranità nazionale, ma una delega di alcune funzioni a organismi sovranazionali che sono peraltro strettamente controllati dagli esecutivi. La Ue è sostanzialmente un organismo intergovernativo basato sulla competitività economica tra Paesi e imprese, dove contano i rapporti di forza tra gli Stati. Lo stesso Trattato di Aquisgrana, che più di un anno fa rafforzò il legame tra Francia e Germania, è un trattato tra stati nazione che, all’interno dell’Europa, decidono, in base ai propri interessi, di darsi mutuo appoggio su una serie di temi e di consultarsi prima di ogni riunione europea decisiva, come è puntualmente accaduto anche a proposito del Recovery Fund, che è nato proprio su proposta franco-tedesca. Lo Stato nazione rimane, anzi alcune sue funzioni, come quella decisiva del monopolio dell’uso della forza, non solo permangono nelle sue mani ma si rafforzano. Allo stesso modo, all’interno del contesto Ue, la tendenza imperialista nazionale rimane intatta, anzi si rafforza, perché la depressione del mercato interno, accentuato dall’euro e dall’austerity, rafforza la tendenza espansionistica del capitale verso l’estero. Ciò è dimostrato dall’aumento dell’attivismo non solo economico ma anche militare della Francia in Africa, che ha portato, fra l’altro, all’attacco miliare contro la Libia, che aveva tra i suoi scopi anche quello di sostituire nello sfruttamento delle risorse energetiche e dei ricchi appalti di quel Paese le imprese dell’Italia, a partire dall’Eni. In sostanza l’esistenza della Ue e dell’euro non impediscono che i vari Paesi, che pure ne fanno parte, si trovino su fronti opposti in proxy war imperialistiche in Paesi periferici.

Quindi, l’unica sovranità a essere messa in discussione dall’Ue è quella democratica che, come recita la Costituzione, dovrebbe risiedere nel popolo (Art. 1). Invece, grazie ai trattati europei, la sovranità è nelle mani del grande capitale monopolistico e multinazionale a base europea, che la impone grazie agli esecutivi e agli organismi europei che da quelli emanano, molto più di quanto accadrebbe in condizioni “normali”, cioè nelle condizioni ereditate dalla fine del fascismo. Non è un caso che in un rapporto della banca d’affari statunitense JP Morgan nel 2013 si trovasse la seguente affermazione: “I sistemi politici dei Paesi europei del Sud e in particolare le loro costituzioni, adottate in seguito alla caduta del fascismo, presentano caratteristiche inadatte a favorire l’integrazione. C’è forte influenza di idee socialiste”, citando, tra i contenuti problematici, la tutela dei diritti dei lavoratori.3

L’euro come mezzo di deflazione salariale e compressione del welfare

L’architettura dell’euro è centrale all’interno del contesto europeo per le ragioni suddette, cioè perché permette di imporre la disciplina di bilancio in modo molto più stringente, ma anche perché è un fattore di deflazione salariale, in quanto le imprese non possono ricorrere alle svalutazioni competitive per compensare svantaggi nei confronti di concorrenti esteri e devono ricorrere ancora di più alla deflazione salariare, cioè a ridurre il salario. La Bce e la Commissione europea, inoltre, impongono scelte di politica economica e sociale ai parlamenti con le cosiddette raccomandazioni. Quale sia la natura di tali raccomandazioni è dimostrato da uno studio svolto per conto di un eurodeputato della Linke tedesca, Martin Schirdewan4. Le raccomandazioni della Commissione rivolte specificatamente ai singoli Paesi hanno riguardato, oltre che la richiesta di riduzione della spesa pubblica, anche i tagli a pensioni, sanità, salari, diritti dei lavoratori e sussidi per disoccupati e persone disabili. In particolare, tra 2014 e 2018, sono state rivolte agli Stati Ue 105 raccomandazioni per l’incremento dell’età pensionistica e la riduzione della spesa pensionistica, 63 raccomandazioni per i tagli alla spesa sanitaria o per la privatizzazione della sanità, 50 raccomandazioni per la soppressione di aumenti salariali, 38 raccomandazioni per la riduzione della sicurezza del lavoro e dei diritti di contrattazione dei lavoratori, e 45 raccomandazioni per la riduzione dei sussidi a disoccupati e persone disabili. I fondi previsti dal Recovery fund verranno pagati ai Paesi richiedenti in singole tranche, ma solo dopo la verifica da parte della Commissione che le sue raccomandazioni saranno state accettate.

Altro elemento centrale è rappresentato dai vincoli al deficit al 3% e al debito al 60% del Pil, contemplati nei trattati, e che rappresentano, insieme all’inserimento nella Costituzione del pareggio di bilancio, una vera gabbia nei confronti della la spesa sociale e fattore di impedimento all’impiego di efficaci politiche contro le crisi. C’è voluta una crisi di dimensioni enormi per sospendere quei vincoli. Ma nessuno ha proposto, come sarebbe stato opportuno, di eliminarli, anzi, a più riprese, membri della Commissione europea hanno affermato che bisogna prepararsi a reintrodurli e che la questione centrale rimane la disciplina di bilancio. Ciò, però, entra in contraddizione con i mezzi che il Consiglio europeo ha individuato per fare fronte alla crisi. Infatti, il Mes, il Sure e il Recovery Fund forniranno il loro aiuto soprattutto sotto forma di prestiti, che non solo aumenteranno il debito dei Paesi richiedenti, ma aumenteranno anche lo spread, cioè il divario tra i tassi d’interesse di Paesi come l’Italia nei confronti della Germania, perché il debito contratto con questi organismi europei è di natura senior, cioè ha il diritto di essere restituito per primo, provocando, in questo modo, l’innalzamento dei tassi d’interesse dei buoni del tesoro ordinari, proprio per compensare il maggiore rischio degli investitori. Infine, la Bce non può svolgere la funzione di prestatore di ultima istanza che consentirebbe di tenere sotto controllo i tassi d’interesse e finanziare direttamente lo Stato con l’emissione di liquidità. Quello che la Bce si è trovata costretta a fare nel corso della precedente crisi e nel corso della crisi attuale, con i vari Quantitative easing, acquistando titoli di Stato e bond di imprese, rappresenta un pallido esempio di quello che sarebbe necessario fare in condizioni così difficili, senza contare che la Corte costituzione federale tedesca di Karlsruhe ha criticato l’azione della Bce come inappropriata.

Il capitale italiano è per l’uscita dall’euro?

La Ue e l’euro non sono soltanto un progetto economico, ma rappresentano un progetto politico, cioè inerente ai rapporti compressivi tra le classi sociali. L’integrazione europea ha, infatti, contribuito pesantemente a modificare i rapporti di forza all’interno dello Stato a favore del grande capitale multinazionale e contro i lavoratori. Questa è la ragione per cui non è ravvisabile all’interno del capitale italiano, in particolare nel suo settore d’élite, una posizione anti-euro e tantomeno anti-Ue. Se emergono posizioni critiche, queste sono interne ai giochi di potere tra le varie frazioni del capitale europeo e tra gli Stati che le rappresentano, allo scopo non certo di uscire dalla Ue, bensì di ottenere porzioni della torta maggiori, cioè quote maggiori degli aiuti di Stato, attraverso garanzie statali sui prestiti bancari e le ricapitalizzazioni via Cassa depositi e prestiti, ed europei, anche attraverso la Bei, il cui flusso maggiore andrà verso il grande capitale, come dimostrano i prestiti di cui già usufruiscono, ad esempio, Fca e Autostrade per l’Italia. Non si può, dunque, parlare di settori del capitale monopolistico che sono per l’uscita dall’euro o dalla Ue. La vicenda della Brexit è totalmente diversa. In quel caso il settore dominante del capitale britannico, quello finanziario rappresentato dalla borsa di Londra, la seconda piazza finanziaria del mondo, sarebbe stato indebolito dalla costituzione dell’Unione bancaria e soprattutto dalla realizzazione del mercato finanziario unico europeo, che rimane l’obiettivo più importante nella prossima fase dell’integrazione europea.

Ben diverso è l’atteggiamento della classe dominante italiana, costituita in parte rilevante da imprese che esportano manufatti sul mercato europeo e mondiale e vedono la Ue come un organismo necessario ai propri affari ed in grado di fare quello che lo Stato nazionale da solo non potrebbe fare. A manifestare maggiore “nervosismo” nei confronti della Ue sono essenzialmente settori piccolo borghesi, soprattutto composti dal ceto medio intellettuale, dal momento che la piccola borghesia imprenditoriale non ha né la forza né la capacità di andare fino in fondo con la rottura con la Ue, anche perché è strettamente legata alla grande impresa multinazionale sia a base italiana che estera. La stessa Lega, partito storicamente rappresentante della piccolissima, piccola e media impresa, ha di recente molto sfumato le sue posizioni antieuropee, con il prevalere dell’ala europeista rappresentata da Giorgetti e il defilarsi dell’ala anti-Ue, rappresentata da personalità come Bagnai. Resta, però, il fatto che si sta assistendo a un cambiamento dell’atteggiamento di massa nei confronti della Ue, proprio in concomitanza con la crisi attuale e il modo di affrontarla da parte della Ue. Mentre l’opinione pubblica italiana è sempre stata tra quelle più europeiste, recentemente alcuni sondaggi hanno rilevato un giudizio negativo sulla Ue da parte del 62% degli intervistati5. A livello europeo ben il 53% dei rispondenti a una indagine di Eurobarometro si è detto insoddisfatto della solidarietà mostrata dall’Ue nel corso della pandemia6. Del resto i settori di classe che hanno maggiore interesse all’uscita dalla Ue e dall’euro sono proprio quelli subalterni, in particolare i lavoratori salariati (non quelli del pubblico impiego).

Conclusioni, l’uscita dall’euro come parte della strategia per il socialismo

Qual è, quindi, la posizione da adottare sulla questione dell’uscita dall’euro e dalla Ue? In primo luogo, va ribadito che non si può non assumere una posizione sulla questione, sia per la centralità oggettiva della Ue nelle vicende italiane, sia perché si sta diffondendo un sempre più forte scetticismo nei confronti della Ue. In secondo luogo, contrariamente a quanti pensano che l’uscita dalla Ue sia l’alfa e l’omega della politica, non bisogna isolare il tema dell’uscita dall’euro dalla questione più generale del capitalismo. Se è vero che oggi il capitale in Italia e in Europa è intimamente legato all’integrazione europea, è altrettanto vero che il problema centrale per la classe lavoratrice, in un Paese avanzato come l’Italia, è rappresentato dall’esistenza del capitalismo e dell’imperialismo.

Ciò significa che l’uscita dall’euro è una condizione necessaria, per portare avanti gli interessi tattici e strategici della classe lavoratrice, ma non sufficiente.

Per questa ragione la domanda non è tanto se è auspicabile o no uscire dall’euro, in quanto questo è, dal punto di vista di classe, indubbio, ma come portare avanti questa parola d’ordine. Il modo corretto non può certo essere quello di piegarsi a una specie di neonazionalismo in cui si tratta di difendere l’Italia, la vittima, nei confronti della “cattiva” Germania, e quindi ricercare alleanze con settori borghesi presunti anti-euro. Al contrario, bisogna inserire la questione dell’uscita dall’euro all’interno del processo più generale di critica e di lotta al capitalismo italiano ed europeo nella fase imperialista.

Se non vogliamo limitarci a declamare la necessità del socialismo, dobbiamo assumere un programma di fase e dentro, anzi al centro di questo programma, in Italia non può non esserci l’uscita dalla Ue. In parole più semplici, se vogliamo essere realisti non possiamo lottare per la sanità pubblica, le pensioni, il lavoro ecc. senza affrontare il nodo dei trattati e della Ue, ma, al tempo stesso, se vogliamo essere coerenti con la nostra visione della società attuale, questa posizione va inserita in una lotta più generale contro il capitale, individuando per l’appunto un programma di fase o minimo, come preferiamo definirlo. Questo programma deve investire la natura dello Stato e delle sue istituzioni, proprio perché lo Stato non è neutrale dal punto di vista di classe, come dimostra lo stesso uso dell’integrazione europea da parte del grande capitale. Ad esempio, non basta uscire dall’euro se poi la Banca d’Italia continua ad essere autonoma dal Tesoro e a non svolgere il ruolo di prestatore di ultima istanza, o se le nazionalizzazioni vengono intese come semplice socializzazione delle perdite del capitale, facendo sì che le imprese partecipate dallo Stato assumano la forma di spa quotate in borsa e quindi soggette a tutte le regole del capitalismo, anziché essere trasformate in enti pubblici con scopi di sviluppo sociale.

In sostanza, c’è bisogno di un perimetro di lotte più complessivo, che faccia fare il salto dalla pura lotta di difesa delle condizioni immediate di vita e di lavoro ad un piano più complessivo, politico, che necessariamente includa il tema della Ue. In quest’ottica, l’uscita dalla Ue sarebbe un passaggio fondamentale sì, ma solo un passaggio, della lotta generale per il socialismo nel nostro Paese e in Europa.

Note
1 M. Crozier, S.P. Huntington, J. Watanuki, La crisi della democrazia, Franco Angeli editore, Milano 1977, p. 159.
2 Rapporto riservato del Bilderberg Group, Buxton Conference, 13-25 settembre 1958. Documento pubblicato da WikiLeaks. Cit. in D. Moro, Il gruppo Bilderberg. L’élite del potere mondiale, Aliberti editore, Reggio Emilia, 2014.
5 Sondaggio Emg Acqua riportato nella trasmissione televisiva Agorà, 25 giugno 2020.

Ci sommergono di fake news, ci riempiono di melma, gli alveoli ne sono pieni, non riusciamo a respirare

Numeri da sballo dal Covid al Recovery Fund e al milione di Berlino

di Fulvio Grimaldi
6 agosto 2020

Grande spettacolo di acrobati, giocolieri, illusionisti... E qualche rettifica nell’intervista di Vox Italia TV al sottoscritto

“La verità è tradimento in un impero di bugie" (George Orwell)

Qui l'intervista a Vox Italia TV sulle urgenze del presente tra Covid, 5G e sovranità

N0 censura

Una premessa che riguarda Facebook e Mr. Zuckerberg. Personalmente non avrei gravi motivi per lamentarmi del trattamento riservato ai miei articoli, spesso di segno politicamente scorrettissimo e antagonista rispetto all’Ordine prevalente. Solo in un paio di occasioni in cui, per motivi davvero futili e, come sempre, non esplicitati, sono stato bannato per qualche giorno. Provvedimenti cui ho reagito con l’avvertimento di ricorrere agli strumenti legali e sindacali (da giornalista) a mia disposizione e che, da allora, non si sono ripetuti.

Ora però si apprende di censure indebite inflitte da questa impresa privata a suoi legittimi e corretti utenti per pura discriminazione politica, di visualizzazioni di pagine e profili non graditi che vengono filtrate e ridotte artificialmente (anche a me?). Ed è oggi la notizia dell’odiosa rimozione d’autorità del post in cui un noto medico palestinese definiva eroina un’infermiera della stessa nazionalità per aver salvato vite nella spaventosa esplosione di Beirut.

A questo punto si pone l’urgente necessità di formare un nucleo di giuristi, assistito da un centro di informazioni, che si ponga il compito di individuare, denunciare e perseguire tutte le violazioni e gli abusi che dai padroni dei social vengono perpetrati ai danni degli utenti. Un compito che, nell’ambito della professione giornalistica, avrebbe dovuto essere assolto già da tempo da parte dell’Ordine dei Giornalisti nei confronti dell’alluvione di fake news somministrataci giornalmente dai media detti “mainstream”.

Media: climax e anticlimax

Pensavamo di aver visto e letto tutto? Di aver raggiunto l’apice, il vertice, l’estremo, il non plus ultra? O, come dicono i fichi vernacolari, il top, il climax, il peak, il summit? Eravamo convinti che il giornalismo italiano (non solo) avesse superato, dopo le guerre per la democrazia e i diritti umani, il pericolo islamico, i migranti “salvati da naufragio” e “in fuga da guerra fame e dittatura”, la pandemia sterminatrice, ogni capacità di inventiva? Che la sua capacità di manipolazione, falsificazione, occultamento, distorsione e imbroglio avesse svergognato perfino gli inventori della Donazione di Costantino, delle reliquie del sangue di Cristo, delle schegge della sua croce, della Sacra Sindone, delle stimmate di Padre Pio, della pietra filosofale, della filantropia di Bill Gates?

Con i numeri del Coronavirus, in cui milioni di sanissimi e innocui positivi diventano decine di migliaia di contagiati malati e l’ambiente umano intorno a noi si riempie di minacciosi untori; dove tutti i decessi transitano, obbedendo disciplinatamente all’ordine ministeriale di evitare accertamenti autoptici, da senza virus, o con virus in insignificante aggiunta a patologie terminali, a morti DA virus. Cui venivano poi addizionati i morti sicuramente a causa del virus, non perché l’avessero, ma perché, con la scusa del virus, erano strati rinchiusi e privati delle necessarie cure, del sole, del movimento.

Pippo come Cesare, prima di Crasso e Pompeo

Breve accenno agli altri numeri miracolosi, grazie ai quali al maestro delle cerimonie di Corte, Pippo Conte, governatore di un paese allo sfascio, sono stati tributati gli onori di Giulio Cesare di ritorno dalle Gallie. Per una divertente eterogenesi dei fini, lo strangolato dagli usurai, viene fatto passare per nipotino beneficiato da Paperone. Gli è dunque dovuta la proroga fino a metà ottobre del suo e loro biotecnofascismo e, impropriamente, per altri quattro anni, la leva di comando sui servizi segreti (che si sa a cosa siano addetti, da Piazza Fontana, ieri, a Beirut oggi).

Della truffa di un Fondo Recupero (Recovery Fund, per i fichi vernacolari) che non ci metterà neanche più le pezze al culo, ma incatenerà ciascuno di noi, solo e a vita, a una tastiera con schermo, sotto tiro del 5G, avete già sentito le controindicazioni. Dai 1.500 miliardi, per riparare i danni dell’Operazione Coronavirus, dopo l’intervento dei regimi pidocchiosi del Nord, s’era scesi alla metà. Di questa, la maggioranza doveva essere a fondo perduto (regalia, per senso di colpa da virus) e una parte minore in prestito. Poi il senso di colpa è svaporato, le proporzioni si sono invertite e per noi la quota buona si è ridotta a 80 miliardi, a partire da 2021 inoltrato. Di questi 80, se teniamo conto del nostro dare e avere con l’UE, solo una trentina emergeranno dal rosso. In compenso il nostro rosso stellare, con le rate in scadenza entro l’anno, ci divorerà molto prima. Vedi qui.

Ci sono quelli che stappano champagne, non al Papeete (il cui figurante di punta va a processo per aver fatto l’unica cosa giusta della sua vita, condannato, tra l’altro, da chi aveva condiviso il suo blocco dei negrieri), bensì tra Nazareno e Sant’Ilario. Strafatti di bollicine, straparlano di “massa immensa di miliardi in arrivo”, senza condizioni. Come quelle del MES, che ti congelano il conto appena non fai le riforme transumane e subumane che servono; o quelle del Recovery, appunto, dove, micio micio, hanno inserito la formuletta, già occultata da Vittorio Colao (Vodafone) nel suo “report” di 121 capitoletti: digitale (5G e poi 6G) per tutti, ovunque, sempre. Altrimenti piccioli stop, nisba, nix, niet.

Dove sono le Fake News?

Chiudo riandando all’argomento 1 agosto a Berlino (un’altra mega-manifestazione contro le misure governative è annunciata per il 29 agosto) . Ecco qualche titolo di tutti i media (al solito, il più carino è dell’ultra-destro “il manifesto”), che, nella loro infinita costernazione e sconfinata capacità di mistificazione pro domo regis, avevano ridotto il milione e passa di smascherinati manifestanti per la libertà/verità e anti-Operazione Coronavirus, a qualcosa tra i 10 e i 20.000. Tutti, poi, neonazi e “negazionisti” , ovviamente anche dell’olocausto. Volutamente ignari che la stessa polizia berlinese aveva comunicato, in un primo tempo, la cifra di 1,3 milioni di persone.

Ora si dà il caso che i tedeschi, non solo si sono posti all’avanguardia della battaglia umana contro il più gigantesco imbroglio, dai tempi di Ramsete II. Quello pro-assembramento del potere dei pochi e pro-distanziamento definitivo di gran parte dei tanti. Ma, come da tradizione riconosciutagli, sono anche più precisini e meticolosi di tutti gli altri. Così eccovi da fonte ineccepibile, tecnoscientifica senza padroni, un video in cui si sono messi a confronto data e ora della foto diffusa dai media di regime sulla manifestazione di Berlino e un’altra che i media hanno occultato e che però si è fatta strada nella salvifica rete.


https://youtu.be/4qDftjOZgXE video autentico manifestazione Berlino

Non sapete il tedesco? Non importa. Capirete che la foto di Stato è falsa perchè non riproduce la marcia del milione del 1. Agosto, ma quella dell’inizio della Loveparade del 12 luglio 1997, quando il concentramento non era ancora finito. Le ombre determinate dalla posizione del sole dimostrano che questa foto è stata scattata due ore prima dell’inizio dell’evento del 1.agosto.

Ha ragione il bravo Califano (e, prima di lui, Leopardi): “Tutto il resto è noia”.