L'albero della storia è sempre verde

L'albero della storia è sempre verde

"Teniamo ben ferma la comprensione del fatto che, di regola, le classi dominanti vincono sempre perché sempre in possesso della comprensione della totalità concettuale della riproduzione sociale, e le classi dominate perdono sempre per la loro stupidità strategica, dovuta all’impossibilità materiale di accedere a questa comprensione intellettuale. Nella storia universale comparata non vi sono assolutamente eccezioni. La prima e l’unica eccezione è il 1917 russo. Per questo, sul piano storico-mondiale, Lenin è molto più grande di Marx. Marx è soltanto il coronamento del grande pensiero idealistico ed umanistico tedesco, ed il fondatore del metodo della comprensione della storia attraverso i modi di produzione. Ma Lenin è molto di più. Lenin è il primo esempio storico in assoluto in cui le classi dominate, sia pure purtroppo soltanto per pochi decenni, hanno potuto vincere contro le classi dominanti. Bisogna dunque studiare con attenzione sia le ragioni della vittoria che le ragioni della sconfitta. Ma esse stanno in un solo complesso di problemi, la natura del partito comunista ed il suo rovesciamento posteriore classistico, individualistico e soprattutto anti- comunitario" Costanzo Preve da "Il modo di produzione comunitario. Il problema del comunismo rimesso sui piedi"

sabato 7 novembre 2020

Ammazziamo i sessantenni

La fuga di Logan

di Piotr
5 novembre 2020


Il capitalismo è un sistema che esclude. L'inclusione o l'esclusione sono decise in base all'efficienza nel generare profitto e rendita. Per il resto il capitalismo non si sente vincolato da nessun obbligo verso la società, i suoi uomini e le sue donne. Questa logica può essere dissimulata durante i periodi di espansione, ma quando la crisi morde si riaffaccia poco a poco per poi conclamarsi apertamente.

Il Nixon shock del 1971 segnalò l'inizio della crisi sistemica che ancora oggi, enormemente aggravata, ci avvolge. Seguì quasi un decennio di scontri tra il Potere del Denaro e il Potere del Territorio. Il primo spingeva verso politiche di austerità, di liberalizzazione, di privatizzazione del dominio pubblico, di super sfruttamento dei lavoratori interni e di meticoloso controllo e sfruttamento degli spazi esterni ai centri capitalistici storici. Il secondo cercava di resistere con politiche espansive che rilanciassero l'economia reale (sempre capitalistica, ovviamente) e le sue benefiche ricadute sulla “middle class”, sentendosi vincolato verso la società (Nixon si spinse a dire “Adesso siamo tutti keynesiani” - pochi mesi dopo venne fatto fuori dallo scandalo Watergate).

Alla fine degli anni Settanta questa lotta stava indebolendo entrambe le parti e i due Poteri di conseguenza strinsero un patto all'insegna del nuovo paradigma di accumulazione, cioè la coppia finanziarizzazione-globalizzazione. Iniziò l'epoca di Reagan e della Thatcher e tutto quel che ne seguì: una ripresa dell'aggressività imperialistica dopo la breve pausa seguita alla sconfitta in Vietnam e la progressiva concentrazione della ricchezza in mano a una ristretta élite, il famoso “1%”. Un uno per cento, però, che raccoglie attorno a sé ceti ancillari che da questa concentrazione traggono beneficio e/o di questa concentrazione sono i funzionari o di questa élite sono i giullari.

Una porzione minoritaria ma ampia della popolazione, come si può osservare, ad esempio, con la polarizzazione dei voti nei Paesi occidentali: grandi centri metropolitani vs provincia, stati costieri vs stati centrali (negli USA), centro della città vs periferia, eccetera. Quindi il famoso “Voi siete l'1% noi il 99%” reso celebre dal movimento Occupy Wall Street ha un senso propagandistico ma se ci si crede non si può far politica.

Infatti, se è vero che non siamo più in presenza del Quarto Stato come soggetto autonomo (la classe operaia, in senso generale), non è invece vero che si è costituito un nuovo Terzo Stato, sebbene l'élite abbia assunto sempre più caratteri neo-signorili e a tratti neo-feudali, con una grande differenza rispetto alle forme originali: un progressivo disconoscimento dell'obbligo di mantenere i propri sudditi.

Quest'ultima caratteristica è costitutiva del capitalismo, ma di fronte alla montante importanza politica, sociale ed economica del proletariato che obbligava la classe borghese a prendere sul serio i propri proclami di libertà, uguaglianza e fraternità, doveva essere tenuta nascosta come una vergogna. In Europa, con la sconfitta dei fascismi e la vittoria dell'URSS, questa sorta di “eugenetica sociale” diventava un tabù impronunciabile. In particolare gli Stati e le loro istituzioni, sostenuti nella pratica dalla grande ripresa economica del dopoguerra, contrastavano il cosiddetto “spencerismo sociale” fin nelle loro Carte fondamentali, esempio tipico della contraddizione tra il Potere del Territorio (legato al luogo) e il Potere del Denaro (legato ai flussi). Ovviamente se si pensa che questi due poteri coincidano o che il primo sia succube dell'altro e che non ci sia differenza tra auctoritas e potestas, quanto appena detto non ha senso.

Questo breve riassunto degli ultimi 50 anni di storia è necessario per capire in che contesto questo tabù viene rotto, vuoi in modo diretto, brutale e arrogante, vuoi in modo ipocrita, vuoi con le migliori intenzioni. Il contesto è quello dell'enorme aggravamento della crisi sistemica e il sovra-contesto, oggi, è quello della pandemia e degli sconvolgimenti economici, geopolitici, politici, ideologici e culturali che queste due crisi incrociate stanno inducendo.

“Quando si sorpassano i 60-65 anni, l’uomo vive più a lungo di quanto non produca e costa caro alla società. L’eutanasia sarà uno degli strumenti essenziali delle nostre società future. Macchine per sopprimere permetteranno di eliminare la vita allorché essa sarà troppo insopportabile, o economicamente troppo costosa” [1].

Così Jacques Attali, membro importante dell'establishment europeo e internazionale. Non si parlava ancora di pandemie, ma era un ragionamento di freddo efficientismo capitalistico. Non un piano, ma una breve nota, buttata lì con nonchalance; poche righe in uno scritto ben più ampio, per futura memoria.

Ora, con la pandemia, la memoria è riaffiorata, con la sua vergogna coperta da un edificante “mettiamo in sicurezza gli anziani”.

C'era già un che di implicitamente “attaliano” nella proposta di Vittorio Colao di continuare a tenere a casa a oltranza gli over 60. Proposta respinta all'epoca da Conte e giudicata una follia giuridica dal presidente emerito della Corte Costituzionale, Sabino Cassese.

E c'era già un che di implicitamente “attaliano” nella volontà di Ursula von der Leyen di tenere a casa gli over 60 fino a Natale.

Oggi la proposta riemerge, al fine di scongiurare nuovi lockdown generalizzati.

Era stata adombrata, ad esempio, dalle parole di Matteo Bassetti, dell'ospedale S. Martino di Genova, persona in generale ragionevole e moderata che infatti poi si è corretta specificando che intendeva una “differenziazione di orari, ovvero fasce in cui studenti e lavoratori escono e orari differenziati per le persone anziane” (si vedano [3] e[4]).

E' riemersa secca e senza ripensamenti nell'intervista del Fatto Quotidiano all'epidemiologo Martin Blachier, fondatore della Public Health Expertise. Per lui si devono “mettere in una bolla le persone dai 60 agli 80 anni”. Presume quindi che dopo gli 80 nessuno deambuli più [5].

Ma se queste sono dichiarazioni di uno che fa business nel settore sanitario, ben più sorprendenti sono quelle rilasciate a Radio Radio da persone che vedono dietro la pandemia non una circostanza sfruttata ma un disegno mondialista e transumanista (si senta qui: [6] e [7]). Qui si parla addirittura di mettere gli anziani in un “acquario” (spero metaforicamente).

Una variante liberal e politicamente corretta dell'attalitismo è in dirittura d'arrivo in Olanda: un disegno di legge che consente il suicidio assistito agli over 75 sani che però ritengono la propria vita conclusa [8]. Insomma, non un obbligo, ma un incoraggiamento.

Infine, molti Italiani si ricorderanno del sapore vagamente attaliano dei ragionamenti svolti dall'allora presidente dell'INPS, Tito Boeri, in occasione della presentazione di uno studio dell'Ordine degli Attuari nel 2016: se si danno pensioni più basse, i vecchietti sarebbero costretti a curarsi di meno e quindi morire prima, con un gran risparmio (si vedano [9], [10] e[11]).

Ma la spiegazione attaliana nuda e cruda ci è finalmente giunta dal presidente della Regione Liguria, il forzista Giovanni Toti: gli anziani “non sono più indispensabili allo sforzo produttivo del Paese” (chissà se si riferiva anche al suo boss). Poi ha chiesto scusa per questa dichiarazione inqualificabile (o fin troppo qualificabile). Ma tant'è. Le vergogne sono state messe a nudo [12].

Scuse o non scuse i telegiornali e i giornali radio ieri ci avvisavano che la Conferenza delle Regioni avrebbe insistito con Conte anche su questo punto: lockdown per gli over 70 (sembra che 70 sia l'età di base scelta da questi, loro sì, non indispensabili ma visibilmente superflui personaggi che si fanno chiamare pomposamente “governatori”).

E adesso il demos viene solleticato con domande specifiche da parte, per l'appunto, degli istituti demoscopici. Ed è così che la Ixè ci comunica che il 61% degli intervistati è favorevole a vietare gli spostamenti da casa agli over 65 e a chi ha patologie (la Ixè ha quindi deciso per conto suo che la soglia sono i 65 anni) [13].

Insomma, per scongiurare un lockdown generalizzato si suggerisce un lockdown solo per gli anziani e si fa di tutto per ottenere un'adesione popolare a questo macabro provvedimento.

Perché macabro? Leggete qui e troverete tutte le spiegazioni: [14], [15], [16], [17] e [18].

Non sto nemmeno a ripetere domande ovvie alle quali nessuno fornisce nemmeno tentativi di risposte, rifugiandosi in formule fantasmagoriche come “bolla” o come “acquario” per gli anziani, del tipo: cosa succederà a livello sociale (pratico, economico, relazionale e psicologico) quando milioni di nonni e di nonne non potranno più fare i nonni e le nonne? Dove sconteranno i loro arresti domiciliari gli anziani soli? Come faranno a nutrirsi? Verranno raccolti in falansteri? E quelli che vivono in case a volte sovraffollate assieme a persone più giovani che andranno avanti e indietro? Ah, che bella bolla di protezione! Che bell'acquario (lo sanno che se in un acquario metti un pesce malato muoiono tutti gli altri?).

E' veramente una protezione impedire agli anziani di fare passeggiate e altre attività fisiche al sole e sintetizzare così vitamina D indispensabile per le loro difese immunitarie? Per non parlare del tono muscolare, dei benefici ortopedici e, di nuovo, del benessere mentale, altro fattore chiave per le difese immunitarie.

E poi fatemi capire una cosa. L'età media delle persone decedute per Covid è 80 anni e la mediana 82 (così dice l'Istituto Superiore di Sanità [19]).

Gli ottantenni e le ottantenni non sono tipici addicted della movida. Almeno non credo. Né frequentatori di feste sovraffollate. Non vanno a lavorare (sì, ho capito anch'io che è questo che dà fastidio!) e non affollano i mezzi di trasporto pubblici. Qualcuno va nelle sale bingo che, scopro oggi dal discorso di Conte, lo scorso DPCM non ha fatto chiudere (i teatri e i cinema sì, le sale bingo no: fantastico!). Ma adesso chiudono anche loro.

Dove si sono contagiati, allora? E' ovvio: a casa o nelle RSA. Quindi, ideona: chi non è ancora in una RSA rimanga a casa ancora di più! Con un'accortezza: non chiamiamola “casa”, ma “bolla” o “acquario”.

E i sessantenni (secondo Colao, von der Leyen e Blachier) o i sessantacinquenni (secondo Ixè) o i settantenni (secondo Malvezzi e Amodeo) che sono un po' die hard, perché mettere anche loro in bolle o acquari? Perché “proteggerli”?

Perché non devono rompere le palle al sistema sanitario nazionale.

E' forse questa l'idea di fondo, esplicita o implicita, conscia o inconscia o magari sfuggita per sbaglio: gli anziani sono uno scarto, sono esuberi, non sono produttivi e hanno persino la pretesa di ricevere una pensione cui hanno contribuito per decenni. Forse - voglio sperare - qualche anima candida non ha pensato al costo che il “protetto” dovrà pagare per questa “protezione”.

Non so perché, ma c'è qualcosa di attaliano in tutto ciò. A volte, certo, preterintenzionale, ma sempre più spesso cosciente.

Per ora, a quanto sembra, il governo non ha seguito questo suggerimento. Forse è conseguenza della contraddizione tra i due Poteri di cui si diceva. Ma la cosa, quasi sicuramente, non è finita qui. Il capitalismo ha insita in sé la logica dello scarto.

Agli anziani, quindi, posso solo suggerire di prendere coscienza ed essere pronti per la fuga di Logan.

Note
[1] Jacques Attali, La médicine en accusation, in AA.VV., L’avenir de la vie, Seghers, Paris 1981. Attali è un giurista amministrativo, già capo di gabinetto di Mitterand e poi consigliere economico di Sarkozy e Macron, banchiere internazionale, presidente della Banca Europea per lo Sviluppo.

Reichlin Lucrezia racconta balle - La Bce sta di fatto finanziando gli Stati – cosa esplicitamente vietata dal suo statuto – e per di più non rispetta nemmeno la proporzione stabilita, cioè sta finalmente facendo banca centrale prestatore di ultima. MA sopratutto per l'Italia vuole che si accettano il Mes, il Recovery Fund strumenti che esprimono condizioni (VINCOLO ESTERNO) altrimenti fa ballare il paese attraverso lo S P R E A D

Mes, “ce lo chiede l’Europa”?

di Carlo Clericetti
28 ottobre 2020

Sul Corriere della Sera Lucrezia Reichlin, una economista molto autorevole, propone una nuova versione del “ce lo chiede l’Europa” in cui fa rientrare anche la richiesta del prestito al Mes.

La Bce può fare quel che sta facendo, dice Reichlin, perché esiste un consenso politico, lo stesso che è stato necessario per consentire a Draghi di pronunciare il whatever it takes. La Bce sta di fatto finanziando gli Stati – cosa esplicitamente vietata dal suo statuto – e per di più non rispetta nemmeno la proporzione stabilita (secondo la capital key, ossia il peso relativo di ciascun paese nel suo capitale): infatti, per esempio, compra più titoli italiani di quanto sarebbe previsto. Eppure né il Consiglio, né la Commissione la richiamano all’ordine. Questo accade – afferma l’economista - appunto perché si è raggiunto un consenso politico su quanto è necessario per affrontare la crisi.

Ma il consenso, sostiene Reichlin, si è formato attorno a un complesso di strumenti: Recovery, bilancio, e anche il Mes e il Sure (il fondo contro la disoccupazione). Ciò significa che bisogna usarli tutti, altrimenti quel consenso potrebbe venire meno.

Quindi l’Italia non faccia la schizzinosa con il Mes e la Spagna con il Recovery, perché altrimenti c’è il rischio che il “rubinetto” Bce si chiuda, perché nessuna banca centrale può attuare interventi illimitati se il consenso politico manca, come si è visto nel 2011 quando gli interventi non hanno funzionato perché in Europa non c’era accordo su cosa fare.

Ma quelli – le ha ricordato su Twitter Francesco Saraceno, altro economista – non hanno funzionato appunto perché mancava la dichiarazione che sarebbero stati “illimitati”, la sola cosa che scoraggia la speculazione dal mettersi contro una banca centrale. E’ questo un punto cruciale che a molti economisti e a qualche banchiere centrale – per non far nomi, il presidente della Bundesbank, Jens Weidmann, per esempio – sembra sfuggire. Chi rifiuta di accettare questo concetto dimostra di non aver capito come funzionano i mercati finanziari: un rifiuto incomprensibile, dato che la storia ha fornito prove che dovrebbero aver convinto chi non sia accecato da un’ideologia. Si può ricordare ad esempio l’”accordo del Plaza” (dal nome dell’albergo di New York dove nel 1985 si svolse la riunione di ministri e banchieri centrali del G5), che mise fine all’apprezzamento del dollaro; la rovina dello Sme nel 1992, causata dal rifiuto della Bundesbank di proseguire gli interventi, violando il patto dell’accordo di cambio; l’ormai mitica frase di Draghi, che stroncò l’attacco ai debiti pubblici senza bisogno di impiegare un euro. E infine, storia di ieri, l’infelice dichiarazione di Christine Lagarde (“Non è compito della Bce occuparsi degli spread”) subito seguita da una bufera sui mercati, altrettanto repentinamente placatasi in seguito alla precipitosa retromarcia della presidente Bce.

Quello che più colpisce nella tesi di Reichlin, che i meccanismi europei li conosce bene, essendo stata tra l’altro direttrice della ricerca nella Bce, è comunque un altro aspetto: dovremmo richiedere il Mes non perché ci sia necessario o perché sia conveniente (come sottolineano gli altri sostenitori dell’adesione), ma “per disciplina” (Vincolo Esterno).

Meglio sarebbe dire “come atto di sottomissione”. Il Mes è nato nel 2012, formalmente per aiutare i paesi in crisi, ma, di fatto, è stato il prezzo pagato per avere il consenso tedesco al whatever it takes: chi chiede aiuto deve essere commissariato. Poi, se è un governo “amico” lo si tratta bene. Alla Spagna guidata dal conservatore Mariano Rajoi, che vi è ricorsa per i salvataggi bancari, non sono stati richiesti programmi particolari. Ma con la Grecia guidata dal “sinistro” Alexis Tsipras sappiamo com’è andata.

Abbiamo imparato da tempo che l’Europa è guidata da un potere di fatto, cioè da un nucleo di paesi raccolto intorno alla Germania. Alcuni per dipendenza economica, altri per vicinanza ideologica, con il caso particolare della Francia che tenta di dare l’illusione – in questo con l’aiuto di Berlino – di avere pari dignità e potere, ma è ormai da tempo solo il più importante dei sottoposti. Il guaio di questa situazione è che le idee tedesche in economia – orrore del debito anche se serve per investire, bassi consumi interni, crescita trainata solo dall’export – può magari funzionare per un solo paese, ma non per una unione di 27. Condanna molti dei paesi membri a una sostanziale stagnazione (quando va bene). E soprattutto non può pretendere che una fra le tre più importanti aree economiche del mondo cresca solo per l’export. E’ inevitabile che prima o poi questo provochi reazioni, e infatti con Trump le reazioni sono arrivate. La Cina lo ha capito: i suoi avanzi commerciali record sono ormai un ricordo, e ora punta sui consumi interni.

Facciamo un bilancio della guida tedesca, del suo modo di gestire le crisi, delle sue idee in economia. Il risultato è che gli squilibri tra paesi e all’interno di essi sono aumentati e la crescita dell’area è stata la più bassa del mondo. L’obiettivo di ridurre i debiti pubblici, considerato fondamentale, è clamorosamente fallito, quello di avere un’inflazione stabile ma moderatamente positiva lo stesso. I tagli alla spesa pubblica ora, con l’emergenza Covid, presentano il conto. In tutti i paesi si scatenano periodicamente vasti movimenti di protesta, e i partiti che hanno guidato la politica nell’ultimo ventennio nei casi migliori sono lontani dai loro massimi, nei peggiori sono crollati a livelli di irrilevanza o sono addirittura scomparsi. Sarà il caso di prendere atto di questi risultati?

Qualcuno dirà che infatti con questa crisi sono state fatte scelte nuove e importanti, come la sospensione del Patto di stabilità, il Recovery Fund che comprende una parte importante di sussidi (ma anche quelli, col tempo, li ripagheremo quasi del tutto), l’emissione di bond europei, l’azione della Bce. E’ vero, ma sono tutte decisioni presentate come eccezionali per rispondere a una situazione eccezionale, e già si sono levate voci che chiedono un ritorno alla “normalità” appena possibile. E’ vero, ma gli Stati stanno ferocemente litigando su aumenti del bilancio europeo dello zero-virgola. E’ vero, ma le riforme in cantiere – da quella del Patto di stabilità, a quelle per il completamento dell’unione bancaria, a quella dello stesso Mes – si muovono nella logica del passato, anzi inasprendola e aggiungendo errori di valutazione il cui esito sarebbe disastroso, almeno per alcuni paesi e prima di tutti il nostro (Progetto Criminale dell'Euro).

Il Mes è la quintessenza di quella logica. Scrive Saraceno: “Il MES sanitario oggi non aiuta i paesi membri. In alcuni di essi avvelena i pozzi, distorce un’istituzione, il MES appunto, creata per altri scopi (la stabilità finanziaria). Mi sembra evidente che sia una mina vagante proprio per quel consenso politico che Reichlin difende. Quindi, proprio prendendo sul serio l'invito di Reichlin mi domando: per salvare il consenso politico europeo, non dovremmo noi economisti suggerire ai nostri dirigenti di abbandonare una volta per tutte il MES che nessuno vuole (e di cui nessuno tranne noi italiani parla)?”.

Ma non è tutto, perché Reichlin trascura di dire che non sono solo l’Italia e la Spagna a “mettere in pericolo” il consenso politico europeo. Sul Recovery anche il Portogallo ha già dichiarato che farà come la Spagna e si scommette che la Francia farà altrettanto. E quanto al Mes, visto che nessuno Stato (nessuno!) ha intenzione di chiederlo, dove starebbe il “consenso”? Forse Reichlin si riferisce all’invito all’Italia di Angela Merkel a prendere il prestito sanitario. (Cosa mai si arriva a vedere! Una leader tedesca che invita un paese a indebitarsi…). Ma allora diciamola in un altro modo: la Germania ha parlato, mica la vorremo contrariare? E’ quello il “consenso politico” che conta… Lasciamo perdere, allora, il discorso del “consenso sul pacchetto”, e chiamiamo le cose come stanno: si vuole che l’Italia sottoscriva il prestito Mes perché all’occorrenza questo strumento opaco e irresponsabile politicamente e giuridicamente possa commissariarla e imporre le sue ricette. All’occorrenza, cioè se questo governo o uno dei prossimi dovesse deviare da quello che il “consenso europeo” (cioè di Berlino….) ritiene giusto. E’ l’eterna logica del “vincolo esterno”: anche quello ha dato pessima prova, e merita un posto nella discarica delle politiche sbagliate che l’Italia e l’Europa perseguono da un trentennio.

Il covid-19 è una malattia che uccide quasi sempre persone svantaggiate, perché con redditi bassi e socialmente escluse oppure perché affette da malattie croniche, dovute a fenomeni eliminabili se si rinnovassero le politiche pubbliche su ambiente, salute e istruzione. Senza riconoscere le cause e senza intervenire sulle condizioni in cui il virus diventa letale, nessuna misura sarà efficace. Nemmeno un vaccino

The Lancet: Covid-19 non è una pandemia, ma una sindemia

di Edmondo Peralta
31 ottobre 2020


The Lancet è considerata una delle più prestigiose riviste medico-scientifiche. Sia chiaro, anche The Lancet ha preso cantonate, come quando ha dovuto smentire uno studio (poi ricusato) sui pericoli della idrossiclorochina, studio che è servito all’Oms per sospendere l’uso del farmaco nei trial clinici, e lo stesso ha fatto l’Aifa italiana.

Di recente la rivista ha pubblicato un intervento del suo direttore, Richard Horton, che contesta, in riferimento al Covid-19, non solo le clausure il terrorismo sanitario dei governi, bensì lo stesso concetto di pandemia e propone quello di Sindemia. Un neologismo inglese Sindemia (synergy e epidemic) che è usato per caratterizzare l’aggregazione di due o più epidemie concomitanti o sequenziali o gruppi di malattie in una popolazione con interazioni biologiche che aggravano la curva prognostica delle malattie stesse. [Vedi: G. Collecchia, Il modello sindemico in medicina, in Recenti Progressi in Medicina, 220, 2019, pp. 271 ss]

Segnaliamo ai lettori l’articolo che segue.

* * * *

“Covid-19 is not a pandemic“: non una pandemia, ma una “sindemia“. Per il direttore di The Lancet la gestione dell’emergenza, basata solo su sicurezza ed epidemiologia, non raggiunge l’obbiettivo di tutelare la salute e prevenire i morti. Covid-19 non è la peste nera né una livella: è una malattia che uccide quasi sempre persone svantaggiate, perché con redditi bassi e socialmente escluse oppure perché affette da malattie croniche, dovute a fenomeni eliminabili se si rinnovassero le politiche pubbliche su ambiente, salute e istruzione. Senza riconoscere le cause e senza intervenire sulle condizioni in cui il virus diventa letale, nessuna misura sarà efficace. Nemmeno un vaccino.

«All’avvicinarsi della quota di un milione di morti nel mondo, dobbiamo ammettere di aver adottato un approccio troppo limitato per gestire questa epidemia».

Esordisce così nel suo ultimo editoriale Richard Horton, direttore della celebre rivista scientifica The Lancet, tra le cinque più autorevoli al mondo. Horton in passato aveva sostenuto la necessità di un lockdown più tempestivo e localizzato (come alcuni studi riportati dal Corriere della Sera suggeriscono) in Italia e in altri Paesi come la Gran Bretagna.

Ora non lesina critiche alla gestione dell’emergenza, vista unicamente come securitaria ed epidemiologica. E puntualizza: non siamo in presenza di una pandemia, ma di una sindemia.

« Abbiamo ridotto questa crisi a una mera malattia infettiva. Tutti i nostri interventi si sono concentrati sul taglio delle linee di trasmissione virale. La “scienza” che ha guidato i governi è composta soprattutto da epidemiologi e specialisti di malattie infettive, che comprensibilmente inquadrano l’attuale emergenza sanitaria in termini di peste secolare. Ma ciò che abbiamo imparato finora ci dice che la storia non è così semplice. Covid-19 non è una pandemia. È una sindemia».

Non chiamiamola pandemia, ma sindemia

I governi sarebbero colpevoli di aver trascurato la vera natura di Covid-19, soprattutto ora, a nove mesi dallo scoppio dell’emergenza.

Cos’è una sindemia?

A differenza della pandemia, che indica il diffondersi di un agente infettivo in grado di colpire più o meno indistintamente il corpo umano con la stessa rapidità e gravità ovunque, la sindemia implica una relazione tra più malattie e condizioni ambientali o socio-economiche. L’interagire tra queste patologie e situazioni rafforza e aggrava ciascuna di esse. Questo nuovo approccio alla salute pubblica è stato elaborato da Merril Singer nel 1990 e fatto proprio da molti scienziati negli ultimi anni. Consente di studiare al meglio l’evoluzione e il diffondersi di malattie lungo un contesto sociale, politico e storico, in modo di evitare l’analisi di una malattia senza considerare il contesto in cui si diffonde.

Per intenderci, chi vive in una zona a basso reddito o altamente inquinata, corre un maggior rischio di contrarre tumori, diabete, obesità o un’altra malattia cronica. Allo stesso tempo, la maggiore probabilità di contrarre infermità fa salire anche le possibilità di non raggiungere redditi o condizioni di lavoro che garantiscano uno stile di vita adeguato, e così via, in un circolo vizioso.

La sindemia è quel fenomeno, osservato a livello globale, per cui le fasce svantaggiate della popolazione risultano sempre più esposte alle malattie croniche e allo stesso tempo sempre più povere.

«Ci sono due categorie di malattie in circolazione al momento: insieme al Covid-19, abbiamo una serie di patologie croniche non trasmissibili (MNT). Entrambe colpiscono determinati gruppi e settori della società».

Le malattie non trasmissibili e status sociale, i protagonisti dell’epidemia

Horton si riferisce a obesità, diabete, malattie cardio-vascolari e respiratorie. E al cancro. Il numero delle persone affette da queste patologie è in crescita in tutto il mondo. I deceduti positivi al coronavirus (più precisamente al “Sars-CoV-2”) presentano caratteristiche e condizioni di salute particolari, che sempre più spesso sono correlate a determinate aree geografiche o classi sociali svantaggiate. «Parlare solo di comorbilità è superficiale», ammonisce lo scienziato.

Se i programmi per contrastare il coronavirus non terranno in conto fenomeni come la crescita dell’inquinamento, degli effetti della povertà sulla salute psico-fisica e della mancanza di investimenti in sanità pubblica – conclude l’editoriale – questi programmi saranno fallimentari, perché non garantiranno mai la salute di tutti. E nemmeno la ricchezza, se consideriamo che l’obesità da sola provoca perdite triliardarie al prodotto interno lordo mondiale. Alcuni Stati, per esempio, nonostante le pressioni delle lobby alimentari, sono riusciti a mettere a punto alcune leggi contro il “cibo spazzatura”, allontanato quantomeno dalle mense scolastiche e dagli istituti. In Messico la popolazione ha volontariamente ridotto il proprio consumo di zucchero dopo solo due anni dalla riforma.

Pochi investimenti in ambito sanitario, mirati ed efficaci, destinati al miliardo di abitanti più povero del pianeta, potrebbero evitare la morte prematura di 5 milioni di persone, cioè cinque volte tanto i deceduti positivi al coronavirus. E la cifra potrebbe crescere, se si considerano anche gli eventuali contagiati da Covid-19, esposti automaticamente a un rischio di morte maggiore in presenza di malattie croniche non trasmissibili.

Il virus non è uguale per tutti, certifica Istat

È ormai evidente a tutti che il coronavirus non è una livella. Salvo casi rari (nell’ordine di uno su mille-diecimila, a seconda dell’età, come si può rilevare ponderando con i contagi stimati il tasso di mortalità grezzo, basato invece solo sul rapporto morti/casi confermati) risparmia la vita dei giovani, di chi è in buona salute e di chi ha la possibilità di ricevere cure tempestive ed efficaci.


(Grafico – Il tasso di mortalità va ricalcolato alla luce dei dati sui reali contagi. Nelle zone più colpite, dove si trova il 70% dei morti, si stimano oltre il decuplo di ‘positivi occulti/sommersi’, mai comparsi nei bollettini. Le stesse zone presentano tassi d’inquinamento tra i più alti d’Europa)

Il particolare svantaggio dei ceti meno abbienti e istruiti è stato certificato dalle analisi sui morti condotte negli Stati Uniti e in America Latina, dove decessi e contagi risultano prevalenti tra comunità afroamericane e minoranze. E anche dai dati dell’Istituto nazionale di statistica italiano: a partire dai mesi primaverili del 2020 è stato registrato un aumento dell’incidenza della mortalità tra le persone meno istruite rispetto a quelle più istruite. Nelle donne, il divario porta alla situazione per cui ogni 4 decedute meno istruite ne muoiono 3 con un grado di istruzione superiore, riporta l’Istat.

Le misure restrittive decise dai governi inoltre possono creare un vero e proprio circolo vizioso che riduce i redditi già bassi, diminuendo contemporaneamente condizioni di lavoro e aspettative di vita dei più deboli. Lo schema qui sotto, elaborato dall’epidemiologo Giuseppe Costa e dal ricercatore dell’Università di Torino Michele Marra, mette in luce alcuni esempi di queste dinamiche.


Le cause non riconosciute

L’exploit di malattie cardio-circolatorie e respiratorie è ben noto ma non sottolineato dai decisori pubblici, né interpretato come un problema prioritario-urgente nelle politiche di prevenzione sanitaria. In Europa un deceduto ogni sette, in termini assoluti, è legato all’inquinamento dell’aria, in particolare a quello causato dalle polveri sottili e al diossido di azoto. Le soglie limite fissate dall’Organizzazione mondiale della sanità secondo molti scienziati sarebbero inadeguate e non garantirebbero la salute della popolazione esposta all’inquinamento. E l’Unione europea consente tassi d’inquinamento più che doppi rispetto a quelli consigliati dall’Oms. Tutto ciò dopo che dal 2009 al 2016 diverse case automobilistiche hanno prodotto e messo in circolazione veicoli che emettevano fino a 40 volte i contaminanti consentiti dalla legge. Era il dieselgate.

Dalla scoperta delle emissioni delle auto ‘taroccate’, la legislazione ha spesso tollerato le discrepanze tra i gas emessi realmente in strada e quelli dichiarati dopo i test ‘farlocchi’ condotti nelle officine. Dal 2015 non è stato varato un nuovo test valido e sempre efficace, ma il nuovo protocollo presentava numerose eccezioni. Lo stop alle vendite dei modelli di auto con emissioni falsificate è arrivato solo a fine 2018. Nel frattempo sono state emanate clausole di tolleranza – ancora in vigore – per consentire differenze fino a oltre il doppio tra le reali emissioni dei veicoli e quelle dichiarate permesse dalla legge, anche dopo il dieselgate. Insomma, eradicare le polveri sottili e il diossido di azoto – e i decessi che causano – non sembra un’urgenza.

Diversi studi, inoltre, evidenziano anche i gravi effetti dell’inquinamento acustico, che nei grandi centri abitati è responsabile di morti premature per malattie cardio-circolatorie.

Poi c’è il diabete: un terzo dei morti positivi al coronavirus in tutto il mondo conviveva con questa malattia. Il numero di malati è in crescita esponenziale in Italia, nei Paesi europei, ovunque: colpisce circa tre volte di più le fasce della popolazione a basso reddito e preoccupa la sua diffusione tra i giovanissimi. Circa il 10% della popolazione ha il diabete, che uccide 20mila persone all’anno soltanto in Italia. Anche l’obesità cresce di pari passo.

Per quanto riguarda i tumori, alla situazione preesistente in cui i più poveri sopravvivono decisamente meno dei più ricchi, si aggiunge l’enorme mole di esami e screening sospesi e rinviati per colpa dei “lockdown”. I dati parlano di oltre 5 milioni di esami non eseguiti, con possibili conseguenze drammatiche su futuri aumenti di mortalità.

Cambiare prospettiva

I governi dovrebbero quindi realizzare che siamo di fronte a un fenomeno epocale, e questo fenomeno epocale non è il virus, o meglio, non da solo. Il coronavirus ha dato il “colpo di grazia” a un trend già segnato. Nel 2019, la stessa The Lancet, avvertiva: obesità, inquinamento e cambiamento climatico stanno cominciando a interagire tra loro e questa interazione costituisce una nuova minaccia per la salute globale. «Il cambiamento climatico e gli eventi meteorologici estremi provocheranno ulteriore malnutrizione e insicurezza alimentare. Il fenomeno potrà influire sui prezzi, soprattutto di frutta e verdura. Aumenterebbe così il consumo di alimenti industriali», certamente poco salutari e quindi pericolosi per la salute pubblica.

Mortalità in crescita anche in era pre-Covid

Per quanto riguarda l’Italia, nel 2015 e nel 2017 si sono registrati dei veri e propri boom di mortalità, che scienziati e statistici non sono riusciti a spiegare del tutto. Complici sono stati l’influenza, l’ondata di calore del luglio 2015 e l’invecchiamento della popolazione, ma la cifra totale non si spiega soltanto con queste cause. Diverse le ipotesi: dai tagli alla spesa pubblica all’inquinamento, fino alle crescenti disuguaglianze. La Spagna, uno dei Paesi più colpiti dal virus, dal 2012 ha sofferto un epocale aumento di mortalità, oggetto di studio di una Commissione nazionale nominata ad hoc e di un lungo dibattito sulle reali cause di questo boom.

Le conclusioni del direttore di The Lancet, Richard Horton, sono perentorie:

«La conseguenza più importante di inquadrare Covid-19 come una sindemia è sottolineare le sue origini sociali».

«A meno che i governi non riconoscano questi problemi ed elaborino politiche e programmi per invertire le profonde disparità, le nostre società non saranno mai veramente al sicuro da Covid-19» .

«La vulnerabilità dei cittadini più anziani, delle comunità nere, asiatiche e delle minoranze etniche, e dei lavoratori di servizi essenziali mal pagati e senza protezioni sociali, mostra una verità finora appena riconosciuta: non importa quanto efficace sia la protezione fornita da un vaccino o da un farmaco. Una soluzione puramente biomedica al Covid-19 fallirà».

QUI il link all’editoriale completo.
il report sulla sindemia globale del 2019.

Lo spread dipende dalla Bce che ricatta l'Italia o prendono i prestiti condizionati, Mes, Recovery Fund o lo S P R E A D aumenterà

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La BCE e i saggi idioti del MES


Prima o poi doveva accadere. E ora pare proprio che sia accaduto.
Attraverso i giornalisti della Reuters la BCE fa trapelare una verità che chiunque segua con un minimo di indipendenza di giudizio le cose economiche europee conosceva già benissimo.

di Giovanni Pellegrini
6 novembre 2020

Il programma di acquisto di titoli di stato cui la BCE è stata costretta per evitare di far saltare in aria la zona euro, ha portato con sé una conseguenza assai poco desiderabile per i paesi del “core” dell’eurozona, ossia la perdita di ogni appetibilità, per i paesi della periferia, non solo dei programmi europei di sostegno economico già disponibili (primo fra tutti il MES) ma anche dei fondi, tutti ancora da costituire, del Recovery o almeno di tutti quelli che non siano elargiti a fondo perduto.

Un bel pasticcio per la BCE e, di conseguenza, per quel progetto egemonico tedesco che si chiama UE. La soluzione arriva puntuale: una velata minaccia nascosta dietro al consiglio di non snobbare con troppa leggerezza quei programmi di prestiti perchè, altrimenti, l’acquisto dei titoli potrebbe diventare molto più selettivo e, quindi, la BCE potrebbe tornare a far salire gli spread. I colonizzatori hanno parlato.

Chi volesse farsi una idea precisa

di quanto poco appetibile sia al momento, in termini di tasso di interesse e persino indipendentemente da ogni questione sulle condizionalità, il sistema dei prestiti europei può dare un’occhiata ai puntuali resoconti sulle aste dei nostri titoli di stato che ci ha fatto Filippo Nesi sulla sua bacheca. Tassi addirittura negativi per molte emissioni a breve termine e comunque, da tempo, talmente bassi da costringere la Germania, per interposta BCE, a correre appunto ai ripari.

La pandemia prima o poi finirà e deve essere chiara una cosa: alla fine dell’emergenza i rapporti di subordinazione politica fra i paesi UE dovranno essere invariati anzi, come è bene che sia dopo ogni crisi, dovranno essere più sbilanciati a favore dei colonizzatori.

E un aumento deciso del debito pubblico sovrano dei coloni, sopratutto in una economia della dimensione e della forza dell’Italia, non è affatto un bene per i colonizzatori per almeno due ragioni: perché rende evidente anche ai cittadini la cui conoscenza della macroeconomia è al “livello Marattin” che politiche fiscali espansive sono possibili sempre e senza alcun problema se si dispone di una banca centrale; e soprattutto perché mette in mano ai coloni un’arma di ricatto potentissima, ossia la ridenominazione del debito nel caso in cui la banca centrale smetta di fare anche gli interessi dei coloni.

I primi ad aver sempre saputo questa cosa

sono, ovviamente, gli idioti nostrani del MES (leggi PD, FI e ormai buona parte dei 5Stelle oramai piddinizzati), la cui idiozia si rivela però – dal punto di vista di chi sostiene un governo che deve tutto alla benevolenza di Bruxelles – una forma assai ragionevole di saggezza politica. Con ciò si spiega perfettamente l’altrimenti inspiegabile, ossia come mai le dimensioni dell’extradeficit per gli investimenti in sanità e trasporti e per i famosi “ristori” sia stato, fin dall’inizio della emergenza, di un’ordine di grandezza incomparabilmente più basso rispetto a quello di Germania e Francia.

Nessuna ragione macroeconomica è in grado di spiegarlo, visto che finora i mercati ci avrebbero praticamente regalato tutti i soldi di cui avremmo avuto bisogno, ma la politica lo spiega perfettamente. E ovviamente si spiega così anche la feroce insistenza sulla necessità di ricorrere al MES.

L’avvertimento è arrivato e funzionerà. E funzionerà nonostante il fatto che il ricatto sarebbe un’arma spuntata, se solo si avesse non dico il coraggio, perché non ce ne vorrebbe poi molto, ma la dignità di fare gli interessi della maggioranza dei cittadini.

Ma un governo che ha scelto consapevolmente di tradire gli interessi di una sempre più ampia fetta dei suoi governati è un cane tenuto alla catena che scodinzola per compiacere il padrone e per ricevere l’osso della sua benevolenza. Ovviamente l’osso lo riceveranno. Le bastonate ed i calci saranno riservati a noi.

180mila voti assegnati in fretta e furia, nel giro di pochi minuti, a Biden nel Michigan


Elezioni Usa, le voci dalla Russia: “E’ la fine della superpotenza statunitense”

-7 Novembre 2020

Roma, 7 nov – Avevamo già scritto, prima delle elezioni Usa, che la stampa russa più vicina al Cremlino non auspicava affatto una vittoria schiacciante di Trump, considerava anzi con moderata benevolenza una nuova presidenza a trazione Dem e perché avrebbe di nuovo portato la Russia al centro (“la Russia è il primo nemico” hanno più volte ripetuto sia Biden sia Harris) e perché nella visione del conservatorismo russo la sinistra radicale post-moderna con la sua teoria del pensiero unico gender evolve velocemente in un nichilismo sociale e morale che sta portando l’intero Occidente all’irrilevanza politica e geopolitica. Come stanno peraltro dimostrando “le elezioni farsa” statunitensi, dicono i politologi russi.

Un declino irreversibile?

In un dibattito nella tv russa del 4 novembre, il politologo Vyacheslav Nikonov commentando a caldo la situazione di stallo successiva alle elezioni Usa ha parlato di declino irreversibile: “Lo spettacolo della fine storica della Superpotenza è ammaliante”.

Sempre il 4 novembre, il presidente della Duma di Stato dichiara che gli Stati Uniti hanno rivelato di non essere un modello democratico, vedendo nel Gop e nei Dem due volti di una medesima medaglia. Il leader di Ldpr Vladimir Zhirinovsky ha invece sostenuto che il conservatorismo trumpiano proteggerebbe meglio lavoratori e maggioranza silenziosa, mentre la sinistra radicale post-moderna ha la missione di distruggere famiglia, tradizione, lavoro. Alexander Dughin considera Trump vincitore nel voto popolare e dice che la Russia dovrebbe riconoscerlo come legittimo presidente. Volovodin, presidente della Duma, ha sostenuto che la democrazia sovrana e presidenziale russa è più efficiente di quella occidentale, il ministero degli Esteri ha diramato una nota in cui afferma che i voti statunitensi dovrebbero essere contati correttamente, cosa che non starebbe avvenendo. Vladimir Putin, appena due settimane fa, riferendosi all’Occidente post-moderno in tutte le sue sfaccettature, aveva affermato che “la nostra unica preoccupazione è non prendere il raffreddore al vostro funerale”.

La stampa russa tra Trump e Biden

Il Commersant del 5 novembre sostiene che non vi è stata quell’onda blu prevista dai sondaggi: il trumpismo è ormai un fenomeno stabile nella scena, gli Stati Uniti sono divisi e polarizzati come mai era avvenuto e continueranno a esserlo nei prossimi anni. Il quotidiano si sofferma con un certo stupore nel caso controverso dei 180mila voti assegnati in fretta e furia, nel giro di pochi minuti, a Biden nel Michigan.

Vari analisti tra cui Kostantin Kosachev, influente membro del putiniano Russia Unita, in Ria Novosti considerano inevitabile una lunga instabilità e rivolte popolari trumpiane, descrivendo un quadro politico molto polarizzato e mutevole, i militanti che sostengono Biden vanno sempre più verso l’anarchismo di estrema sinistra che sta seppellendo la stessa sinistra radicale alla Sanders, i trumpiani potrebbero esser scavalcati da un ultra-tradizionalismo neo-ruralista (e filorusso) del Sud che potrebbe puntare alla Secessione dalla metropoli centrale. Rossiyskaya Gazeta arriva a conclusioni similari, mettendo in forte dubbio la legittimità del voto postale. Nei programmi televisivi a carattere politologico del 4 e 5 novembre la nota dominante è che l’elite dello Stato profondo statunitense vicina a Biden punterà a un Nuovo ordine mondiale, dovrà essere di nuovo la Russia – come già avvenne con il neo-clintoniano Obama – a stoppare questo progetto di Grande Reset mondiale.

Varie voci nei canali russi, in queste ore, difendono Trump come autentico conservatore, nemico, per quanto troppo moderato in tal senso, della russofobia egemone nella sinistra radicale postmoderna occidentale. Altre sostengono invece che con Biden alla Casa Bianca sarebbe più facile il grande summit globale delle 5 Potenze nucleari (G5), definitivo avvento del nuovo ordine multipolare e la fine storica degli Usa come prima superpotenza. Vari analisti russi parlano in proposito di un G5+1 (India), altri addirittura di un G5+2 (India, Pakistan) ma ciò pare oggettivamente prematuro.

La rivoluzione conservatrice russa di fronte alle elezioni Usa

Kostantin Malofeev scriveva il 4 novembre riguardo al quadro post elezioni Usa: “Quattro anni fa quando Trump vinse, noi dicemmo: meglio avere a che fare con un bullo che con un maniaco. Sì, incoerente in politica. Ora arrivano i maniaci? Solo i maniaci possono portare il mondo a conflitti terribili: gli strateghi statunitensi delle “rivoluzioni colorate” hanno già portato la dittatura nelle case con il Covid. Vediamo una tale rivoluzione negli Usa con Blm, gli strateghi del caos continueranno su questa strada, che nemmeno si può definire liberale ma satanica. Ci attende una affascinante osservazione del sistema funzionale della democrazia Usa. Trump ha di nuovo vinto con il voto popolare ma la democrazia Usa non ha accettato la sua vittoria. E questa è un’altra lezione per quelli che amano l’occidente. Esistono due occidenti, non uno, due Americhe non una. Gli schiavisti di ieri, quelli che sino al 1964 legittimarono lo schiavismo, oggi si inginocchiano e baciano i piedi di coloro che fanno vandalismo, distruzioni, teppismo. Noi non vorremo mai divenire come l’occidente, la Russia non è un occidente, non venite a farci la morale sull’occidente. Cristo salvi la Russia!”.

Il quadro definitivo che emerge è che lo Stato-Civiltà di natura ideocratica è stato dato, dopo la fine della seconda guerra mondiale, troppo presto per seppellito nel divenire storico. La sua nuova centralità è evidente e sotto gli occhi di tutti. L’impasse strategica dell’Unione Europea è proprio questa, priva del resto di una sovranità tecnologica e militare e ancora immersa nel sogno economicistico scavalcato negli stessi Usa da una lotta di frazione, nel disperato tentativo di difendere un primato mondiale che pare comunque ormai sfuggito di mano.

Saverio Mosciaro, l'usciere che non riesce a fare il suo lavoro

L'usciere che sapeva troppo: i sospetti sulla voce fuori campo nell'intervista a Cotticelli

Le risposte al termine del servizio Rai sulle terapie intensive in Calabria arrivano da un misterioso personaggio mai inquadrato, ma che per molti dipendenti regionali avrebbe un nome e un cognome ben precisi. E di Sanità si occupa da anni

di Camillo Giuliani 
7 novembre 2020 13:24


«Io voglio fare l'usciere» è la battuta chiave del demenziale trailer, firmato Maccio Capatonda, del film (inesistente) “L'uomo che usciva la gente”, reso celebre dalla Gialappa's band su Italia 1 qualche anno fa. «No, io faccio un altro mestiere, io faccio l’usciere», ascoltata ieri su Rai 3 al termine dell'intervista al commissario Cotticelli, sembra essere quella ideale per il sequel della “pellicola” di Capatonda. Forse meno comica, visto che stavolta di mezzo c'è la salute dei calabresi e non la parodia dei film sulla danza, ma altrettanto surreale. La voce fuori campo che la pronuncia – dopo la puntata di “Titolo quinto”, tra i corridoi della Cittadella e nelle chat dei dipendenti regionali sembrerebbero tutti concordi a riguardo – pare infatti proprio quella, arcinota negli uffici regionali, di Saverio Mosciaro. O, in alternativa, di qualcuno che sa imitarla alla perfezione.

L'incarico ai tempi di Loiero

Proprio come il Fernandello protagonista del trailer, Mosciaro vorrebbe fare l'usciere ma la vita lo ha costretto ad occuparsi di altro. È da una quindicina di anni, infatti, che questo dipendente regionale si ritrova ad accantonare il suo sogno professionale per occupare posti meglio retribuiti nel dipartimento Presidenza e in quello Salute, dove sua moglie Daniela Greco si occupa degli accreditamenti alle cliniche private. Niente persone da accompagnare alla porta per lui, purtroppo, ma solo incarichi da responsabile amministrativo o componente nello staff del dirigente di turno, con relative indennità da aggiungere al suo stipendio base. A questo sacrificio lo ha costretto per primo Giuseppe Fragomeni, direttore generale della Presidenza in epoca Loiero, chiamandolo come componente nella sua struttura ausiliaria.

La maledizione continua con Scopelliti

A tarpare ulteriormente le ali a Mosciaro ci si è messo pure l'arrivo di Giuseppe Scopelliti. Pur condividendo con l'ex governatore la passione per la pallacanestro, neanche con il reggino il dipendente regionale era riuscito a coronare il suo sogno di regolare gli ingressi del pubblico nella Cittadella, finendo invece a fare il responsabile amministrativo nello staff del dirigente più vicino al governatore (e allora commissario alla Sanità), Francesco Zoccali.
Mesi duri quelli, in cui a tenerlo lontano dalle agognate porte si era messo pure l'incarico da membro, per conto della Presidenza, del comitato interdipartimentale che si è occupato del trasloco alla Cittadella degli uffici regionali. A fine settembre del 2014, però, l'incarico a Mosciaro viene revocato e lui riprende a inseguire il suo sogno. Invano.

Oliverio si accanisce

La malasorte pare avere un conto aperto con lui perché anche col cambio ai vertici della Regione e l'arrivo di Mario Oliverio il funzionario si ritrova vittima dei voleri del dirigente di turno. Nella prima metà di febbraio del 2015, infatti, il destino riprende ad accanirsi su di lui sotto forma di Bruno Zito. Il giorno dopo essere stato nominato a capo del Dipartimento Tutela della Salute, Zito manda una nota in cui comunica di volere proprio Mosciaro come responsabile amministrativo della sua struttura.
Il dirigente lascia il dipartimento pochi mesi dopo, ma per Mosciaro la sorte ha in serbo un altro dispetto. Al posto di Zito arriva Riccardo Fatarella, che non solo gli rinnova l'incarico ma lo nomina pure capostruttura. L'aspirante usciere si ritrova perfino a dover fare il commissario ad acta per l'esecuzione di sentenze avverse alle Asp, sostituendo i suoi superiori. E a infierire sulle sue aspirazioni si unisce nel 2018 Antonio Belcastro, quando prende in mano le redini del dipartimento. Anche con lui, a Mosciaro tocca lo sgradito ruolo di responsabile amministrativo.

I compiti con Santelli

Niente da fare neanche con l'arrivo di Jole Santelli. La dirigente ad interim Francesca Fratto, a maggio di quest'anno, conferma anche lei nel suo staff Mosciaro. Il primo luglio, però, col nuovo dirigente Francesco Bevere in sella le cose cambiano. Il funzionario finalmente non sarà più responsabile amministrativo. Si è liberato l'agognato posto da usciere? No, Mosciaro resta nella struttura del dirigente, stavolta come componente però. E venti giorni dopo gli viene assegnato un compito specifico: occuparsi del monitoraggio del Piano sanitario, attraverso la «predisposizione ed attuazione annuale progetti del Programma Nazionale CCM e degli obiettivi di Piano,di competenza regionale». Avrà snocciolato numeri sulle terapie intensive al giornalista Rai per questo? Probabile, se la voce fuori campo fosse davvero la sua. Ma quello che l'ha imitata così bene da ingannare tutti i suoi colleghi fa un altro mestiere. Fa l'usciere. Chissà che non ci sappia indicare pure l'uscita dal commissariamento.

7 novembre 2020 - NEWS DELLA SETTIMANA (31 ott. - 6 nov. 2020)

5 novembre 2020 - Trump accusa: ho la prova dei brogli - discorso integrale in italiano

Nel trimestre marzo-maggio ci sono stati 34.225 decessi, nel trimestre giugno-agosto 1392 e nel bimestre settembre ottobre 1842. Il covid/lockdown/coprifuoco strumento per annichilire l'economia e la popolazione

Vi spiego verità e falsità su Covid, morti e ospedali

7 novembre 2020


Cosa ha detto Roy De Vita, primario della Divisione di Chirurgia Plastica dell’Istituto dei Tumori di Roma Regina Elena, su Covid, morti, pronto soccorso e ospedali

Il Covid-19 è aggressivo come marzo-maggio? Il crescente numero dei contagi deve realmente farci preoccupare? Qual è la realtà basata sui numeri e cosa succede negli ospedali (quasi saturi)?

A rispondere a queste domande è Roy De vita, chirurgo plastico, primario della Divisione di Chirurgia Plastica dell’Istituto dei Tumori di Roma Regina Elena.

Tutti i dettagli.

STARE DIETRO AL NUMERO DEI CONTAGI E’ FUORVIANTE

Partiamo da una considerazione. “Purtroppo in questo momento se non si è catastrofisti si è classificati come negazionisti e questo non va bene. Io non sono affatto un negazionista e mi limito a leggere dei dati ufficiali forniti dall’Istituto Superiore di Sanità”, ha detto Roy De Vita nella diretta Instagram.

“Stare dietro ai contagi è fuorviante”, ha aggiunto.

IL NUMERO DEI DECESSI

Quale dato potrebbe darci contezza di quanto accade? Quello del numero dei morti per Covid. “I dati riguardanti i decessi, danno un quadro preciso affidabile”, spiega De Vita, snocciolando i numeri dell’Istituito Superiore di Sanità. “Nel trimestre marzo-maggio ci sono stati 34.225 decessi, nel trimestre giugno-agosto 1392 e nel bimestre settembre ottobre 1842. In un periodo quasi doppio, 5 mesi contro 3, dunque, abbiamo avuto tra giugno ed ottobre il 9,5% dei decessi rispetto a quelli avuti tra marzo e maggio”.

ETA’ MEDIA

Importante, per comprendere l’aggressività del Covid-19, è anche l’età dei pazienti deceduti. De Vita sostiene, su dati Iss, che “l’età media dei pazienti deceduti è di 80 anni, mentre l’età media dei pazienti contagiati è di 51 anni, più bassa di 30 anni”.

“Al 28 ottobre c’era l’1.1% dei decessi di pazienti di età inferiore ai 50 anni e lo 0.25 era di età compresa tra 0-40 anni”, spiega de Vita.

DECESSI E PATOLOGIE PREGESSE

E ancora. Un fattore da analizzare per comprendere la malattia da Covid-19 sono i decessi condizionati da patologie pregresse.

“Il 3.5% dei deceduti non aveva alcuna patologia, il 13.2% aveva una sola comorbidità, il 19,3 ne aveva due e il 64% ne aveva tre o più. La più frequente tra le patologia concomitanti è l’ipertensione arteriosa, seguita dal diabete”, spiega il chirurgo.

MANCA MEDICINA DEL TERRITORIO

“Questa seconda ondata è stata monitorata molto di più della prima, con un numero di tamponi spesso 10 volte superiore. La conoscenza di questo numero enorme di positivi è certamente maggiore e questo dato suscita paura”, spiega De Vita, aggiungendo che “manca una medicina del territorio” e “tutti vanno al pronto soccorso per un colpo di tosse”.

LE DENUNCE MEDICO-LEGALI

C’è poi, dice il chirurgo plastico del Regina Elena, anche un altro tema di cui bisogna tener conto: le denunce medico-legali, “ormai diventato uno sport nazionale”.

“Quale medico ti manda via anche con pochi sintomi dall’ospedale, con il rischio, per non dire la certezza, che il paziente lo denunci al minimo contrattempo”, spiega De Vita. “Sono già migliaia le denunce a quelli che per qualche giorno sono stati definiti eroi”, aggiunge il chirurgo.

Nigeria - 1 -

Sessant’anni fa l’indipendenza di un gigante africano, la Nigeria – Parte I

12.10.2020 - Tolosa, Francia - Olivier Flumian

Quest'articolo è disponibile anche in: Spagnolo, Francese

La Repubblica Federale della Nigeria (Image credit: Book 'Nigeria' di Amzat Boukari-Yabara. Collezione: Mondo arabo/musulmano (diretta da Mathieu Guidère). Editore: De Boeck. Bruxelles, ottobre 2013. pag. 25).

Oggi economia leader in Africa in termini di PIL, la Nigeria è anche lo Stato più popoloso del continente. La sua indipendenza è contemporanea a quella delle ex colonie francesi e dell’ex Congo belga. La sua storia è stata segnata da episodi di violenza politica, da un’alternanza tra regimi civili e militari, a fare da sfondo lo sviluppo di un’economia petrolifera e il forte aumento delle disuguaglianze sociali e territoriali.

Pressenza ha intervistato Amzat Boukari-Yabara, dottore in storia dell’EHESS (École des hautes études en sciences sociales) e attivista panafricanista, per fare il punto su questa evoluzione. Oggi ci descrive il contesto dell’indipendenza e gli anni che l’hanno vista nascere.

Il contesto dell’indipendenza

La Repubblica Federale della Nigeria ha ottenuto l’indipendenza dal Regno Unito il 1° ottobre 1960. In quale contesto prende forma questa indipendenza? SI tratta di un’indipendenza apparente come per le colonie francesi?

Alla fine del XIX secolo, i principali stati, regni, repubbliche e città-stato della zona del Delta del Niger passano sotto il dominio coloniale. Gli inglesi si impadroniscono di questo vasto territorio di 928.000 chilometri quadrati, circondato da colonie francesi a nord, est e ovest e affacciato sull’Oceano Atlantico. È dalla foce del fiume Niger, che scorre attraverso l’omonima colonia francese, che viene il nome di Nigeria (area del Niger). Nel 1914, nasce ufficialmente la colonia della Nigeria per poi conquistare la sua indipendenza nel 1960.

Il periodo coloniale, piuttosto breve, ha avuto corso nel quadro di un sistema di amministrazione indiretta inventato dal governatore Frederick Lugard. Mentre stabiliva un duplice regime fiscale, legale, sociale e culturale, Lugard intesseva rapporti con i capi tradizionali di etnia Hausa del nord islamizzato. Nel sud, invece, cerca con più difficoltà l’appoggio delle élite cristianizzate di origine Yoruba e nel sud-est, dove dominano le popolazioni animiste e acefale di origine Ibo, il sistema ha difficoltà a permeare a causa dell’assenza di circoscrizione territoriali. Dopo l’istituzione di un raduno panafricano negli anni ’20, negli anni ’40 nascono i primi partiti politici nigeriani con il Consiglio nazionale del Camerun e della Nigeria di Namdi Azikiwe e Herbert Macaulay, il Gruppo d’azione di Obafemi Awolowo e il Congresso dei popoli del Nord di Talefa Balewa. La vita politica è modellata sulle etnie e sulle regioni, e il potere coloniale riveste il ruolo di arbitro.

In realtà, il vero arbitraggio politico è quello delle donne. Le organizzazioni femminili avranno un ruolo centrale nel cammino verso l’indipendenza, con l’Associazione delle donne del mercato di Lagos, creata nel 1920 da Alimotu Pelewera, e la rivolta delle donne di Aba contro la politica fiscale e coloniale nel 1929. Nel 1944, è l’attivista femminista Funmilayo Ransome-Kuti a fondare l’Unione delle donne Abeokuta. Le 20.000 donne che riunisce lavorano e sostengono il partito di Azikiwe e, come gli studenti nigeriani con sede in Inghilterra, danno vita un impulso di indipendenza.

Negli anni ’50, un processo costituzionale viene avviato dai leader britannici e nigeriani. Dopo le elezioni locali seguite dall’autonomia, la Nigeria diventa indipendente nella notte tra il 30 settembre e il 1° ottobre 1960. Il Paese si unisce al Commonwealth britannico sotto la presidenza della Regina d’Inghilterra, mentre Nnamdi Azikiwe, di origine Ibo, detiene il potere esecutivo e centrale.

All’epoca della sua indipendenza, la Nigeria sembrava essere sulla buona strada. Paese ricco e prospero – con circa cinquanta milioni di abitanti all’inizio degli anni Sessanta, più di duecento popolazioni diverse, un’élite economica e intellettuale e una diaspora potente e organizzata – la Nigeria gode anche di un reale potenziale agricolo, nonostante la sua geografia irregolare. Corrispondenti ai tre principali gruppi etnici, ciascuna delle tre regioni ha un proprio governo e una propria assemblea, nonché servizi amministrativi, finanziari e giudiziari. Un governo centrale si occupa delle questioni di sovranità monetaria, militare e politica, con un parlamento federale, un governo centrale e un governatore generale che funge da capo di Stato. L’equilibrio è fragile e la vita politica è molto turbolenta, tanto che il governo centrale si vede costretto a creare un quarto Stato nel 1963.

A differenza delle colonie francesi, che formavano due blocchi federali dipendenti dalle decisioni prese a Parigi, le colonie britanniche erano tutte già autonome, con una propria vita politica indipendente dalla vita politica britannica. La presenza britannica era rimasta abbastanza discreta e la Nigeria conquistava rapidamente la sovranità politica, monetaria e militare. A parte gli accordi legati al Commonwealth, l’indipendenza era molto più completa e concreta di quella dei suoi vicini francofoni. Tuttavia, il suo modello politico rimaneva molto influenzato da quello del Regno Unito e degli Stati Uniti. Soprattutto, il Paese era attraversato da problemi complessi a tutti i livelli: economico con forti disuguaglianze, religioso con il maggior numero di musulmani e cristiani di tutta l’Africa subsahariana, culturale con difficoltà nella costruzione della nazione.

Governatore generale e poi primo presidente della Nigeria nel 1963, Nnamdi Azikiwe è un nazionalista e panafricanista. Avvocato, giornalista e attivista politico, formatosi negli Stati Uniti, ha una visione che include le differenze etniche, nazionali, continentali e internazionali. Lotta duramente per democratizzare l’istruzione ed estendere il suffragio universale. È importante sottolineare che, pur essendo di origine Ibo, si oppone alla propria etnia rifiutando la secessione del Biafra alla fine degli anni Sessanta. Anche se c’è una certa rivalità, Azikiwe è vicino al presidente ghanese Kwame Nkrumah. Come lui, è convinto che l’Africa debba unirsi. Ne è tanto più convinto quando vede che il suo Paese, la Nigeria, è ricco di risorse petrolifere che rischiano di trasformarsi presto in una maledizione. Per preservare le risorse e proteggersi dai predatori, Azikiwe valuta la proposta di un’unione doganale africana.

Questo è molto importante perché diverse tesi sulla storia dell’integrazione africana considerano che la Nigeria svolga per l’Africa lo stesso ruolo che la Germania svolge per l’Europa. Entrambi i Paesi hanno lo stesso modello federale, costruito sul principio dell’unione doganale, e integrano il loro spazio continentale attraverso la propria unità. Tuttavia, la Nigeria è soggetta a intense forze centrifughe che alla fine esplodono nel 1966, in un contesto di dispute etniche, discriminazione economica e crisi istituzionale, con l’entrata in gioco di un gruppo sociale che farà molti danni fino alla fine degli anni Novanta.

Composto da ufficiali generalmente addestrati in Inghilterra, con una forza che nel 1960 contava 7500 uomini, l’esercito nigeriano si forma inizialmente in una tradizione repubblicana di non ingerenza negli affari politici. Con una buona reputazione di indipendenza, 1965 non ci sono più ufficiali o soldati britannici in territorio nigeriano. Tuttavia, nel gennaio del 1966, il Paese si infiamma, entrando in un ciclo di turbolenze che, con il boom del petrolio sullo sfondo, vede un’alternanza di governi civili e giunte militari, con la presenza di ex militari putschisti tornati alla vita civile.

Il conflitto del Biafra

Tra il 1967 e il 1970 il Paese viene dilaniato dal terribile conflitto del Biafra. Qual è stata l’origine di questo conflitto e quali sono state le sue conseguenze per il successivo sviluppo del Nuovo Stato?

Abbiamo visto la fragilità del modello politico nigeriano, attraversato da molte scissioni, e difficile da regolare. Paradossalmente, sarà un episodio drammatico a unire la Nigeria. La guerra del Biafra è una guerra civile che dal 1967 al 1970 ha visto contrapporsi la popolazione Ibo, della Nigeria sudorientale, allo Stato federale. Gli Ibo sono stati fortemente ostracizzati a causa del loro successo economico, sociale e intellettuale.

Il 15 gennaio 1966, nel contesto di una crisi politica latente da tre anni, alcuni ufficiali Ibo scatenano un colpo di Stato assassinando molte personalità politiche, tra cui il leader nordista Ahmadou Bello e il primo ministro Talefa Balewa. Di padre Ibo e madre Hausa, il generale Ironsi viene portato al potere, ma solo per rappresaglia, e dato che il colpo di Stato sembrava essere motivato politicamente e non etnicamente, degli Ibo che vivevano nel nord del paese sono vittima di rappresaglie da parte degli Hausa. Gli Ibo fuggono dai pogrom e si rifugiano in Biafra.

Qualche mese dopo, nel luglio 1966, gli ufficiali dell’Hausa organizzano un controcolpo di Stato contro il generale Ironsi. Ironsi viene assassinato e dopo trattative particolarmente tese, il generale Yakubu Gowon, nordista, prende il potere, con grande dispiacere del tenente colonnello Ojukwu.

Nei mesi successivi, quest’ultimo decide di difendere il suo popolo ritenendo che il governo centrale non sia in grado di proteggere gli Ibo. Ojukwu emette una serie di ultimatum a Gowon e annuncia misure speciali per la regione orientale, tra cui la decisione unilaterale di decidere quanto delle entrate petrolifere sarebbe andato al governo centrale e quanto sarebbe rimasto al governo locale. L’abbondante petrolio del Biafra diviene così un mezzo di ricatto, pressione e corruzione.

Il 27 maggio 1967 il governo centrale decide unilateralmente di modificare la struttura federale, aumentando il numero degli Stati da quattro a dodici. La regione orientale si trova divisa in tre stati, e gli Ibo sono confinati in un territorio senza sbocchi sul mare e quindi tagliati fuori dai giacimenti petroliferi di Port-Harcourt, sulla costa. Tre giorni dopo, con l’accordo di un consiglio di capi tradizionali, il tenente colonnello Ojukwu proclama l’indipendenza della Repubblica del Biafra, un territorio di 75.000 chilometri quadrati corrispondenti all’antica Regione orientale, comprendente quattordici milioni di abitanti di origine Ibo e non Ibo, essendo i giacimenti petroliferi situati maggiormente in territori non Ibo.

Il presidente Gowon considera questa proclamazione secessionista come una dichiarazione di guerra. Sa che il petrolio può trasformare il Biafra nell’equivalente di un emirato e che la Nigeria non riuscirà a riprendersi dalla perdita di questa manna. All’inizio di luglio inizia il conflitto militare. I primi mesi sono principalmente costituiti da infiltrazioni da parte della polizia, poi molto presto inizia una guerra a tutto campo con l’accerchiamento del Biafra. Per un anno, durante il 1969, la guerra rimane a un punto morto, sotto forma di guerra di logoramento con numerose atrocità sulla popolazione, prima dell’assalto finale. Nel gennaio 1970, il generale Gowon annuncia la fine della guerra.

È necessario ricontestualizzare la guerra del Biafra sottolineando che in quel periodo si stavano verificando colpi di Stato in diversi paesi (Togo, Congo, Benin, Repubblica Centrafricana…) e l’esercito nigeriano aveva deciso di assumersi le proprie responsabilità. Diversi intellettuali nigeriani, come gli scrittori Chinua Achebe e Wole Soyinka, avvertono il clima di crisi attraverso i loro scritti. La corruzione era diventata sempre più forte a ogni livello gerarchico di potere. Nel gennaio 1966 viene dichiarato lo stato di emergenza e per un anno e mezzo il paese scivola nel baratro.

Quando scoppia la secessione nel maggio del 1967, il governo centrale sottolinea che si trattava di un conflitto interno che non doveva comportare intervento straniero alcuno. Il Paese ottiene il sostegno degli organismi africani e dell’Onu, che richiedono il mantenimento dell’unità della Nigeria e che non vi siano ingerenze dall’esterno. Tuttavia, alcuni Paesi africani come la Tanzania e lo Zambia – ma anche il Gabon e la Costa d’Avorio per ragioni più che evidenti – decidono di riconoscere il Biafra, citando in particolare il fatto che ogni Stato all’interno di uno Stato federale debba avere il diritto di staccarsi da esso. Questa posizione, che invoca la giurisprudenza della rottura dell’India con il Pakistan e il Bangladesh, o la separazione dell’Egitto e della Siria, che ha formato la Repubblica araba unita, è problematica perché nega la nozione di conflitto interno. La conseguenza è che le grandi potenze possono invocare il diritto di intervento in una secessione, mentre l’episodio della secessione katanghese in Congo è ancora fresco nella nostra memoria.

Anche il petrolio è centrale, poiché il Biafra produce il 60% del greggio nigeriano. Le multinazionali (Shell-BP, Elf, Gulf Oil…) hanno interessi enormi. La francese Elf, dietro ai concorrenti americani e britannici, spera in particolare di triplicare la sua quota nella produzione di greggio. La Francia svolgerà quindi un ruolo importante facendo leva sul diritto di intervento e sul diritto umanitario. Seguendo l’esempio del quotidiano Le Monde, che paragona il Biafra a Dachau, i media francesi allertano l’opinione pubblica parlando di un genocidio in corso nel quadro della repressione della secessione da parte del governo centrale. Per la prima volta, la televisione francese trasmette immagini di bambini smagriti per fare appello alle donazioni alla Croce Rossa, mentre Bernard Kouchner utilizza questo dramma per creare Médecins sans Frontières.

Dietro le telecamere non c’è stato alcun genocidio in Biafra, nonostante il pesante bilancio umano – fino a due milioni di vittime della guerra e delle sue conseguenze. Sono stati i servizi francesi di controspionaggio, sotto il controllo del potente Jacques Foccart, il Monsieur Afrique del generale de Gaulle, a manipolare la stampa e a sostenere la ribellione. L’obiettivo era quello di smembrare la Nigeria e fare della Francia il padrino del Biafra, che avrebbe aperto con grazia il rubinetto dell’oro nero. Per raggiungere questo obiettivo, mercenari come Bob Denard formano lo stato maggiore di Ojukwu. Oltre a un consorzio franco-libanese che, con il sostegno israeliano, permette al Biafra di acquistare armi dal Portogallo in cambio del petrolio promesso, Ojukwu è sostenuto dai suoi sponsor. Armi e munizioni vengono inviate anche ai secessionisti attraverso il Camerun di Amadou Ahidjo e il Gabon di Omar Bongo, che guarda al petrolio del Biafra. Da Abidjan, il presidente Félix Houphouët-Boigny sogna di far crollare un Paese che lo mette in ombra in Africa occidentale e così sostiene lo stato maggiore del Biafra. Dopo la guerra, al tenente colonnello Okjukwu viene concesso asilo in Costa d’Avorio.

La guerra del Biafra ha scosso l’intero paese, facendo prendere posizione a ogni abitante e a ogni gruppo. I tentativi del Biafra di ottenere il sostegno di altri gruppi etnici si sono comunque rivoltati contro i secessionisti, e la guerra dei Biafra ha costruito l’unità nazionale essendo manifesto della prova di forza della Nigeria per crescere e trovare una soluzione di riconciliazione politica rispetto suoi demoni interni.

Traduzione di Chiara De Mauro. Revisione: Silvia Nocera

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