L'albero della storia è sempre verde

L'albero della storia è sempre verde

"Teniamo ben ferma la comprensione del fatto che, di regola, le classi dominanti vincono sempre perché sempre in possesso della comprensione della totalità concettuale della riproduzione sociale, e le classi dominate perdono sempre per la loro stupidità strategica, dovuta all’impossibilità materiale di accedere a questa comprensione intellettuale. Nella storia universale comparata non vi sono assolutamente eccezioni. La prima e l’unica eccezione è il 1917 russo. Per questo, sul piano storico-mondiale, Lenin è molto più grande di Marx. Marx è soltanto il coronamento del grande pensiero idealistico ed umanistico tedesco, ed il fondatore del metodo della comprensione della storia attraverso i modi di produzione. Ma Lenin è molto di più. Lenin è il primo esempio storico in assoluto in cui le classi dominate, sia pure purtroppo soltanto per pochi decenni, hanno potuto vincere contro le classi dominanti. Bisogna dunque studiare con attenzione sia le ragioni della vittoria che le ragioni della sconfitta. Ma esse stanno in un solo complesso di problemi, la natura del partito comunista ed il suo rovesciamento posteriore classistico, individualistico e soprattutto anti- comunitario" Costanzo Preve da "Il modo di produzione comunitario. Il problema del comunismo rimesso sui piedi"

sabato 26 dicembre 2020

E' guerra vera è guerra totale, niente illusioni - E' guerra illimitata

La strategia marittima di Cina aggirerà gli Stati Uniti

26 dicembre 2020


Mosse e mire della Cina sul mare. L’analisi di Giuseppe Gagliano

Come sanno benissimo gli studiosi di geopolitica le riflessioni dell’ammiraglio Alfred T. Mahan risultano – ieri come oggi – di grande rilevanza per comprendere l’importanza che il controllo degli dei mari e degli stretti può avere per il consolidamento ma soprattutto per la proiezione di potenza di una nazione.

Non a caso il grande studioso inglese sottolineava come la potenza marittima per essere veramente efficace debba essere volta a controllare gli stretti, o più in generale i “mari stretti”. Questa tesi non sembra essere stata successivamente smentita, ma è stata comunque attuata dagli Stati Uniti, che oggi controllano la maggior parte dei punti strategici per il commercio marittimo mondiale.

Consapevole dell’importanza geopolitica di questa tesi la Cina sta ponendo in essere una strategia marittima di grande respiro volta ad aggirare la potenza americana. Non è certo un caso che proprio su queste pagine abbiamo più volte insistito sull’importanza della proiezione di potenza marittima cinese (in modo particolare quella relativa al Mar cinese meridionale).

Appare infatti chiaro che le principali rotte commerciali marittime dipendono in larga misura da certi “passaggi stretti”, naturali o artificiali. A livello globale, possiamo citare Malacca, Hormuz, Bab-el-Mandeb, Gibilterra, il Canale di Suez
e il Canale di Panama. Difficile essere esaustivi, ma questi punti vitali del traffico marittimo sembrano i più delicati.

Gli americani, grazie a uno strumento navale altamente sviluppato e alle loro alleanze, riescono a controllare tutti questi passaggi. La potenza marittima americana, grazie alla Quinta flotta, responsabile del Golfo Persico e del Golfo di Aden, ha il controllo di uno degli snodi strategici più importanti a livello globale.

Anche il sostegno di Washington ad alcuni stati chiave è importante: l’Egitto è il secondo più grande destinatario dei suoi aiuti militari in Medio Oriente dopo Israele, con il Canale di Suez nel mirino. Sul versante dello Stretto di Malacca si possono citare gli accordi con Singapore che danno alla US Navy l’accesso alle infrastrutture navali e aeree di questa città-stato, che è anche uno dei luoghi portuali più importanti del pianeta.

Ma la migliore risorsa degli americani rimane il Canale di Panama. Da un lato è un passaggio quasi obbligato per attraversare il continente americano, il Passaggio a Nordovest che rimane inaccessibile per una parte dell’anno e Capo Horn poco comodo. Non è un caso che gli Stati Uniti abbiano un controllo quasi assoluto su questo canale che sembra difficile da contestare.

Ma nonostante tutto, la Cina si sta posizionando come meglio può sugli snodi strategici che già esistono. Da un lato, la sua strategia di controllo del Mar Cinese, in caso di successo, gli darebbe il controllo sui flussi intra-asiatici. D’altra parte, la strategia nota come “collana di perle” consistente nell’avere infrastrutture sulla strada tra Cina e Medio Oriente, in particolare in Cambogia, Birmania, Bangladesh, Sri Lanka e in Pakistan, gli permette di avere accesso ad uno snodo strategico fondamentale.

Insomma da un lato il Dragone non intende essere inferiore rispetto ad una rivale sempre più minaccioso come l’India e dall’altro lato la realizzazione di una infrastruttura a Gibuti incrementa la sua proiezione di potenza marittima in Africa orientale.

Per aggirare l’egemonia statunitense sulle rotte marittime, la Cina può fare affidamento sulla sua natura continentale, creando corridoi di trasporto terrestre, affidandosi in particolare al trasporto ferroviario. Pensiamo prima di tutto al corridoio di Gwadar, tra Pakistan e Xinjiang, nonché a quello di Sittwe, tra Birmania e Yunnan, che impediscono il transito di merci da o per l’Europa e il Medio Oriente passaggio attraverso lo stretto di Malacca. Pensiamo anche ai corridoi eurasiatici, come la Transiberiana o la nuova Via della Seta.

Anche se è vero che i corridoi terrestri sono in competizione con il trasporto marittimo, dobbiamo tenere presente che ci vogliono cento treni per trasportare una quantità di merci equivalente alla capacità di uno di questi ULCS – Ultra Large Container Ship – che dominano il commercio marittimo. D’altra parte, il costo per container trasportato è cinque volte superiore per il trasporto ferroviario. Unico vantaggio di questo modo di trasporto: maggiore velocità, ma questo lo colloca in una nicchia più complementare che competitiva al trasporto marittimo.

Tuttavia l’interesse di questi corridoi è più di un ordine interno per la Cina perché consentono al Dragone di sviluppare regioni lontane come lo Yunnan e soprattutto lo Xinjiang che la Cina cerca di valorizzare a tutti i costi.

Una delle possibili strade per la Cina è posizionarsi sui passaggi marittimi emergenti. Questi possono consistere nelle rotte del Far North – passaggi del Nordovest e del Nordest – o nella creazione di nuovi canali, come quello del Nicaragua o come quello del canale di Kra.

A tale proposito credo sia utile chiarire sul piano geopolitico l’importanza di questo canale. Questo progetto, portato avanti con la Thailandia, le garantirebbe di accorciare le rotte marittime di 1200 km e le consentirebbe quindi un maggiore controllo sotto il profilo del commercio dell’Indo-Pacifico. Se i costi preventivati si aggirerebbero intorno al 28 miliardi di dollari, questa infrastruttura non solo permetterebbe di superare la grande problematica dello Stretto di Malacca ma soprattutto renderebbe certamente più sicure dal punto di vista logistico le forniture energetiche per il Dragone. In secondo luogo la sua realizzazione consentirebbe al Dragone di aumentare la sua influenza sulle Filippine e su Singapore ma soprattutto sulla Thailandia.

Le strade dell’estremo nord comportano più incertezze che reali potenzialità. Tuttavia, la Cina si sta posizionando sull’Artico. La compagnia statale COSCO invia navi nel Passaggio a nordest da alcuni anni e il Dragone possiede una nave da ricerca rompighiaccio, la Xue Long, che invia regolarmente nella regione artica.

La chiave per comprendere l’interesse cinese per questa rotta potrebbe non essere in un transito incerto tra l’Europa e l’Asia, ma piuttosto in ciò che è sempre stato utilizzato in epoca sovietica: dare accesso alle risorse naturali abbondanti nell’estremo nord russo. Inoltre, le sanzioni occidentali non hanno portato i cinesi a subentrare agli europei per il finanziamento e il supporto tecnico del progetto gas Yamal?

Per ora, il canale nicaraguense non è ancora emerso dalla terra. L’uomo d’affari che presiede la società di sviluppo responsabile dei lavori e che è il principale finanziatore, Wang Jing, avrebbe perso il 90% della sua fortuna durante il crollo del mercato azionario cinese nell’estate del 2015 mentre il progetto è faraonico: il suo costo è stimato in 50 miliardi di dollari, ovvero l’equivalente di 4 volte il PIL del Paese.

In ultima analisi poiché è difficile sottrarre agli americani la posizione egemonica che detengono sulla maggior parte degli snodi strategici marittimi delle grandi rotte commerciali, il Dragone sembra volerli torcere per spostarli in aree che può plasmare secondo la sua proiezione di potenza .

Una politica un Parlamento che ha paura ad avere una banca pubblica che può ottenere miliardi dalla Bce come hanno fatto quelle tedesche


26 DICEMBRE 2020


Non c’è pace per le banche italiane in crisi. Il Ministero dell’Economia e delle Finanze ha preso a livello comunitario l’impegno di vendere entro il 2021 le sue quote di Monte dei Paschi di Siena e di riportare la storica banca toscana nel mercato privato. Da anni l’ingresso del Tesoro nel capitale di Rocca Salimbieni non ha risolto in alcun modo nè le problematiche operative del Monte, mai sanate da una riorganizzazione dei suoi affari o da uno sviluppo di ampia prospettiva della governance, né l’anemia delle sue finanze, continuamente messe a repentaglio da una serie crescente di buchi di bilancio e sanate solo da ricapitalizzazioni a ripetizione.

Quale futuro per Mps? Il governo Conte II è diviso sul tema. Che rappresenta l’ennesimo fattore di divisione in un governo preda delle ambizioni dei suoi componenti. Fulvio Coltorti su Il Messaggero ha scritto che “la Vigilanza europea potrebbe chiedere d’urgenza una ricapitalizzazione” di Mps “che potrebbe essere fino a 2,5 miliardi” dopo la scoperta di nuovi buchi di bilancio nel 2020. Questo potrebbe spingere il governo, che teme di vedere nuovi sostegni pubblici al Monte esser classificati come aiuti di Stato, ad accelerare sulla fusione della banca con altri attori nazionali.

Pier Carlo Padoan è recentemente passato dal parlamento (deputato in quota Pd) alla presidenza dell’Unicredit. E per l’economista ed ex titolare del Mef il dossier più importante da seguire una volta insediatosi a Piazza Gae Aulenti non potrà che essere quello di una futura operazione di fusione di Mps con Unicredit, tra le cause che hanno spinto all’annuncio di addio al termine del mandato l’ad Mustier estremamente scettico a riguardo. Il Pd toscano, recentemente uscito vittorioso dalle elezioni regionali, teme un’ondata di esuberi di posti di lavoro in Mps nelle sue roccaforti nella regione in caso di fusione con Unicredit. “Le future decisioni in merito alla cessione delle sofferenze e alla prospettata riprivatizzazione del Monte dei Paschi di Siena, chiesta dalla Bce e Ue, con l’eventuale uscita del tesoro dell’azionariato della banca potrebbero avere un forte e negativo impatto sulla vita economica e sociale della Toscana”, ha scritto il presidente regionale Eugenio Giani che, nella recente campagna elettorale, ha sostenuto la necessità di mantenere il Monte sotto il controllo pubblico.

Ma al Nazareno, secondo Dagospia, si starebbero convincendo che il merger Mps-Unicredit sia la strada giusta, e così sarebbe orientato anche il titolare del Mef Roberto Gualtieri. Fattispecie che troverebbe la totale contrarietà dei pentastellati, favorevoli a uno schema diverso basato sul controllo pubblico consolidato di Mps e della sua sinergia con Popolare di Bari, altra banca in crisi. A fare da regista dell’operazione Invitalia, l’authority guidata da Domenico Arcuri, già rivelatasi cruciale nello sblocco della trattativa sull’ex Ilva e che potrebbe tornare opportunamente in gioco. Dopo che nelle scorse settimane il segretario della Fabi, Lando Maria Sileoni, il quale per evitare una “macelleria sociale” si è spinto ad auspicare un’operazione del genere estesa a Carige e il viceministro dell’economia pentastellato, Laura Castelli, ha dato il suo pieno appoggio a una mossa del genere la proposta è stata coordinata per fare da contraltare alle volontà dem di dar priorità all’Unicredit.

Recentemente l’ad del Monte Guido Bastianini con i consulenti di Oliver Wyman e Mediobanca ha elaborato il nuovo piano industriale del gruppo, che prevede tremila esuberi e la necessità di affrontare in futuro una crisi di capitalizzazione. La manovra temporeggiatrice, che non disegna scenari complessi sul lungo periodo, riflette l’incertezza di una banca trattata sempre di più come terra di conquista e non come un istituto potenzialmente strategico per rilanciare dei territori dissestati dalla crisi bancaria degli anni scorsi.

Quella che una volta era la quarta banca italiana potrebbe ben tornare ad altri fasti, pubblica o privata, se sapesse darsi un indirizzo operativo. StartMag nota che “il Monte dei Paschi ha già di per sé una dimensione più che sufficiente per camminare da solo; bisogna trovare in primo luogo un Ceo competente e coraggioso che sappia già che cosa è una banca” e può contare sul suo inserimento in “un territorio dinamico e promettente”. Dunque “non si vede perché non possa riuscire a sopravvivere in autonomia”, opportunamente risanato. Il fatto che la Bce spinga le banche a consolidarsi con le fusioni e che in Italia, da Intesa-Ubi in avanti, il risiko bancario sia sempre più accelerato non giustifica operazioni barocche e forzate su Mps. Banca carica di sofferenze (crediti deteriorati) che va, in primo luogo, riunita al territorio produttivo di riferimento, ridimensionata rispetto ai suoi fasti ma nuovamente capace di risultare resiliente agli shock, e non deve esser considerata pedina di scambio delle beghe politiche del Conte II.

Una classe dirigente che odia il suo popolo

La totale assenza di classe dirigente nel Paese

Non sapere nulla, non leggere nulla, non capire nulla.

 

Non sa nulla,  non   prevede nulla, non si sente responsabile di nulla, non legge nulla, non capisce nulla

Nessuno vi mostra questi dati. Guardate: il Governo ci sta portando verso un’economia di povertà” ▷ Malvezzi

Nessuno si illuda che in qualche mese si uscirà da questa situazione. Continuando così le attese economiche continuerano. Nel 2030 forse recupereremo il PIL che avevamo nel 2008. Questo per dirvi quanto siamo imbecilli: noi perdiamo 25 anni sulla base di altari pagani.

Guardiamo i dati: circa 1/4 del PIL privato italiano è sostanzialmente legato alle attività di commercio e turismo, quindi grosso modo 1/4 del valore aggiunto italiano è quella roba lì.
il calo del fatturato previsto tra il 2019 e il 2020 (tenete conto che più o meno il 26% delle fatture non viene pagato) abbiamo un calo del 47% del settore alberghiero, un calo del 51% delle agenzie di viaggi, un calo del 39,8% nel settore di fiere e convegni, del 39% sulla gestione dei parcheggi e del 38,1 % delle strutture ricettive alberghiere. E questi sono dati parziali e ottimistici, visto che non sono ancora aggiornati all’ultimo trimestre.
A gennaio probabilmente la situazione sarà molto peggio di così, ma già così mi sembra un disastro.

Sento parlare di tutto tranne che di queste cose: il MOL.
Il MOL (Margine Operativo Lordo) è il guadagno di un’attività economica prima di pagare gli interessi, le tasse e gli ammortamenti.
Lo possiamo vedere sostanzialmente come la differenza tra i ricavi e i costi.
Ora, il MOL in questi settori ha un calo drammatico. Le agenzie viaggi subiscono addirittura un -222% del MOL: io non sento da parte del governo italiano nulla di concreto per aiutare 1/4 del PIL italiano. Nel 2021 queste aziende non saranno più bancabili.

Le briciole dei 600 euro non li considero nemmeno. E’ pubblicità. E’ vergogna.
Mi sembra di vedere la gente ballare sul Titanic. Non scaricano – giustamente – la app Immuni ma poi si prostituiscono per 150 euro al mese perché aderisce all’invito del Governo di fare i delatori fiscali
“.

l'Iran sotto attacco


26 DICEMBRE 2020

Un’esplosione squarcia l’Iran. Poi un’altra. Poi un’altra ancora. In pochi giorni, delle deflagrazioni colpiscono importanti siti strategici della Repubblica islamica e gettano un’inquietante ombra di mistero sul complesso militare di Teheran. In particolare quello dei Pasdaran.

Tutto ha inizio la notte del 26 giugno, quando un lampo illumina il cielo nei pressi di Parchin. Dopo un’ondata di informazioni social, il ministero della Difesa non ha potuto fare altro che intervenire confermando la veridicità dell’esplosione. Ma il comunicato del dicastero è molto scarno: deflagrazione in un sito di stoccaggio del gas. Obiettivo di Teheran è quello di mettere a tacere le speculazioni che immediatamente iniziano a moltiplicarsi sui social network e che attirano l’attenzione dei media internazionali. Chiunque conosce il complesso sistema militare e tecnologico dell’Iran sa che dietro Parchin c’è uno dei più grandi nodi della politica mediorientale: il programma missilistico e nucleare iraniano. Lo ha spiegato anche Fabian Hinz, ricercatore del James Martin Center for Nonproliferation Studies, che ha confermato che il sito colpito dal bagliore notturno è “il più grande sito di produzione di esplosivi militari in Iran”. Fino al 2004 si erano svolti dei test nucleari, e già nel 2014 un curioso incidente era avvenuto proprio a Parchin facendo parlare di sabotaggio.


Nemmeno il tempo di fugare i dubbi sul sabotaggio – per i Guardiani della Rivoluzione sarebbe il segnale di clamorosi buchi nell’intelligence – che il Paese è scosso da un’altra misteriosa esplosione. Questa volta a essere colpita è una clinica della capitale, il centro di Sina At’har. L’incendio conseguente allo scoppio provoca 19 morti. Hassan Rouhani ordina un’inchiesta. Il vice governatore di Teheran prova a placare le polemiche spiegando che si tratta di un terribile incidente causata dal gas. Ancora una volta una fuga incontrollata come a Parchin. I sospetti aumentano. E non si fermano nemmeno quando il vice ministro della Salute spiega che non vi sarebbe alcuna fuga di elementi radioattivi. Perché smentire questa voce quando a bruciare è una clinica? Molti temono che dietro le parole di Iraj Harirchi ci sia una mezza verità.


Il problema è che nell’arco di poche ore l’intelligence iraniana è scossa da un altro incidente. Che a questo punto è impossibile derubricare come tale. Tra il 2 e il 3 luglio viene colpita da un misterioso episodio la centrale nucleare di Natanz. Nessuna fuga radioattiva, tengono a precisare da Teheran, anche se c’è chi ammette che molte centrifughe sono state messe fuori uso dall’incendio. Tuttavia, quello che succede a Natanz non può mai essere considerato semplicemente un incidente. E le stesse autorità iraniane iniziano a far trapelare un’altra verità, puntando su eventuali elementi esterni. L’opinione pubblica non può accettare che tutta questa scia di esplosioni sia considerata del tutto casuale e senza legami con i programmi più bollenti dell’Iran, ovvero quello balistico e nucleare. E a Natanz tutti sanno cosa è successo nel 2010, quando un attacco cyber ordito da Israele e Stati Uniti tramite Stuxnet ha messo fuori uso centinaia di centrifughe in quella che a quel tempo era la punta di diamante dell’intero programma atomico iraniano. Questa volta gli iraniani ci vanno cauti. Keyvan Khosravi, portavoce del Consiglio supremo di sicurezza nazionale, dice che cause e risultati dell’inchiesta non possono essere resi pubblici per “motivi di sicurezza” e che tutto sarà annunciato “al momento opportuno”. Segnale che adesso a Teheran vogliono chiarimenti.

Nell’arco di poche ore, un altro incendio. Questa volta a essere colpita è la centrale elettrica di Shahid Medhaj Power Plant, cinque chilometri da Avhaz. La città era stata il luogo, mesi prima, del primo corteo funebre in onore di Qasem Soleimani. Altra colonna di fumo nero in un Iran sempre più colpito da diverse e sempre più strane esplosioni. Come quelle avvenute negli impianti di Shiraz e Kharoun o quelle avvenute in una fabbrica di Kahrizak. Con un’ultima “fiammata” avvenuta il 15 luglio, nel porto di Busher, dove prendono fuoco tra cinque e sette navi ancorate nel porto dove risiede non solo uno dei più importanti comandi della Marina iraniana, ma anche una centrale di rilevante valore strategico legata al programma nucleare. Un incidente che sposta l’occhio anche su quel Golfo Persico dove le tensioni non sono mai cessate.

Le domande dei media, degli analisti e degli uomini di intelligence si moltiplicano. Le accuse sono da subito rivolte verso Israele e Stati Uniti, visto che la guerra ibrida che conducono contro l’Iran ha raggiunto in questi anni livelli di tensione altissima. Gli ultimi attacchi cyber in cui sono stati coinvolti i Paesi si sono dimostrati non solo chirurgici ma anche devastanti. E in quegli stessi giorni Israele aveva appena conferito alla Unit 8200 un riconoscimento pubblico per un colpo (ignoto) contro un “obiettivo nemico”. Pubblicamente nessuno avrebbe potuto dire l’obiettivo, ma per questioni di tempistiche tutto fa pensare che si tratti del polo di Shahid Rajaee, quando l’Iran ha accusato hacker nemici di aver completamente paralizzato il traffico marittimo del porto di Bandar Abbas, base principale della Marina militare iraniana e dei Pasdaran. Un attacco da cui forse deve iniziare a farsi risalire la scia di esplosioni che ha incendiato l’Iran a luglio.

Più la Strategia del Caos e della Paura, nata formalmente a New York 11 settembre del 2001, viene implementata maggiore diventa la collaborazione tra la Cina e la Russia



26 DICEMBRE 2020

Le relazioni internazionali sono ad un punto di svolta: gli Stati Uniti, che mai hanno abbandonato del tutto l’autoconcezione di impero della libertà, potrebbero essere sul punto di riesumare il ruolo di poliziotto globale, la pandemia di Covid19 ha esacerbato la competizione tra grandi potenze e messo in luce le falle della globalizzazione, e nuovi eventi stanno ridisegnando la divisione del potere nel mondo musulmano.

Uno scudo per proteggersi dal caos permanente che infesta il mondo potrebbe essere rappresentato dalla costruzione di rapporti simbiotici. Russia e Cina, che dal 2014 hanno edificato un partenariato strategico multidimensionale, vedono nel consolidamento ulteriore della loro intesa amichevole l’unica maniera per fronteggiare con successo tutte le incognite e le sfide che si presenteranno nei prossimi anni.

La telefonata tra Lavrov e Yi

I ministri degli esteri di Russia e Cina, Sergey Lavrov e Wang Yi, il 22 dicembre hanno discusso via telefono del miglioramento dei rapporti bilaterali. Il contenuto del dialogo è stato condensato dal The Global Times, il quotidiano-megafono del Partito Comunista Cinese, nella frase di apertura dell’articolo dedicato alla conversazione: “Più il mondo diventa turbolento, più stabili dovrebbero essere le relazioni fra Cina e Russia”.

I due diplomatici hanno concordato sul fatto che si renda necessario e fondamentale il potenziamento ulteriore del partenariato strategico alla luce delle crescenti pressioni degli Stati Uniti sul duo e sull’intera architettura multilaterale. Il consolidamento dell’asse Mosca-Pechino non avrebbe ricadute positive esclusivamente sulle capacità di resistenza dei due Paesi, ha spiegato Lavrov, ma anche sulla stabilità della comunità internazionale

Il capo della diplomazia cinese ha ricordato, inoltre, che il 2021 sarà un momento di svolta – e non per via del ritorno del Partito Democratico alla Casa Bianca – perché avrà luogo il ventesimo anniversario del Trattato di buon vicinato e cooperazione amichevole, siglato fra i due Paesi nel lontano 2001. Quel documento ha gettato le fondamenta per il successivo sviluppo del sodalizio che sta riscrivendo il volto del pianeta, e Wang ha precisato che “i legami bilaterali dovrebbero essere mantenuti ad un alto livello”.

I due ministri hanno un parere unanime sulla rilevanza critica di quell’accordo, ragion per cui hanno concordato di espandere ulteriormente la cooperazione, anche alla luce dei risultati ragguardevoli conseguiti negli anni recenti e dell’elevato grado di coordinamento mostrato nel corso della pandemia – fondamentale per non cedere terreno dinanzi alle diplomazie degli aiuti umanitari portate avanti dall’Occidente e dai suoi collaboratori, in primis la Turchia.

Un ventennale importante

Dal 2001 ad oggi il mondo è mutato profondamente. Le grandi potenze hanno cessato di collaborare in nome della lotta al terrorismo internazionale, la cui graduale ritirata ha comportato un riavvio delle ostilità e della competizione tra i principali attori egemonici di ogni continente. La guerra fredda fra Occidente e Russia, entrata momentaneamente in pausa, è tornata progressivamente al centro dell’arena internazionale e ha inglobato anche la Cina, ritrovatasi coinvolta nel confronto fra i blocchi a causa della Nuova Via della Seta.

Il Trattato di amicizia russo-cinese è stato importante sin dagli albori, in quanto segnalante la volontà di superare la dialettica antagonistica della guerra fredda, ma ha iniziato a produrre effetti realmente tangibili ed eccezionali soltanto a partire dal dopo-Euromaidan, ovvero all’indomani dell’evento spartiacque che ha sancito la riapertura ufficiale delle ostilità fra Occidente e Russia.

Due anni dopo, con l’ascesa di Donald Trump, nello scontro egemonico sarebbe stata attirata forzatamente anche la Cina. I dazi, in effetti, lungi dall’essere una mossa fine a se stessa, hanno rapidamente rivelato la loro reale natura: uno strumento con cui preparare il terreno per un conflitto su larga scala. La decisione di Washington di combattere simultaneamente su due fronti, però, non è stata né saggia né lungimirante: Mosca e Pechino hanno reagito stabilendo un rapporto simbiotico che, oggi, a distanza di sei anni, tocca ogni dossier internazionale e ogni settore, dalla corsa allo spazio allo sfruttamento dell’Artico, dalla petrolchimica all’aeronautica civile.

Il ventennale del Trattato di amicizia sarà il momento opportuno per riflettere sugli accadimenti degli ultimi anni e, soprattutto, sui risultati che le due potenze hanno potuto ottenere grazie alla loro collaborazione, sia in termini di crescita e innovazione che di influenza incrementata nel mondo. Cadere nuovamente nella trappola kissingeriana – che, trascurata da Trump, potrebbe essere giocata da Joe Biden – equivarrebbe a vanificare ogni progresso e ad allontanare a tempo indefinito la prospettiva di una de-occidentalizzazione dell’Asia, rimanendo de facto succubi della primazia americana, uno scenario di cui entrambe le potenze sono a conoscenza e del quale si discuterà l’anno prossimo, in occasione delle celebrazioni.

Inesplicabilmente tutte le terapie per combattere il covid-19 vengono osteggiate dalle istituzioni preposte, anche quelle degli anticorpi monoclonali. E i governi preferiscono il lockdown/coprifuoco per tenere i sani prigionieri in casa

Anticorpi monoclonali, che cosa farà l’Aifa?

26 dicembre 2020


Fatti e polemiche sugli anticorpi monoclonali, con la posizione dell’Aifa

A pochi giorni dall’inizio della campagna vaccinale in tutta Europa, si torna a discutere degli anticorpi monoclonali, il tipo di farmaco con cui si è curato il presidente degli Stati Uniti Donald Trump. In Italia si produce il bamlanivimab negli stabilimenti della Bsp Pharmaceuticals a Latina per conto della multinazionale Eli Lilly che in Italia ha sede a Sesto Fiorentino (FI).
Cosa sono gli anticorpi monoclonali

Gli anticorpi monoclonali sono sostanze presenti nel sangue delle persone che guariscono dall’infezione da coronavirus. Il sangue dei pazienti guariti è ricco di anticorpi monoclonali naturali che in laboratorio studiati e sviluppati al fine di creare anticorpi monoclonali sintetici da iniettare a pazienti malati. Questo farmaco fornisce una immunizzazione della durata di sei mesi, una immunità temporanea proprio come dovrebbe essere quella del vaccino.
La produzione italiana

La Bsp farmaceutical di Latina, come riportato da un servizio di Coffee Break, produce oltre 100mila dosi al mese dell’anticorpo monoclonale efficace contro il coronavirus nel ridurre del 90% le ospedalizzazioni. Tale farmaco è già in uso negli Stati Uniti. Il bamlanivimab funziona agendo sulla proteina spike del coronavirus, quella responsabili dell’ingresso del virus all’interno delle nostre cellule per la replicazione. L’anticorpo blocca la carica virale e impedisce la diffusione del virus nel corpo umano. La Eli Lilly prevede di produrre 2 milioni di dosi nel 2021 sebbene vi sia un grande rischio legato all’incertezza sulla domanda di questo prodotto.
Perché l’Italia ha detto no agli anticorpi monoclonali

Come riportato da un articolo del Fatto quotidiano alla fine di ottobre da parte del Governo italiano sarebbe arrivato il no all’utilizzo del farmaco. La multinazionale Eli Lilly avrebbe offerto la possibilità di avviare in Italia la sperimentazione con almeno 10mila dosi gratis del farmaco. La multinazionale americana ha fatto sapere che la commercializzazione del farmaco è iniziata prima che finisse la sperimentazione perché fosse disponibile su scala globale il prima possibile. Lo scorso 9 novembre la FDA, (Food and Drug Administration – l’ente governativo statunitense che si occupa della regolamentazione dei prodotti alimentari e farmaceutici negli USA) ne ha autorizzato l’uso in situazioni di emergenza. Da allora gli Stati Uniti hanno acquistato quasi un milione di dosi. In Europa è necessario attendere il via libera dell’Ema (l’Agenzia europea per i medicinali) che, però, non autorizza medicinali in fase di sviluppo.

La replica dell’AIFA

L’autorità italiana del farmaco, con un comunicato stampa sul suo sito, ha spiegato: “Aifa non ha mai ricevuto alcuna proposta di cessione gratuita, uso compassionevole né fornitura per studi clinici dell’anticorpo monoclonale Bamlanivimab da parte dell’azienda Eli Lilly. L’azienda ha avanzato all’inizio di ottobre una generica disponibilità a cooperare con le autorità per individuare modalità d’impiego del farmaco in Italia, senza mai offrire partite gratuite di prodotto. Ciò anche dopo esplicita richiesta avanzata da parte dei rappresentanti dell’AIFA in un incontro tenutosi il 29 ottobre”. AIFA poi sottolinea come la multinazionale americana abbia proposto di derogare rispetto alle classiche procedure di approvazione dei farmaci. “Gli anticorpi monoclonali necessitano di un’approvazione europea, mentre l’azienda Eli Lilly ha proposto una procedura di approvazione del farmaco in deroga a tali procedure. EMA ha espresso un giudizio assai cauto sulle possibilità di approvare il Bamlanivimab sulla base dello studio di fase 2 che evidenziava benefici moderati e ha richiesto ulteriori dati a supporto”. A questo AIFA aggiunge che le maglie dell’FDA sono meno strette rispetto a quelle dell’EMA. “Si specifica che la autorizzazione emergenziale concessa negli USA dalla FDA prevede un livello di evidenze scientifiche inferiore rispetto all’approvazione (completa o condizionata) effettuata da EMA”.
Il presidente dell’AIFA Giorgio Palù: “Sperimentazione dei monoclonali nei prossimi giorni”

Più possibilista all’impiego, dopo sperimentazione, degli anticorpi monoloclonali è il nuovo presidente dell’AIFA Giorgio Palù. “AIFA ha interesse a valutare gli anticorpi monoclonali” – ha detto il prof. Giorgio Palù in conferenza stampa – “nei prossimi giorni sicuramente valuteremo se c’è un’opportunità di fare una sperimentazione che sia in grado di confermare anche i dati già prodotti sulla letteratura scientifica”.

La raccolta fondi delle Coop per il Toscana Life Sciences

Non sono solo le grandi multinazionali americane a studiare gli anticorpi monoclonali. Il centro di ricerca del Mad Lab di Toscana Life Sciences, coordinato dal professor Rino Rappuoli, dallo scorso marzo ha avviato studi su anticorpi monoclonali umani capaci di curare il Covid-19. La campagna Sosteniamo la ricerca oggi per tornare più vicini domani, promossa da Unicoop Firenze insieme a Coop Alleanza 3.0, Unicoop Tirreno, Coop Centro Italia, Coop Unione Amiatina e Coop Reno, ha raccolto più di 800mila euro per il sostegno alle attività di Toscana Life Sciences Gli anticorpi monoclonali studiati dal gruppo di ricerca del prof. Rappuoli dovrebbero essere disponibili entro la primavera 2021 e dovrebbero essere utilizzabili anche sulle forme mutate di Covid-19.

C'è evidenza tra le narrazioni delle televisioni e delle volontà politiche di distruzione e annichilamento e dei paesi che hanno una base industriale e quelli a finanza avanzata. Il Grande Cambiamento Occidentale agisce in modo e maniera diversa

Covid. Il comando della finanza sul mondo

di Alberto Lombardo*
22 dicembre 2020


La situazione sanitaria che si sta creando nel mondo in seguito alla seconda ondata del Covid-19 impone riflessioni politiche che non sono facili. Infatti, per fare un’analisi scientifica, si dovrebbe essere in grado di partire da competenze tecniche (epidemiologiche, mediche, sanitarie) che evidentemente sono molto complesse, spesso sono viziate dal punto di vista di chi le formula e soprattutto possono condurre a una guerra tra negazionisti e “affermazionisti” che seppellisce sotto una sterile polemica la corretta disamina della situazione. Cercheremo in queste riflessioni di astenerci da tali diatribe ma, dovendo pervenire a un punto di vista politico, che poi è quello che interessa i comunisti, non possiamo non tenere conto di alcuni dati.

Partiamo da un fatto. La gestione della prima fase della pandemia, dei mesi intercorsi tra la prima fase e la seconda e, conseguentemente, la gestione di questa seconda fase non sono state affatto omogenee in tutto il mondo. Pertanto anche gli effetti sulle conseguenze che stanno vivendo i vari paesi non sono affatto gli stessi. Le discriminanti che si possono intravedere non riguardano tanto i regimi che governano i diversi paesi, ma apparentemente sembrano più legate alle collocazioni geografiche delle nazioni coinvolte. Potremmo mettere da un lato Europa, poi l’America (con significative eccezioni), dall’altro l’Asia e infine l’Africa. Escludendo in un primo momento quest’ultimo continente, possiamo vedere che, nel combattere gli effetti della pandemia, hanno avuto più successo nazioni come la Cina (sia la RPC, che Taiwan), il Giappone e la Corea del Sud; mentre Europa e America (con l’eccezione di Cuba) stanno di nuovo precipitando nel baratro, nonostante abbiano intrapreso strategie molto diverse (USA e Brasile, Europa continentale, Gran Bretagna, Svezia).

Sgomberiamo subito il campo, se mai ce ne fosse bisogno, dalla tossica narrazione dei corifei dell’imperialismo che attribuisce i successi delle politiche della RPC all’intrinseca antidemocraticità di quel regime. Infatti, se così fosse, le conclusioni sarebbero che i regimi “totalitari” riescono a garantire la salute pubblica dei loro cittadini, mentre le “democrazie” non lo sono affatto. Bel risultato per i succitati corifei, ma poiché la propaganda si basa sulla ripetizione ossessiva di una falsità, anche se questa contraddice le più elementari regole della logica, qualunque assurdità va sempre bene, purché sostenuta da un’adeguata potenza di fuoco mediatica. Inoltre, se la RPC ha chiuso solo una sua provincia, per quanto popolosa come l’intera Italia, da noi invece abbiamo assistito al lockdown di tutta la nazione. Quindi, quando vuole, la “democrazia” sa essere ancora più costrittiva della peggiore “dittatura”.

Veniamo al cuore del problema che riguarda l’oggi. Mettiamo insieme una serie di tasselli.

Primo indizio. In Italia abbiamo assistito a un fatto molto strano e per questo molto indicativo (https://www.lariscossa.info/la-sceneggiata-tutte-facce-della-stessa-medaglia/): la sera del 7 marzo l’annuncio del governo sulla chiusura della Lombardia e delle altre aree, il 9 marzo sera il lockdown esteso a tutto il territorio nazionale. Il comitato tecnico-scientifico aveva raccomandato la prima soluzione, ma naturalmente non si è potuto opporre alla seconda. Perché una scelta così drastica da parte del governo, addirittura più restrittiva di quella invocata dagli esperti? Chi è intervenuto a non limitare la chiusura a una sola parte dell’Italia? Dal punto di vista economico sarebbe stato ben diverso se buona parte della nazione avesse potuto continuare a lavorare, pur fissando rigide limitazioni di sicurezza. Sarebbe stata anche l’occasione affinché certi territori – alcuni tra i più svantaggiati – avessero avuto l’occasione di sostituire per un breve periodo nell’attività produttiva altri territori, ai quali certamente si poteva poi dare un ristoro economico. Gli atti del comitato tecnico-scientifico sono rimasti per la maggior parte “riservati” e quindi il reale dibattito che si è svolto non è noto nella sua completezza. Le regioni d’Italia più colpite comunque hanno continuato a lavorare e molti lavoratori sono stati mandati in trincea come “carne da cannone”. Sanitari in testa, ma anche lavoratori di servizi che non si sono affatto fermati. Il resto d’Italia chiusa. Che in generale ci sia stata una gestione dell’emergenza particolarmente fallimentare in Italia da parte dei gestori nazionali – dalla predisposizione dei piani di emergenza, alla preparazione del personale, all’accumulo delle scorte – sembra ormai che stia venendo a galla, come sempre accade con gli scandali italiani. Ma tutto ciò non può oscurare il fatto che queste mancanze si inseriscono in un pluridecennale attacco bipartisan alla sanità pubblica, alla rete territoriale, al trattamento e alla numerosità del personale sanitario e delle strutture. Le inchieste giornalistiche che stanno portando a galla pressappochismi e inettitudini individuali non possono farci dimenticare la storia politica della sanità in Italia.

Secondo indizio. In questi mesi, dopo la riapertura, non sono mancate voci che hanno indicato i punti deboli del nostro sistema. Innanzitutto la necessità di sviluppare una sanità di prossimità, ossia molti più medici e infermieri sul territorio che possano aiutare coloro che cominciano ad avvertire i primi sintomi e somministrare per tempo le terapie che già si stavano rivelando più utili. Questa strategia non solo allevia il decorso e gli esiti più nefasti della malattia, ma è proprio ciò che serve per non sovraccaricare il SSN di pazienti che arrivano ad avere necessità delle terapie d’urgenza, tallone d’Achille dei sistemi sanitari, particolarmente quelli in cui l’aspetto privatistico, fatto più da strutture che da personale, ha prevalso maggiormente. Inoltre l’altro punto critico, su cui tutti gli esperti erano d’accordo, è il sistema dei trasporti, particolarmente quello che si fa carico del trasferimento quotidiano di coloro che si muovono giornalmente, lavoratori e studenti. Era una strategia così sofisticata programmare trasferimenti di grandi masse attraverso canali privilegiati e controllati in modo rigoroso? Ci potevano arrivare anche i responsabili locali. Scuolabus e, per similitudine, fabbricabus, ufficiobus. Ossia un tracciamento dei percorsi più affollati, nelle ore interessate, con grande impiego di controlli alla partenza e nei luoghi di lavoro e di studio. Cioè misure atte a evitare, non nel mucchio ma nel locale, la creazione di focolai. Tra l’altro i cosiddetti mobility manager sono previsti per legge per tutte le maggiori strutture lavorative, quindi non si doveva partire dall’anno zero, ma riprendere con urgenza quanto già programmato, almeno sulla carta, e farlo diventare realtà a tutti i livelli. Che si è fatto invece? Irridere amaramente le misure del governo a proposito dei monopattini e dei banchi a rotelle è fin troppo spontaneo. Che si fa ora? Si chiudono le suole, che invece sono i posti più sicuri per i giovani, rispetto ai comportamenti che essi possono tenere fuori. Si chiudono i locali pubblici, dopo le misure assai costose che essi hanno approntato. Nonostante le zone produttive d’Italia, le fabbriche restano aperte. Se ciò fosse caratteristica solo del nostro governo, potremmo pure derubricare il tutto alla proverbiale italica incapacità, pressapochismo, cialtroneria, fancazzismo, scarica-barile tra Regioni e Stato, ecc. No, è troppo comodo e fa a pugni con la realtà, perché anche il dirigismo centralista francese ha fallito e anche altre nazioni si ritrovano a nuotare insieme a noi nella stessa melma.

Terzo indizio. Mi scuso col lettore per non essere un virologo, ma debbo cercare di riassumere – per quello che riesco a capire – ciò che a livello internazionale seri ricercatori stanno dicendo da tempo. Uso a questo scopo un articolo di Internazionale, “L’importanza del fattore k” di Zeynep Tüfekci, apparso originariamente su The Atlantic (Stati Uniti). In questo articolo si focalizza l’attenzione sulla modalità di trasmissione del virus. Si assiste a una “sovradispersione” della trasmissione, ossia poche persone portatrici sono in grado di contagiarne moltissime altre, mentre la maggior parte dei contagiati non trasmettono o trasmettono poco. Ciò induce a formulare non strategie massive di ricerca dei focolai, ma invece ricerche mirate a individuare i supercontagiatori. Quindi non ha senso – o ha un’importanza molto relativa – una volta individuato un portatore, andare alla ricerca delle persone con cui questi ha avuto contatti dal momento del suo contagio in poi, perché è molto probabile che egli faccia parte della categoria dei non contagiatori e quindi non abbia trasmesso; mentre risulta molto più efficace andare a cercare chi ha contagiato lui, perché si potrebbe con maggiore probabilità andare a scovare un supercontagiatore e, individuatolo, isolarlo. Quindi non un’analisi in avanti, ma all’indietro. Per quanto basate su modelli matematici molto sofisticati, le conclusioni credo che siano alla portata anche dei responsabili della sanità, nazionale e regionale. Inoltre, occorrerebbero controlli a grappoli – per limitare il rischio dei falsi negativi – e non a tappeto indiscriminati, rapidi – ormai disponibili in larga scala – programmati nei luoghi sensibili. Per scongiurare le ire dei corifei della “democrazia”, diciamo che il Giappone, la Corea del Sud e la Cina hanno fatto così, la maggior parte dell’Europa no. I risultati sono sotto gli occhi di tutti.

Tre indizi fanno una prova. Il punto è però che abbiamo provato non è ancora chiaro cosa. Perché, se non sappiamo cosa cercare, anche se è sotto i nostri occhi, non lo riconosciamo neanche. “Ho la soluzione!, ma non so bene a cosa”, diceva un ricercatore.

Ebbene, è sempre la politica che può darci quel quadro teorico entro cui collocare i risultati e non un semplice allineamento di “fatti”, che da soli non spiegano nulla.

Terminato il primo percorso, cominciamo l’altro, quello storico-politico. In questo ci facciamo guidare da Lenin e da Gramsci.

Lenin ci ha insegnato cos’è la guerra imperialista e a quali ragioni risponde: distruzione delle forze produttive e concentrazione monopolistica di capitali e mezzi di produzione. E se questa fosse una “guerra senza bombe”? Ossia uno strumento per realizzare i fini strategici di cui ci parlava Lenin un secolo fa, ma con strumenti che non sono cruenti, non in quella misura almeno. La distruzione delle forze produttive è evidente, il fallimento delle piccole attività e la preparazione dei grandi gruppi monopolistici a farne man bassa, pure. Shock economy a livello planetario.

Concentriamoci sull’Unione Europea.

Se fino a pochi mesi fa sembrava che sforare i bilanci pubblici di qualche milione di euro fosse un attentato alla nazione e al “futuro dei nostri giovani”, oggi ai milioni si sono sostituiti i miliardi. Gli aiuti previsti sono avvelenati, come i prestiti degli strozzini: nel momento del bisogno ti concedono quello che vuoi, poi tirano il cappio. I prestiti dovranno essere ripagati, o direttamente o attraverso il meccanismo di condivisione dei singoli stati del finanziamento del bilancio europeo. Si litiga su quale fetta di torta prendersi e poi su come dividere il conto del pasticcere, ma la somma non cambia.

In Italia fanno gola due cose fondamentali: la massa enorme di denaro giacente “inerte” nei conti correnti e le proprietà immobiliari.

Sui conti correnti ci sono i risparmi dei lavoratori italiani che, dopo averlo preso nel “fondo” coi “fondi” di tutti i tipi e colori e davanti alla prospettiva dei tassi negativi, fanno l’unica cosa sensata, ossia tenere i soldi sul conto: la cosa che costa meno, ha zero rischi, massima liquidità, non necessita di alcuna “gestione” e, in tempi di inflazione zero, almeno non fa perdere capitale. L’Italia, avendo il risparmio privato più alto d’Europa, è sotto attacco dei gatti e delle volpi di tutto il mondo.

Anche il patrimonio immobiliare italiano è una bella preda. Si parla di patrimoniale. Bene, ma chi la farà? I grandi patrimoni sono sempre scudati rispetto all’assalto fiscale: tra società immobiliari, paradisi fiscali, elusione, ecc., chi li acchiapperà mai? Quindi, chi sarà l’obiettivo della patrimoniale? “Bisogna prendere il denaro dove si trova: presso i poveri. Hanno poco, ma sono in tanti”, diceva uno dei più grandi economisti e politici del secolo scorso che faceva i suoi discorsi sotto mentite spoglie, Ettore Petrolini. Quindi, per ottenere una massa consistente di gettito fiscale aggiuntivo si dovranno intaccare i patrimoni delle seconde case, se non delle prime.

Sia detta fra parentesi una cosa ovvia: la patrimoniale vera la farebbero solo i comunisti, ma non con le seconde case, ma con i grandi mezzi di produzione e patrimoni.

A questo punto ci rendiamo conto che la Grecia è stato solo il banco di prova di un’operazione epocale molto più vasta e complessa. Non era certo il piccolo 2 percento del PIL europeo, costituito da quella nazione, che era sotto attacco da parte dei grandi monopoli. Cosa si è verificato in quel paese? Prima crediti fuori controllo, quindi incremento del debito privato, poi nazionalizzazione di quel debito, infine bancarotta del paese e la svendita della nazione by the pound.

Quando si dice che i prestiti non hanno condizionalità, è vero. Ma perché per lo strozzino come spendi i tuoi soldi è del tutto indifferente, l’importante è che poi paghi. Cosa succederà quando il debito pubblico italiano sarà passato dal 130 al 160 percento del PIL? Chi detterà i tassi? Ancora una volta il “mercato”, ossia quelli a cui dovremo pagare gli interessi. Significa un assegno in bianco agli squali.

Ancora tra parentesi. I comunisti rinnegherebbero il debito mandando a gambe all’aria non solo il 30 percento aggiuntivo ma anche il precedente 130. Tanto per puntualizzare en passant la differenza con certi “sovranisti” di cartone.

Ma c’è di più. C’è molto di più. Questi soldi rastrellati dalle tasche dei contribuenti (i “tanti poveri”) dove andranno a finire? Cosa andranno a “ricoverare”? Il recovery fund sarà uno straordinario acceleratore di concentrazione monopolistica: reti, energia, sistemi complessi. Con la scusa che una nazione ha subito una forte riduzione del PIL, le si concederanno maggiori contributi, ma non per ristorare i settori colpiti e rimetterli in condizione di ripartire, ma per incrementare altri settori che, nel disegno capitalistico, dovrebbero accelerare la “modernizzazione del paese”. Quindi se ti è fallito il b&b, ti do il 5G. I “ristori” previsti non serviranno a far sì che le attività possano superare il momento della crisi per poi riprendere dal punto dove si erano fermate. Quando un’attività chiude, chiude per sempre, non è un interruttore che si accende e si spegne, soprattutto quando è sottoposta a stress ripetuti, come quelli a cui oramai stiamo assistendo. Primo lockdown, poi stop per salvare la stagione estiva; secondo lockdown, poi stop per salvare il natale; fino a quando? I ristori serviranno per evitare che ci sia subito l’insurrezione generalizzata, tamponando con piccole distribuzioni di farina oggi, in modo che poi, quando arriverà la carestia vera, si muoia uno alla volta e non tutti insieme. La strategia della rana nell’acqua bollente. Oggi la parola d’ordine “Tu ci chiudi, tu ci paghi” riesce ad essere agitata nelle piazze e il governo può fare grandi gesti di solidarietà più o meno appariscenti. Ma quanto può durare? E cosa succederà dopo, quando le piazze si saranno svuotate e le attività non riusciranno ad aprire? A quel punto passerà l’asso pigliatutto della concentrazione monopolistica e le attività cadranno una dopo l’altra. Chiuderanno quelle che danno fastidio ai grandi monopoli, mentre quelle che possono essere assorbite, saranno acquistate.

Quindi ora vediamo delineato su quale incudine batte il martello. Il martello è la crisi, l’incudine la ristrutturazione capitalistica. L’uno senza l’altra non è efficace.

A questo punto il disegno comincia ad apparire più chiaro. Abbiamo il corpo del delitto (la crisi), l’arma (le politiche fiscali), ora abbiamo anche il movente (la concentrazione monopolistica).

Resta ancora fuori però la domanda principale dalla quale eravamo partiti.

Dicevamo in apertura a proposito dei negazionismi: non scambiamo la causa per l’effetto. Il fatto che ci sia un disegno per realizzare la più grande ristrutturazione monopolistica della storia, non vuol dire che l’epidemia sia stata creata ad hoc o addirittura sia un falso. Questa versione sarebbe uno sparring partner comodo per il potere capitalistico. Qui entreremmo in un terreno che esula dal tema che ci siamo prefissi e riguarda la gestione della credenza popolare. Limitiamoci a dire che in una narrazione, basta che ci sia una falla anche minima, per far cadere non solo la singola argomentazione fallace, ma tutto l’impianto accusatorio. In tribunale gli avvocati della difesa più esperti sanno che basta incrinare la credibilità di una singola prova, per distruggere la credibilità dell’accusa e con essa la forza dell’accusa nel suo complesso. Sostenere posizioni “estreme” che riguardano aspetti specifici della nascita e dell’evoluzione della pandemia, espone proprio al rischio di lasciare fuori qualche falla che apre le porte non solo alla distruzione del ragionamento specifico, ma a tutte le considerazioni che fin qui abbiamo cercato di condurre. È per questo che non solo ci siamo tenuti lontani da queste polemiche, ma le dichiariamo come nostre avversarie.

Torniamo alla domanda cruciale. Perché il disegno delittuoso che abbiamo delineato nelle argomentazioni precedenti non viene perseguito in tutto il mondo con eguale strategia e intensità?

Qui ci soccorre Gramsci.

… l’americanismo, nella sua forma più compiuta, domanda una condizione preliminare: «la razionalizzazione della popolazione», cioè che non esistano classi numerose senza una funzione nel mondo della produzione, cioè classi assolutamente parassitarie. La «tradizione» europea è proprio invece caratterizzata dall’esistenza di queste classi, create da questi elementi sociali: l’amministrazione statale, il clero e gli intellettuali, la proprietà terriera, il commercio. Questi elementi, quanto più vecchia è la storia di un paese, tanto più hanno lasciato durante i secoli delle sedimentazioni di gente fannullona, che vive della «pensione» lasciata dagli «avi».

L’America senza «tradizione», ma anche senza questa cappa di piombo: questa una delle ragioni della formidabile accumulazione di capitali, nonostante i salari relativamente migliori di quelli europei. La non esistenza di queste sedimentazioni vischiose delle fasi storiche passate ha permesso una base sana all’industria e specialmente al commercio e permette sempre più la riduzione dei trasporti e del commercio a una reale attività subalterna della produzione, coll’assorbimento di questa attività da parte dell’industria stessa (vedi Ford e quali «risparmi» abbia fatto sui trasporti e sul commercio assorbendoli). Questa «razionalizzazione» preliminare delle condizioni generali della produzione, già esistente o facilitata dalla storia, ha permesso di razionalizzare la produzione, combinando la forza (distruzione del sindacalismo) con la persuasione (salari e altri benefizi); per collocare tutta la vita del paese sulla base dell’industria. L’egemonia nasce dalla fabbrica e non ha bisogno di tanti intermediari politici e ideologici. [Quaderni del carcere, quaderno 1 §〈61〉.]

Cerchiamo di riportare questa analisi a quasi un secolo dopo. Cos’è successo nella composizione produttiva delle società? In Europa possiamo dire che il processo è solo andato avanti, mentre gli USA ci hanno raggiunto nella fase in cui il capitalismo assume le sue forme parassitarie slegate dalla produzione. D-D’, direbbe Marx, senza passare dall’M intermedio di D-M-D’.

Questo processo è testimoniato da un semplice dato: negli USA negli anni che vanno dai Quaranta ai Settanta esisteva una tassazione applicata allo scaglione massimo di oltre il 90% e una imposta di successione di oltre il 70%; tale tassazione passò nel 1980 al 70% e al 28% nel 1988, imposta che ora è al 35%. Chiaro sintomo dell’europeizzazione degli USA. Le nostre società “mature” si occupano di più di come riuscire a creare un mercato, proteggere il proprio e dare l’assalto a quello altrui, che a produrre. La produzione spesso è esternalizzata ad altri mondi che stanno fuori. Ci porterebbe lontano qui dettagliare il percorso del capitalismo finanziario inglese – ancora osservatorio privilegiato dell’evoluzione storica del capitalismo a distanza di centocinquant’anni da quando una certa Barba lo studiava seduto al British Museum – dalle ristrutturazioni thatcheriane alla brexit.

Invece i paesi dove si produce, dove l’intermediazione produttiva dell’accumulazione capitalistica agisce con tutta la sua potenza, anche la struttura sociale vede la presenza di strati collaterali alla produzione molto limitata. «L’egemonia nasce dalla fabbrica e non ha bisogno di tanti intermediari politici e ideologici».

E allora sovrapponiamo la mappa della diffusione dell’epidemia con quella della propensione di un’economia alla produzione manifatturiera. Prendiamo in considerazione una serie di paesi, sia per il loro peso demografico ed economico, sia per la rappresentatività rispetto al nostro ragionamento politico. Vogliamo solo offrire queste considerazioni per consentire al lettore di effettuare paragoni tra alcuni paesi. In questo senso, tali paesi non si possono considerare né un campione rappresentativo dell’intero mondo, né delle rispettive regioni.

Per la prima grandezza, riguardante la diffusione della malattia, abbiamo scelto di riportare per ogni paese i dati cumulati sia dei casi che dei morti per milione di abitanti (riportare i dati assoluti è un’imbecillità statistica madornale). Ciò ci consente di estrapolare delle considerazioni che si possano effettuare al netto della capacità dei rispettivi paesi di far fronte al numero dei malati. Per esempio, il Messico, rispetto a un numero relativamente basso di casi, presenta un numero relativamente alto di morti. Al contrario i Paesi Bassi. I dati sono quelli ricavabili dal sito dell’OMS, aggiornati al 15 ottobre. I paesi in cui rispettivamente i casi e i morti sono elevati li troviamo nella parte alta del grafico.

Per la seconda grandezza, ci siamo chiesti, seguendo l’insegnamento di Gramsci, come possiamo – con la migliore approssimazione possibile – ottenere un dato che ci indichi il grado di “americanismo” di una nazione? L’abbiamo ricavato nella quota di PIL creata dal settore manifatturiero rispetto al PIL totale. I più elevati al mondo sono, tra i pesi massimi mondiali, com’è noto, Cina, Rep. di Corea, Giappone e Germania. Li troviamo nella parte destra dei due grafici. I dati più recenti, disponibili per tutti i paesi, sono del 2017. In ogni caso, il 2019 non lo avremmo preso in considerazione, perché già viziato dalla presenza della pandemia.

La linea interpolante dà una idea generica (i dati non sono pesati per i vari paesi né demograficamente né economicamente) del possibile legame tra queste due grandezze che si riportano sulla scala orizzontale (ascissa) e in verticale (ordinata). Il legame tra la coppia di grandezze può anche essere messa in luce, qualitativamente, osservando che i punti, rappresentanti i vari paesi, si concentrano solo su due quadranti dei grafici: in alto a sinistra e in basso a destra. I quadranti sono centrati sul punto che rappresenta il dato complessivo mondiale.

Ciò fa emergere la relazione inversa nei paesi esaminati tra propensione alla produzione manifatturiera di una nazione e capacità di contrastare la diffusione e la mortalità del virus. Ovviamente tale relazione non può esprimere un rapporto di causa-effetto. Caso mai quel rapporto esistesse, ce lo si dovrebbe aspettare di tipo inverso. Infatti i sistemi produttivi costituiscono una occasione di assembramenti di grandi masse di lavoratori, spesso impossibilitati a mantenere il distanziamento sociale. Quindi ci deve essere un’altra causa, molto più forte che si nasconde dietro l’apparenza.

Da tutto il ragionamento politico ed economico che abbiamo fatto prima, la conclusione che traiamo è la seguente.

La pandemia sta agendo come un enorme volano per la concentrazione capitalistica proprio in quei paesi che ne hanno disperato bisogno: i paesi in cui i profitti non vengono estratti dalla manifattura, ma dalla finanza e dai servizi.

Le differenze tra Germania, da un lato, e Francia e Gran Bretagna, dall’altro, e le similitudini tra Cina, Giappone Corea e Germania non si spiegano altrimenti, né con l’analoga organizzazione sanitaria, politica o economica, né con la diversa collocazione geografica. Si può spiegare solo con la ferma volontà di governi che si vogliono opporre alla pandemia e governi che questa intenzione non ce l’hanno, come il nostro. Governi che prendono ordini da monopolisti che vorrebbero distruggere il nostro paese per poi passare all’acquisto delle attività “un tanto al chilo”. La Cina, ma anche il Giappone, la Corea del Sud e la Germania hanno un capitalismo finanziario meno incidente sull’economia.

Non si tratta di capitalismo più buono o più cattivo. Si tratta del fatto che il capitalismo, arrivato alla sua fase finanziaria estrema, comincia a cannibalizzare le proprie economie. Gli altri ci arriveranno magari dopo.

Questa è la guerra senza bombe tra i grandi monopoli e i piccoli lavoratori autonomi, dopo che i lavoratori dipendenti sono stati ulteriormente schiacciati. O i lavoratori autonomi si alleano col proletariato contro i grandi monopoli, o saranno tutti triturati.

Rifiutiamo la posizione che immagina un enorme complotto mondiale, ma sosteniamo che i governi dei paesi che non hanno affrontato la pandemia, non lo hanno fatto, non per incapacità o per motivi di impossibilità politica, ma per precise ragioni economiche che fanno capo alle necessità dei grandi monopoli, di cui i governi sono fedeli esecutori.

Non sono incapaci, ma nemici dei loro popoli.



* Ufficio Politico del Partito Comunista (PC) e direttore de “La Riscossa”, (giornale on-line del PC). Con questo articolo “Cumpanis” avvia un rapporto di collaborazione con “La Riscossa

Stati Uniti sono arroganza prepotenza e guerre conditi da omicidi di stato

Alta tensione in Medio Oriente. Trump mette in guardia l’Iran

Di Emanuele Rossi | 24/12/2020 - 


Un tweet di Trump sposta l’attenzione sull’attacco subito dall’ambasciata americana a Baghdad, finita sotto una slava di razzi lanciati con ogni probabilità dalle milizie sciite collegate all’Iran. Washington pensa al ritiro del personale diplomatico e muove i pezzi militari pesanti nel Golfo Persico

Ieri sera il presidente uscente degli Stati Uniti, Donald Trump, ha twittato la foto di tre razzi da 107mm che gli iraniani chiamano “Haseb” per differenziarli dagli originali cinesi “Type 63-2”. L’Iran ne ha costruita un’infinità della propria variabile e poi li ha distribuiti in mezzo Medio Oriente passandoli alle milizie sciite collegate. Nel caso, quelli postati da Trump sono stati fabbricati nel 2016 e sarebbero alcuni dei residuati (evidentemente inesplosi o inutilizzati) con cui alle nove di sera del 20 dicembre è stata attaccata ancora una volta l’ambasciata americana di Baghdad.

Secondo quanto raccontato dai funzionari statunitensi al Wall Street Journal (un giornale non ostile a Trump), quello di qualche giorno fa sarebbe stato il più grosso attacco mai subito dal fortino diplomatico nella Green Zone della capitale irachena. Che fosse qualcosa di grosso lo si era capito subito anche solo dal fatto che stavolta dal compound in cui vive iper-protetto l’ambasciatore Matthew Mueller alla guida di un folto personale diplomatico (che non ha solo ruoli nel paese ma in tutta la regione) è stato attivato il sistema anti-aereo. Nel passato anche recente l’ambasciata è finita più volte sotto attacco, ma di solito cade un razzo Katyusha e la difesa aerea non viene attivata: secondo le fonti del Wsj stavolta sono stati sparati invece 21 razzi, un numero enorme. Una salva offensiva, che però finora ha preso poco rilievo sulla cronaca internazionale.

Ad alzare il livello però ci ha pensato sempre Trump, che ieri nel tweet ha aggiunto: “Qualche consiglio di salute amichevole all’Iran: se un americano viene ucciso, riterrò l’Iran responsabile. Pensaci su”. Il presidente americano non nasconde i toni guerreschi, parte della strategia della “massima pressione” con cui la sua amministrazione ha deciso di pressare Teheran (senza troppi successi), e di una tattica con cui complicare le cose all’amministrazione entrante — il presidente eletto, Joe Biden, ha infatti dimostrato l’intenzione di recuperare i rapporto con l’Iran (naufragati da quando nel 2018 Trump ha portato gli Usa fuori dall’accordo sul nucleare Jcpoa).

Il coinvolgimento della Repubblica islamica nella vicenda di Baghdad è conseguenza delle connessioni che le milizie sciite – quasi certamente responsabili dell’attacco all’ambasciata fidi questi giorni e di diversi altri prima – hanno con le fazioni più aggressive dei Pasdaran. Quei gruppi armati stanno vivendo una fase controversa: sono tutt’altro che compatte, sono tutt’altro che un corpaccione organico, competono tra loro e soprattutto sono tutt’altro che decise sul come rapportarsi con l’Iran. C’è una linea dura che per interessi e ideologia segue in modo sacrale la linea dei Pasdaran reazionari; ce n’é una che pensa a mantenere la presa interna e vuole trovare il modo per sganciarsi, perché sempre più iracheni sentono il peso dell’influenza iraniana sulla propria società.

Tuttavia questo contesto interno non degrada il loro livello di pericolosità, anzi lo rende più teso e esplosivo. C’è una fazione dei Pasdaran che ha rifornite i partiti/milizia in Iraq e non solo, li fomenta e li obbliga a tenere un livello di ingaggio basso ma costante contro gli Usa. L’attacco del 20 dicembre è stato il più pesante dal 2010 – quando ancora gli americani soffrivano giornalmente operazioni ostili da parte dell’insorgenza sia sciita che sunnita seguita alla Guerra d’Iraq. Lo ha ammesso il capo delle forze americane in Medio Oriente. Sempre ieri, contemporaneamente alla dichiarazione via Twitter di Trump, il comandante del comando regionale del Pentagono, il CentCom, ha detto che “Gli Stati Uniti riterranno l’Iran responsabile per la morte di qualsiasi americano derivante dalle attività di questi gruppi delle milizie canaglie sostenute dall’Iran”.

È evidente che è il livello di tensione – esplicito e implicito – sia salito, un po’ come a fine 2019, quando le milizie sciite compivano quotidianamente operazioni di disturbo contro gli americani in Iraq fino ad arrivare a una grande manifestazione che aveva sfondato la barriera difensiva esterna dell’ambasciata e aveva fatto profondamente preoccupare gli americani; che per via dell’Iran hanno già sofferto una pagina tragica legata all’occupazione di un’ambasciata e in Libia hanno subito una ferita ancora aperta con l’attacco qaedista al consolato di Bengasi. Secondo alcune ricostruzioni fornite dai funzionari statunitensi, il motivo dietro a una delle più discusse e forti azioni militari di Trump, l’eliminazione di Qassem Soleimani, si legava proprio al rischio che l’ambasciata di Baghdad fosse oggetto di un grande attacco coordinato da colui che è stato ideatore dell’intera strategia delle milizie filo-iraniane nel Medio Oriente.

Soleimani è stato ucciso il 3 gennaio appena uscito dall’aeroporto di Baghdad: due Hellfire sganciati da un drone americano che lo seguiva passo passo hanno colpito contemporaneamente il suo van e l’auto in cui viaggiava il capo delle milizie sciite irachene. In questi giorni Tasmin (un media collegata ai Pasdaran) ha fatto circolare alcune immagini su quella notte: si vede il generalissimo iraniano – che nel suo paese e tra le milizie aveva un potere epico – all’interno dell’aeroporto internazionale della capitale irachena, si vedono i veicoli con cui si è spostato di sera passare sotto le telecamere a circuito chiuso attorno allo scalo, e infine le immagini di due esplosioni lungo l’autostrada di collegamento verso al centro della città.

Gli americani temono che l’Iran, attraverso le milizie che controlla, voglia adesso organizzare una rappresaglia – che c’è stata solo in parte, il 7 gennaio, con un attacco missilistico contro basi del governo iracheno che ospitano anche soldati americani (un’azione che tra l’altro la dice lunga sulla considerazione che Teheran ha delle forze armate dell’Iraq, ritenute di importanza secondaria rispetto ai suoi miliziani, visto che le ha messe a rischio sotto una pioggia di cruise). In quell’occasione centodieci militari americani hanno riportato lesioni celebrali traumatiche, ufficialmente nessuno è morto, e l’amministrazione Trump ha tenuto sempre al minimo le comunicazioni sui reali danni subiti. Martedì l’attuale comandante della forza Quds, il generale Ismail Qaani, che ha preso il posto di Soleimani, ha visitato Baghdad e ha incontrato il primo ministro iracheno Mustafa Al-Kadhimi.

Mercoledì, nel giorno del tweet di Trump, c’è stato un meeting alla Casa Bianca in cui si è discusso della minaccia iraniana in Iraq. Secondo Janathan Swan di Axios (uno dei più informati reporter che ruota attorno alla presidenza), addirittura si starebbe valutando la chiusura rapida dell’ambasciata – una circostanza già minacciata mesi fa dal segretario di Stato, Mike Pompeo. Pompeo commentando l’attacco di qualche giorno fa ha giocato su quelle divisioni interne tra le milizie, sottolineando che chi ha compiuto l’azione sta rubando fondi al governo iracheno e sta togliendo il futuro agli iracheni.

L’eventuale ritiro del personale americano può significare due cose. Primo, gli americani ritengono molto credibile la possibilità di una qualche mobilitazione ostile delle milizie (e dei Pasdaran) che possa anche essere un saluto a Trump. Secondo, è possibile che sia una mossa in anticipo davanti a una risposta statunitense già decisa se si dovesse verificare un attacco iraniano. Per il momento il Pentagono fa sapere che non ci sono piani di azione offensivi in corso, ma intanto cinque giorni fa è stato diffuso dal CentCom il video dello “USS Georgia”, un sottomarino nucleare Classe Ohio armato con 154 Tomahawk in emersione sullo Stretto di Hormuz (gomito che stringe il Golfo Persico). Erano da nove anni che gli Stati Uniti non comunicavano ufficialmente la posizione di un loro sottomarino nucleare in Medio Oriente. Nelle scorse settimane anche dei B-52 erano stati inviati a mostrare deterrenza nella regione: si teme anche la rappresaglia per l’assassinio dello scienziato iraniano Moseh Fakhrizadeh.

(Foto: Twitter, @USNavy, il Georgia nel Golfo)