L'albero della storia è sempre verde

L'albero della storia è sempre verde

"Teniamo ben ferma la comprensione del fatto che, di regola, le classi dominanti vincono sempre perché sempre in possesso della comprensione della totalità concettuale della riproduzione sociale, e le classi dominate perdono sempre per la loro stupidità strategica, dovuta all’impossibilità materiale di accedere a questa comprensione intellettuale. Nella storia universale comparata non vi sono assolutamente eccezioni. La prima e l’unica eccezione è il 1917 russo. Per questo, sul piano storico-mondiale, Lenin è molto più grande di Marx. Marx è soltanto il coronamento del grande pensiero idealistico ed umanistico tedesco, ed il fondatore del metodo della comprensione della storia attraverso i modi di produzione. Ma Lenin è molto di più. Lenin è il primo esempio storico in assoluto in cui le classi dominate, sia pure purtroppo soltanto per pochi decenni, hanno potuto vincere contro le classi dominanti. Bisogna dunque studiare con attenzione sia le ragioni della vittoria che le ragioni della sconfitta. Ma esse stanno in un solo complesso di problemi, la natura del partito comunista ed il suo rovesciamento posteriore classistico, individualistico e soprattutto anti- comunitario" Costanzo Preve da "Il modo di produzione comunitario. Il problema del comunismo rimesso sui piedi"

sabato 14 novembre 2020

Contro il covid/lockdown/coprifuoco

Leipzig : le peuple allemand se lève pour défendre les libertés

Maurizio Blondet 14 Novembre 2020 

Il popolo tedesco a Lipsia, manifestazione 7 novembre:


La Russia ospiterà il XII Vertice BRICS il 17 novembre

La Russia ospiterà il XII Vertice BRICS il 17 novembre

13.11.2020 - Russia - Kester Kenn Klomegah

Quest'articolo è disponibile anche in: Inglese, Tedesco


Il forum BRICS 2020, quest’anno sotto la presidenza della Russia, si terrà in videoconferenza il 17 novembre, quando Vladimir Putin accoglierà i capi di Stato di Brasile, Cina, India e Sud Africa. In un primo momento, l’evento avrebbe dovuto svolgersi a San Pietroburgo in luglio, ma è stato rimandato a causa dell’attuale pandemia da coronavirus.

Inoltre, i leader si concentreranno su questioni significative e complicate, su problematiche relative alla sfera geopolitica e socioeconomica e sulle trasformazioni dei paesaggi globali nel XXI secolo. L’incontro adotterà un documento di lavoro che rafforzerà ulteriormente la posizione e lo sviluppo del gruppo.

Come previsto dalle linee guida, la Russia ha preso il posto del Brasile alla presidenza di turno dei paesi BRICS. Sin dalla fondazione, i BRICS hanno fatto molta strada: da luogo informale per lo scambio di opinioni su questioni attuali dell’agenda internazionale a una rete assolutamente matura e stabile di interazione multilaterale su diverse questioni dell’agenda sia interna, riguardante i cinque paesi BRICS, che internazionale.

Oggi i BRICS hanno una struttura multilaterale e sono divenuti un’associazione che punta ad un ordine mondiale equo, democratico e multipolare. La Russia ha accettato di rafforzare e promuovere il partenariato strategico in tutti i settori chiave delle attività dei BRICS, come la politica e la sicurezza, l’economia e la finanza, l’educazione e la cultura.

“Il Partenariato dei BRICS per la stabilità globale, la sicurezza comune e la crescita innovativa” è il tema dell’incontro, a cui parteciperanno i leader dei BRICS. Si discuterà del rafforzamento della collaborazione e del coordinamento commerciale ed economico dei cinque paesi sulla scena internazionale e sulle piattaforme internazionali.

La Russia prevede di terminare la propria presidenza con una serie di nuovi accordi importanti, tra cui la già concordata Strategia Antiterrorismo BRICS e la Strategia per il Partenariato Economico, aggiornata al 2025. Questo documento definisce le linee guida e le priorità della collaborazione tra i cinque paesi e dà un nuovo impulso allo sviluppo della loro cooperazione commerciale e degli investimenti.

Il documento prevede anche una serie di iniziative che hanno l’obiettivo di rafforzare la cooperazione dei membri in settori specifici. Per l’appunto, sono già in espansione i legami interpersonali e culturali, così come i contatti tra esperti e rappresentanti della società civile dei cinque paesi.

Nonostante l’attuale situazione globale, dovuta alla diffusione dell’infezione da coronavirus, le attività sotto la presidenza russa BRICS nel 2020 sono state svolte in modo coerente: da gennaio 2020 sono già stati organizzati diversi eventi, anche in videoconferenza.

Il Ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov ha ribadito che un ulteriore consolidamento del partenariato strategico nei paesi BRICS rappresenta una delle priorità della politica estera russa.

Nell’ultimo decennio, il gruppo ha dimostrato di essere un modello di cooperazione rilevante e rispettato. I paesi BRICS sono solidali nel rafforzare i valori collettivi a livello globale; sostengono il rispetto per la sovranità e per l’uguaglianza sovrana di tutti gli Stati e sono profondamente convinti che qualsiasi conflitto debba essere risolto solo con mezzi pacifici.

Il gruppo difende collettivamente i principi di un ordine mondiale più giusto, basato sul rispetto delle norme e dei principi del diritto internazionale e della Carta delle Nazioni Unite.

Secondo la procedura, ogni membro BRICS assume la presidenza per un anno. La Russia ha presieduto per l’ultima volta i BRICS nel 2015 e ha tenuto un vertice nella città di Ufa. La Russia ha anche presieduto il gruppo nel 2009, prima che il BRIC diventasse BRICS, a seguito dell’adesione del Sudafrica. I cinque paesi BRICS, insieme, rappresentano oltre 3,1 miliardi di persone, ovvero circa il 41% della popolazione mondiale.

Traduzione dall’inglese di Giulia Paola Pattavina. Revisione: Silvia Nocera

Per vendere titoli di stato devi essere credibile e renderli appetitosi per i comuni mortali


Perché il BTP Futura è un flop (e perché lo sarà anche il nuovo Btp in dollari)

14 Novembre 2020 - 13:00 

Perché quello del Btp Futura è stato un flop, ed ora il Tesoro annuncia un’emissione di Btp in dollari.


I fatti parlano da soli, ma a volte quei fatti sono nascosti sotto il tappeto della narrativa. E li si vede - o intravede - soltanto quando il gonfiore diviene tale da non poter essere più dissimulato. A quel punto, occorre decidere: o proseguire con l’accumulazione, accampando di volta in volta scuse sempre meno credibili fino all’esaurimento della fantasia, in una sorta di schema Ponzi della decenza, o affrontare la realtà e fare finalmente pulizia.

Bene, il secondo collocamento del Btp Futura, conclusosi ieri, rientra a pieno nella casistica in questione: è una cartina di tornasole, un reagente, di fronte al quale esistono solo due possibili gestioni dell’esistente: dire la verità o mentire sulla natura rivelatrice del colore che quel processo di disvelamento sta mostrandoci.

E, paradossalmente, il fatto che quel collocamento - riaperto in fretta e furia e sponsorizzato con entusiasmo generale degno di miglior causa - si sia sostanziato in un fallimento non lo dimostrano solo i 5,71 miliardi di raccolta rispetto ai 6,13 della prima emissione nello scorso luglio, nonostante una maggiore «generosità» data dalla scadenza sugli 8 anni rispetto ai 10 della precedente, bensì la decisione accessoria che il Tesoro italiano ha preso nel terzo giorno di asta, quando le cifre cominciavano a mostrare i veri profili del puzzle: annunciare un’emissione di Btp in dollari. Ovvero, coprire una realtà scomoda - oltretutto, ancora in divenire, stante la scadenza finale fissata per le 13.00 del giorno successivo (ieri, ndr) - con un’altra notizia. La quale se possibile drammatizza e peggiora il quadro generale.

Anche in questo caso, si tratta infatti di una seconda emissione, dopo quella del 2019, a sua volta giunta a circa dieci anni di distanza dall’ultima obbligazione italiana denominata in valuta statunitense. Il Tesoro ha già tutto pronto: global call affidata a Barclays Bank PLC, BofA Securities Europe S.A. e Goldman Sachs Bank Europe SE e a seguire la possibilità di call bilaterali con gli investitori.

A quanto si apprende, la nuova emissione di titoli di Stato in biglietti verdi avrà scadenza febbraio 2026, con una eventuale tranche addizionale con scadenza nel novembre 2050 e il mercato di riferimento sarà composto da controparti qualificate, professionali e anche retail.

Sfruttamento dell’onda lunga? No, a mio avviso, raschiamento esiziale del barile. E non tanto per il rischio legato al cambio connaturato a operazioni simili, visto che un indebolimento del dollaro potrebbe andare a intaccare pesantemente i rendimenti reali dello strumento. Quanto per il timing.

Fonte: Deutsche Bank

Ce lo mostra in prima istanza questo grafico, il quale schematizza nello studio pubblicato lo scorso weekend da Deutsche Bank il premio di rischio implicito ancora legato alla sola presenza sulla scena politica di Donald Trump, un 10% di ulteriore e potenziale indebolimento del dollaro legato alla rimozione dell’ultimo bastione di volatilità - tracciabile anche attraverso il proxy dell’indice di incertezza politica globale -, ad esempio la concessione della vittoria a Joe Biden da parte dell’ex presidente. O la fine di ogni speculazione residua rispetto alla liceità del voto, magari attraverso la conferma dell’esito dopo un riconteggio manuale in uno Stato-chiave.

Ma non basta. Guardate ora queste tre immagini:

Fonte: Deutsche Bank

Fonte: Deutsche Bank

Fonte: Deutsche Bank

Queste certificano il grado di rischio connaturato al momento storico e proprio alle scommesse sul dollaro. Dopo l’esito del voto, proprio Deutsche Bank ha chiuso il suo short sul biglietto verde, ritenendolo ormai privo di profilo operativo. Detto fatto, il dollaro si è indebolito. Ecco quindi che, con gesto tutt’altro che usuale, ha chiesto pubblicamente scusa agli investitori, ammesso l’errore di valutazione e riaperto lo short: detto fatto, il dollaro si è apprezzato. E parliamo di una banca che, al netto dei guai con la giustizia americana e l’obbligo di cura draconiana in patria, ha pagato pronta cassa ogni multa miliardaria inflittale negli anni, grazie proprio ai profitti stellari del suo trading desk Usa. Non gli ultimi della fila, insomma.

E in un momento simile, preso atto del sostanziale fallimento del secondo collocamento del Btp Futura nonostante le condizioni perfette garantite dalla Bce a livello di spread e appeal della tua carta sovrana, il Tesoro non trova di meglio che inventarsi un’emissione in dollari?

Ecco perché parlo di raschiatura esiziale del barile. Altrimenti, le alternative sono il pressapochismo o l’autolesionismo. Di certo, lanciarsi in un’operazione simile - oltretutto inserendo nella platea di riferimento la clientela retail - non rappresenta una mossa compiuta da posizione di forza. Anzi. E il problema, temo, è più grave di quanto sembri. Perché il sostanziale flop del Btp Futura - arrivato giocoforza al quarto giorno di collocamento, quando al Tesoro si dicevano segretamente certi di chiudere i giochi al massimo entro la serata del secondo - non si è sostanziato a causa dell’arrivo sulla scena delle alternative di investimento legate alla notizia game-changer del vaccino di Pfizer. Per il semplice fatto che la propensione risk-on che questa avrebbe dovuto imprimere al mercato si è sgonfiata come un sufflè a tempo di record, ovvero a mercati appena chusi nel giorno stesso dell’annuncio.

Quando JP Morgan usciva con un report nel quale si evidenziavano e inanellavano una serie di criticità logistiche capaci di stroncare anche la prospettiva più solide (PUBBLICA QUI IL GRAFICO JPM_VACCINE).

Fonte: JP Morgan

Ben più solide di quelle avanzate da un’azienda il cui Ceo casualmente in agosto decide di vendere in data 12 novembre il 62% del suo pacchetto azionario, come dimostrano i documenti della Sec. Di più, l’operatività Bce nella copertura front-load sul nostro debito è stata palese negli ultimi giorni, basti notare gli andamenti dello spread sul decennale. E, in generale, il quadro prospettico in cui si è andato a inserire il secondo collocamento del Btp Futura era pressoché idilliaco, basti pensare al trend che ha visto il biennale greco andare addirittura in negativo sul rendimento il 12 novembre.

Il tutto, mentre la stessa Bce metteva tutti sul chi va là rispetto alla profondità e alla velocità del peggioramento del quadro macro dell’eurozona. Insomma, in uno scenario simile, il collocamento andava chiuso addirittura il primo giorno. Serviva un effetto saldi da Harrods, invece ci siamo ritrovati come un outlet che a malapena è riuscito a far fuori il suo stock di vecchi pigiami. Il minimo sindacale, insomma.

Perché, quindi, se non è stato l’effetto Pfizer a boicottare i piani del Tesoro? Perché la gente ha capito che quel collocamento, per quanto strombazzato, fosse nulla più che la punta di diamante, il volto presentabile di una colossale partita di giro posta in essere dal governo per riuscire a coprire il prima possibile e con capillarità chirurgica la promessa fatta nelle tre versioni del DL Ristori, visto che l’anticipo dei fondi Sure gentilmente concessoci in deroga alle tempistiche ufficiali da Ursula Von De Leyen è già stato bruciato. Operativamente o a copertura. Non a caso, già si rende enecessario un altro scostamento di bilancio da 15-20 miliardi. E, forse, un DL Ristori4.

Insomma, la percezione sottopelle è stata sempre più quella di un intervento dello Stato in sostegno delle categoria colpite dalla seconda ondata che venisse finanziato dai soldi delle stesse, attraverso la loro partecipazione a collocamenti che stanno diventando parossistici nella loro ciclicità. L’effetto tipografia Lo Turco de La banda degli onesti, per capirci.

E questo vale per tutti, maggioranza e opposizione. Basti infatti ricordare l’approccio monotematico del leader in pectore del centrodestra a ogni criticità di finanziamento delle casse statali: emettere, emettere, emettere. Con quali risultati, di grazia, quelli del Btp Futura? O, magari, continuando a nascondere ai contribuenti/sottoscrittori la verità di fondo? Senza la Bce e il suo attuale impegno di acquisto in deroga al criterio di capital key, infatti, il nostro decennale non renderebbe lo 0,6% e le aste di collocamento di Btp non sarebbero piene e destinate a infrangere un record al ribasso nello yield alla settimana.

Lo sanno tutti, ormai. Un Paese dove i responsabili della sanità calabrese ritengono le mascherine inutili, i piani anti-Covid misteri della fede senza un responsabile/referente o dove alla Camera vanno in audizione poliziotti con amuleti anti-virus non è credibile che emetta debito a 10 anni allo 0,6%. Non fosse altro perché quello Usa pari durata viaggia già oggi attorno all’1%: e gente del genere, Oltreoceano friggerebbe hamburger in un fast food. La dinamica in atto fra Palazzo Chigi, Tesoro ed Eurotower è quella che in gergo finanziario viene definito un backdoor funding, un finanziamento dalla porta sul retro. La logica solo un po’ più sofisticata ed elegante dell’ammassare lo sporco sotto il tappeto, di fatto.

La Bce attraverso il Pepp sta finanziando direttamente il nostro deficit, così come quello spagnolo. Ma non durerà per sempre. O, quantomeno, non certo con questa magnitudo. I Paesi del Nord l’hanno più volte sottolineato, mostrando altresì poco apprezzamento per i comportamenti alla Pedro Sanchez. Ovvero, rifutare ogni tipo di vincolo europeo estraneo alla logica del fondo perduto, facendosi forte appunto dello scudo anti-spread garantito a costo zero da Christine Lagarde.

In questi giorni, sta facendo molto discutere la proposta-provocazione di Deutsche Bank rispetto a una possibile tassa sullo smart working, un 5% di contributo che chi ha la «fortuna» di poter lavorare da casa offirerebbe all’Erario per finanziare politiche di sostegno verso quei lavoratori rimasti - per così dire - indietro a causa della pandemia e dei lockdown. Scandalo generale, pubblico ludibrio contro la banca tedesca. Scusate, quale differenza esiste rispetto a una campagna permanente di emissione di un debito che è solvibile solo grazie all’implicita garanzia della Bce, finalizzata a sua volta al pagamento di politiche di welfare più o meno emergenziale verso la cittadinanza e spesso sostanziatesi in aberrazioni come i bonus vacanze o monopattino?

Una sola: la proposta di Deutsche Bank, quantomeno, è cristallina. Onesta. Diretta, per quanto paradossale. E il risultato del secondo collocamento del Btp Futura è lì a confermarlo. Parte del governo temeva e teme lo stigma implicito che grava sull’attivazione in solitaria del Mes? Il vero stigma è questo. Per quanti tappeti si possano utilizzare per nasconderlo.

Monte dei Paschi di Siena - Prendere una banca risanarla e offrirla ai privati regalandogli ulteriori tre miliardi legasi tre miliardi. Non c'è logica in questo comportamento

Mps, spunta una dote di 3 miliardi in Legge di bilancio

Stefano Neri
13-11-2020 — 11:01

La misura punta a convincere un potenziale compratore a farsi avanti, fra questi secondo le ultime indiscrezioni ancora Unicredit (che ha smentito ripetutamente) e Crédit Agricole


Mps potrebbe beneficiare di una dote di 3 miliardi prevista dalla bozza della Legge di Bilancio. Lo scrivono oggi i quotidiani La Repubblica e MF.
Mps, in Legge di bilancio una dote di 3 miliardi per facilitare una fusione

La norma, scrive Repubblica, rientra nell’articolo 29 della manovra intitolato “Incentivi alle fusioni aziendali”. Ma “nei palazzi romani c’è chi più prosaicamente ne parla come di regalo da 3 miliardi di euro a chi comprerà Monte dei Paschi” di Siena.

La dote consiste nella conversione in crediti d’imposta delle Dta (attività fiscali differite). A patto che, come recita il comma 1 della legge, “dal 1° gennaio 2021 al 31 dicembre 2021” compia “operazioni di aggregazione aziendale attraverso fusione, scissione o conferimento d’azienda”, che consentirebbero “al soggetto rispettivamente, risultante dalla fusione o incorporante, beneficiario e conferitario”, di accrescersi il capitale usando certe perdite fiscali della società target dell’acquisizione.
Norma salva-Mps

La misura, spiega ancora la relazione tecnica, è rivolta a “tutto il sistema produttivo italiano, caratterizzato da una ridotta dimensione delle imprese, il 99% delle quali ha meno di 50 addetti”. Tuttavia, scrive il giornale romano, “per come congegnata e per analoghe agevolazioni fatte e tentate sui crediti differiti bancari dal 2017, pare scritta apposta per rendere meno amaro l’acquisto della banca più antica del mondo, che il Tesoro è impegnato con l’Ue a riprivatizzare entro fine 2021: ma che non trova investitori né compratori dal 2016”

Il ministro del Tesoro, Roberto Gualtieri

La norma punta quindi a convincere un potenziale compratore a farsi avanti. Fra questi secondo le ultime indiscrezioni ancora Unicredit, che tuttavia ha smentito ripetutamente, l’ultima volta una settimana fa quando il ceo Jean Pierre Mustier ha illustrato la trimestrale.

Inoltre viene citato il Crédit Agricole, quest’ultimo associato invece più volte a una possibile fusione con Banco Bpm.

Sindacati in allerta

I sindacati intanto continuano il pressing affinché sia mantenuto il controllo pubblico. Intervistato dal Sole 24 Ore, il segretario generale della Fabi, Lando Maria Sileoni, è tornato sull’ipotesi di una vendita di Mps a Unicredit.

Per il sindacalista “Unicredit vuole farsi pagare dallo Stato tutti i costi di una eventuale aggregazione che produrrebbe migliaia di esuberi. Se il governo lo permette sarà complice di una macelleria sociale che contrasteremo. Siamo a fianco del presidente della Toscana, Eugenio Giani, che la pensa esattamente come noi”.

In Borsa il titolo non sembra beneficiare pkiù di tanto delle ultime indiscrezioni: alle ore 10,57 le azioni Mps avanzano di un +0,61% a 1,147 euro, con il Ftse Italia Banche a +1,34%.

Sempre più schiavi degli algoritmi che penetrano nel profondo delle intimità delle società


14 novembre 2020


Il sistema è ancora in esecuzione, il gioco continua, ma
i riders non hanno ancora alcuna conoscenza del ruolo
che giocano in questo gioco senza limiti. Stanno ancora
volando lungo la strada alla ricerca della possibilità di
una vita migliore.

Pubblico qui di seguito l’introduzione scritta dal Blog Chuang a un rapporto/inchiesta, intitolato Delivery Riders. Trapped in the System, dedicato ai lavoratori cinesi delle consegne (qui chiamati in diversi modi: riders, motociclisti, ciclisti) e pubblicato dalla rivista cinese Renwu (Popolo) l’8 settembre 2020. Il rapporto si può leggerlo nella sua interezza sempre su Chuang. Si tratta di scritti che toccano temi di interesse generale (come quelli afferenti al cosiddetto Capitalismo delle piattaforme) (1), e che in più aiutano a capire la condizione sociale della classe lavoratrice cinese al la di là della propaganda orchestrata dal Partito-Regime cosiddetto “Comunista” e ripresa anche in Italia dai sostenitori del Celeste Capitalismo/Imperialismo (2).

Mi scuso per la traduzione dall’inglese tutt’altro che impeccabile, il cui scopo d’altra parte è soprattutto quello di segnalare ai lettori l’interessante articolo in questione.

外卖 骑手. 困 在 系统 里

In tutto il mondo, il personale di consegna delle merci precedentemente invisibile ha raggiunto una nuova importanza nella coscienza popolare come “lavoratori in prima linea” durante la pandemia COVID-19. Poiché l’emergenza ha evidenziato sia l’importanza che i pericoli del lavoro di consegna, sulle condizioni di lavoro dei riders si sono verificati scioperi e al contempo manifestazioni pubbliche di apprezzamento. In Cina, il settore era già diventato un punto focale di disordini già diversi anni fa, poiché sia ​​il capitale che il lavoro passavano dal settore industriale in declino ai servizi in generale e alle nuove piattaforme di e-commerce poco regolamentate, in particolare. Mentre i blocchi nella prima parte di quest’anno hanno limitato l’organizzazione delle persone, negli ultimi mesi si è assistito a una rinascita delle azioni sindacali combinate con una raffica di notizie sul settore da parte dei media. I corrieri dei pacchi espressi sono stati sequestrati (precettati) in vista della festività dello shopping dell’11 novembre, il “Single’s Day”, con conseguenti proteste, rallentamenti e dimissioni di massa segnalate in più città nelle ultime settimane. E due mesi fa, una delle riviste più lette in Cina, Renwu (Popolo), ha pubblicato un’indagine di lungo respiro sugli orrori del lavoro di consegna di cibo, basata su sei mesi di ricerca. Solo su Weibo il rapporto è stato ampiamente ripubblicato e visualizzato 3,16 milioni di volte tramite il link originale, suscitando una serie di articoli correlati. Di seguito la nostra traduzione, preceduta da un sommario e un breve commento. Nelle prossime settimane pubblicheremo un testo originale che analizza ciò che queste tendenze da incubo del “capitalismo delle piattaforme” rivelano sull’economia cinese nel suo complesso e nel suo rapporto con l’economia globale.

Il rapporto, intitolato Delivery Riders. Trapped in the System, è stato scritto collettivamente da un team di giornalisti anonimi e inviato a Renwu, che lo ha pubblicato l’8 settembre 2020.

La rivista mensile Renwu è stata fondata nel 1980 sotto il People’s Daily Press ed è ora gestito dalla casa editrice statale People’s Publishing, che pubblica principalmente libri di politica. A marzo, Renwu ha condotto un’intervista con Ai Fen, uno dei primi medici a condividere informazioni sull’epidemia di COVID-19 nonostante gli avvertimenti del suo ospedale di rimanere in silenzio. L’intervista è stata cancellata nel giro di poche ore, ma è stata ampiamente condivisa attraverso una varietà di metodi creativi per aggirare la censura, incluso l’uso di emoji e l’inversione dell’ordine delle parole. Il pezzo tradotto di seguito fornisce un esame alternativo della situazione da parte di individui la cui vita è tenuta in ostaggio da forze al di fuori del loro controllo. L’articolo alterna le interviste ai lavoratori con i dati del settore, esaminando non solo l’impatto dei controlli algoritmici sui lavoratori stessi (noti come “motociclisti” perché consegnano cibo e altre merci guidando scooter elettrici), ma anche i modi in cui gli attori esterni contribuiscono a questo sistema, e che sono a loro volta da esso controllati.

Poiché si tratta di un pezzo particolarmente lungo, sarà utile prima fornire ai lettori un riepilogo dei contenuti. La sezione di apertura, “Ordine ricevuto”, racconta la crescente pressione esercitata sui riders dalla riduzione dei tempi di consegna. Poiché i processi di apprendimento automatico spingono verso tempi di consegna sempre più brevi, un risultato celebrato come un trionfo della tecnologia dai creatori dell’algoritmo, i guidatori non hanno altra scelta che violare i sistemi di controllo del traffico. Le sezioni successive “Navigazione”, “Azione sorridente e “Valutazioni a cinque stelle”, approfondiscono le minacce alla sicurezza pubblica create da questo processo e l’ulteriore spostamento di responsabilità dalle aziende ai riders.


“Heavy Rain” inizia a mettere in discussione questo “trionfo della tecnologia”, rivelando che un singolo evento meteorologico è sufficiente a rovesciare l’utopia di efficienza degli algoritmi. Come molti presunti “sistemi intelligenti”, gli algoritmi delle piattaforme richiedono l’intervento umano per funzionare. È qui che si apre il sipario, con un supervisore di Ele.me che ammette che questo intervento è fatto per rendere più difficili le condizioni dei lavoratori. In definitiva, coloro che hanno il potere di cambiare il sistema hanno scelto di non fare nulla – o addirittura di esercitare quel potere per spingere ulteriormente i riders ai limiti delle loro capacità alla ricerca di un profitto ancora maggiore.


“Navigazione” mostra come l’uso di un sistema algoritmico consenta alla piattaforma di generare richieste che sarebbero irragionevoli da parte di un altro essere umano, inclusa la guida contro il flusso del traffico, il raggiungimento di tempi di consegna che sarebbero possibili solo volando e persino attraversando i muri. “Games” indaga ulteriormente gli impatti del controllo algoritmico, sostenendo che la ludicizzazione dei salari dei ciclisti dà l’impressione di una maggiore indipendenza per i lavoratori, mentre di fatto li sottopone a un sistema di controllo che plasma la loro stessa percezione della realtà.

Le sezioni “Ascensori”, “Custodi”, “Coca-Cola e “Peppa Pig” approfondiscono, rispettivamente, le relazioni dei riders con la direzione dell’edificio, i proprietari di ristoranti e i clienti. Ogni relazione rappresenta una variabile nel processo di consegna che i ciclisti, di fronte ai tempi di consegna assegnati dagli algoritmi, hanno l’onere di gestire. Spesso queste variabili richiedono l’esercizio di uno sforzo emotivo e la sottomissione di se stessi da parte dei lavoratori a un sistema dominato dai capricci del consumatore e dalla produzione di prodotti sui quali non hanno alcun controllo. In particolare, “Coca-Cola e Peppa Pig” dimostra come gli algoritmi modellano la realtà non solo per i riders, ma anche per i consumatori: un cliente osserva che mentre in precedenza era stato abbastanza felice di guardare la TV mentre aspettava il suo cibo, ora lo trova insopportabile a causa dei tempi di consegna irrealistici forniti dalla piattaforma.

Le sezioni “Scooter”, “Smiling Action”, “Five Star Ratings” e “The Final Safety Net”, esaminano i sistemi che spingono i riders ad accollarsi ulteriori rischi, assicurando che i profitti continuino ad accumularsi sulle piattaforme. In “Smiling Action”, Renwu mette in luce i tentativi delle piattaforme di respingere le critiche del pubblico riguardo agli incidenti che coinvolgono i conducenti delle consegne con controlli di sicurezza casuali (a cui Meituan ha dato il nome orwelliano di “Smiling Action”) che sottopongono ulteriormente i motociclisti a sistemi di controllo spietati e incoerenti.


Le interviste con gli agenti di polizia nella sezione “Five Star Rating” dimostrano che le risposte del governo hanno ulteriormente spostato la colpa e la responsabilità per le minacce alla sicurezza sui riders. Piuttosto che costruire infrastrutture di trasporto più adatte a un numero crescente di riders che effettuano le consegne, o emanare leggi che affrontano il problema degli algoritmi che spingono i motociclisti a violare le leggi sul traffico, le città hanno invece optato per sorvegliare e punire i singoli ciclisti. Sebbene gli ufficiali di polizia intervistati esprimano simpatia per la difficile situazione dei riders, essi continuano a far rispettare le leggi ai danni di questi ultimi. Mentre puniscono i riders per le infrazioni, questi ufficiali spesso si assumono il compito di consegnare cibo, assicurando la continuità del sistema, che rimane incontrastato. Gli ufficiali alla fine sono diventati anche essi coscritti dell’algoritmo. “The Final Safety Net”, che si occupa delle inadeguatezze e della negazione della copertura assicurativa da parte delle piattaforme, illustra ulteriormente la vulnerabilità dei riders in assenza di formali contratti di lavoro.


La sezione di chiusura, “Gioco infinito”, rivolge brevemente la sua attenzione agli stessi programmatori, suggerendo che a loro volta sono intrappolati, al servizio di un sistema più ampio, con un background educativo che li ha lasciati mal equipaggiati per accedere adeguatamente al sistema. Questa sezione allude anche a preoccupazioni più ampie sulla privacy dei dati personali che stanno guadagnando terreno nella Cina continentale, osservando che anche se i dati dei riders vengono utilizzati per perfezionare i sistemi algoritmici di controllo, la proprietà di tali dati rimane in discussione. Alla fine, conclude l’articolo, questi lavoratori sono intrappolati in un “gioco” che non capiscono completamente, con poca scelta se non quella di continuare a giocare.

Le proteste dei riders delle consegne waimai2 avevano già iniziato a intensificarsi prima dell’attuale maggiore copertura mediatica riguardo alla loro difficile situazione. Gli scioperi dei riders della consegna di cibo sono aumentati di oltre quattro volte tra il 2017 e il 2019, passando da dieci scioperi segnalati nel 2017 ad almeno 45 nel 2019 secondo il China Labour Bulletin. L’abuso di gig worker e corrieri è una questione globale e intersettoriale. Anche i riders in Brasile, Corea del Sud, Tailandia e Romania si sono uniti alle proteste per chiedere migliori condizioni di lavoro. Più di recente, sono aumentati anche gli scioperi e le proteste dei corrieri kuaidi, molti dei quali consegnano ordini dalla fiorente industria cinese dell’e-commerce, con Service Worker Notes che proprio quest’anno hanno riportato migliaia di post online riguardanti scioperi dei corrieri. Analogamente alle piattaforme di consegna di cibo, le piattaforme dei corriere hanno cercato di espandere la propria quota di mercato tagliando i prezzi di consegna, trasferendo tali tagli ai salari dei propri lavoratori mentre le entrate delle piattaforme continuano a crescere. I lavoratori di diverse importanti società di corrieri stanno protestando per gli arretrati salariali. […]


Abbiamo scelto di tradurre questo articolo non solo per la sua utile indagine sulla struttura della governance algoritmica del lavoro, ma anche perché la sua pubblicazione – e la diffusione di analoghi rapporti sui lavoratori precari – segna un significativo evento per ciò che riguarda le condizioni degli addetti alle consegne e la conoscenza delle piattaforme che li impiegano. Mentre nel nostro prossimo articolo esploreremo la storia e le dinamiche attuali del cosiddetto “capitalismo delle piattaforme” in Cina, con un occhio al fatto che l’attuale riconoscimento da parte dei media dei lavoratori delle piattaforme potrebbe essere un segnalare circa la fine dell’espansione di tutte le piattaforme industriali, qui vogliamo sottolineare il terreno conflittuale che ha dato origine a queste forme di segnalazione: l’indagine di Renwu arriva mentre la lenta ripresa della Cina dopo l’epidemia di COVID-19 ha visto un ampliamento della disuguaglianza. Lo stimolo del governo si è concentrato principalmente sulle imprese e sui consumatori della classe media, piuttosto che sui lavoratori migranti che hanno visto la perdita di reddito più significativa (fino al 75% durante l’apice dei blocchi pandemici a febbraio e marzo, secondo la Stanford University’s Rural Education). Allo stesso tempo, funzionari come il Premier Li Keqiang hanno indicato il settore informale come la soluzione alla crescente disoccupazione cinese.

Infine, l’indagine di Renwu sugli impatti negativi del duopolio Meituan/Ele.me arriva mentre il governo cinese sta cercando di affermare un maggiore controllo sulle principali società tecnologiche, con le nuove linee guida antitrust rilasciate il 10 novembre che prendono di mira i giganti della tecnologia tra cui Meituan. Lo stesso giorno, un post dell’Amministrazione Cyberspace ha esortato le aziende tecnologiche cinesi a non consentire ai consumatori cinesi di diventare “prigionieri degli algoritmi”, facendo eco al framing utilizzato nell’articolo di Renwu. In definitiva, questo rapporto dimostra che la crescente dipendenza dal settore informale senza reti di sicurezza sociale rischia di provocare una diminuzione dei salari e una maggiore vulnerabilità per i lavoratori. Inoltre, indirizzando lo stimolo economico attraverso le imprese come Ele.me e Meituan, lo Stato sta favorendo l’ulteriore concentrazione di ricchezza nelle mani di poche grandi aziende. Concentrandosi su un settore che trasferisce intenzionalmente il rischio sui lavoratori, l’articolo di Renwu dimostra chiaramente le ripercussioni negative sui lavoratori di inadeguate reti di sicurezza sociale e scarsa protezione, nonché il controllo crescente e in gran parte incontrollato delle aziende tecnologiche sulla natura della realtà e dei consumi.


(1) Il cosiddetto capitalismo delle piattaforme non celebra il dominio dell’algoritmo, come suggerisce un pensiero feticisticamente orientato che tanto successo ha presso l’opinione pubblica e l’opinione scientifica (due facce della stessa medaglia): esso attesta piuttosto il dominio sempre più invasivo, capillare e globale (totale) del rapporto sociale capitalistico. Su questi temi rinvio a:


(2) Un solo esempio. La lotta interimperialistica mondiale per la spartizione dei mercati, delle materie prime e del plusvalore, e per la supremazia finanziaria, tecnologica e scientifica è presentata dagli amici della Cina come una «grandiosa lotta di classe». Come si spiega questa gigantesca quanto grottesca sciocchezza? Essa si spiega alla luce di un’altra gigantesca quanto odiosa panzana ideologica: la natura socialista, sebbene “con caratteristiche cinesi” (sic!), del regime cinese. Anche coloro che nella sinistra occidentale sostengono «l’inesorabile deriva capitalistica della Cina» muovono dal falso presupposto di un passato socialista che in Cina non c’è mai stato nemmeno ai tempi di Mao Tse-tung, il “padre” della rivoluzione nazionale-borghese nel grande Paese asiatico. Rinvio ai miei diversi scritti sulla Cina. Ne cito solo alcuni: Sulla campagna cinese; Žižek, Badiou e la rivoluzione culturale cinese; Tutto sotto il cielo – del Capitalismo; Da Mao a Xi Jinping. 70 anni di capitalismo con caratteristiche cinesi.

Tutti all'ospedale questi si intasano e si costruiscono reparti specifici, la cura a casa non deve esistere altrimenti come si può sottostare al covid/lockdown/coprifuoco che il Grande Reset pretende?

Mancano i protocolli per curare i pazienti Covid in casa. La denuncia dei medici di base

14 novembre 2020


Non sono ancora operative le linee di indirizzo del ministero della Salute ai medici di famiglia per la cura dei pazienti Covid a casa.

“Per le cure a casa dei pazienti con Covid noi medici di famiglia siamo fermi alle indicazioni che ci sono state fornite tra marzo e aprile”. Così il segretario nazionale della Federazione dei medici di famiglia (Fimmg), Silvestro Scotti denuncia all’Ansa la mancanza di protocolli condivisi sui trattamenti anti Covid.

Siamo a metà novembre, nel pieno della seconda ondata Covid e gli addetti ai lavori lamentano ancora l’assenza di linee guida sulle cure per trattare i pazienti affetti da Covid.

SCOTTI: TRATTIAMO PAZIENTI CON PARACETAMOLO E VITAMINE

“Per le cure a casa dei pazienti con Covid noi medici di famiglia siamo fermi alle indicazioni che ci sono state fornite tra marzo e aprile”, ha detto all‘Ansa il segretario nazionale della Federazione dei medici di famiglia (Fimmg), Silvestro Scotti, facendo il punto sulle terapie usate dai medici di Medicina generale per trattare i pazienti a casa.

“Trattiamo gli assistiti con paracetamolo, ibuprofene, vitamine in prima battuta. Se invece la febbre si protrae, anche antibiotici e cortisone. Se sopraggiunge la dispnea e la saturimetria scende troppo indichiamo l’ospedale”, ha aggiunto Scotti.

VENESIA: SERVE UN PROTOCOLLO

Servirebbe un protocollo aggiornato, invocano i medici.

“Per curare a domicilio i pazienti affetti da Covid serve un protocollo di utilizzo omogeneo, compiti definiti, funzioni chiare”, ha detto all‘Ansa il segretario della Federazione dei medici di Medicina generale (Fimmg)Piemonte, Roberto Venesia.

“Le linee guida dovrebbero essere scritte con la collaborazione di virologi e pneumologi.
Bisogna inoltre distinguere le terapie per le persone sotto i 50 anni e per i pazienti sopra i 50”, ha aggiunto Venesia.

8 novembre 2020 - MONTANARI SPIEGA TUTTI I DANNI LEGATI ALL'USO ERRATO DELLA MASCHERINA

Stati Uniti le contraddizioni emergono con sempre più forza. La politica statunitense organica al capitale e contro le classi lavoratrici sempre sacrificabili, sempre più precarie e da sfruttare

Scendete dal taxi e prendete la limousine!

di Piotr
11 novembre 2020

Questo articolo viene pubblicato in contemporanea anche su Megachip


«Il Presidente Trump è solo il conducente di un taxi che porta i passeggeri che ha accettato di far salire – Pompeo, Bolton e i Neoconservatori con la sindrome dell’Iran – dovunque gli dicano di andare. Vogliono fare una rapina, e viene utilizzato come guidatore per la fuga (e lui accetta completamente il suo ruolo)»
Michael Hudson

Un'amica di sinistra mi ha suggerito di leggere un articolo sulle presidenziali statunitensi scritto da Nadia Urbinati per il quotidiano “Domani”, il giornale di De Benedetti. Cosa che ho diligentemente fatto.

Nadia Urbinati è docente di scienze politiche alla Columbia University, una studiosa che da brava signora liberal newyorchese si pone il problema teorico se il Bolivarismo sudamericano (tout-court definito “populismo”) sia fascismo. La risposta è negativa (il Bolivarismo è addirittura ossessionato dalla necessità di elezioni – però, ahi ahi, anche per ottenere conferme plebiscitarie), ma già il dilemma posto conferma che la coscienza di classe e l'ideologia sono dettate dall'essere sociale, come aveva perfettamente intuito György Lukács. Io semmai mi porrei il problema se il Bolivarismo sia socialismo. Mi porrei cioè, nel suo senso più generale, un problema di rapporti sociali.

E qui entriamo nel vivo.

L'articolo accenna alla questione razziale e ripete le usuali accuse a Trump suggerendo che con Biden e la Harris le cose cambieranno.

In realtà quello che dice l'articolo può essere riferito pari pari anche ai Democratici. È noto, ad esempio, che sotto i due mandati di Obama si è toccato un numero record di neri uccisi dalla polizia (record rinnovato sotto Trump) e molti osservatori liberal hanno registrato l'incapacità o impossibilità da parte di Obama di, non dico migliorare, ma almeno fermare il peggioramento delle condizioni economiche e sociali degli afroamericani.

Il razzismo è una costante della storia etnica e di classe americana e non bastano le belle parole così come non è bastato nemmeno il colore della pelle di Obama che pure aveva fatto sognare liberal di entrambe le sponde dell'Atlantico, affascinati da ragionamenti ideologici e incapaci di andare analiticamente alla radice delle cose.

L'autrice, prima del panegirico dei discorsi di Biden e Harris, cioè dei loro bla bla, traccia una linea di demarcazione tra il “buon populismo” del People's Party (fine del XIX secolo), che contrastava il capitale finanziario per difendere la middle class, e il “populismo tossico”, appannaggio di Trump ma anche di Paesi latinoamericani (vedi sopra) ed europei. Con un ragionamento duale, ci domandiamo, di conseguenza, se gli avversari di tale populismo tossico siano avversari del capitale finanziario e avvocati della middle class. Ma l'articolo sorvola su questo punto dirimente per scandagliare invece ogni singolo “bla” dei bla bla del duo Biden-Harris.

La realtà, ciò che è fattualmente vero ma sottaciuto, è che la destra Dem di cui Biden e Harris sono esponenti è da decenni organica a Wall Street e complice, assieme al centro repubblicano, della concentrazione della ricchezza nelle mani di una ristrettissima oligarchia, con buona pace del peggioramento delle condizioni di vita della middle class, sia essa nera, bianca, ispanica o altro [1].

Trump, cioè l'outsider di destra, quattro anni fa spiazzò Dem e Repubblicani ergendosi proprio a difensore della middle class. Era indecente, ma come scrisse un osservatore liberal sul New York Times, «non si votava sulla decenza» ed ebbe i voti anche di quella middle class bianca che quattro anni prima era stata disposta a votare per il “nero” Obama sperando nelle sue promesse di riforma (altro che “suprematismo”) [2].

Trump è riuscito a far poco, ma era evidente da subito che non sarebbe riuscito a far molto. All'indomani della sua elezione scrissi un articolo intitolato “America anno zero. La presidenza modernariato” in cui paragonavo Trump a un mangiadischi degli anni Sessanta che voleva suonare musica degli anni Sessanta. Voleva riportare indietro di decenni l'orologio della Storia, ma, ovviamente, non ci poteva riuscire, perché nessuno ci riesce. Così era destinato a incartarsi in una miriade di contraddizioni, come infatti è successo [3].

È stato anche boicottato in tutti i modi da quello che ormai viene chiamato “complesso MICIMATT” (Military-Industrial-Congressional-Intelligence-Media-Academia-Think-Tank complex), in breve la nomenklatura, ma il risultato sarebbe stato solo marginalmente diverso [4]. La pandemia Covid ha infine suggellato e sigillato con una pietra tombale queste contraddizioni e sottolineato la riprovevole caratura del personaggio Trump.

Con tutto ciò, pur avendo contro i media più influenti, tutti i democratici e la maggioranza dei repubblicani, Donald Trump ha ricevuto quasi la metà dei voti popolari. Dimostrazione che i ceti sociali che lo avevano eletto quattro anni fa non si fidano delle promesse Dem nemmeno adesso e che le contraddizioni che mordevano allora mordono ancora oggi, nonostante il refurbishing e la cosmesi post moderna e terziarizzata di qualche quartiere qua e là della Rust Belt, la cintura della ruggine. Probabilmente la delusione per Obama è stata troppo cocente e hanno avuto modo di inquadrare la natura profonda del Partito Democratico.

Trump è stato il candidato (formalmente) repubblicano più votato di sempre e se il conteggio (e non la CNN!), come probabile, decreterà la futura vittoria di Biden (la dead line per i conteggi e i riconteggi del voto popolare è l'8 dicembre) il presidente uscente diventerà il candidato sconfitto più votato di sempre [5].

Tutto questo si può motivare ipotizzando un virus che colpisce il cervello delle persone facendole sragionare. È una spiegazione molto gettonata a sinistra dove ormai quel che conta è la manipolazione linguistica e simbolica, così che “cretino” è vista come categoria più esplicativa (e consolatoria) che non “classe”.

Ma io, pur lavorando da decenni su simboli e manipolazione linguistica (lo confesso, mi occupo di quella che pomposamente viene chiamata Intelligenza Artificiale, anche se nell'ambiente non usiamo mai questa parolaccia) sono della vecchia scuola e chiamo tutto ciò “lotta di classe”, che oggi si presenta in quella versione specifica che si riproduce durante le crisi sistemiche, ovvero durante le svolte epocali: la middle class (qui comprendente la working class)- che per definizione è radicata sul territorio, e quindi è nazionale - versus i ceti finanziarizzati cosmopoliti (il proletariato al più emigra, è il capitale che si delocalizza). In questo tipo di situazione è storico ed è logico che in mancanza di una proposta credibile di sinistra, sia la destra nazionalista a vincere. In mancanza di socialismo vince il nazional-socialismo [6]. Lo abbiamo visto in Europa negli anni Venti del secolo scorso coi fascismi, e lo vediamo di nuovo adesso, dopo un secolo, coi populismi cosiddetti e sedicenti “sovranisti” ma in realtà revanscisti (in sé, come per l'appunto dimostra il Bolivarismo, rivendicare sovranità contro le élite, le oligarchie e l'imperialismo non è per nulla negativo - i revanscisti lo sanno e ci giocano sporco).

In America ogni alternativa di sinistra, come Bernie Sanders o Alexandria Ocasio-Cortez e le altre ragazze della “Squad”, cioè Ilhan Omar, Rashida Tlaib e Ayanna Pressley (a me non dispiaceva Tulsi Gabbard, ma si è persa per strada), detestate dalla Clinton e dai clintonoidi fino agli insulti, è stroncata fin sul nascere dall'establishment Dem (non voglio in questo specifico contesto entrare nei loro limiti, specialmente in politica estera: sono pur sempre esponenti di un Paese imperiale e questo influenza le loro idee in politica estera la quale retroagisce su quella interna).

Biden e la Harris sono espressione di questo establishment che, come avrebbe detto Talleyrand, non ha imparato nulla e non ha dimenticato nulla. Talleyrand si riferiva alla restaurazione borbonica. Biden può dire tutti i bla bla che vuole, assieme alla sua vice (di fatto una prevedibile e classica retorica da pochi spiccioli) ma la realtà è che è stato prescelto come garante di una restaurazione combinata neo-liberal e neo-con, dopo lo spavento per una rivoluzione mai avvenuta e che non sarebbe, con Trump, mai potuta avvenire.

Biden non sarà in grado di superare le drammatiche contraddizioni statunitensi (e mondiali). Non ne ha la stoffa, non ne ha il coraggio, non ne ha il carisma ma più che altro rappresenta interessi che fanno parte del problema e non della soluzione (come per altro Trump). I miei amici di sinistra mi hanno già accusato di essere un guastafeste perché loro voglio godersi questo momento di euforia identitaria. Sono desolato, ma io non vedo nel prossimo futuro magnifiche sorti e progressive.

Intanto Biden è espressione di un establishment che si è dedicato anima e corpo ad aggressioni imperialistiche di ogni genere, dalle guerre dirette a quelle “from behind”, dagli assassinii extragiudiziali alle rivoluzioni colorate ai golpe, coprendosi di crimini, comprese le deportazioni di immigrati e la costruzione di muri di confine, che fanno sembrare le parole di Trump rodomontate e le sue azioni bambinate [7]. Questi sono i tratti ereditari e le tare ereditarie del probabile nuovo “ticket” presidenziale Biden-Harris. Se cambiamenti ci saranno, saranno a macchia di leopardo e in realtà saranno più che altro dei ritorni al futuro, come ad esempio il rientro degli Usa negli accordi sul clima, sul nucleare iraniano e magari in quello con la Russia sui missili a corto e medio raggio, quasi obbligatorio dopo il disequilibrio strategico dovuto al formidabile riarmo russo. Se va bene, quindi, si tornerà alla situazione di quattro anni fa. E se va male si ritornerà alla situazione di quattro anni fa: guerra in Libia, in Siria, nello Yemen, in Afghanistan, in Ucraina e regime change a go-go. In più, nel frattempo la situazione mondiale è radicalmente cambiata, la crisi si è ingigantita e le posizioni e gli interessi che rappresenta Biden non promettono soluzioni ai mastodontici problemi che si sono accumulati in questi anni.

Se le cose andranno diversamente sarà per uno shock esterno, altrimenti la linea è segnata, le contraddizioni si acuiranno nel mondo e la frattura all'interno degli USA si approfondirà e tra quattro anni il populismo di destra ritornerà vincitore (ripeto: a meno di shock esterni che facciano precipitare la situazione interna). Questa dialettica la si è vista già abbondantemente all'opera, ad esempio in Turchia, col fratello musulmano neo-ottomano Erdoğan, o in India, col fascismo indù di Narendra Modi. Se le promesse di progresso falliscono e la loro retorica continua imperterrita, si volge lo sguardo al modernariato, ai cimeli dell'epoca del “possiamo fare”, del futuro che non è ancora alle spalle, delle speranze e dei primi successi, o addirittura, specialmente laddove il modernariato non è un elemento culturale, si ritorna a fedeltà premoderne, estenuati e innervositi da una retorica liberal progressista il cui estremismo è direttamente proporzionale ai fallimenti che vuole coprire.

Sarà perché dopo essermi laureato in Filosofia ho visto che era meglio dedicarsi alla Matematica, ma i bla bla mi entrano da un orecchio e mi escono dall'altro, a volte lasciando un'irritazione. Così come mi irrita il filosofare complottista, tutto assonanze, metafore e analogie, allo stesso modo e per gli stessi motivi mi irrita la retorica liberal della gauche caviar.

Non è cinismo. È il tentativo di rimanere connesso alla realtà. Per sognare aspetto la notte.

L'alternativa è un'oscurità permanente.

Note
[4] Faccio notare che quattro anni di inchiesta “Russiagate”, su ipotesi di reato gravissime, non hanno portato dietro le sbarre nemmeno un qualche sfigatissimo e poco protetto comprimario.
[5] Se è evidente che Trump non vuole concedere la vittoria a Biden, è altrettanto vero che i Dem, a parti invertite, erano pronti a fare altrettanto:
[6] Dopo la Prima Guerra Mondiale, gli USA pretesero la restituzione dei 12 miliardi di dollari di prestiti intergovernativi elargiti per la guerra e la ricostruzione. Per ottenerne la restituzione, gli Stati Uniti imponevano ai propri ex alleati una politica di austerità che essi, in dipendenza della loro posizione nella gerarchia di potere internazionale, riversavano sui Paesi sconfitti. A loro volta i governi dei Paesi sconfitti si rifacevano sulle loro componenti territoriali. E’ in questo quadro che funzionava il giro vizioso tra Banche Usa, municipalità tedesche, Banca Centrale tedesca e i vincitori: le banche e gli investitori privati statunitensi fornivano prestiti alle municipalità tedesche, che convertivano i dollari in marchi (o meglio papiermarken) presso la Banca Centrale che, a sua volta, li usava per pagare i debiti di guerra agli ex alleati degli Usa, che infine usavano questi dollari per ripagare i debiti di guerra e di ricostruzione che avevano contratto con l’ex alleato. La sconfitta dei generosi tentativi del Biennio Rosso in Italia e della Rivolta Spartachista in Germania (siano sempre onorati Gramsci, Karl Liebknecht e Rosa Luxemburg!) lasciarono la lotta a questa rapina internazionale operata da Stati e banche alla mercé delle forze social nazionaliste.
[7] Così scrivevo in “America anno zero”:
«Il degrado senza precedenti della società statunitense, a partire proprio dalla popolazione afroamericana fucilata in serie dalla polizia militarizzata di Obama, i due milioni e mezzo di immigrati deportati durante i suoi mandati, le migliaia di chilometri di barriera antimmigrazione con il Messico davanti alla quale si consuma una vera strage di disperati, il riarmo atomico miliardario deciso dal Nobel “nero” per la Pace, le sue 27.000 bombe sganciate solo nel 2016, le centinaia di migliaia di civili uccisi nelle sue guerre, le migliaia uccisi dai suoi droni, le sue esecuzioni extra-giudiziarie, è tutto già ribaltato sul neo-presidente, ascritto a suo carico preventivamente. Un caso straordinario di consuntivo di una gestione passata che viene fatto passare come preventivo della gestione futura».
Si vedano:

Stati Uniti sull'orlo di una crisi di nervi dove le discriminazioni e le diseguaglianze predominano e dettano l'agenda

Behemoth 2.0. La ‘tribalizzazione’ dell’America e la fragilità delle nostre democrazie

di Damiano Palano
7 novembre 2020

All’alba del 9 novembre 2016, scoprimmo un’America molto diversa da quella che avevamo conosciuto. Il responso delle urne non ci disse soltanto che a insediarsi alla Casa Bianca sarebbe stato Donald Trump, l’originale miliardario newyorkese che per mesi era stato ritratto dalla stampa e da molti osservatori come un fenomeno da baraccone e come un candidato sconfitto in partenza nella competizione con Hillary Clinton. Il risultato di quelle elezioni ci disse soprattutto che una fetta cospicua di cittadini aveva creduto nello slogan «Make America Great Again» inalberato durante la sua campagna, che non si era scandalizzata per i toni razzisti del tycoon, per le fake news che popolavano i suoi tweet, per il suo passato burrascoso, che non aveva giudicato risibili molte delle promesse lanciate nei suoi comizi. In altre parole, avevamo scoperto che una parte dell’America aveva riconosciuto in Trump un outsider capace di difendere i propri interessi e i propri valori. Un outsider a cui veniva consegnato il compito di difendere, dalla globalizzazione e dalle élite liberal, gruppi sociali che erano abissalmente lontani da quello da cui l’immobiliarista newyorkese proveniva.

Quattro anni dopo sappiamo che l’America non è diventata di nuovo grande come era stata nella seconda metà del Novecento. L’economia ha certo beneficiato delle ricette dell’amministrazione Trump, ma gli effetti positivi sono stati mandati in fumo dall’irruzione della pandemia. Sotto il profilo internazionale, gli Usa hanno invece visto ulteriormente incrinarsi la legittimità del loro ruolo di egemone globale, e sarà molto difficile che – anche a dispetto degli sforzi che Joe Biden potrebbe riporre in un rilancio del multilateralismo – la situazione torni sui vecchi binari. Ma, soprattutto, i risultati delle elezioni del 3 novembre ci confermano che l’America è un paese diviso, lacerato come probabilmente non è mai stato nel corso dell’ultimo secolo. E il punto non è tanto che l’esito del voto si giochi – a dispetto, ancora una volta, di ciò che ci avevano predetto i sondaggi da molti mesi – su una manciata di schede, quantomeno negli Stati in bilico. I dati su cui riflettere sono piuttosto l’intensità della partecipazione e la distanza, davvero marcata, che esiste tra i due gruppi di elettorato. Non è una scoperta che giunga davvero inaspettata. Molti politologi e molte indagini ci avevano ripetuto negli scorsi anni che nelle democrazie occidentali, e soprattutto negli Stati Uniti, stava crescendo il livello della “polarizzazione”. In altre parole, la distanza ideologica tra democratici e repubblicani stava crescendo, non solo tra le leadership politiche, ma tra le stesse basi elettorali, al punto tale da mettere in discussione quella tolleranza reciproca e quell’autocontrollo che rappresentano i pilastri più solidi di una democrazia dell’alternanza. I risultati delle urne ce lo confermano in modo quasi clamoroso, anche perché l’affluenza al voto – nonostante le circostanze eccezionali della pandemia – ha raggiunto il livello più alto da oltre un secolo, dimostrando così che la società americana è probabilmente molto più politicizzata ora rispetto al passato. Non sono però solo i risultati delle urne, o le stesse contestazioni che li accompagnano (e li accompagneranno probabilmente a lungo), a palesare le proporzioni della “polarizzazione”. A fornirci una fotografia forse ancora più efficace – e inquietante – sono molti degli eventi che hanno preceduto e seguito le elezioni del 3 novembre: la contestazione delle procedure elettorali, la delegittimazione dell’avversario, l’allusione (neppure troppo implicita) alla possibilità di ricorrere alle armi, la comparsa di una violenza politica non più praticata da attori marginali ma da soggetti che risultano per molti versi interni alla dialettica delle forze istituzionali.

Dinanzi a questa America divisa in due, in fondo riscopriamo ciò che avevamo sempre sospettato. E cioè che, al di là della retorica dell’american dream, il paese dello Zio Sam era sempre stato lacerato da profonde diseguaglianze e discriminazioni. I politologi statunitensi degli anni Cinquanta e Sessanta scrivevano che il segreto dell’esperimento democratico americano era la civic culture: una cultura politica contrassegnata dalla coesione intorno ai valori di fondo della comunità nazionale, una cultura che trasformava la competizione elettorale in un ‘gioco’, perché nessuno dei contendenti era percepito come una minaccia e perché nella tornata successiva il risultato si sarebbe potuto ribaltare. Quell’immagine era già allora sin troppo generosa, perché trascurava la forza delle linee di divisioni ereditate dal passato, che l’esito della Guerra civile, il New Deal e la Guerra fredda non avevano cancellato. Quelle profonde fratture tornano per molti versi a riaffiorare con maggiore evidenza oggi, ‘incapsulando’ dentro vecchi contenitori identitari il disagio che nasce dalle nuove diseguaglianze, dall’impoverimento dei ceti medi, dalla paura verso i “nuovi arrivati”, dal risentimento verso quell’establishment che ha tradito molte delle proprie promesse.

Se possiamo ravvisare nell’America polarizzata del 2020 molti lasciti dell’America di ieri, forse dobbiamo però anche riconoscere nella ‘tribalizzazione’ contemporanea qualcosa di più che la semplice riemersione del passato. Molti anni fa, Marshall McLuhan, con una delle sue formule fulminanti, scrisse che mentre «le tecnologie specialistiche detribalizzano», ogni tecnologia non specialistica «ritribalizza». E la polarizzazione di oggi è in effetti anche un prodotto di quella tecnologia non specialistica che – veicolata soprattutto dagli smartphone che teniamo in tasca – ha colonizzato le nostre vite. In una società come quella americana – una società sempre più individualizzata, sempre più priva delle vecchie riserve di capitale sociale – la radicalizzazione è cioè anche l’esito di quei flussi comunicativi “personalizzati” che viaggiano sui social media. Le identità collettive di oggi, a differenza di quelle del passato, sono in sostanza costruite e rafforzate dentro quelle “bolle” autoreferenziali in cui ciascuno di noi – come disse Barack Obama nel suo ultimo discorso da presidente – tende sempre di più a chiudersi, alla ricerca di sicurezze e di conferme alle proprie convinzioni. Anche questo rende le contrapposizioni di oggi tanto differenti da quelle che abbiamo conosciuto nel Novecento. Ed è anche per questo che non sono eccessivi i timori sui rischi che questa polarizzazione potrebbe comportare per la stabilità delle istituzioni democratiche americane. Priva degli argini garantiti nel passato dai partiti di massa, e in un paese tutt’altro che abituato a gestire col compromesso le spinte conflittuali, la ‘tribalizzazione’ può davvero innescare una spirale di turbolenze che non è destinata a esaurirsi con l’uscita di scena di Donald Trump.

In questi mesi, dinanzi alle risposte fornite dagli Stati all’emergenza sanitaria, l’ombra del vecchio Leviatano di Hobbes è tornata spesso ad aleggiare sul futuro delle nostre democrazie. Molti hanno infatti attirato l’attenzione sulla possibilità che, per rispondere alla pandemia, i cittadini occidentali debbano cedere una parte delle loro libertà in cambio della tutela della loro salute. Ma il clima politico che ha preceduto (e che forse seguirà) le elezioni presidenziali del 2020 sembra piuttosto evocare il mostro biblico con cui Hobbes volle identificare il lungo conflitto che, nella prima rivoluzione inglese, oppose Carlo I al Parlamento. Perché, se le forze politiche non si impegneranno a trovare un nuovo compromesso, la situazione degli Stati Uniti di domani potrebbe assomigliare davvero a una sorta di Behemoth 2.0.