L'albero della storia è sempre verde

L'albero della storia è sempre verde

"Teniamo ben ferma la comprensione del fatto che, di regola, le classi dominanti vincono sempre perché sempre in possesso della comprensione della totalità concettuale della riproduzione sociale, e le classi dominate perdono sempre per la loro stupidità strategica, dovuta all’impossibilità materiale di accedere a questa comprensione intellettuale. Nella storia universale comparata non vi sono assolutamente eccezioni. La prima e l’unica eccezione è il 1917 russo. Per questo, sul piano storico-mondiale, Lenin è molto più grande di Marx. Marx è soltanto il coronamento del grande pensiero idealistico ed umanistico tedesco, ed il fondatore del metodo della comprensione della storia attraverso i modi di produzione. Ma Lenin è molto di più. Lenin è il primo esempio storico in assoluto in cui le classi dominate, sia pure purtroppo soltanto per pochi decenni, hanno potuto vincere contro le classi dominanti. Bisogna dunque studiare con attenzione sia le ragioni della vittoria che le ragioni della sconfitta. Ma esse stanno in un solo complesso di problemi, la natura del partito comunista ed il suo rovesciamento posteriore classistico, individualistico e soprattutto anti- comunitario" Costanzo Preve da "Il modo di produzione comunitario. Il problema del comunismo rimesso sui piedi"

sabato 13 febbraio 2021

Niente da fare bisogna avere l'influenza covid, niente cure a casa e bisogna usare i vaccini con modificazioni genetiche altrimenti si va in galera


Germania: Medico sviluppa da solo vaccino efficace anti COVID – rischia processo penale
© Fotolia / Wernerimages
14:30 10.02.2021URL abbreviato

Un medico di 74 anni ha sviluppato il proprio vaccino contro il coronavirus, che egli sostiene essere efficace al 90%. Ma dopo aver informato l'Istituto Paul Ehrlich, invece di ringraziamenti e riconoscimenti, ha ricevuto un avviso di garanzia per ‘sperimentazione clinica senza i dovuti permessi’.

A Lubecca, il medico di laboratorio e imprenditore settantaquattrenne Winfried Stöcker, ha sviluppato da solo un vaccino contro il COVID-19. Secondo un rapporto di Spiegel, tuttavia, l'ufficio del pubblico ministero sta ora indagando su di lui, poiché non aveva i permessi per testare il vaccino su se stesso o su altre persone.

A differenza dei vaccini mRNA prodotti dalle grandi aziende farmaceutiche occidentale, il vaccino di Stöcker è un classico vaccino morto, un metodo collaudato con meno effetti collaterali rispetto, ad esempio, ai vaccini vivi, che utilizzano patogeni attenuati. Inoltre tali vaccini non richiedono i costosi metodi di raffreddamento per conservazione e trasporto.

© REUTERS / DINUKA LIYANAWATTE
Fiala di vaccino AstraZeneca

Il medico era consapevole di non avere il permesso per gli esperimenti, ma vista la crisi non ha voluto aspettare. La società da lui fondata, la Euroimmun, specializzata nella diagnosi di malattie autoimmuni e infettive, era tra quelle che avevano sviluppato anche test per COVID-19, per cui si può dire che Stöcker non fosse un improvvisato o uno sprovveduto avventuriero.
"Potremmo immunizzare tre quarti della popolazione tedesca contro il Covid in si mesi con questo metodo”, ha affermato Stöcker.

Il 2 settembre dello scorso anno, il medico imprenditore aveva segnalato la sua scoperta all'Istituto Paul Ehrlich (PEI). All'inizio di dicembre, l’uomo ha ricevuto una convocazione dall'ufficio di polizia criminale dello Stato dello Schleswig-Holstein. Secondo l'ispettore capo detective responsabile, è in corso un'indagine contro di lui per violazione della legge sui medicinali.

© SPUTNIK
Una donna si sottopone alla vaccinazione con Sputnik V

Secondo il giornale Spiegel, lo stesso presidente del PEI, Klaus Cichutek, cinque giorni dopo la ‘buona notizia’ del progresso compiuto da Stöcker, avrebbe riferito all'Ufficio statale di Kiel per i servizi sociali che:
"Dal punto di vista del PEI, vi è il sospetto di attività criminale".

L’antigene prodotto da Stöcker, somministrato a più di 60 volontari, pare abbia prodotto anticorpi protettivi in più del 90% dei casi. Il medico ha inoltre spiegato che non ha guadagnato soldi con il suo vaccino, ma voleva solo proteggere quante più persone possibile dal virus e avrebbe voluto rendere il suo metodo accessibile a tutti.

A latere , lo stregone maledetto, dovrebbe salvare il tenore di vita degli italiani cioè guardare la DOMANDA. Se non sono euroimbecilli non li fanno scrivere, è come chiedere a colui che è stato protagonista della deflazione salariale dell'Italia di eliminarla, certamente sempre dopo che ha sfamato gli appetiti dell'avidità della finanza e cioè MAI. Intanto l'articolo è stato costruito

Sindrome del declino - Il governo Draghi dovrà salvare anche i consumi e gli stipendi degli italiani

13 febbraio 2021

Oltre alle questioni politiche, economiche e sanitarie, l’esecutivo dell’ex presidente della Bce dovrà cercare a risollevare il tenore di vita del Paese. Il livello dei salari e della spesa pro capite sono calati drasticamente, portando l’Italia in fondo alle classifiche europee

Lapresse

Se a Mario Draghi sarà consentito di lavorare, l’impresa che lo attenderà dovrà giocoforza andare oltre la mera gestione dell’emergenza, che sia quella pandemica o economica. Il suo compito, tramite l’utilizzo dei fondi di Next Generation EU e l’attuazione delle riforme strutturali cui questi sono legati (anche se ci piace dimenticarcelo), sarà anche quello di contribuire a guarire il popolo italiano psicologicamente da quel complesso e da quella sindrome da declino che lo affligge ormai da una trentina d’anni.

È una malattia che produce vari sintomi. Per molti, forse la maggioranza, questi consistono in una sfiducia totale non solo verso la politica, ma anche per la classe dirigente di ogni tipo, economica, sociale e religiosa, e, come abbiamo potuto vedere con la pandemia, anche medica. In altri genera una saudade verso un passato perduto di benessere che si pensa non poter più tornare e non produce molto più che nostalgia e rifugio in un’epoca mitizzata quanto sopravvalutata.

Anche molte reazioni e tentativi di contrasto del declino non sono altro in realtà che sintomi della malattia stessa. Come le fantasiose teorie sulla monetizzazione del debito, sul fare come in Inghilterra, uscendo dall’euro e dalla Ue, oppure su nazionalizzazioni e leggi punitive contro le multinazionali.

E ovviamente come per ogni patologia c’è la rimozione e la negazione, il rifiuto, la pretesa che l’economia italiana sia in realtà sana e che alcuni indicatori, come quelli riguardanti Pil, debito e deficit, in realtà non abbiano valore e che, come da copione antico, siano solo le manovre straniere a volerci indebolire. Spesso questi sintomi e queste reazioni, anche se contraddittorie, coesistono.

Ma il problema alla base della sindrome c’è, si è aggravato negli anni e si esplica in un’evidenza che tutti, anche i negazionisti, riconoscono e comprendono facilmente, perché la verificano nella propria vita: il tenore di vita degli italiani non è migliorato negli anni, è rimasto indietro rispetto a quello dei popoli nostri vicini, e stiamo scivolando indietro nella classifica della serie A del mondo.

Non sono tanto il Pil o i tassi di occupazione a farcelo capire, ma indicatori ancora più concreti che riguardano tutti, anche chi un’occupazione fortunatamente ce l’ha: quelli che riguardano i consumi e i salari degli italiani.

Se negli anni ’90 i consumi pro capite degli italiani, misurati in euro PPP (con il criterio della parità di potere d’acquisto), erano circa due mila euro l’anno superiori a quelli della media Ue, il vantaggio si è poi ridotto al di sotto di quella soglia fino ad azzerarsi in modo repentino tra il 2011 e il 2014. La ripresa successiva ha sì permesso ai consumi di ripartire, ma a livelli ormai in linea con quelli del resto della Ue, o addirittura inferiori. Come nel 2019, l’ultimo anno “normale” prima del Covid, quando erano di 20.500 euro nel nostro Paese e di 20.600 nella UE.

Dati Eurostat

Se ne accorge chiunque viaggi in una capitale europea, e in particolare chi va a Est o nella penisola iberica. Del miglioramento del tenore di vita che ha interessato negli ultimi 20 anni gran parte del Vecchio Continente, in Italia se ne è avuta solo una pallida eco. Soprattutto considerando che tra i pochi ad essersi salvati sono stati i percettori di una pensione, non certo coloro che sono più attivi, giovani e salariati.

Questo perché l’andamento dei consumi non è stato certo dovuto a un aumento dei risparmi, che piuttosto hanno continuato a ridursi, ma a un trend dei salari molto deludente. Quello netto medio degli italiani è passato dai 15.261 del 2000 ai 10.888 del 2019, con una brusca frenata dopo il 2010.

L’aumento del 36,9% in 19 anni è stato sicuramente inferiore a quello europeo, del 53,3%, come a quello tedesco, addirittura del 68,7%. Basti pensare che se i salari tedeschi erano all’inizio del millennio solo di 2.300 euro più alti, nel 2019 il gap era di quasi 8.600.

Dati Eurostat, salario di un single con stipendio netto mediano

L’Italia ha rappresentato il peggior fallimento di quello che doveva essere uno degli obiettivi dell’Unione Europea, la famosa convergenza: ovvero l’adeguamento dei redditi e quindi dei tenori di vita tra i Paesi, attraverso una crescita sostenuta in quei Paesi e quelle aree che erano sotto la media. È quello che è avvenuto nei Paesi dell’Est e in Spagna e in Portogallo, non in Grecia e Italia, soprattutto non nel Mezzogiorno. La Spagna stessa, appunto, che aveva livelli di consumo analoghi ai nostri nel 2000, li ha visti aumentare nonostante la crisi che anch’essa ha sofferto, molto più di noi.

E quello italiano non è un declino che riguarda solo i consumi più voluttuari, quelli più dipendenti, elastici direbbero gli economisti, dall’andamento del reddito e dei salari, ma anche i consumi di base. Fatto 100 il consumo di cibo in Europa nel 1995, quello in Italia era di ben 138 nel 1995, per poi declinare e scendere anzi sotto la media dopo il 2015, fino a un livello di solo il 90% di quello europeo nel 2019. Idem per quanto riguarda la spesa per la salute, già inferiore alla media, ma diminuita ulteriormente fino al 76% di quella dell’europeo medio. Come in mille altri indicatori solo la Grecia ha fatto peggio di noi.

Dati Eurostat

È un dato particolarmente rilevante perché per l’economia italiana, così povera di investimenti, i consumi sono una parte del Pil più importante che per altre economie. Ecco perché questa sindrome del declino. La sensazione di non poter più tenere il passo dei primi, della Germania, della Francia, o anche degli Stati Uniti. Di non poter più neanche paragonare i nostri stipendi ai loro come abbiamo sempre fatto.

La prima mossa per cominciare a guarirla è riconoscerla, capendone le cause, senza indulgere in inutili orgogli, senza rifugiarsi nel nazionalismo, comfort zone dei popoli sconfitti e in decadenza, fedele compagno da sempre del complottismo xenofobo che guarda caso vive un revival in Italia.

Nel nostro Paese siamo passati da una fase in cui la destra e la sinistra si accusavano a vicenda di essere la causa dell’alto debito a una in cui in entrambe ampie fazioni pensano che il debito non sia il problema. Anche questo è un effetto del declino e dell’inconscia rassegnazione a esso. Ritornare a pensare che invece per esempio il debito un problema lo rappresenta, un problema con cause e metodi di risoluzioni interni, e intimamente legato ai consumi e agli stipendi che non crescono, è già un primo passo.

Draghi dovrà riuscire a far prendere coscienza ai politici e quindi anche agli italiani innanzitutto di questo. Dovrà guarirli da quella forma depressiva che il declino ha provocato cominciando a dire la verità. È la prima mossa, necessaria, anche se non sufficiente, per poter pensare di ritornare nel gruppo di testa del primo mondo.

Euroimbecilandia un'accozzaglia di interessi dove prevale quello dei più forti

L’Ue tra economia e geopolitica in balìa delle relazioni sino-americane

Anaïs Voy-Gillis e Edoardo Toffoletto

 12/2/2021 4:09:23 AM 

Il presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, il presidente del Consiglio europeo Charles Michel, il cancelliere tedesco Angela Merkel, il presidente francese Emmanuel Macron e il presidente cinese Xi Jinping durante la videoconferenza per approvare un patto di investimento tra Cina e Unione europea il 30 dicembre 2020 a Bruxelles, Belgio. (Dursun Aydemir/Anadolu Agency via Getty Images

Non se ne discute ancora troppo mediaticamente, ma negli ultimi mesi assorbiti dalle variazioni multicolori delle regioni italiane (da rosse, ad arancioni e gialle, e di nuovo rosse, ad infine gialle pare), con i rispettivi regolamenti di condotta, l’Ue ha concluso un accordo con la Cina “sul regime di reciprocità degli investimenti tra i due blocchi economici”, come scrive Giulio Sapelli ne ilSussidiario al primo dell’anno. Ma si osserva che alle trattative i rappresentanti italiani erano assenti. Ai tavoli dettavano legge Macron e Merkel, nonostante l’Italia sia l’unico Stato membro ad aver firmato il memorandum di adesione alle vie della seta cinesi.

Si rivela perciò utile inquadrare quali sarebbero le implicazioni di questo accordo, inestricabilmente economiche e geopolitiche assieme, alla luce anche del cambio di guardia avvenuto a Washington con il ritorno dei democratici nella figura di Joseph R. Biden Jr., ancora tutta da scoprire. Come in ogni crisi in seno all’Ue, l’Europa si rivela per quello che è, cioè uno spazio retto “da Trattati tra Stati e non da una Costituzione e quindi da uno stato di fatto anziché di diritto; non è neppure una entente cordiale, ma solo un insieme instabile di rapporti di forza”, come ricorda sempre Sapelli.

E negli ultimi giorni, Eurointelligence rivela in una serie di brevi ma incisivi articoli dal 26 gennaio al 2 febbraio 2021 ancora una volta le faglie e le crepe istituzionali dell’Ue, che obbligano la conclusione per cui – anche in questo caso di crisi sanitaria – ogni crisi europea conduce inevitabilmente all’aumento degli squilibri fiscali tra i paesi membri. Si tace poi dello spettro del “nazionalismo” dei vaccini, nonché dell’inadeguatezza del Recovery Fund che mostra ancora una volta che “ciò che non è cambiato è che l’Ue cerca sempre soluzioni strutturali a crisi cicliche”, anziché optare per “uno stimolo discrezionale di € 1-2.000 miliardi” in luogo “dei piccoli, complessi, pluriennali programmi di investimento inter-governativi”.

L’accordo con la Cina non può che rimandare al rapporto con l’alleato d’oltreoceano, perciò l’Ue (o lo spazio geografico europeo) è sempre e ancor più in balia delle relazioni sino-americane.

Come esplicitamente affermato da Lucio Caracciolo, direttore di Limes, incalzato da Francesco Laureti su Crossfire KM, “non vi sono relazioni tra gli Usa e l’Ue, perché i primi sono uno Stato mentre i secondi non lo sono e le relazioni internazionali sono essenzialmente delle relazioni interstatali”, pertanto ciò vale anche per la relazione con la Cina. Ed in entrambi i casi è necessario tenere presente le diverse posture tra Francia, Germania, UK, Italia rispetto ad organizzazioni quali la Nato o a stati sovrani terzi quali la Russia od altre potenze regionali dalla Turchia al Nord Africa.

Pure il Financial Times, nella penna di Rana Foroohar, mette nero su bianco che l’accordo Ue-Cina può ben essere vantaggioso per gli esportatori tedeschi, “ma è difficilmente consistente con gli alti standard sul lavoro e i diritti umani di cui l’Europa si farebbe portatrice. Potrebbe addirittura complicare una nuova alleanza transatlantica con gli Usa in settori come la regolazione dell’industria digitale, che l’Ue ha spinto non appena Biden è giunto al potere”.

La transizione Trump-Biden è l’ambiguo sintomo che il gigante americano non può più rinnegare i temi sollevati, benché in maniera improbabile, da Trump, inquadrato tuttavia ancora dalla persistente retorica dell’American exceptionalism, di cui Biden è insigne rappresentante. Così, il gesto simbolico di rassicurare la comunità internazionale (l’Occidente) che gli Usa sono ritornati affidabili rientrando quindi nell’accordo di Parigi sul clima, a sostenere di nuovo le istituzioni internazionali (quali peraltro l’Oms). Al contempo, si insiste sul buy american, cioè sull’obbligo da parte di contratti federali di impiegare imprese Usa. Perciò, alcuni pensano che Biden non sia altro che un Make America Great Again, con un volto più gentile.

Come scrive Foroohar, “gli argomenti puramente economici ignorano che l’amministrazione Biden affronta sfide politiche verosimilmente più complesse che Franklin Roosevelt negli anni ‘30. Questo presidente deve fare i conti non soltanto con la crisi pandemica ma anche con questioni di giustizia razziale, divisioni di classe, una crisi ambientale e – più strutturalmente – una perdita di fiducia nel governo da parte di grandi fette dell’elettorato”.

E già da novembre 2020, Olivier Zajec scriveva su Le Monde diplomatique che il dibattito sulla transizione Trump-Biden rivela chiaramente che una consistente parte dell’establishment Usa, soprattutto democratico, continua a non accettare l’evidenza dell’evoluzione dell’ordine mondiale in senso multipolare, di cui Biden è suo malgrado l’espressione, come chiaramente testimoniato dal suo intervento su Foreign Affairs di marzo-aprile 2020 intitolato sintomaticamente “Perché l’America deve nuovamente guidare. Salvare la politica estera statunitense dopo Trump”. Zajec afferma infatti che la fine dell’era-Trump rappresenta anche la perdita dell’occasione da parte dello spazio europeo di determinarsi strategicamente. 

In questo contesto, si segnala inoltre la nascita negli Usa di una Not-Made-in-China Directory, creata da Michael Paul, ancora ai primi inizi, in cui ogni impresa in tutto il mondo può registrare i propri prodotti specificando il luogo di produzione, a differenza di Amazon, ci spiega il fondatore, al fine di informare i consumatori sui prodotti che sta comprando da uno spillo ad un’automobile.

©Octobot, Grafico dinamico in milioni di dollari, che mostra l’andamento dell’ammontare degli investimenti cinesi per paese Ue dal 2005-2019. Si precisa che si sono inclusi solo gli investimenti pari o superiori ai 100 milioni di dollari, e che il grafico è elaborato a partire da dati provenienti dall’American Enterprise Institute (https://www.aei.org/china-global-investment-tracker/).

Come illustra il grafico dinamico qui sopra, si coglie quanto gli investimenti cinesi in Italia fossero maggiori prima della firma dell’adesione alla Nuova via della seta. Ad ogni modo, rimane un dato persistente la bilancia commerciale a favore della Cina, come mostrano gli ultimi dati import-export tra Italia e Cina. Dietro a Olanda (88,4 miliardi), Germania (76,8 miliardi) e Regno Unito (57,9 miliardi), l’Italia è nel 2019 il quarto cliente della Cina con 44,6 miliardi di euro.

A causa della pandemia gli scambi commerciali italo-cinesi si sono ridotti del 16,2%, rimanendo a favore della Cina. Su Limes di novembre 2020, Giorgio Cuscito lo afferma chiaramente: l’export italiano in Cina è in calo dal 2017 – riflesso anche dalla diminuzione degli investimenti cinesi in Italia – le vie della seta in altri termini “non portano in Italia”. Benché non acquisito dai cinesi, il porto di Trieste, rilevato per il 51% dalla tedesca Hamburger Hafen und Logistik (HHLA) che gestisce anche lo scalo di Amburgo, indirettamente non fa che gli interessi della Cina: infatti, Trieste serve “alla Germania per accogliere maggiori quantità di merci dalla Cina e per estendere la propria influenza nell’Europa di mezzo”.
In questo contesto, quali dunque le implicazioni dell’accordo Ue-Cina?

La crescente influenza cinese negli stati membri

L’accordo concluso tra la Cina e l’Unione europea ha per obiettivo quello di aprire maggiormente agli investimenti i mercati rispettivi dell’uno e dell’altro. La Cina potrà così beneficiare di un maggiore accesso ai settori dell’energia e della manifattura in Europa, mentre si impegna da parte sua di facilitare l’ingresso di imprese europei nei mercati promettenti emergenti.

Ricordiamo che la Cina è il secondo partner commerciale dell’Ue, dietro agli Usa, perciò il 20,2% delle importazioni europee di merci proviene dalla Cina, mentre soltanto il 10,5% delle esportazioni degli Stati membri è destinata in Cina. Se l’ammontare degli investimenti reciproci sono relativamente simili, la Cina ha acquisito molti gioielli dell’industria europea quali la svedese Volvo, la nostrana Pirelli, Lanvin in Francia o ancora Kuka in Germania. Le imprese europee sono al contrario in Cina sottoposte a ferrei limiti di investimento sia nel caso di join-ventures con le imprese locali o nel trasferimento di tecnologie dalla Cina.

La Cina ha per anni sviluppato e privilegiato relazioni bilaterali con i paesi membri dell’Ue. Si possono menzionare più esempi dall’Italia, e la sua integrazione – per lo meno formale – nelle nuove vie della seta nel quadro dei quali l’Italia avrebbe messo a disposizione delle imprese cinesi i porti di Genova e Trieste per la loro espansione sui mercati europei. Si è visto che l’influenza degli interessi Usa, e le delicate questioni strategiche implicate, hanno evitato la cessione direttamente alla Cina di tali porti, ciononostante attraverso la Germania è come se fossero in mano cinese. In seguito, la Grecia ha ceduto il porto del Pireo al gigante dei trasporti cinese, Cosco, che controlla anche i porti di Bilbao e Valencia in Spagna. Il Portogallo invece ha ceduto nel momento della sua privatizzazione l’80% di Caixa Seguros, il ramo delle assicurazioni della banca pubblica portoghese Caixa Geral de Depositos, al conglomerato cinese Fosun. Il Portogallo aveva peraltro già ceduto una parte dell’impresa elettrica pubblica, Energias de Portugal, a China Three Gorges e dell’impresa di gestione delle reti energetiche nationali, Redes Enérgeticas Nationais, alla State Grid Corporation of China.

Inoltre, si osserva che dal 2012 si organizza un summit (16+1) tra la Cina e i paesi dell’Europa centro-orientale. Dalla sua inaugurazione, gli investimenti cinesi non hanno mai cessato di aumentare, il che potrebbe nel lungo periodo indebolire permanentemente l’edificio europeo. Così, questo accordo avrebbe potuto avere il merito di permettere alla Commissione europea di evitare le manovre che aggirano le istanze europee, cosa che non ha, come si vedrà, colto l’occasione di fare.

Un accordo che sottovaluta le conseguenze geopolitiche

L’accordo appare in ogni senso asimmetrico. In effetti, impegna in misura maggiore l’Ue che la Cina a causa della diversità dei rispettivi sistemi politici europeo e cinese. Per esempio, nel quadro di questo accordo, la Cina promette di aderire all’Organizzazione mondiale del Lavoro e di applicarne i regolamenti. Il solo valore di questo accordo è però quello che noi accordiamo alla parola dei dirigenti cinesi, giacché, dopotutto, la Cina rispetta assai raramente l’insieme degli impegni presi negli accordi che ratifica, ed in particolare i punti riguardanti le libertà pubbliche, sociali o civili. A titolo di esempio, nel 2020, la Cina è stato il paese che a imprigionato il maggior numero di giornalisti nel mondo.

Come si è già discusso su queste pagine, il caso di Hong Kong è altro esempio preclaro, in cui avrebbe dovuto – come d’accordo con il Regno Unito – rispettare la legislazione in vigore. Invece, dopo la rivolta degli studenti, ha deciso di mettere in atto la propria legislazione di sicurezza nazionale al fine di ristabilire l’ordine e schiacciare il movimento democratico, andando contro la lettera degli impegni presi. E a tale riguardo, il Financial Times informa che il Home Office britannico sta portando avanti il piano di garantire cittadinanza a 3 milioni dei 7,5 milioni di abitanti totali di Hon Kong aventi già il passaporto del Commonwealth, e si è già approvato l’ingresso di 7.000 persone ancor prima del lancio del piano.

Ci si dimentica quindi troppo spesso che la Cina viola i suoi impegni commerciali facendo prevalere i suoi interessi politici ed economici: ancora, nonostante l’accordo concluso tra l’Australia e la Cina nel 2015, quest’ultima non ha esitato ad imporre importati tariffe sul suo “partner”, quando l’Australia ne ha denunciato le politiche nello Xinjiang, a Hong Kong e a Taiwan o quanto più recentemente ha domandato trasparenza sulle origine del Coronavirus.

Pertanto, questo accordo non può essere semplicemente colto ingenuamente sul piano commerciale, ma deve essere integrato da una visione geopolitica considerandone l’impatto sulle relazioni tra l’Ue e gli Usa, ma anche sulle relazioni tra i paesi membri stessi, giacché la Cina privilegia appunto le relazioni bilaterali. La Cina è sottomessa alle sanzioni economiche imposte dall’amministrazione Trump; avvicinandosi quindi all’Ue, la Cina intende ovviamente prendere alle spalle gli Usa. Le nuove vie della seta hanno l’esplicita intenzione di riconfigurare le reti commerciali a livello globale.

L’accordo beneficerà essenzialmente la Germania offrendole la possibilità di posizionarsi come un attore chiave tra la Cina e gli Stati Uniti. Le imprese automobilistiche tedesche dalla Daimler, Mercedes fino alla Volkswagen hanno fortemente appoggiato questo accordo, dati i loro forti interessi commerciali in Cina e le interessanti prospettive per il settore del mercato cinese, benché come segnala recentemente Handelsblatt il 75% delle imprese tedesche in Cina soffrono delle “draconiane limitazioni cinesi ai viaggiatori verso la Cina” impedendo ad un terzo delle imprese di portare a termine operazioni urgenti. L’atto di forza della Germania rende ancora più fragile l’edificio europeo e dà quindi sempre più credito a chi parla di un’Europa tedesca: la Germania serve anzitutto in suoi interessi prima di quelli europei.

Gli anni di guerra commerciale iniziata dall’amministrazione Trump hanno mostrato che la sua strategia unilaterale non è efficace, non avendo avuto alcun impatto effettivo sul deficit commerciale americano nei confronti della Cina. Una strategia congiunta tra l’Ue e gli Usa, includendo l’Australia, la Nuova Zelanda, il Giappone e la Corea del Sud o ancora il Regno Unito è poi la direzione presa da Biden, rinforzando al contempo il tessuto produttivo americano.

Un’occasione mancata per l’Unione europea

L’Unione europea ha mancato l’occasione di difendere l’interesse delle proprie imprese e di proteggere il mercato europeo dalla volontà di potenza cinese, perciò questo accordo è il sintomo par excellence che l’Ue è un’organizzazione tecnocratica e non politica. La politica commerciale dovrebbe essere lo strumento della politica estera. Ma l’Ue non è in grado di porsi coerentemente – come sempre – secondo una visione strategica nei confronti della Cina. Mentre l’Ue mostra la radicale mancanza di cultura geopolitica, la Cina al contrario esprime un progetto geopolitico di lungo termine. Se l’Ue vede solo i vantaggi di breve termine, la Cina sfrutta tale mancanza di visione cercando di indebolire gli Stati europei nel lungo termine. Con questo accordo, l’Ue ha in altre parole abdicato a imporsi come terza via, come terzo blocco geopolitico, e alternativa alle forme del capitalismo americano e cinese.

In definitiva, è quell’anima tecnocratica, nel senso più deteriore del termine, perché economicista, che conduce all’abdicazione dell’Ue come soggetto geopolitico, giacché continua ad essere incantata nell’immaginaria equivalenza tra Pil e potenza geopolitica: come ricorda Sapelli ne ilSussidiario già all’inizio del ‘900 il Pil cinese alla fine della dinastia Ming era superiore a Germania e al Regno Unito, o ancora quando sotto attacco dal Giappone negli anni ‘30, era superiore a quello degli Usa, eppure non contava al tempo tra gli attori geopolitici determinanti gli equilibri mondiali.

Dunque, la potenza cinese non è fatto economico, ma culturale, cioè strategico. Non trovano mai vero spazio di discussione pubblica in Italia, né tantomeno in altri paesi europei, salvo nei centri di ricerca specializzati, le tensioni marittime nel Mar Meridionale cinese, tale “notizia”, scrive infatti Alberto de Sanctis in Limes di novembre 2020, “costituisce uno sviluppo quasi inconcepibile per la mentalità prevalente del nostro Paese disabituato a ragionare in termini strategici, figurarsi marittimi, assuefatto dal miele dell’economicismo e in fondo convinto che il tintinnio di sciabole sia un ricordo dei libri di storia”.

E qui si aggiunge dell’edificio europeo, non tanto di alcuni dei suoi membri, quali Francia o Germania, che hanno una visione a sé, ma di quell’improbabile crogiuolo istituzionale che si continua a chiamare Unione europea.

Matrix domina la nostra vita e ci ruba l'anima, diventiamo zombi, ombre di noi stessi

Golia reale, Davide virtuale

Maurizio Blondet 12 Febbraio 2021 
di Roberto PECCHIOLI

Nel racconto biblico, la frombola di Davide, un ragazzo, colpì e uccise Golia, il gigante arrogante che sfidava e insolentiva la stirpe d’Israele. La realtà, sfortunatamente, è molto diversa dal racconto fondativo del popolo che si proclamava eletto. Nella storia e nella quotidianità vince Golia e nelle occasioni in cui è sconfitto, mai la battaglia è combattuta in campo aperto. Tutti i Davide della storia hanno avuto bisogno di astuzia, circostanze favorevoli e grande intelligenza per sgominare i giganti nemici. Il nostro tempo non sfugge alla regola: il potere è tutto di Golia, sue le carte, le regole del gioco, il terreno di lotta. La differenza, il quid pluris, l’eccedenza inusitata del dominio di Golia sta nel fatto che egli presidia e amministra il reale, mentre Davide è confinato – sempre più spesso autoconfinato- nel virtuale.

Possedere il reale significa essere sempre alcuni passi avanti rispetto a chi annaspa nel virtuale. Nuovi domini avanzano, mentre i più ancora non si sono resi conto dei passaggi precedenti. E’ stato arduo far capire l’esistenza di una spietata dittatura finanziaria (il finanzcapitalismo) e già lo stesso Iperpotere che ha privatizzato il mondo espropriandoci della dimensione pubblica e comunitaria ha instaurato nuove dominazioni: quella per via tecnologica e sanitaria e la padronanza della narrazione pubblica, su cui incombono censure, divieti e linguaggi obbligati. Per farlo ha “resettato”, ossia cancellato la cultura popolare e monopolizzato quella accademica, chiuso la mente individuale e collettiva. Possiede tutti i mezzi, determina tutti i fini, usando le popolazioni come pedine intercambiabili di una scacchiera mortale di cui sono le vittime. Ha diffuso ignoranza, indifferenza, superficialità, assenza di consapevolezza. Innanzitutto, ha operato la scissione del reale gettandoci nella dimensione del virtuale.

Un potentissimo alleato è oggi il coronavirus, che ci allontana, determinando per paura il “distanziamento sociale”. Lontani, solitari, non possiamo che rifugiarci negli apparati. Il virtuale diventa l’assurda ancora di salvezza per chi non è più in grado di sopportare il mondo-giungla al di là della finestra. Così non comunichiamo più, non esprimiamo dubbi, non coltiviamo lo scetticismo che salva. I padroni universali lo sanno, per questo cancellano la realtà. Se i fatti non corrispondono alle attese, niente di meglio che abolirli. In cambio, ci forniscono- guadagnandoci sopra- una libertà finta fatta di luci accecanti, quella delle reti sociali, della virtualità e della grande rete.

Dicono che lì, nell’universo virtuale, viga la massima libertà, in particolare quella d’espressione. Sappiamo che non è vero, ma il punto è un altro: perché ci sia libertà di espressione, occorre prima che esista l’espressione. Il mondo virtuale, le reti sociali, sono state concepite per reprimere l’espressione, ossia per inibire la capacità umana di trarre pensieri da se stessi – fuori dalla trappola della soggettività- e incarnarli attraverso codici comuni, vincoli certi, comunità di cuori e anime in grado di intraprendere azioni comuni. Le reti sociali sono lo straordinario strumento di Golia per trasformare l’espressione umana in succedaneo, parodia sinistra della realtà. A quel fine, in primo luogo si sono premurati di lusingare la soggettività più smisurata, sino al solipsismo, trasformando gli “utenti” in narcisi malaticci tesi ad alimentare la loro vanità, incitati a postare messaggi a getto continuo, stridenti, inani e vaniloquenti. Meglio ancora se ai messaggi si accompagna un diario sterile e superfluo fatto di immagini della propria vita, dal cibo ai luoghi visitati (fondali, location di milioni di “Io” vani quanto ipertrofici).

Ci hanno addestrato a virtualizzare la realtà, o addirittura a inventare esistenze alternative fatte di nickname e universi paralleli in cui stentiamo a riconoscere l’invenzione dalla verità della nostra vita, sottoposta a una sorta di photoshop virtuale, il “ritocchino” attraverso il quale diventiamo giovani, belli e felici, ma per finta, sino al momento della disconnessione. Un momento che tendiamo sempre più a rimandare, per non uscire dal sogno e dalla contabilità dei pollici alzati. In secondo luogo, le reti si sono preoccupate di dotare gli utenti – le ex persone divenute profili o account – di un canale di scarico delle passioni, specie se vili o triviali, affinché tutte le forze, i desideri e le ribellioni siano convogliate nella tastiera, e gli scatti di collera, le volontà di cambiare il mondo non si trasformino mai in azione concreta e sfumino in fretta come le bollicine della gassosa.

Il sistema ci ha fornito un risibile diritto al capriccio vacuo, inane. Le reti sociali abbiano lo scopo di farla finita con l’espressione fertile, concreta, come la pornografia ha la funzione di scacciare il desiderio fecondo, generando una dipendenza, un trasferimento delle pulsioni nell’immagine, con il bisogno di alzare continuamente l’asticella. Le reti sociali, le loro finte “comunità”, l’amicizia data e ritirata a sconosciuti con un clic, condividono con la pornografia la missione di combattere i vincoli sicuri, le unioni impegnative.

Esse sono innanzitutto un efficace metodo di controllo sociale, al di là dell’evidente capacità di sorveglianza generale. Evidente, in realtà, solo a chi si soffermi a riflettere, l’attività che tendono ad allontanare attraverso il sovraccarico di immagini, emozioni immediate e il fiume di parole attentamente vagliate, profilate, permesse o vietate dagli algoritmi “ideologici” dei padroni. Risulta umoristico che urlino a favore della “libertà di espressione” utenti nascosti dietro grotteschi pseudonimi, avatar di chi ha rinunciato alla sua identità reale – il segno distintivo di ciò che si è – in cambio del diritto di spararle grosse nella speranza di ottenere il “mi piace “e vedere le proprie sciocchezze condivise dalla comunità virtuale, in una sorta di rigurgito a circuito chiuso. Nell’iscriverci ai media sociali con nomi falsi o soprannomi bizzarri, diventiamo automaticamente tutto ciò che il sistema vuole: ciarlatani amanti del baccano, confusionari, offensori anonimi, frustrati avidi di protagonismo, esibizionisti della nostra vita privata e intima, attivisti della performance.

E’ la vittoria avvilente del pop estremo di Andy Warhol: ognuno rivendica, se non un quarto d’ora, un minuto di celebrità virtuale, generazione di Capitan Fracassa asserragliati dietro lo schermo. Intanto, il sistema tace e prende nota: studia chi siamo, che cosa pensiamo, che cosa vorremmo essere e su queste basi ci profila, prevede e determina consumi e comportamenti individuali di massa, fabbrica una post umanità virtuale da cattedre remote ma non per questo meno reali, prospera e domina, padrone delle nostre vite graziosamente offerte in regalo. Il Panopticon postmoderno con la differenza che i prigionieri sono felici delle catene, sino a chiamarle diritti, comodità, progresso.

Ci hanno trasformati in poseur soddisfatti che si credono speciali, gente che mente innanzitutto a se stessa, in una partita a tennis infinita, scambi e rimbalzi tra gente finta e vite ritoccate come le foto in bacheca. Conta l’immagine- ciò che vogliamo far credere di noi– basata sul look e la menzogna narcisistica (e consolatoria). In fondo, anche Donald Trump, cacciato a vita dalle reti sociali, è stato vittima prima di se stesso e solo dopo del sistema, costruendo un’immagine di sé caricaturale e grottesca, la stessa che mostrano milioni di signori Nessuno afflitti da mania di protagonismo, eterni adolescenti in preda a desideri volgari, impegnati a esprimere soggettività farsesche , senza accorgersi di essere il gregge perfetto , la cui “libera espressione “ è il vaniloquio in 140 caratteri di Twitter, l’intimità esposta al pubblico di Facebook , l’esibizionismo fotografico di Instagram.

Intanto, i loro finti mentori, i Pigmalioni della rete, padroni delle tecnologie che permettono la comunicazione istantanea globale, tessono la loro tela, economica, di ingegneria sociale e riconfigurazione dell’umanità, a cominciare da me e da te. Il volto filantropico cela l’oscura attività di estrazione di dati dalla nostra condotta ed esperienza. Chiamiamola con il suo nome: si tratta di una rapina con maschera sorridente, l’appropriazione della nostra soggettività, da vendere sul mercato commerciale e su quello- più tenebroso- della riconfigurazione antropologica. Siamo ancora liberi se qualcuno sa tutto di noi? Siamo liberi se la nostra condotta di domani, di stasera è perfettamente prevista – e quindi facilmente predeterminata – da qualcuno che, mettendo a frutto scienza e tecnologia, psicologia e sociologia, conosce le idee di ciascuno di noi, preferenze e idiosincrasie, abitudini, propensioni, vizi e tutto ciò che ci fa esseri umani unici, persone?

Sanno assai bene ciò che sto per scrivere nelle prossime righe, nulla sfugge di ciò che sono e faccio. E’ già grave che tutto ciò garantisca la vendita di prodotti ed eviti a Sua Maestà il Mercato rischi e perdite. La tragedia è che la conoscenza delle mie condotte future – basata sulla completa registrazione, tracciatura e analisi di dati e metadati che mi riguardano – va ben oltre l’estrazione e l’appropriazione, ma diventa una perfetta configurazione della mia esperienza e della mia vita. Non è un caso che si parli così poco di libero arbitrio, cioè dell’autonomia etica e spirituale dell’uomo nell’atto di compiere scelte. Milioni di esseri diversamente uguali, equivalenti, con valenza zero, eterodiretti più che in qualsiasi altra epoca, ma persuasi di agire in autonomia, addirittura di esercitare al massimo grado la libertà.

Non dovrebbe stupirci troppo la mercantilizzazione della nostra esistenza e neppure il successo della capacità di predizione, giunta ormai alla perfezione. Si tratta del passaggio finale di una mercantilizzazione integrale dell’umano di durata secolare. La novità è il punto a cui è giunto il processo, il limite oltrepassato che conduce a un’altra forma di vita, post-antropologica (domani diventerà transumana e postumana) e a un nuovo format, l’ultimo di mille, del Fregoli capitalista. Dal piano della virtualità si transita a quello della quotidianità che non possiamo più definire reale in quanto il fantasma intelligente si è impadronito della sostanza. Gli apparati che possediamo – dei quali siamo noi a essere diventati le protesi – virtualizzano quello che una volta era il mondo reale, in attesa della tappa successiva, Internet delle cose, i cosiddetti oggetti intelligenti (smart), che portano nel mondo digitale gli apparecchi della nostra esperienza quotidiana. Le grandi aziende di estrazione dei dati di comportamento, Google, Apple, Facebook, Twitter – è già un errore chiamarli al plurale- prosperano in completa assenza di regolamentazione, una terra di nessuno (o “cosa loro”) che difendono con i denti, tra lobby, avvocati strapagati e l’obiettiva difficoltà degli Stati di stanarli dalla loro extraterritorialità.

Non ci poteva essere una migliore possibilità di questa epidemia virale per il passo avanti definitivo, e il più svelto è ancora una volta il Golia collettivo. Per Golia è arrivato il kairòs, la pienezza del tempo che apre nuove vie, sciogliendo tutta la vecchia consistenza tradizionale della realtà per costruire la discarica definitiva delle nostre vite. Gli ingegneri, i cibernetici, gli esperti di intelligenza artificiale, i costruttori di algoritmi danno per risolti tutti i problemi insondabili della vita umana, configurando un’esistenza – non possiamo più chiamarla vita – svuotata della profondità, gravità e tragicità che caratterizzava l’uomo di ieri, divenuto antiquato, colui che guarda dal basso il “dislivello prometeico” della tecnica padrona e privatizzata.

Il soggetto – o materiale umano- che stanno costruendo è fatto della stessa natura del vento elettronico che lo aziona e lo guida. Il nuovo ordine tecnologico trascinerà alla distruzione la convivenza umana, facendo con l’uomo ciò che la trapassata modernità industriale fece con l’ambiente culturale, antropologico e con lo stesso paesaggio pazientemente intagliato dalla civiltà umana (le ciminiere per William Blake erano “oscuri mulini satanici”). La profonda gravità della vecchia condizione umana non potrà essere trafitta senza un rantolo di sofferenza che i più sensibili riescono a udire. Occorrono orecchie per sentire e occhi per vedere, ma prima o poi la realtà inappellabile si farà valere di fronte al vuoto fantasmatico- benché rutilante – del nulla tecnologico.

C’è un’unica via d’uscita: il ritorno al reale. Davide può dichiarare guerra a Golia e vincerla solo se si libera del fardello della virtualità, e recupera il sapore e il sudore della vita reale. Basta amici “virtuali”, raccattati sulle reti sociali mentre la solitudine non ci abbandona, basta con i dispositivi artificiali che sostituiscono la vita, il contatto, l’amicizia e la lotta. Basta con l’immagine – adesso anche tridimensionale, per ingannarci meglio- al posto della realtà, basta con la rappresentazione. Dobbiamo riappropriarci di noi stessi, solo antidoto all'irrealismo della nostra società, in cui la virtualizzazione dell’esistenza si è sostituita alla visione reale e naturale della vita di cui i più anziani ricordano con nostalgia i brandelli.

Il ritorno al reale fu l’intuizione e la proposta di Gustave Thibon, singolare filosofo contadino autodidatta, può essere, a partire dai singoli, la svolta decisiva. Il pensiero di Thibon, come ogni grande pensiero cristiano, riscopre la dimensione creaturale dell’esistenza – riconoscersi creatura e contemplare la creazione – che riconnette alla vita concreta attraverso l’amore per il reale. A patto di disconnettersi dall’artificiale – scimmia di Dio – e riconnettersi agli odori e al gusto della vita. Golia ci ha derubato anche dei cinque sensi: nel mondo virtuale, bastano gli occhi per guardare le immagini e le dita per attivare il fatidico clic.

Non siamo folli, né luddisti in ritardo di due secoli: non gettiamo via strumenti straordinari, frutto del genio dell’uomo. Ci basta – scusate se è poco – rimetterli al loro posto: meccanismi, mezzi per migliorare la vita, non per rubarla, espropriarla o addirittura sostituirla. Per tornare al reale e respingere il virtuale, la fionda di Davide è un piccolo gesto consapevole: cliccare su “arresta il sistema”.

Il Grande Cambiamento Occidentale poggia sulla riconversione dell'economia su basi di sostenibilità ambientale. In questa ottica deve evolversi l'aviazione civile basata su motori a idrogeno (verde?)

Destination 2050. Ecco il piano europeo per un’aviazione a impatto zero

Di Marco Battaglia | 12/02/2021 - 


“L’industria aerospaziale può essere una forza trainante nell’evoluzione dell’Europa”. Così l’ad di Leonardo e presidente di Asd, Alessandro Profumo, ha commentato il lancio di “Destination 2050”, il piano promosso dalle associazioni aeronautiche europee per la decarbonizzazione totale dell’aviazione civile entro il 2050. Ecco i dettagli

È stato presentato oggi l’ambizioso piano “Destination 2050 – A route to net zero European aviation” per la completa de-carbonizzazione del settore dell’aviazione civile europea entro il 2050. L’iniziativa è stata promossa dalle cinque associazioni aeronautiche europee: la Airports council international Europe (Aci Europe), la Aerospace and defense industries association of Europe (Asd), la Airlines for Europe (A4E), la Civil air navigation services organization (Canso) e la European regions airline (Era). Il via è avvenuto tramite la presentazione di uno studio indipendente del Royal Netherlands aerospace centre (Nlr) e del Seo Amsterdam Economics, che ha fornito suggerimenti e proposte sul percorso da intraprendere per raggiungere l’ambizioso obiettivo di un’aviazione a impatto zero e una riduzione generale delle emissioni di CO2 in Europa e nel mondo.

EUROPA A IMPATTO ZERO

Il progetto parte dalla presa di coscienza della crescente necessità di affrontare le tematiche del cambiamento climatico, che impongono a tutti i settori la necessità di adottare contromisure efficaci ed efficienti. L’importanza che l’agenda climatica riveste nell’attuale scenario internazionale è ben illustrata dalle numerose iniziative politiche che si sono susseguite negli ultimi anni, dagli accordi di Parigi del 2015 all’European Green deal del 2019, passando per le raccomandazioni dell’Onu e delle principali organizzazioni internazionali e di settore allo stesso modo. La presentazione offerta oggi ha illustrato le iniziative e le soluzioni attraverso le quali il settore dell’aviazione civile potrà ridurre del 100% le emissioni di CO2 entro il 2050, garantendo da quella data una crescita a impatto zero.

LO STUDIO

Lo studio ha analizzato la situazione attuale delle emissioni nello spazio “EU+”, prendendo in considerazione cioè non solo l’Unione europea, ma anche lo spazio geografico europeo compresa Gran Bretagna e Paesi dell’Associazione europea di libero scambio (Efta). I ricercatori del Nlr hanno dunque comparato la situazione attuale con due scenari futuri: un 2050 senza interventi correttivi e un 2050 con le misure per la sostenibilità messe in atto. Il risultato è la chiara presa di coscienza che l’inazione non è percorribile in alcun caso, né dal punto di vista della sostenibilità ambientale né da quello economico. È dunque fondamentale che governi e industria collaborino nell’implementazione di soluzioni tecniche e operative sistemiche che affrontino le emissioni di CO2 del settore aereo.

LE SOLUZIONI

La proposta portata avanti dal programma “Destination 2050” prevede l’implementazione di misure per la sostenibilità in quattro aree principali: l’innovazione tecnologica, la gestione del traffico aereo e le operazioni aeree, carburanti aerei sostenibili (Saf) e le misure economiche. Nel settore dell’innovazione tecnologica si prevede che l’immissione sul mercato di sistemi migliorati di propulsione e di velivoli a idrogeno potrà da solo contribuire a ridurre le emissioni di anidride carbonica del 38%. I sistemi innovativi e integrati di gestione del traffico aereo e delle operazioni a terra contribuiranno a loro volta ad una riduzione del 6% delle emissioni. In questo caso sarà essenziale la cooperazione a livello europeo, con l’implementazione del Single European Sky che, migliorando la gestione dei voli continentali, contribuirà a ridurne i consumi. Ma il maggiore impatto lo daranno i nuovi carburanti sostenibili, che ridurranno addirittura del 46% le emissioni aeree. Questo è il settore dove dovranno essere concentrati gli investimenti nel futuro. Infine, le misure economiche dovranno incentivare le aziende a sostenere i costi delle proprie emissioni di CO2, spingendole ad adottare soluzioni sostenibili di lungo termine.

L’IMPEGNO DI LEONARDO

“L’industria aerospaziale ha saputo reagire rapidamente e coerentemente, presentando proposte strutturate, obiettivi comuni e idee chiare e dimostra, ancora una volta, di poter essere una forza trainante nell’evoluzione dell’Europa”, ha spiegato Alessandro Profumo, ad di Leonardo e presidente dell’Asd Europe, a margine dell’iniziativa, concludendo che “attraverso il contributo fornito al report Destination 2050, è evidente come l’impegno per gli obiettivi del Green Deal europeo debba essere supportato da una spinta coerente verso innovazione e ricerca, da impegni politici e finanziari, dalla volontà di esplorare nuove modalità di collaborazione”. All’iniziativa partecipa in prima persona Leonardo, in quando membro dell’Asd Europe, coinvolta come azienda nei programmi Eurocontrol e Single European Sky.

Mentre la Cina spende miliardi per allargare l'istruzione di massa, una base solida garantisce la solidità piramidale, l'Occidente schianta l'istruzione pubblica rendendola solo privata ed elitaria privandosi dell'energia dinamica del necessario apporto delle masse. Si è votata a perdere la guerra illimitata

Xi spende 66 miliardi per l’istruzione (anche la nostra)

Di Gabriele Carrer | 12/02/2021 - 


L’Istruzione è il dipartimento in cui Pechino investe di più (almeno stando ai dati pubblici, nei quali non c’è però la Difesa): 66 miliardi per il ministero che gestisce anche gli ex Istituti Confucio

Come spende il denaro il governo cinese? Per rispondere a questa domanda il Center for Security and Emerging Technology, centro studi della Walsh School of Foreign Service presso la Georgetown University di Washington, ha lanciato il Chinese State Council Budget Tracker

I DATI PUBBLICI

Il progetto tiene conto del bilancio del Consiglio di Stato di Pechino, che controlla 26 dipartimenti (ministeri) e dozzine di uffici tra cui quelli cruciali che si occupano di scienza, tecnologia e reclutamento di talenti (e dunque anche del reclutamento di scienziati stranieri, dell’istruzione degli studenti e del controllo dei netizen cinesi). Tuttavia, non si tratta di un audit esaustivo sulla spesa del governo cinese. Infatti, non rientrano le attività di province, prefetture e distretti, né le spese segrete dei dipartimenti censiti.

IL CONSIGLIO DI STATO

Il Consiglio di Stato comprende 26 dipartimenti a livello di gabinetto, inclusi 21 ministeri, tre commissioni nazionali, l’Ufficio nazionale di audit e la Banca popolare cinese. Esclusi i ministeri della Difesa nazionale e della Sicurezza dello Stato che non pubblicano i loro conti, gli altri 24 dipartimenti avevano nel 2019 un bilancio complessivo pari a 160 miliardi di dollari: i soli tre ministeri dell’Istruzione (66 miliardi), dell’Information technology (10,6 miliardi) e della Scienza e della tecnologia (8,3 miliardi) rappresentavano oltre la metà della spesa dichiarata. E, come ha ricordato su Twitter la giornalista del Foglio Giulia Pompili, dal ministero dell’Istruzione dipendono gli oltre 500 Istituti Confucio (di cui 12 in Italia), che da quest’estate hanno cambiato nome diventando Centri del ministero dell’Educazione per l’educazione linguistica e la cooperazione. “Un adeguamento dei termini, non della sostanza”, aveva spiegato a Formiche.net il sinologo Maurizio Scarpari sottolineando poi che il cambiamento difficilmente avrebbe sortito ripensamenti in Occidente sul ruolo degli Istituti Confucio. “Anche perché questi istituti portano soldi e in questo momento in particolare i soldi fanno comodo a tutti, nessuno vi rinuncerà facilmente”, aveva aggiunto.

IL RECLUTAMENTO

Il Consiglio di Stato controlla direttamente (con 19 miliardi complessivamente) anche sei organizzazioni: Chinese Academy of Sciences, Chinese Academy of Engineering, National Natural Science Foundation of China, China Association of Science and Technology, State Administration of Foreign Experts Affairs (ora assorbita dal ministero della Scienza e della tecnologia) e Overseas Chinese Affairs Office (ora parte del dipartimento del lavoro del Fronte Unite, agenzia di intelligence del Paritto comunista cinese che si occupa di raccogliere informazioni e gestire le relazioni all’estero). Il loro compito? Quello delle ultime tre è il reclutamento di esperti e l’acquisizione di scienza e tecnologia dall’estero. Una fotografia nitida degli sforzi espansionistici di Pechino.

L'ideologia dell'INGERENZA è la base culturale dove obbligatoriamente si innesta il rinnovo delle catene di comando negli acquisti, finalizzare e unire tutte le consorterie guerrafondaie, militari e civili in un unico obiettivo sviluppo: dell'Intelligenza Artificiale per mantenere la supremazia strategica tecnologica su Cina e Russia. Sono disponibili per il 2021 solo 740 miliardi di dollari

Digitale e veloce. Così il Pentagono ripensa il procurement della Difesa

Di Stefano Pioppi | 12/02/2021 - 


Il Pentagono cerca da anni di accelerare il procurement militare e coinvolgere di più le aziende ad alta innovazione. Tra “digital acquisition” e contratti flessibili, l’obiettivo è preservare il vantaggio tecnologico sulla Cina. I suggerimenti dell’Atlantic Council dall’evento “Innovating the business model of Defense”

Agile e flessibile, improntato alla stretta sinergia con il comparto industriale e incentrato sulle tecnologie del futuro, a partire dall’intelligenza artificiale. È così che il dipartimento federale con il maggiore portafoglio degli Stati Uniti (740 miliardi di dollari quest’anno) sta rivedendo il proprio modello di business. È il Pentagono, alle prese da anni con discussioni su come accelerare il procurement e coinvolgere di più le aziende ad alta innovazione. La sfida è ora nella mani di Lloyd Austin, il segretario alla Difesa scelto da Joe Biden.

IL DIBATTITO

Un utile punto della situazione è emerso mercoledì dall’Atlantic Council, il cui Scowcroft center for strategy and security ha organizzato l’evento “Innovating the business model of Defense”. Tra i protagonisti c’erano Brian Schimpf e Daniel Jablonsky, ceo rispettivamente di Anduril e Maxar, due attori particolari della Difesa americana, diversi rispetto ai grandi contractor. Anduril è infatti impegnata nella ricerca e sviluppo di soluzioni per la difesa derivanti dal mondo commerciale. Maxar è invece specializzata nel settore spaziale, prevalentemente in applicazioni di intelligence e monitoraggio. Con loro c’erano la senior fellow dell’Università di Georgetown Melissa Flag, e il generale Arnold Punaro, presidente della potente National defense industrial association (Ndia), considerato tra “i cento individui più influenti nel settore della Difesa americana”.

LE TECNOLOGIE CRITICHE

Tra intelligenza artificiale, machine learning e cloud computing, il focus è stato tutto per l’innovazione tecnologica in campo militare, un trend inarrestabile a cui il Pentagono cerca di adeguarsi. L’esigenza strategica è la preservazione del vantaggio strategico rispetto ai competitor, leggasi Cina e Russia. D’altra parte, all’interno del mandato di Joe Biden alla task force focalizzata su Pechino annunciata pochi giorni fa al Pentagono, ci sono anche le nuove tecnologie.

LA SFIDA CINESE

Già nel 2017 il Consiglio di Stato della Repubblica popolare cinese aveva rilasciato il Piano di sviluppo per una nuova generazione d’intelligenza artificiale (Aidp), identificando un obiettivo chiaro: diventare entro il 2030 il principale centro d’innovazione nel campo dell’intelligenza artificiale. Parallelamente è proseguito lo sforzo su altri settori innovativi, dall’ipersonica (nel 2017 il primo test su veicoli a planata ipersonica, considerati un “game changer” per gli scenari operativi) ai droni, anch’essi già abbondantemente testati in sciamo guidati dall’intelligenza artificiale.

IL SISTEMA DI PECHINO

Per tutto questo, Pechino può contare su un sistema estremamente efficiente, rapidissimo nel passare dai piani strategici ai requisiti operativi, e dunque a ricerca e sviluppo. Come si addice ai regimi autoritari, non necessità infatti di “fastidiosi” iter parlamentari per approvare il budget, né di verifiche burocratiche su contratti e commesse. L’unione tra Partito, governo e industrie di Stato è fortissima, e ciò assicura una grande efficienza operativa.

LA RIFORMA AMERICANA

Per farvi fronte, gli Stati Uniti cercano da tempo di rendere più rapido il processo di procurement, quantomeno in grado di seguire la rapidità dell’innovazione. Durante l’amministrazione Trump al lavoro sul tema c’era Ellen Lord, la più longeva per permanenza al Pentagono tra le cariche a conferma del Senato, in qualità di “under secretary of Defense for acquisition and sustainment”. È una delle posizioni più delicate all’interno del dipartimento, con responsabilità sul procurement del maggiore portafoglio federale degli Stati Uniti, per a circa 740 miliardi di dollari per quest’anno.

ACQUISIZIONI “DIGITALI”

Sotto il suo mandato, negli ultimi anni, il Pentagono è andato avanti con determinazione nell’accelerazione dei propri meccanismi. È in questo periodo che è maturata l’avveniristica “Digital acquisition” (qui l’approfondimento di Stefano Cont da Washington), che sfrutta realtà aumentata e algoritmi di Ia per velocizzare la delicata fase di test. È grazie ad essa che, lo scorso settembre, gli Usa hanno sorpreso l’Europa. Mentre il Vecchio continente discuteva sui due progetti alternativi per il velivolo di sesta generazione (tra Tempest e Fcas), l’Usaf spiegava di aver già testato in volo un prototipo del Next generation air dominance (Ngad).

CERCASI ACCELERAZIONE

In tale sforzo di accelerazione è stato coinvolto direttamente il settore privato. Negli ultimi anni sono infatti cresciute molto le partnership pubblico-private sui progetti innovativi. È aumentato inoltre il numero dei contratti assegnati tramite Other transaction agreement (Ota), formula contrattuale particolarmente flessibile, pensata proprio per dare velocità e applicata, ad esempio, sui programmi per applicare le reti 5G alle basi militari. Ora il Pentagono si prepara ad armonizzare il tutto e a spingere ulteriormente l’accelerazione. Poco dopo il voto di novembre, in un evento organizzato dal Cnas, l’esperto Bob Work, già numero due del Pentagono con Obama, notava che tra le priorità della Difesa di Biden ci sarebbe stata proprio la prosecuzione della riforma del procurement.

LE BARRIERE CULTURALI

Lo stesso messaggio è arrivato dall’evento dell’Atlantic Council, insieme al suggerimento per una maggiore “flessibilità” nelle procedure di acquisto. Prima di tutto, è emersa l’esigenza di rafforzare l’integrazione tra pubblico e privato, magari con team congiunti di ricerca. Si pensa poi a forme innovative di business, come il venture capital che favorirebbe l’ascesa di nuove realtà. Tutto questo rientra nel concetto di “superare le barriere culturali” del procurement della Difesa. Significherebbe sganciarsi dal tradizionale approccio che ruota intorno ai grandi contratti per sistemi legacy, in favore di una prospettiva più ampia, che premi anche piccoli progetti fortemente innovativi, e che faciliti la competizione in ogni fase di test e valutazione. Infine, superare le barriere culturali significa anche abbracciare l’idea di “fallimento” per i programmi a basso rischio (come quelli relativi ai droni), in modo da accelerare la curva di apprendimento.

L'affluenza di Cina Russia Stati Uniti nel Mar Rosso denota sempre di più l'importanza della strategia del Mare Nostrum che l'Italia dovrebbe perseguire pervicacemente. Soldi, si chiamano investimenti, subito alla nostra marina militare

Se la Cina cerca un porto (saudita) nel Mar Rosso…

Di Emanuele Rossi | 12/02/2021 - 


La Cina entrerà nell’azionariato che gestisce il porto di Jeddah, nel lineamento strategico del Mar Rosso. Il problema geopolitico per gli Stati Uniti, che intendono aumentare l’uso di una base navale poco a nord

Sul tavolo dell’autorità che gestisce i porti sauditi c’è un fascicolo pesante. La Cosco, acronimo di China Ocean Shipping Company, ha messo gli occhi sul porto di Jeddah e sarebbe interessata ad acquisire una quota pari al 20 per cento del terminal container dello scalo della città lungo il Mar Rosso. L’investimento vale 140 milioni di dollari e permetterà al colosso cinese di prendere una bella quota di Red Sea Gateway Terminal Limited, società gestrice in cui entrerà anche il fondo sovrano saudita. Il Public Investment Fund (PIF) e Cosco si aggiungeranno a un pacchetto di shareholders che attualmente è composto da: MMC Barnard, conglomerato malaisiano che detiene il 20 per cento; la Xenel Industries per un altro 20; e Saudi Industrial Services Company con il 60 per cento. La capacità attuale è di 5,2 milioni di Teu, ma con il nuovo contratto — e investimenti già decisi per 1,7 miliardi entro il 2050 — dovrebbero essere quasi raddoppiate. L’aspetto business nasconde il lato geopolitico della questione.

A 300 chilometri a nord di Jeddah c’è Yanbu, un porto dual use di cui gli Stati Uniti intendono rafforzare l’utilizzo – secondo un piano che non è nuovo ma che nelle ultime settimane ha ricevuto parecchia attenzione. Il tema portuale è importante: trecento chilometri tra una struttura controllata dalla Cina e una che la US Navy intende usare come scalo sono pochi (e a poco distanti ci sono anche gli aeroporti di Taif e Tabuk per i quali gli Usa pensano a un altro potenziamento). Si tratta di sistemi che non possono essere vicini, vedere quanto accade ad Haifa, anche perché il ruolo che gli americani intendono dare a Yanbu è quello di controllo strategico di quel lineamento di mare da cui risalgono le rotte che partono dall’Indo-Pacifico e vanno verso l’Europa. Rotte fondamentali per la Cina – per l’asse lungo Suez-Malacca della Bri marittima – ma anche per gli Stati Uniti e la globalizzazione via mare. Da ricordare che l’area è poco a nord del polo strategico talassocratico di Gibuti, con il Corno d’Africa che è un ambito iper-strategico (anche per l’Italia), mentre sull'alta sponda di Jedda, a Port Sudan, i russi installeranno una base.

Sebbene l’interesse cinese possa essere inquadrato in necessità di carattere geo-economiche non si può escludere una sovrapposizione strategica nell’ambito del confronto globale con l’America. Il rapporto Washington-Riad è paradigmatico del lavoro che da decenni caratterizza l’impero americano, e per Pechino creare ulteriori frizioni è un interesse di politica globale. Posizionarsi a Jedda dà alla Cina vantaggio nel controllo di un’area solcata dalle vie della seta e affacciata verso il piano Marshall africano (i tanti investimenti di Pechino in Africa, frutto di una volontà espansionistica). Il rapporto tra sauditi e americani è in fase di revisione con l’amministrazione Biden, ed è come se Riad cercasse spazi per sfruttare la regione mediorientale (in Arabia Saudita come in Israele o negli Emirati e Iran) come controffensiva di un riassetto generale che vede gli Usa spostare l’attenzione verso l’Asia.

L'ideologia dell'INGERENZA inaugurata dagli Stati Uniti rischia di mettere all'angolo proprio gli ideatori e chi vuole perseguirla fino all'estremo. Poteva funzionare 10 anni fa ma da allora i tempi sono cambiati

I fari del Pentagono sulla Cina. La mossa di Biden letta dal gen. Arpino

Di Mario Arpino | 12/02/2021 - 


L’analisi del generale Mario Arpino, già capo di Stato maggiore della Difesa, sulla visita di Joe Biden al Pentagono e il lancio della nuova task force sulla Cina, seguito dal primo “freddo” contatto con Xi Jinping. “Back to the future” è il mantra del nuovo presidente in politica estera, e noi tutti ci auguriamo che gli porti fortuna. Ma non sarà facile

Il nuovo presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, sembra avere una gran fretta di mettere in soffitta il quadriennio di Donald Trump e veste subito i galloni che gli competono, quelli di comandante in capo di tutte le Forze armate a stelle e strisce. Lo ha fatto mercoledì recandosi in visita al Pentagono, dove si avvertiva con urgenza una “riconciliazione” dopo la girandola trumpiana delle nomine.

A dire la verità, la prima mossa l’avevano già fatta i capi militari, quando con una lettera e dieci firme riaffermavano fedeltà alla Costituzione e un ruolo democratico. La seconda mossa la faceva lo stesso Biden, quando otteneva dal Senato, con soli due voti contrari, la nomina a segretario della Difesa del generale in pensione Lloyd Austin, primo uomo di colore a guidare il Dipartimento. Terza mossa la visita al Pentagono, accompagnato dallo stesso Austin e dall’onnipresente vicepresidente Kamala Harris.

Con i generali, i tre hanno parlato di molte cose, ma l’argomento forte è stato il rapporto con la Cina. Parole importanti, anche se solo accennate, perché ormai tutti hanno capito che il presidente si pronuncia Joe Biden, ma si chiama ancora Barack Obama. E forse anche un po’ Hillary Clinton. I due personaggi che lo hanno accompagnato nella visita non fanno che avallare questo pensiero. Nulla di male, certamente agiranno negli interessi degli americani e del mondo libero. Tuttavia, le parole pronunciate dopo aver annunciato l’istituzione di “una task force per la Cina”, se lette assieme alle affermazioni di una settimana prima al dipartimento di Stato, qualche preoccupazione la suscitano. Sono state espresse per rassicurare, ma potrebbero anche produrre l’effetto opposto.

“La forza è l’ultima via da perseguire, ma non esiterò a utilizzarla per difendere gli interessi dell’America e dei suoi alleati”. Musica per le orecchie di molti, che tuttavia preferirebbero soft music piuttosto che squilli di tromba. Al dipartimento di Stato, parlando di politica estera, da buon democratico non aveva saputo resistere alla vena ideologica, quando, accennando alla crisi in Birmania, aveva giustamente auspicato un sollecito ritorno alla democrazia e un maggior rispetto per il popolo birmano.

Poi annunciava il ritorno dell’America alla diplomazia, sottolineando che ora Washington è pronta ad agire “contro gli abusi dei Paesi autoritari”. Del tutto digiuno di diplomazia, con dazi e sanzioni lo sapeva fare anche Trump. Allora come? Bastonandoli fino a quando, diventati ormai democratici, lasciano in pace gli uiguri, liberano Navalny e, magari, anche Aung San Suu Kyi? Dopo vent’anni, gli afghani non sono diventati democratici e gli iracheni nemmeno. Anche gli egiziani fanno fatica, e i libici sono recalcitranti. Anzi, sono peggiorati dopo la cura voluta da francesi, inglesi ed americani nel 2011. Ci sono riusciti solo i giapponesi 76 anni fa, ma dopo aver subito due bombe atomiche.

Ritornando alla Cina, che sembra l’argomento di “estera” più importante (assieme a Russia e Nord Corea) che Joe Biden deve affrontare, con un sospiro di sollievo si è capito a cosa dovrebbe servire la “task force sulla Cina”. Per il momento, niente di militare. Si occuperà di tutti gli altri aspetti dei rapporti, ovvero tecnologia, spazio e reti di comunicazione (questione 5G). E, infine, anche del punto più delicato: la questione legate ai diritti umani. Sarà dura perché, sebbene di segno opposto, in materia la sensibilità è altissima da ambo le parti. Sospiro di sollievo solo iniziale, subito tramutato in una doccia fredda quando, dopo la visita al pentagono, Biden ha chiamato al telefono il collega Xi Jinping.

Dai resoconti di agenzia ne risulta non solo la freddezza, ma anche una certa durezza, mista a reciproco fastidio. L’americano ha messo sul tappeto le crescenti tensioni tra i due Paesi, oltre a tutti i punti già citati accennando alla task force, compresi i diritti umani. Il cinese, da quanto si intuisce, ha preferito tagliare corto, affermando che “i due Paesi dovrebbero rispettarsi a vicenda” e instaurare un meccanismo di dialogo costruttivo per risolvere i dossier aperti. Avvertendo, in chiusura, che uno scontro si risolverebbe “in un disastro per entrambi i Paesi”.

Passando solo un attimo dalla Russia, ricordiamo che qualche giorno prima c’era stato un colloquio pressoché analogo tra l’Alto rappresentante dell’Ue Josep Borrell e il russo Sergei Lavrov. Purtroppo da questo incontro, secondo le agenzie, il nostro rappresentante sembrerebbe sia uscito, come si usa dire in questi casi, con le pive nel sacco.

“Back to the future” è il mantra di Joe Biden in politica estera, e noi tutti ci auguriamo che gli porti fortuna. Se però questo volesse dire ripartire nel 2021 con i criteri del 2009, quando era iniziato il doppio quadriennio di Barack Obama, allora di nuovo l’impresa rischia di essere dura, oltre pericolosa. Vengono in mente, visto che parliamo di Cina e di Russia, l’insuccesso del “pivot to Asia”, con il quale Obama, trascurando Occidente e Medio Oriente per badare alla Cina, aveva provato ha instaurare nel sud-est asiatico un lungo esercizio di soft power con India, Corea e Giappone.

Poco o nulla di fatto, venendo spesso distratto in quanto costretto ad intervenire episodicamente, tipo “mordi e fuggi”, in Africa e in Medio Oriente. Con i disastri che purtroppo, non hanno ancora finito di produrre danno. Ne appare migliore, o più adatta al momento, la “Hillary Clinton Doctrine”, che all’azione diplomatica tentata da Obama ha sempre mostrato di preferire quella fisica. È a lei, e a Obama che obtorto collo la ha seguita, che dobbiamo buona parte dei nostri guai in Libia e del Mediterraneo. Non scordiamoci che entrambi, cui per una più diretta vigilanza si è aggiunta Kamala Harris, sembrerebbero essere tuttora veri padrini, tutori e angeli custodi del nuovo presidente. Il quale, tuttavia, è meritevole di ammirazione, simpatia e tanta comprensione. Back to the future? No, grazie, i tempi sono cambiati. In peggio.

L'ideologia dell'INGERENZA è costretta a fermarsi di fronte a interessi concreti. Resta il bla bla di fondo

L’Ue pensa a nuove sanzioni alla Russia ma i vecchi affari (Nord Stream) restano in piedi

Di Emanuele Rossi | 12/02/2021 - 


La Russia minaccia una reazione dura se l’Europa dovesse decidere ulteriori sanzioni, ma Mosca sa che le sanzioni spesso sono usate per mandare un segnale alle opinioni pubbliche di chi le applica, spiega Biagini (Unitelma/Sapienza) perché poi grandi affari restano in piedi. Vedere il Nord Stream

“Se vediamo ancora una volta, proprio come in altre occasioni, che le sanzioni vengono imposte in alcuni settori e creano rischi per la nostra economia, anche nei settori più sensibili, allora sì. Non vogliamo essere isolati dalla vita internazionale, ma dovremmo essere preparati a questo”. Il ministro degli Esteri russo, Sergei Lavrov, ha detto durante un’intervista che non esclude la possibilità di tagliare del tutto i ponti con l’Ue, se dall’Ue dovesse uscire come decisione quella di sanzionare Mosca per le violazioni di diritti collegate al caso Navalny.

C’è una data potenziale da osservare: l’incontro dei ministri degli Esteri europei del 22 febbraio, dal quale si potrebbe rispondere con severità sia alle violazioni dei diritti contro l’attivista, sia agli arresti di diversi manifestanti, sia alla decisione di Mosca di espellere tre diplomatici di Germania, Svezia e Polonia accusati di collusioni con le proteste.

Il commento di Lavrov è stato duro, ha mandato un messaggio forte, tanto che il portavoce del Cremlino, Dmitri Peskov, è dovuto in parte correre ai ripari spiegando che le parole del ministro erano “estrapolate” e dunque sostanzialmente fraintese: Lavrov voleva dire che sebbene la Russia vuole migliorare le relazioni con l’Ue si sta comunque preparando al peggio – questa la linea definitiva del governo russo, che ha accusato i media internazionali di aver ripreso la dichiarazione solo per fare “titoli clamorosi”.

Sulla situazione pesa anche il viaggio a Mosca dell’Alto rappresentante Ue Josep Borrel, che qualche giorno fa ha provato un tentativo estremo di apertura – secondo il punto di vista di Nona Mikhelidze (Iai), e non solo, mal riuscito – ma ha trovato un muro. Lo stesso alto funzionario europeo al rientro ha pesantemente criticato il comportamento russo: è stato messo in imbarazzo e gli è stata dimostrata – parole sue – “la fine delle illusioni” sulla Russia.

Ossia Mosca ha fatto capire che nonostante la buona volontà degli europei (anche legata agli interessi mutui), la Mosca di Vladimir Putin non è pronta – o non vuole – il dialogo con Bruxelles. La posizione presa da Lavrov durante la riunione con l’europeo, così come le dichiarazioni sulle sanzioni, è parte di una tattica retorica: Peskov che cerca di riequilibrare le cose è un altro elemento delle stessa tattica. Postura più che sostanza, anche e soprattutto a uso interno: e forse le stesse dinamiche sono in atto anche a Bruxelles.

“Il governo russo sta percorrendo una preoccupante rotta autoritaria”, ha detto Borrell in un discorso molto severo davanti al Parlamento europeo: “Sembra che non ci sia quasi spazio per lo sviluppo di alternative democratiche […] sono spietati nel soffocare tali tentativi”, e in effetti in questi giorni centinaia di attivisti pro-Navalny, o meglio dire anti-Putin, sono stati arrestati – formalmente per aver violato regole per evitare gli assembramenti connesse al Covid, sfruttate in Russia come altrove anche da pretesto per inasprire il controllo delle opposizioni, che per altro si sta via vai sempre più concretizzando in leggi.

Il presidente del Consiglio europeo, Charles Michel, fatto eco alle considerazioni di Borrell annunciando che, dopo anni di apertura, è ora che l’Ue rafforzi la sua posizione nei confronti di Mosca. Quello che viene ritenuto più probabile è che alla prossima riunione dei leader europei siano emesse nuove sanzioni individuali contro persone collegate a Putin, su cui Francia e Germania hanno già espresso parere favorevole. Il tema è complesso però, perché non c’è una visione univoca in Ue, e per esempio Parigi e Berlino, tengono con Mosca un atteggiamento ambiguo.

I francesi cercano da tempo un riallaccio; i tedeschi sanno che la retorica può essere utile per coprire interessi particolari come quello sul Nord Stream 2, opera che Berlino non sembra intenzionata a mettere in discussione pressando sul differenziare il business dalle questioni politiche (come il rispetto dei diritti). Sull’opera però si snoda un’attività politica anche americana, come recentemente reso chiaro (qualora ce ne fosse ulteriore bisogno) sull’EU Observer un funzionario del dipartimento di Stato che ha avvisato dei rischi per qualsiasi azienda che rilasci certificati di sicurezza per il gasdotto.

La questione Europa-Russia assume a maggiore peso adesso che alla Casa Bianca c’è Joe Biden, che ragià chiarito direttamente a Putin di non essere per niente intenzionato ad accettare le violazioni democratiche di Mosca, tornata in cima alla lista dei cattivi per Washington. Ma quanto può fare di più l’Unione europea?

“Le sanzioni da quando sono state inventate non hanno mai avuto una grande efficacia, perché rischiano di danneggiare le fasce deboli e non alterano gli equilibri di potere interni agli stati sanzionati”, risponde a Formiche.net Antonello Folco Biagini, storico, accademico italiano esperto nelle Relazioni internazionali, rettore dell’Unitelma Sapienza.

“È vero però – continua il docente – che sul piano simbolico le sanzioni sono un messaggio, perché è uno dei pochi strumenti duri della politica estera attuale. Uno di quelli utilizzabili e per questo l’Ue lo utilizza. Spesso però si decidono sanzioni più che altro per dare un segnale alle opinioni pubbliche di chi le attua, perché poi i grandi affari sembrano comunque rimanere attivi”.

Per Biagini il cosa fare con Mosca trova risposta nel dialogo, sebbene ammette che tutto è complicato e attualmente su una sfera ideale visto anche i risultati della visita di Borrell.

Altrimenti la strada dovrebbe essere diversa secondo il professore della Sapienza, e dovrebbe andare a interrompere realmente quelle relazioni di valore tra Ue e Russia. Una di queste è appunto l’approvvigionamento di gas, che invece con il raddoppiamento della pipeline Nord Stream vedrà un incremento.

Il progetto Nord Stream 2 da 11 miliardi di dollari, guidato dalla compagnia energetica statale russa Gazprom, raddoppierebbe la capacità di un gasdotto sottomarino esistente che bypassa l’Ucraina e priva Kiev delle tasse di transito.

“Piuttosto che sanzionare a quel punto bisognerebbe avere il coraggio di dare dei tagli netti che possano realmente influire su Mosca e sul potere accentrato del Cremlino. Ma quello che c’è da chiedersi è: può l’Unione europea mettersi in questa situazione? Si può passare alla fase successiva della sanzioni, ossia alla guerra commerciale? Dobbiamo chiedercelo anche dal punto vista tecnico e pratico: l’Europa è dipendente dagli approvvigionamenti energetici e di materie prime dalla Russia, come farebbe se tagliasse i ponti?”.

Val la pena ricordare quindi che la Russia controlla un terzo del mercato europeo del gas.

Stracciato unilateralmente il trattato internazionale, impedito il commercio estero mettendo in crisi l'intera economia iraniana e il benessere complessivo di un popolo si lamentano, il vittimismo è un arma politica potente, che l'Iran a sua volta non rispetti più un trattato che è divenuto carta straccia. Si è perso ogni logica per essere fedeli all'ideologia del padrone

Iran produce uranio metallico violando gli accordi

La dichiarazione dell’AIEA dimostra che l’Iran ha violato l’accordo sul nucleare stipulato nel 2015

-11 Febbraio 2021


Secondo un rapporto dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (AIEA), l’Iran produce uranio metallico da sabato scorso. A riportare la notizia è il Wall Street Journal, citando un rapporto confidenziale delle Nazioni Unite. Questa iniziativa della repubblica islamica violerebbe gli accordi sul nucleare stipulati nel 2015.

L’Iran produce uranio metallico?

Secondo quanto riportato dal Wall Street Journal, l’Iran avrebbe prodotto uranio metallico in piccole quantità. Il Journal cita un rapporto confidenziale dell’ONU. La repubblica islamica avrebbe iniziato l’attività di produzione lo scorso sabato, presso una struttura a Isfahan. L’uranio metallico potrebbe venire utilizzato per formare il nucleo di un’arma nucleare, in tal caso il composto dovrebbe essere ulteriormente arricchito. Queste procedure da parte dell’Iran violano l’accordo sul nucleare stipulato nel 2015. L’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (AIEA) ha dichiarato in un rapporto che l’Iran aveva detto di aver iniziato lo sviluppo di apparecchiature per la produzione di uranio metallico a Isfahan.

L’Iran ha già iniziato a produrre uranio al +20%

Un portavoce dell’AIEA ha confermato al WSJ che la produzione di uranio metallico è parte di un lavoro di ricerca iraniano. La repubblica islamica ha recentemente ripreso l’arricchimento di uranio del 20%. Lo scorso anno il parlamento di Teheran aveva approvato una legge per la ripresa dell’arricchimento. Questo avveniva dopo che il principale scienziato iraniano moriva assassinato in un attacco “per opera di Israele” secondo le autorità iraniane.

La situazione alimenterà le tensioni USA-Iran

Questa situazione porterà sicuramente ad alimentare nuove tensioni fra Iran e USA. il ministro degli Esteri iraniano ha affermato che gli USA devono compiere i primi passi per ripristinare l‘accordo nucleare dell’amministrazione Obama, accordo che l’amministrazione ha abbandonato nel 2018. I funzionari di Biden hanno garantito la possibilità di tornare all’accordo con Teheran quando il Paese rispetterà l’accordo. L’AIEA aveva affermato a novembre che l’Iran ha accumulato 12 volte le scorte di uranio consentite dall’accordo del 2015.