L'albero della storia è sempre verde

L'albero della storia è sempre verde

"Teniamo ben ferma la comprensione del fatto che, di regola, le classi dominanti vincono sempre perché sempre in possesso della comprensione della totalità concettuale della riproduzione sociale, e le classi dominate perdono sempre per la loro stupidità strategica, dovuta all’impossibilità materiale di accedere a questa comprensione intellettuale. Nella storia universale comparata non vi sono assolutamente eccezioni. La prima e l’unica eccezione è il 1917 russo. Per questo, sul piano storico-mondiale, Lenin è molto più grande di Marx. Marx è soltanto il coronamento del grande pensiero idealistico ed umanistico tedesco, ed il fondatore del metodo della comprensione della storia attraverso i modi di produzione. Ma Lenin è molto di più. Lenin è il primo esempio storico in assoluto in cui le classi dominate, sia pure purtroppo soltanto per pochi decenni, hanno potuto vincere contro le classi dominanti. Bisogna dunque studiare con attenzione sia le ragioni della vittoria che le ragioni della sconfitta. Ma esse stanno in un solo complesso di problemi, la natura del partito comunista ed il suo rovesciamento posteriore classistico, individualistico e soprattutto anti- comunitario" Costanzo Preve da "Il modo di produzione comunitario. Il problema del comunismo rimesso sui piedi"

sabato 27 febbraio 2021

27 febbraio 2021 - NEWS DELLA SETTIMANA (19-26 feb. 2021)

27 febbraio 2021 - Convegno costituente - Sessione Pomeridiana

Verso la costituzione del Partito

QUESTO È IL MOMENTO di Liberiamo l’Italia

FEB 25, 2021di SOLLEVAZIONEin DOCUMENTI


Il documento approvato dalla Direzione nazionale di Liberiamo l’Italia il 22 febbraio 2021. Qui il .pdf

QUESTO È IL MOMENTO

Per un Partito unificato dei sinceri sovranisti

– Liberiamo l’Italia, fondatasi nel dicembre 2019, si diede due scopi principali: agevolare la costruzione di un ampio fronte antiliberista per la conquista della piena sovranità popolare e nazionale e, parallelamente, aprire la strada alla nascita di un Partito unitario del patriottismo costituzionale e democratico.

– Per quanto concerne la costruzione del fronte ampio un piccolo passo avanti è stato compiuto con la Marcia della Liberazione. Nell’annus horribilis segnato dallo Stato d’emergenza permanente indotto dal terrorismo pandemico, mentre alcuni sono piombati in uno stato di catalessi, la Marcia è stato il solo organismo unitario capace di promuovere mobilitazioni regolari, tra cui la grande manifestazione del 10 ottobre 2020.

– Malgrado la gravità della situazione imponesse alle minoranze sovraniste di farla finita con la cura dei propri orticelli, nessun progresso reale è stato compiuto sul terreno della fondazione di un unico soggetto politico.

– Proprio per sbloccare l’impasse abbiamo inizialmente aderito al tentativo di Italexit con Paragone. Purtroppo in Italexit prevalse un orientamento settario di autosufficienza: così che il gruppo divenne un altro ostacolo sulla via del dialogo e dell’unità.

– Per questo nel dicembre LiT avviò un tavolo di confronto con le due organizzazioni più importanti del campo del patriottismo democratico: Vox Italia e Riconquistare l’Italia (Fsi). Al terzo incontro proponemmo di sottoscrivere una Dichiarazione Congiunta che si concludeva con un appello all’azione comune e un impegno ad “avviare un processo costituente per dare vita ad un Partito unificato dei sovranisti costituzionali”.

– Mentre Riconquistare l’Italia (Fsi) respinse la proposta, la delegazione di Vox Italia dichiarò il suo assenso.

– Successivamente Diego Fusaro, dalla tribuna di Vox Italia Tv, rivolgeva il 18 febbraio un appello a formare un nuovo soggetto politico rivolgendosi, tra gli altri, proprio a LiT. Contestualmente rendeva noto che Vox Italia avrebbe svolto il 27 febbraio una conferenza nazionale con la quale, oltre ad adottare un nuovo nome ed uno statuto definitivo, farà ufficialmente sua la proposta di aprire un processo costituente per un nuovo Partito unificato.

– Preso atto di questa positiva novità LiT dichiara sin d’ora la propria disponibilità a prendere parte a questo processo costituente e a questo scopo invierà una sua delegazione alla conferenza del 27 febbraio.

– Affinché alle parole seguano i fatti LiT auspica che nasca quanto prima un autorevole comitato promotore unitario composto dai rispettivi gruppi dirigenti per indirizzare e stimolare il processo costituente del nuovo Partito. Questo comitato promotore dovrà quindi essere affiancato da comitati unitari regionali.

DIFESA E ATTUAZIONE DELLA COSTITUZIONE DEL 1948!

NO AL NEOLIBERISMO E ALLA MONDIALIZZAZIONE!

USCITA DALL’EURO E DALLA UE!

RICONQUISTA DELLA PIENA SOVRANITÀ POPOLARE, DEMOCRATICA E NAZIONALE!

BASTA CONFINAMENTO E STATO D’EMERGENZA!

La Direzione nazionale di Liberiamo l’Italia

22 febbraio 2021


Mantenere a denti stretti la propria autonomia interiore, agendo affinché la decadenza diventi rovina definitiva. Sulle macerie, qualcuno ricostruirà.

IL BUON SOLDATO SVEJK

Maurizio Blondet 27 Febbraio 2021 
di Roberto PECCHIOLI

La matematica è politicamente scorretta e anche un po’ razzista: due più due fa sempre quattro e i teoremi non possono essere assoggettati alla teoria critica. Gli studenti di un liceo artistico di Roma potranno scegliere il loro nome a seconda del genere /orientamento sessuale nel quale “si riconoscono”. L’Onu sollecita la schedatura di chi non è accordo con l’agenda LGBT. La Coca Cola tiene corsi ai dipendenti affinché diventino “meno bianchi”. La soluzione di tutto è un piano vaccinale. Il nichilismo dell’Occidente raggiunge ogni giorno nuove vette, dando ragione a Emil Cioran che prevedeva una lunghissima, penosa e alla fine ridicola agonia della civiltà. Non si vedono reazioni significative: l’organismo è troppo malato per ribellarsi. Chiede anzi dosi sempre maggiori di follia.

Che fare per mantenersi in piedi tra le rovine? Nelle aree in cui l’Impero Britannico dispiegava il suo apparato repressivo, si diffuse una forma particolarissima di dissenso che i dominatori definivano con fastidio “insolenza muta”, un disprezzo espresso con il silenzio, fatto di sguardi, passività, indifferenza ostentata. Non può funzionare, qui e adesso: presuppone l’esistenza di un corpo sano, di una tensione morale verso una ribellione che delegittima il potere. Da noi, l’infezione civile avanza più del virus. Si può solo mantenere a denti stretti la propria autonomia interiore, agendo affinché la decadenza diventi rovina definitiva. Sulle macerie, qualcuno ricostruirà.

Come sapeva Hegel, quando la filosofia dipinge il suo grigio su grigio, non si lascia ringiovanire, ma solo conoscere; la nottola di Minerva inizia il suo volo soltanto sul far del crepuscolo. Il ritardo accumulato è troppo, non c’è rimedio. Ci siamo convinti che l’unica soluzione alla crisi civile, morale, antropologica ed esistenziale dell’Occidente terminale sia abbreviare l’agonia fingendo obbedienza, cieca, pronta, assoluta. Portare alle estreme conseguenze le follie del potere, attenersi alle regole, alle infinite sfumature del “multi”, del “poli”, del “trans” imperante, che svelano il nulla in cui siamo avvolti ed è forse la modalità postmoderna di “cavalcare la tigre”.

Il detto orientale Cavalcare la tigre significa tentare di non farsi travolgere e annientare da quanto non si può controllare, come la corsa della tigre. Comporta l’assumere anche i processi più estremi e spesso irreversibili per farli agire nel senso di una liberazione, anziché – come per la grande maggioranza dei nostri contemporanei – in quello di una distruzione spirituale. Questo spiegava Julius Evola, muovendo dalla più radicale opposizione a tutto ciò che è residuale civiltà e cultura “moderna”, cercando un senso dell’esistenza al di là del punto-zero dei valori, del nichilismo, del mondo dove Dio è morto.

Negli anni della prima guerra mondiale, la rovina degli imperi ebbe straordinari testimoni: pensiamo all’Uomo senza qualità di Robert Musil e al Mondo di ieri di Stefan Zweig. Tuttavia, a livello popolare, svetta un’opera che parve minore, figlia di uno spirito popolano e irriverente, ma che da un secolo diverte e fa pensare, Il buon soldato Svejk di Jaroslav Hasek, un Rabelais boemo morto quarantenne lasciando incompiuta la sua opera. Straordinario mistificatore, Hasek, lucido testimone della rovina incombente dell’impero asburgico, giunse a fondare un fantomatico “Partito del progresso moderato entro i limiti della legge “, col quale si presentò alle elezioni praghesi al solo scopo di prendersi gioco dei partiti cosiddetti seri; collaborò con riviste di opposte ideologie arrivando a polemizzare con lo pseudonimo di sé stesso.

Per sopravvivere nel manicomio-Occidente, anticipandone la fine, non resta che comportarsi come il suo personaggio, il buon soldato Sveik che non sa, non capisce e si adegua, o finge di farlo. Era un omino capitato in eventi più grandi di lui – la guerra in cui va volontario nonostante fosse riformato per limiti mentali- la cui scoperta è che basta eseguire gli ordini alla lettera perché tutto vada a rotoli. Temo che non ci resti altro che l’obbedienza cieca, pronta e assoluta come forma estrema di dissidenza nei confronti di un potere tanto forte e pervasivo da diventare dispositivo.

Al sabato, nel mio quartiere c’è il mercato. Ben sei vigili urbani sono arrivati con un metro a rotella con cui misuravano la distanza tra le persone, multando inflessibilmente chi passeggiava a meno di un metro dal vicino. Con altrettanta determinazione, apostrofavano chi non indossava correttamente la mascherina d’ordinanza, sguardo duro e il libretto delle multe in mano. Solo uno sembrava imbarazzato nello svolgere quel servizio: tutti gli altri erano felici di esibire il loro misero potere. Aveva ragione Hasek: “l’apparato giuridico era veramente magnifico quale non può esistere altro che in uno stato alla vigilia della sua decadenza totale, politica, economica ed etica. Lo splendore della potenza e della gloria trascorse veniva conservato a forza di tribunali, polizia, gendarmi e d’una banda prezzolata di delatori. “

Non resta che comportarsi come il buon soldato Svejk nella speranza di costituire il granello di polvere che blocca l’ingranaggio. La difesa del povero è l’obbedienza, la finzione di credere in quel che è costretto a fare. Il primo gesto del buon soldato Svejk fu quello di prestar fede fermamente al potere imperial-regio degli Asburgo; il mio sarà quello di cambiare religione. Da oggi appartengo alla chiesa universale scientifica e tecnica. Scrive Giorgio Agamben che se chiamiamo religione ciò in cui gli uomini credono di credere, certamente la scienza è oggi una religione. I suoi sacerdoti sono scienziati ed esperti: al loro magistero credo e ubbidisco. Pazienza se gli uni contraddicono gli altri, come capita alla veneranda casta dei virologi, gli oracoli di Delfi postmoderni.

C’è la soluzione, in perfetto stile Svejk: crederò a chi sui social media ha il maggior numero di seguaci (i followers) e di “mi piace”. In caso di parità sceglierò chi non è un maschio bianco, a meno che non sia omosessuale, transessuale o almeno bisessuale. Credo ciecamente alla democrazia quantitativa, in cui “uno vale uno”, come assicura un comico concittadino. Seguirò tutti i consigli degli esperti, specie per quanto riguarda la salute e la dieta. Mangerò insetti, se questo prescrive l’ecologia, o carne artificiale, per far contento Bill Gates. La carne rossa, solo il venerdì, giusto per fare dispetto a qualche superstite prete all’antica.

Poiché i problemi della vita devono trasformarsi in “opportunità”, devo farmi trovare pronto a tutto. Credo infatti nella “resilienza”, il nuovo vocabolo passepartout pronunciato dieci volte dal professor Draghi nel suo discorso d’insediamento. Significa, sostanzialmente, sopportare sempre nuovi pesi, ma se è parola del signore (inteso come potere che comanda) ci credo e mi munisco di un capace zaino. Lo caricherò sulle spalle, riempito con i quattro codici, la raccolta dei DPCM governativi e naturalmente un metro per contestare ovunque il rispetto delle sacre distanze. Come Garibaldi, obbedisco, quindi mi attacco al telefono per esigere la prenotazione della vaccinazione anti Covid per fasce di età, mandando in tilt il centralino “per non perdere la priorità acquisita”.

Vivere è realizzare “performance”, quindi dovrò avere un aiutino; all’inizio basteranno gli psicofarmaci consigliati da Big Pharma (credo fortemente che siano benefattori dell’umanità e leggo avidamente tutti i “bugiardini”, attenendomi scrupolosamente alle prescrizioni). In seguito, per essere all’altezza della situazione, sarò forse costretto a consumare certe “sostanze” (obbedisco alla tacita regola di non chiamarle droghe), ma che importa? Chi non ce la fa a reggere il ritmo, è colpevole: io ci credo e ubbidisco. Denuncerò senza pietà chiunque non usi il linguaggio inclusivo e, ad esempio, osi chiamare sindaco un primo cittadino donna.

Non mi farò sorprendere neppure dalle disposizioni della Coca Cola: bisogna diventare “meno bianchi”. Seguirò i corsi corrispondenti, e, ad ogni buon conto, comincerò a frequentare i centri di abbronzatura artificiale. Pazienza se patirò qualche ustione: è per una buona causa. Leggerò tutti i discorsi e le dichiarazioni di Greta Thunberg, sarò equo, solidale e sostenibile. Qualcuno mi spiegherà che cosa significa, ma intanto voglio pagare di più i beni provenienti dal Terzo Mondo, come l’” esperto” governativo Arcuri che ha acquistato uguali mascherine a un prezzo assai più alto della regione Marche. Lotterò come un leone – da tastiera, s’intende – contro il cambiamento climatico che, dicono gli esperti, dipende da uomini cattivi, gli sfruttatori delle risorse naturali. I buoni di oggi sono i cattivi di ieri, ma io, obbediente alla parola dei salvatori (del pianeta) credo a ciò che affermano oggi con la stessa lena ed entusiasmo con cui prestavo loro fede ieri.

In particolare, diventerò intransigente in materia di correttezza politica. Metterò nello zaino, sempre più pesante e bisognoso della mia resilienza, un manuale delle parole giuste e di quelle sbagliate. Denuncerò alla psicopolizia chi dice “negro” in mia presenza e chi chiama bidello un impiegato scolastico delle carriere A.T.A (ausiliarie, tecniche e amministrative). Odierò ogni giorno di più i “discorsi di odio “(la distinzione è elementare: l’odio è quello altrui, la nostra è santa indignazione) e combatterò h.24 contro ogni discriminazione. Qualche volta mi sentirò donna, pretenderò di essere chiamato Cinzia e di usare la toilette femminile, altre volte sarò neutro e lotterò affinché oltre al genere femminile e maschile, la reazionaria grammatica italiana preveda anche il neutro. Darò il buongiorno a tutti, tutte e anche a tutt*, con l’asterisco, per includere ogni identità.

Avrò in uggia tutte le bandiere, simboli di divisione, suprematismo, muri e frontiere, adottando solo quella arcobaleno. Obbedirò alla regola per la quale non esistono confini e mi dichiarerò, dinanzi a qualsiasi autorità, cittadino del mondo. Amerò appassionatamente ogni straniero, specie se clandestino- parola vietata che per obbedienza non pronuncerò mai più- crederò in tutti i messaggi pubblicitari e ad ogni comunicazione del governo; pagherò con carta di credito anche il caffè e farò tutto, ma proprio tutto, rigorosamente online. Diventerò smart, cioè furbo, come il lavoro da casa e la didattica a distanza, innovazioni di cui sentivo l’impellente bisogno.

Non possiederò più nulla e sarò felice: devo ubbidire anche al Forum di Davos. I miei idoli saranno le “regole” e la “legalità”. Se l’imperial-regio governo mondiale le ha stabilite, sono certamente buone e giuste. Del resto, ricordo vagamente dalla mia vita precedente un principio di Hobbes: l’autorità, non la verità, fa la legge. Ma la verità, poi, è l’utile del più forte: lo diceva Trasimaco in un dialogo di Platone. Dunque, meglio ubbidire e credere nella verità ufficiale, esonerati dal pensare. A quello badano i “superiori”, per il nostro bene, come nella guerra del buon soldato Svejk.

Oggi stesso scaricherò l’app Immuni per l’autotracciamento: mi terrà in salute. Verso le diciotto, ispezionerò i bar per verificarne le chiusura, pronto a svolgere il servizio civile della delazione contro chi ha la saracinesca alzata alle 18.05. Del resto, se il potere ha decretato il coprifuoco, è chiaro che il virus attacca nelle ore notturne. Nel tempo libero, andrò nei pressi dei confini comunali, provinciali e regionali per denunciare i trasgressori dei divieti di spostamento.

Chiederò agli amici notizie della salute dei loro genitori 1 e 2. Compulserò i libri su cui siamo cresciuti per riconoscerne la carica eversiva nemica dell’uguaglianza e proporne il divieto. Dante era omofobo, sessista, integralista cattolico e condannava all’inferno secondo una morale superata e violenta. Pitagora enunciava teoremi la cui validità è imposta dall’autoritarismo bianco, Shakespeare era razzista, Aristotele schiavista e perfino Gandhi, icona della non violenza, preferiva gli indù agli africani: tutti espulsi, un cartellino rosso grande come la vecchia civiltà morente.

Si scherza, ma non troppo: così va il pezzo di mondo nel quale i pazzi guidano i ciechi, metafora sospetta in quanto enunciata da Shakespeare. Meglio “le persone con disagio mentale causato dall’ingiustizia sociale conducono i non vedenti.” Vent’anni fa, il rimedio sarebbe stato una risata. Dieci, una decisa reazione civile e culturale. Siamo rimasti a guardare e adesso siamo in trappola. Non resta che cavalcare la tigre e portare alle estreme conseguenze la follia collettiva, obbedendole per mostrarne l’assurdità, come il buon soldato Svejk agli ordini di militari ottusi, burocrati corrotti, pilastri arroganti ma cadenti di un impero al tramonto. In tempi di biopotere e di sorveglianza, un’apparente sottomissione ha una carica di ostilità maggiore di un’aperta aggressività

Silenzio tombale è la spia della paura che si può fare a meno della intermediazione

Finanza decentralizzata: la Fed ha paura?

27 Febbraio 2021 - 13:00

Tutto off-line. Per alcune ore. L’intero network interbancario della Federal Reserve, il 24 febbraio è collassato. E Bitcoin, non a caso, in contemporanea ha riconquistato quota 50.000. Intanto, pochi giorni prima, nasceva il primo fondo dedicato alla cosiddetta DeFi, la finanza decentralizzata. E sul tema è calato il silenzio.


Quella del 24 febbraio 2021 è una data che, a suo modo, potrebbe ritagliarsi il suo piccolo capitolo nella storia.

Apparentemente, quel giorno non è accaduto nulla di importante. Le cronache di mercato, infatti, lo ricordano unicamente per la scelta obbligata di Jerome Powell di fornire una seconda, pubblica rassicurazione nel corso della sua audizione al Senato, cercando così inutilmente di bloccare un trend di crescita dei tassi che ricorda il mitologico mostro dei videogame evocato da Giulio Tremonti. Invece, quel giorno è accaduto molto.

Quel giorno e per alcune ore, il mondo ha vissuto un inconsapevole spoiler di cosa potrebbe accadere senza il potere assoluto dell’intermediazione del sistema.

L’intero network di pagamento interbancario della Fed è andato infatti in crash: buio totale. Incluso il cosiddetto FedACH, il vitale ganglo di clearing house automatizzata e quello di trasferimento Fedwire Funds. Questi grafici

Federal Reserve System

Federal Reserve System

mettono in prospettiva la magnitudo di quel black out, sia a livello di controvalore che di operatività.

Il solo sistema ACH processa lotti di trasferimenti di fondi elettronicamente e facenti capo a voci esiziali come gli stipendi pubblici, i benefit del sistema di welfare, le pensioni, i refunds fiscali, i pagamenti corporate verso fornitori o quelli relativi a utenze di utilities.

Praticamente, tutto. Non a caso, la media giornaliera di transazioni nel 2019 è stata di 62,1 milioni con un valore medio di 1.802 dollari. In breve, il 24 febbraio l’intera rete che processa transazioni in America è andata off-line.

Sgradevole. E non solo a livello pratico e operativo. Perché soltanto pochi giorni prima, la segretario al Tesoro, Janet Yellen, era tornata ad arringare la folla contro l’inefficienza di Bitcoin come sistema di pagamento, in quella che è persa a molti la classica operazione del rigirare il coltello nella piaga di valutazioni della criptovalute che in quel momento stavano precipitando.

Questo grafico

Bloomberg/Zerohedge

mostra quale sia stata la reazione proprio di Bitcoin alle notizie provenienti dalla Fed rispetto al crash del sistema: di fatto, quel movimento parlava una lingua molto chiara e ben comprensibile a tutti.

Prezzando chiaramente l’esistenza di un’alternativa a quel sistema appena collassato, un metodo gratuito e in Rete per muovere denaro. Disintermediato. La notizia di quanto accaduto, non a caso, è passata sotto silenzio sui media. Finanziari e non. E questo nonostante i controvalori in gioco, più e meno simbolici. E anche in questo caso, c’è una ragione.

Perché poco prima del collasso così imbarazzante per quello status quo che passa le giornate a demonizzare Bitcoin (salvo prodigarsi, almeno in via ufficiosa, nel lancio della propria valuta digitale), un’altra notizia aveva necessitato del calare grave di una coltre di silenzio, una vera e propria conventio ad excludendum al fine di evitare pericolosi entusiasmi collettivi.

Il 21 febbraio, infatti, veniva lanciato ufficialmente il Bitwise DeFi Crypto Index Fund, il primo fondo che offre esposizione ad aziende e securities coinvolte nella cosiddetta finanza decentralizzata o DeFi. Tradotto, prestiti di denaro fra controparti dirette senza il coinvolgimento di un terzo soggetto. Addio intermediazione, appunto. E questo grafico

Defi Pulse

mostra i volumi che già si stanno muovendo in quel contesto, di fatto prodromico all’istituzionalizzazione finale del concetto stesso di blockchain. La minaccia assoluta al sistema. Anche perché, ad oggi, il concetto di DeFi fa ancora riferimento unicamente ai cosiddetti flash loans, quindi al nuovo servizio che garantisce prestiti velocissimi e privi di collaterale, utilizzabili in controvalore per qualsiasi tipo di attività, salvo essere ripagati con altrettanta velocità.

Spesso, questione di secondi. Ad oggi, questo sistema è noto e utilizzato soprattutto per l’arbitraggio fra prezzi di valute sulle crypto exchanges ma ciò che potenzialmente rende questo servizio innovativo è il fatto che questi prestiti sono impacchettati nel medesimo blocco di transazioni che viene processato dal libro mastro digitale di Ethereum. Ed eseguito simultaneamente. Di fatto, la transazione viene sottoposta «al vaglio» del network, ottenendo di fatto fondi in via temporanea. Ma se il trade non ha carattere di profittabilità, il creditore può rigettare la transazione: di fatto, fino a quando la blockchain è coinvolta, i fondi sono garantiti. Unica conditio sine qua non, per ora. il pagamento di una commissione operativa.

Ecco come Nikola Jankovic del loan provider DeFi Saver, descrive con un’immagine il potenziale di questo nuovo sistema: In un certo senso, i flash loans fanno di ognuno di noi una potenziale «balena». Ancora più esplicito al riguardo, Stani Kulechov, CeO di Aave’s CEO, sentenzia: Alla fine, i flash loans saranno destinati a essere ovunque.

Disintermediazione totale. E se Aave, pur essendo leader del mercato, da inizio anno ad oggi ha garantito flash loans solo per un controvalore di 200 milioni di dollari al netto di una capacità di finanziamento di 3,9 miliardi, è il potenziale di questo mercato a far paura.

Per quanto questa logica, quasi da money for nothing (con gli ovvi rischi che questo implica, ovviamente), resterà confinata nell’arbitraggio di prezzo fra criptovalute? E se i cantori di questa nuova frontiera della rivoluzione digitale parlano addirittura di passo finale verso la democratizzazione reale della finanza, più interessante - e lucidamente distaccato - appare il punto di vista di Jack Purdy, analista presso Messari Research:

I flash loans hanno un potenziale enorme a livello di aumento dell’efficienza di mercati, visto che la struttura attuale di sistemi alternativi ha già abbattuto gli alti costi di capitale per lo sfruttamento delle possibilità di arbitraggio. Quando - potenzialmente - tutti al mondo potrà eseguire i propri trades attraverso i mercati più disparati, questo aiuterà i prezzi relativi al cripto a convergere, comprimendo gli spreads e riducendo le inefficienze. Bellissimo. Almeno sulla carta.

Ma banche e clearing houses, la penseranno allo stesso modo? Meglio non domandarselo. Il silenzio tombale che ha accompagnato il crash del sistema di pagamenti della Fed ha parlato da solo. E in maniera molto esplicita.

Non c'è la raccontano giusta perchè se c'è emergenza sanitaria gli stati hanno il diritto di rifornirsi e usare vaccini anche non certificati dai burocrati di Euroimbecilandia nascosti nell'EMA. Il solito Crisanti viene usato in questo caso, per ricordarci le regole sovranazionali a prescindere dall'efficacia dei vaccini russi e cinesi. L'emergenza elide le regole, lavorare al Pronto soccorso per capire

Perché l’Ungheria ricorre ai vaccini russo e cinese

27 febbraio 2021


Dibattito tra esperti sulla decisione dell’Ungheria di usare vaccini russi e cinesi contro Covid. Che cosa è emerso dalla trasmissione Piazza Pulita su La7

In Ungheria è iniziata la somministrazione del vaccino russo Sputnik V e del cinese prodotto da Sinopharm. Il Paese, che partecipa insieme agli altri Stati membri alla distribuzione di vaccini di Moderna, Astra Zeneca e Pfizer, è stato il primo in Europa ad acquistare lo Sputnik V e ha ordinato anche cinque milioni di dosi da Pechino. Per una popolazione di 10 milioni di persone è una quantità ingente. Al momento l’Ungheria ha vaccinato 1,37% della popolazione. Nelle ultime settimane il numero di infezioni e di pazienti con coronavirus negli ospedali è tornato a salire, facendo temere per l’arrivo di una terza ondata del virus.

Lo Sputnik V pronto al decollo in Ungheria

Szlavik Janos, infettivologo South-Pest Hospital Center di Budapest, intervistato dalla trasmissione di La7 Piazza Pulita, rassicura circa l’efficacia del vaccino russo. “Devo ricordare che in caso di in caso di emergenza sanitaria tutti gli Stati europei hanno il diritto di approvvigionarsi e usare anche vaccini non certificati – dice nel corso della trasmissione di Corrado Formigli -. Lo Sputnik è un vaccino molto moderno e funziona in maniera molto simile al vaccino Astra Zeneca”. Nei mesi passati Budapest si è spesso scontrata con Bruxelles criticando la lentezza nell’approvazione dei vaccini e nell’approvvigionamento delle dosi necessarie. La presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen ha detto che non vi sono dati certi su vaccino russo e cinese. Sul punto dissente il prof. Janos. “L’efficacia è comprovata dai documenti forniti dagli uffici russi e la prestigiosa rivista inglese Lancet gli attribuisce un’efficacia del 91,6% – continua il professore ungherese -. Inoltre Sputnik è attualmente in uso in altri Paesi ed è somministrato a milioni di persone. Questo già basta come prova della sua efficacia e affidabilità”.Il vaccino cinese: affidabilità di un vaccino tradizionale

Il Presidente ungherese Viktor Orban ha dichiarato che il vaccino cinese è il suo preferito tra quelli sul mercato e che spera di poter ricevere presto la prima dose, forse già la prossima settimana. A metà febbraio l’Ungheria ha ricevuto una prima fornitura da 575mila dosi di vaccino cinese. Per le regole europee l’Ungheria non potrà distribuire il vaccino di Sinopharm in altri paesi dell’Unione. “Il vaccino cinese Sinopharm comprato dall’Ungheria è prodotto con una tecnologia conosciuta tradizione – ha concluso il prof. Janos -. Prima di introdurlo sul mercato degli esperti cinesi hanno controllato il procedimento e lo hanno trovato corretto, quindi il vaccino cinese possiede già le autorizzazioni necessarie per essere somministrato nel nostro Paese”. Finora EMA ha approvato solo vaccini sviluppati da aziende occidentali, le uniche che hanno accettato di condividere dati e risultati delle proprie fasi di sperimentazione con le autorità europee.

I dubbi del professor Andrea Crisanti

Il professor Andrea Crisanti, ospite della trasmissione Piazza Pulita, è scettico sull’utilizzo di vaccini non approvati dall’EMA. “Io penso che in una situazione come questa se i vaccini funzionano non dovrebbe esserci alcuna ragione per non utilizzarli – dice l’ordinario dell’Università di Padova -. Rimane comunque un problema legato all’autorizzazione. Questi vaccini sono stati introdotti dopo aver fatto dei trial e verificati con dei processi di qualità che sono molto diversi da quelli degli Stati Uniti e della Comunità Europea. Quindi abbiamo un problema di trasferibilità totale del processo e questo, teoricamente, è un problema dei produttori dei vaccini che dovrebbero presentare un dossier che sia giudicabile dall’EMA e dall’FDA”. Il nodo, quindi, non è l’efficacia o meno dei vaccini russo e cinese, ma le autorizzazioni alla distribuzione. “Noi abbiamo un sistema che ci tutela – conclude il prof. Crisanti -. Se i produttori russi e cinesi non lo fanno, questi vaccini non possono essere introdotti sul mercato, il problema non è se funzionino o meno”.

Notizie da Euroimbecilandia - Bastardi in arrivo. Si sono svegliati e ora cominciano a rendere credibili le loro parole dichiarando che il Recovery Fund ci obbliga a spendere in opere di dubbia utilità, caricandoci di un debito che dovremo comunque rimborsare, con l'aggiunta di burocrazia, condizioni e controlli. Ha iniziato lo stregone maledetto a seguire lo Zingales, il Boeri, il Perotti

Next Generation, come utilizzare le risorse?

27 febbraio 2021

L’analisi di Giuseppe Liturri 

Il Mes è morto, Marx pure, e nemmeno il Recovery Fund si sente molto bene.

Abusiamo anche noi di questa citazione, modificandola leggermente, per aiutare il lettore nella comprensione degli ultimi eventi e prospettargli la loro probabile futura evoluzione.

Nei giorni scorsi, in una sorprendente sequenza, dapprima il Presidente Mario Draghi in Parlamento ha affermato che “…la quota di prestiti aggiuntivi che richiederemo attraverso la principale componente del programma, lo strumento per la ripresa e la resilienza, dovrà essere modulata in base agli obiettivi di finanza pubblica…”. Poi è arrivato l’economista Luigi Zingales sul Fatto Quotidiano, seguito a ruota dai suoi colleghi Tito Boeri e Roberto Perotti su Repubblica.

Questi ultimi hanno messo in dubbio l’utilità della componente prestiti del Next Generation UE (NgUE), 127 miliardi di ulteriori debiti la cui compatibilità con gli obiettivi di finanza pubblica è molto dubbia. Proprio come evidenziato dal Presidente Draghi che nel suo discorso programmatico si è ben guardato dal citare il Mes. Uno strumento la cui convenienza rispetto all’indebitamento con titoli pubblici – ove fosse mai esistita, e qui abbiamo dimostrato la sua inesistenza – ha subito negli ultimi mesi un durissimo colpo a causa della discesa dei tassi e dello spread, accompagnata dall’abbondante liquidità del mercato.

Le ultime aste hanno infatti visto una domanda pari a circa quattro/cinque volte l’importo poi aggiudicato dal Mef ai sottoscrittori. Questo il non detto. A cui ha fatto seguito il detto riportato testualmente in precedenza, che ci induce a richiamare alla memoria dei nostri lettori quando, ormai mesi fa, li informammo, documenti alla mano, dell’attenzione supplementare che richiedevano gli investimenti finanziati con prestiti, che costituiscono circa 2/3 del complessivo NGUE.

Oggi salutiamo Boeri e Perotti che definiscono quei 127 miliardi “un azzardo”, perché dovrebbero finanziare direttrici di investimento, come la transizione digitale, che al momento sono un insieme di “formule e slogan” che danno vita ad un “contenitore vuoto”. I due economisti sollevano perplessità e ritengono “irrealistico” pensare di progettare opere di così rilevante importo in tempi così limitati.

Infatti, il termine che la Commissione ha assegnato per la consegna del Recovery plan è il 30 aprile, e sarà poi possibile impegnare le spese fino al 2023, con pagamenti previsti fino al 2026. La progettazione del Next Generation UE è avvenuta finora al contrario: ci abbiamo infilato dentro di tutto, purché concorresse a raggiungere la cifra messa a disposizione.

Peccato che, trattandosi prevalentemente di debito, se non ci fossero ritorni adeguati sulla crescita, ci ritroveremmo con un rapporto debito/PIL in deciso peggioramento. Esattamente l’opposto dell’obiettivo della Commissione, che vorrebbe un rientro di tale rapporto al livello pre Covid entro il 2031.

Si tratta di “un’impresa sovrumana”, secondo la definizione di Boeri e Perotti che poi aggiungono che la definizione di prestiti aggiuntivi e sostitutivi è “labile”. Su questo punto ci permettiamo di dissentire. La distinzione è netta ed è stata più volte ribadita dal precedente ministro dell’Economia Roberto Gualtieri: i prestiti sostitutivi sono quelli che finanziano opere già incluse nei saldi di finanza pubblica, quelli aggiuntivi invece li modificano. Solo questi ultimi hanno un impatto sulla crescita aggiuntiva.

Se, ad esempio, le opere dell’alta velocità ferroviaria Bari-Napoli sono già incluse nell’attuale indebitamento netto ed attendono solo il ricorso al mercato per l’emissione di titoli, finanziarsi col Next Generation UE avrà l’unico effetto di migliorare gli interessi su quel debito. Questo nella probabile, ma non scontata, ipotesi che i prestiti della UE abbiano un tasso più basso dei nostri BTP. Ecco perché bisogna andarci piano con i prestiti aggiuntivi per finanziare spese di dubbia utilità che hanno l’unico pregio di rispondere ai desiderata della Commissione. Ma hanno il pericoloso difetto di incrementare il debito, rispetto allo scenario tendenziale di finanza pubblica.

Nelle parole di Boeri e Perotti troviamo confermate tutte le nostre perplessità relative alle destinazioni di spesa imposte dalla Commissione, sintetizzabili nella seguente domanda: cosa serve allo sviluppo del Paese? Eseguire degli investimenti in opere, ancorché di minore importo ma scelte con attenzione, finanziate con titoli pubblici leggermente più costosi? Oppure spendere importi maggiori in opere di dubbia utilità, caricandoci di un debito che dovremo comunque rimborsare, con l’aggiunta di un groviglio di burocrazia, condizioni e controlli? Diamo il benvenuto a due economisti bocconiani che esprimono perplessità che qui leggete da mesi, e che si schierano decisamente a favore dell’utilizzo della sola componente di sussidi del NGEU (circa 81 miliardi), rimandando a tempi successivi la valutazione dell’accesso ai prestiti.

Sul punto, Zingales getta alle ortiche ogni cautela e parla dell’assoluta esiguità di un vero bilancio europeo, che resta condizionato alla volontà della Germania ed è tranciante sul Recovery Fund “davvero microscopico”.

Ora ci attendiamo atti conseguenti e coerenti con queste autorevoli prese di posizione. Così si identificherà finalmente chi vuole il bene dell’Europa: chi ragiona e critica strumenti che non funzionano e danneggiano il Paese e le relazioni tra Paesi con legami storici o chi ne accetta acriticamente ogni scelta, provocando profonde divisioni.

Ma questi veramente credono che trenta miliardi all'anno per sei annualità e soprattutto CONDIZIONATI possono risolvere la non crescita dell'Italia dettata proprio dal Progetto Criminale dell'Euro?

Ecco come l’Economist coccola Mario Draghi

27 febbraio 2021


Se Draghi è una buona scommessa per l’Italia, sembra una buona scommessa anche per l’Ue. Ecco perché secondo il settimanale The Economist

L’Italia è abbastanza grande per rompere l’Europa. Alcuni paesi, come la Grecia o il Portogallo, sono altamente indebitati ma i loro compagni europei possono salvarli, se necessario. Altri, come la Francia, la Spagna o la Germania, hanno grandi debiti in termini assoluti, ma grazie alle dimensioni delle loro economie e a un discreto record di crescita possono farcela senza spaventare i mercati. Solo l’Italia ha un triplo problema: un grande debito sia in termini relativi che assoluti, più un’economia che era stagnante anche prima che il covid-19 colpisse (l'Italia non deve crescere è implicito nel Progetto Criminale dell'Euro). L’arrivo di Mario Draghi, che ha prestato giuramento come primo ministro italiano il 13 febbraio, offre qualche speranza che il malato d’Europa possa ricevere un’iniezione di guarigione – scrive The Economist.

Draghi, un ex capo della Banca Centrale Europea, è l’ultimo di una lunga serie di tecnocrati ad essere installato nell’ufficio del primo ministro. Questo non è certo l’ideale. I capi di governo non eletti sono in linea di principio un affronto alla democrazia. Sono spesso incapaci di comunicare con il pubblico. La loro elevazione può fare il gioco dei populisti, che sosterranno sempre che le élite stanno cospirando per abbattere le masse. Quando il primo ministro in questione è un ex banchiere internazionale, gli slogan demagogici si scrivono praticamente da soli.

Tuttavia, Draghi ha il sostegno di tutti i principali partiti italiani, con la sola eccezione di Fratelli d’Italia, un’organizzazione di origine neofascista (la cui rappresentante è stata cooptata da poco nell'Aspen e formalizzerà il suo vassallaggio a Washington con il viaggio che farà fra poco, opposizione alla foglia di fico) , che senza dubbio si schiererà pericolosamente in disparte. Draghi è più di un semplice tecnocrate; ha anche notevoli capacità politiche e diplomatiche, come ha dimostrato quando ha guidato l’euro attraverso la sua crisi un decennio fa. Ne avrà bisogno.

I governi precedenti hanno spesso concordato ampiamente su ciò che deve essere fatto per salvare l’Italia dal suo malessere cronico. È uno dei posti peggiori dell’Unione Europea in cui fare affari, a causa di un sistema giudiziario lento ed erratico, un debole per la burocrazia e un sistema fiscale che scoraggia la creazione di posti di lavoro. I sussidi governativi non sono riusciti a correggere il profondo squilibrio strutturale tra il prospero nord e il mezzogiorno, il sud dell’Italia, una delle regioni meno prospere d’Europa. Tutte queste cose devono essere aggiustate, ma una serie di governi di coalizione deboli e con problemi di liquidità hanno fatto pochi progressi. Draghi ha la possibilità di fare meglio. Per ora, almeno, ha un’enorme maggioranza in parlamento.

Avrà anche molto zucchero per aiutare la sgradevole medicina a scendere. Grazie a un fondo di recupero di 750 miliardi di euro (900 miliardi di dollari) che l’UE ha concordato la scorsa estate, l’Italia ha diritto a circa 200 miliardi di euro in sovvenzioni e prestiti nei prossimi sei anni (cioè una trentina di miliardi l'anno è in questo modo che verranno i prestiti e i soldi a fondo perduto che saranno forniti dai medesimi stati che li devono avere, grande giro di conto). Il denaro arriva con il giusto tipo di condizioni. Gran parte di esso deve essere speso in progetti verdi o digitali; e l’accordo su un programma dettagliato di riforme è una parte fondamentale del mix. La bozza di piano dell’Italia è migliore di alcuni che altri stati membri hanno presentato a Bruxelles. Anche così, Draghi ha bisogno di rafforzarlo. In un discorso al parlamento il 17 febbraio ha colpito le note giuste, promettendo di riformare le tasse, i tribunali e la pubblica amministrazione, ma anche promettendo di non salvare le imprese non redditizie.

Se Draghi è una buona scommessa per l’Italia, sembra una buona scommessa anche per l’UE. Il Consiglio europeo potrebbe usare un altro peso massimo. Angela Merkel sta per uscire di scena; le elezioni sono previste per il 26 settembre. Emmanuel Macron affronta la sua battaglia per la rielezione all’inizio del prossimo anno. La Gran Bretagna, in passato il voto oscillante nel trio di potenze dominanti in Europa, ha abbandonato la scena.

Un italiano potente e molto apprezzato aiuterà anche a spostare l’equilibrio ideologico dell’UE nella giusta direzione (bah).Se vuole sopravvivere e prosperare, il blocco ha bisogno di investire molto più denaro, raccogliendolo sui mercati internazionali e permettendo così ai suoi paesi più deboli di beneficiare del credito dell’unione nel suo insieme. Il fondo di recupero offre un buon modello che dovrebbe essere usato di nuovo in futuro; Draghi sarà in una buona posizione per fare pressione in questo senso. Questo può accadere, però, solo se il piano esistente è un successo. Se Super Mario non può farlo funzionare per l’Italia, forse nessuno può.

(Estratto dalla rassegna stampa di Eprcomunicazione)

La “rappresaglia proporzionale e limitata” dovrebbe farla il popolo iracheno quando gli Stati Uniti e i suoi vassali si inventarono "le armi di distruzione di massa" e quindi invadere questo paese e portare le sue popolazioni a livello di vita che oggi gli iracheni hanno. Strano modo di mandare messaggio con bombardamenti e morti umanitari e democratici

Perché gli Stati Uniti di Biden hanno bombardato in Siria contro l’Iran

27 febbraio 2021


Biden ha voluto avvertire Teheran che, in caso di ulteriori attacchi “per procura”, gli Usa reagiranno su tutti gli obiettivi in qualche modo collegati a Teheran. E il messaggio è diretto anche all’interno degli Usa: “Avete un presidente che è pronto a usare anche la forza per proteggere gli interessi americani”. 

L’analisi di Carlo Jean

Venerdì mattina aerei americani hanno bombardato nella Siria orientale, nei pressi del confine con l’Iraq, milizie sciite legate all’Iran, in rappresaglia contro gli attacchi che milizie sciite irachene, sempre legate a Teheran, avevano effettuato il 15 febbraio a Erbil, nel Kurdistan iracheno. In tali attacchi era morto un contractor (mercenario) USA e ferita una quindicina di altri, oltre a un soldato americano.

Il bombardamento americano in Siria avrebbe provocato la morte di oltre una quindicina di miliziani, fatto che il Pentagono ha definito una “rappresaglia proporzionale e limitata”. La notizia del bombardamento sarebbe passata sotto silenzio, malgrado le proteste “d’obbligo” dei governi russo e siriano, se non si fosse trattato della prima volta che Biden autorizzava l’uso della forza e, nel caso particolare, dell’impatto che esso potrà avere sulla situazione in Medio Oriente.

La tradizionale politica americana d’impegno nell’area è stata modificata da due fatti. Primo, dalla shale revolution, che ha svincolato la dipendenza energetica USA dal Medio Oriente, provocandone un parziale disimpegno strategico. Secondo, l’intenzione di Biden di ripristinare la partecipazione USA al Patto Nucleare con l’Iran e di adottare una politica più centrata sui diritti umani (ideologia dell'INGERENZA), annullando l’eccessivo allineamento di Trump con l’Arabia Saudita.

Mentre la prima ragione rimane inalterata, la seconda sta incontrando difficoltà, soprattutto nel Congresso e nel Senato degli USA. Essi pretendono che la fine delle sanzioni a Teheran e il rientro degli USA nel Trattato siano accompagnati da ulteriori misure, che proteggano il Golfo dall'aggressività iraniana (che sono andati in aiuto al popolo siriano attaccato dai mercenari tagliagola al servizio dell'Occidente, degli Stati Uniti, Turchia, Qatar, Arabia Saudita), sostenuta dalle milizie sciite irachene, siriane e libanesi. I radicali iraniani si oppongono a tali misure e possono contare su larga parte della patriottica popolazione iraniana. I propositi di Biden di riprendere i negoziati con gli Ayatollah sono in fase di stallo.

Questo forse spiega l’espressione di “rappresaglia proporzionata” usata dal Pentagono. Di fatto, almeno in termine di perdite, proporzionata non è stata. Il principale timore di Biden è quello di sembrare troppo soft.

Non ha voluto reagire tanto agli attacchi in Iraq, ma lanciare un ammonimento a Teheran, “mostrando i muscoli” e dicendogli di non sperare di ammorbidire gli USA e di indurli a concessioni, attaccando le loro forze. E’ la classica manovra dell’“escalation to des-escalete” utilizzata nei preliminari di ogni negoziato per aumentare le proprie bargaining chips.

Interessante, al riguardo, è anche il fatto che la rappresaglia USA per attacchi subiti in Iraq sia avvenuta in Siria e che abbia avuto come obiettivi due gruppi di miliziani sciiti (Katib Hezbollah e Katib Sayyid al-Shubada) diversi da quelli che si erano dichiarati responsabili dell’attacco a Erbil. La risposta al primo interrogativo è chiara. Gli USA hanno avvertito Bagdad della rappresaglia con tre giorni di anticipo (Mosca con soli 4-5 minuti!), ottenendone parere favorevole o, almeno, non contrario. Hanno ancora in Iraq 2.500 soldati (1.000 in Siria). Vogliono mantenerli nel paese anche se un referendum popolare ne ha chiesto il completo ritiro. La risposta al secondo interrogativo deve essere più articolata.

Ufficialmente, il Pentagono sostiene che i nomi delle milizie che si erano dichiarate responsabili per Erbil erano falsi. In realtà penso che gli USA abbiano voluto avvertire Teheran che, in caso di ulteriori attacchi “per procura”, gli USA reagiranno su tutti gli obiettivi in qualche modo collegati a Teheran. Beninteso, il messaggio è diretto anche all’interno degli USA: “Avete un presidente che non è un debole, ma che è pronto a usare anche la forza per proteggere gli interessi americani”.

Insomma, l’America is back non solo a chiacchiere, ma con i suoi bombardieri e le sue portaerei.

L'Ema quell'Agenzia di Euroimbecilandia che arriva, non a caso, sempre troppo tardi a combattere l'influenza covid

ESTERO

L'Ema autorizza l'uso degli anticorpi monoclonali che curarono Trump

L'Agenzia europea per i medicinali ha dato via libera al 'cocktail' di anticorpi monoclonali 'casirivimab' e 'imdevimab' per il trattamento dei pazienti positivi sviluppato dall'azienda americana Regeneron

aggiornato alle 15:15 26 febbraio 2021

Laboratorio di analisi degli anticorpi monoclonali contro il Covid

AGI - Secondo il Comitato per i medicinali per uso umano dell'Ema, "la combinazione" di anticorpi monoclonali "nota anche come REGN-COV2 può essere utilizzata per il trattamento del Covid-19" in pazienti "che non richiedono ossigeno supplementare e che sono ad alto rischio". Lo rende noto l'Agenzia europea per i medicinali.

Il 'cocktail' di anticorpi monoclonali 'casirivimab' e 'imdevimab' per il trattamento dei pazienti positivi al Covid-19 è stato sviluppato dall'azienda americana Regeneron Pharmaceuticals e venne già utilizzato per curare l'allora presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, prima ancora che la Food and Drug Administration americana (Fda) lo approvasse.

L'Ema aveva avviato la rolling review del REGN-COV2 lo scorso primo febbraio. "La revisione - ricorda l'Agenzia - era stata intrapresa per fornire un parere scientifico armonizzato a livello Ue per supportare il processo decisionale nazionale sul possibile uso degli anticorpi prima dell'autorizzazione all'immissione in commercio".

La Borgatara è una sovranista di facciata, è stata cooptata dall'Aspen e si accinge a volare negli Stati Uniti per accreditarsi formalmente nel novero degli accoliti di Washington

Soffia ancora forte il vento del sovranismo in Europa

Vincenzo Caccioppoli 
 25/2/2021 4:20:58 AM 

Giorgia Meloni, leader di Fratelli d'Italia. Tiziana Fabi/AFP via Getty Images

Dopo le elezioni americane con la sconfitta di Donald Trump, c’è stata una sorta di gara fra i principali partiti e commentatori di sinistra a proclamare come questo fatto rappresentasse la fine dei movimenti sovranisti e populisti, non solo in Usa ma anche in Europa.

Ma è davvero così o forse il desiderio e la volontà di chiudere una parantesi scomoda per molti hanno prevalso nel decretare qualcosa che in realtà ancora non si è ancora verificato?

Se si guarda proprio al vecchio continente, infatti, la situazione non sembra cosi fluida come qualcuno vorrebbe far credere. Nelle recenti elezioni presidenziali portoghesi, vinte dal candidato del centro destra Marcelo Rebelo de Sousa, con oltre il 60% dei voti, si è registrato un incredibile successo del candidato populista, il leader del nuovo partito di estrema destra, Andres Ventura. Il suo partito Chega, infatti, che lui stesso ha definito antisistema, ha conquistato l’11,9 per cento dei consensi, che rapportato all’1,3 per cento che aveva raccolto nelle precedenti elezioni generali del 2019, ha lasciato stupefatti molti commentatori e messo in crisi i grandi partiti di centrodestra PSD e CDS, che vedono con sospetto la grande affermazione del nuovo partito “sovranista”.

Dall’altra parte dell’Europa, lo scorso dicembre, l‘Alleanza per l’unità dei rumeni (AUR) è uscita dalla completa oscurità politica, per prendere il 9 per cento dei voti alle elezioni generali e diventare il quarto partito più grande del parlamento rumeno.

Poi c’è l’ascesa dell’estrema destra nei sondaggi in alcuni grandi Paesi europei.

In Francia, una delle proiezioni più recenti sul possibile esito del prossimo voto presidenziale del paese nel 2022 ha visto il leader di estrema destra Marine Le Pen fare un aumento record di popolarità per raggiungere la quasi parità con il presidente in carica Emmanuel Macron.

Nel frattempo, nel vicino nord del Belgio, l’ultranazionalista Vlaams Belang è al 26,3 percento, al suo massimo storico, ben sei punti in più rispetto al rivale più vicino e si candida a governare il paese.

In Olanda invece, dove si voterà il 21 Marzo, il partito nazionalista Party for freedom è dato in crescita al 15% dei sondaggi, dietro di pochi punti percentuale al partito VVD dell’premier Mark Rutte.

Infine come non vedere la crescita inarrestabile di Fratelli d’Italia qui in Italia, dove il partito di Giorgia Meloni, appena eletta presidente del partito dei conservatori europei, è ormai la terza forza del Paese, con sondaggi che la danno oltre il 17%.

Insomma parafrasando Mark Twain si può ben dire che la notizia della morte del sovranismo in Europa pare fortemente esagerata. Nei primi mesi della pandemia era, infatti, era diffusa l’opinione che i governi sovranisti avessero reagito meno bene di fronte all’emergenza, soprattutto a causa degli errori di sottovalutazione del rischio, commessi da Trump negli Usa, Bolsonaro in Brasile e Johnson in Gran Bretagna.

Ma secondo un report sulla reazione dei governi sovranisti alla pandemia fatto da Brett Meyer dell’institute for glonbal Change dell’ex premier inglese Tony Blair, anche questa sembra forse un po’ come il classico luogo comune “Sebbene la percezione dei populisti sia che siano anti-scienza e abbiano minimizzato la crisi del Covid-19, scopriamo che questo non è generalmente vero. Attingendo al nostro database Populists in Power e alla serie di rapporti, scopriamo che 12 dei 17 populisti attualmente al potere hanno preso sul serio la crisi del Covid-19” è scritto, infatti, nel lungo report del professore inglese.

Ecco perché alcuni sostengono che proprio la crisi economica e sanitaria, determinata dalla pandemia, potrebbero dare nuova linfa vitale ai movimenti populisti e sovranisti, che farebbero proprie le istanze del malcontento di ampie fasce della popolazione meno tutelate.

Anche se secondo Jean-Yves Camus, uno scienziato politico francese che dirige l’Osservatorio del radicalismo politico presso la Fondation Jean-Jaurès, sarebbe una semplificazione eccessiva. “Certo sul voto in Portogallo per esempio ha sicuramente pesato il fatto che Ventura è fuori dal potere e quindi la crisi e la gestione da parte governo ha determinato scontento, ma la stessa cosa non si può dire per Vox in Catalogna o qui in Francia con la Le Pen. Le tematiche sulla immigrazione, sull’economia e sulla sicurezza sono ancora temi che i populisti e i sovranisti sanno fare propri e cavalcare con grande maestria”.

A riaffermare il concetto ci pensa Azad Zangana Senior European Economist and Strategist di Schroeder in una sua recente analisi ha affermato che “Potrebbe essere troppo presto per dichiarare la morte del populismo in Europa, vale a tal proposito la pena ricordare perché questi partiti populisti si sono comportati così bene negli ultimi anni. La scarsa crescita economica, l’aumento delle disuguaglianze e un senso di mancanza di rappresentanza, soprattutto a livello dell’UE, sono tutte questioni in corso che rischiano di essere esacerbate dalla crisi. Se i responsabili politici liberali centristi non approfittano del rimbalzo di cui stanno godendo, è probabile che i populisti tornino con maggiore forza”.

Questo perché, come dice il professore di Scienze Politiche all’università di Harvard Noam Gidron, “Le persone che sono socialmente scollegate, hanno meno probabilità di votare. Ma, se decidono di votare, è molto più probabile che sostengano candidati populisti o partiti radicali – su entrambi i lati dello spettro politico – rispetto alle persone che sono ben integrate nella società. Questa relazione rimane forte anche dopo che sono stati presi in considerazione altri fattori che potrebbero spiegare il voto per i politici populisti, come il genere o l’istruzione”.

Ma questo certo non può essere definita una colpa del populismo, perché come diceva il grande filosofo e politologo tedesco Carl Schmitt “La nozione essenziale della democrazia è il popolo, e non l’umanità. Se la democrazia deve restare una forma politica, ci sono solo democrazie del popolo e non una democrazia dell’umanità”.

Utile a questo proposto citare l’ intellettuale francese Élisabeth Lévy, che definisce scherzosamente il populismo come “il nome che la sinistra dà al popolo quando il popolo non le piace”, e continua dicendo che: “Credere che milioni di elettori abbiano votato senza comprendere quello che facevano e senza interrogarsi sulle conseguenze del loro atto vuol dire, in senso stretto, prenderli per dei coglioni. Infatti si potrebbe in ogni caso obiettare che i meno istruiti sono anche i meno condizionati dall’ideologia dominante e che i più “colti” sono in realtà i più portati a ripetere i mantra alla moda e a identificarsi con il conformismo sociale. Nelle fasce popolari, l’incredulità non è il risultato dell’ignoranza, ma piuttosto la conseguenza di una ripetuta delusione”.

Insomma è un po’ come riprendere uno dei temi forti della destra italiana, che da sempre accusa la sinistra di non riuscirà più a parlare con le fasce più deboli della popolazione, a causa di una sorta di “imborghesimento” della sua classe dirigente.

Se poi un populista come Boris Johnson, che è appena uscito dall’area euro, sembra stia vincendo la sua personale battaglia sulla vaccinazione di massa, mentre in Europa si deve fare i salti mortali per trovare le dosi del prezioso antidoto, a causa di una discutibile gestione degli acquisti, anche la questione sull’europeismo e la sua centralità, che ora sembrano uscite dai radar della dialettica politica, potrebbero presto ritornare ad essere questione dirimente fra destra e sinistra. E dare una nuova spinta propulsiva a chi, come i sovranisti, ha da sempre un atteggiamento più critico verso una Unione Europea che dimostra spesso ancora alcune sue contraddizioni di fondo.

La borsa è un casinò dove Tesla, e non da oggi, è magicamente portata su, da un conglomerato di speculatori che la fanno apparire magica quando magica non è. Wall Strett viaggia su un sentiero sempre più stretto se basta una semplice dichiarazione di costatazione che storicamente un periodo di indebitamento è sempre stato accompagnato da tassi d'interessi negativi. La domanda a questo punto è QUANDO si romperà il giocattolo? perchè è certo che si romperà

Tutti pazzi per le Spaca, ma la Fed ha iniziato a capire che sono una minacciosa bolla per il mercato

 24/2/2021 11:14:39 PM 

Jerome Powell, presidente della Fed. Alex Wong/Getty Images)

L’effetto placebo delle rassicurazioni di Jerome Powell al mercato rispetto all’impatto soft dell’inflazione e alla prosecuzione della politica espansiva è durato giusto il tempo di far recuperare Wall Street dai cali di giornata e chiudere attorno alla parità. Già i mercati asiatici, infatti, hanno riportato il mondo alla realtà, aggiungendo oltretutto criticità a criticità.

Se infatti l’impennata del prezzo del rame al massimo da nove anni appariva già di per sé una sconfessione dell’ottimismo del capo della Fed e il decennale Usa che nel pre-market toccava l’1,41% di rendimento si poneva come il proverbiale nail in the coffin, ad agitare il sonno di parecchi traders ci pensavano due dinamiche in evoluzione.

La prima riguardava i fondi di Ark Invest, gli Etfb facenti capo a Cathie Wood, i quali solo nella sessione del 23 febbraio hanno inanellato perdite combinate per 4,3 miliardi di dollari.

E questo grafico mostra quale sia stata la reazione degli investitori: 465 milioni di dollari ritirati in un solo giorno.

Bloomberg

E se a scatenare la sell-off è stata la notizia del mancato contratto fra la compagnia di veicoli elettrici WorkHorse e le Poste statunitensi, tutti sanno come il destino dei fondi che tracciano il comparto tech sia inestricabilmente legato a quello di Tesla. E infatti, proprio nel pieno dei tonfi, Cathie Wood ha confermato a Bloomberg come la sua creatura finanziaria abbia acquistato sui minimi di giornata altre 240.548 azioni della casa automobilistica di Elon Musk, mossa definita una rara opportunità d’acquisto.

Ma sul lato opposto della barricata di mercato, la cocciutaggine della manager sta facendo gonfiare il petto ai ribassisti, visto che contemporaneamente lo short interest su Ark Innovation, l’Etf principale del gruppo che sovrintende a 21 miliardi di assets, è passato dallo 0,3% di metà dicembre all’attuale 3,5%. E se la percentuale può apparire poca cosa, occorre sempre ragionare in base a due prospettive di analisi.

Primo, la rapidità con cui le situazioni – positive come negative – si sviluppano in un mercato privo di riferimenti e stracarico di leverage come quello attuale.

Secondo, la magnitudo del bersaglio. Operando, de facto, come proxy di Tesla, Ark Invest riveste in pieno il ruolo di elefante nella stanza.

Quindi, quell'aumento apparentemente innocuo, è invece spia di un trend preoccupante. Lo stesso che ha riguardato la seconda dinamica in evoluzione, dopo quella della scommessa sulla tenuta della bolla tech. In contemporanea al tonfo di Ark, infatti, ha fatto notizia quello della Spac facente capo al gruppo Churchill Invest, le cui azioni sono precipitate di oltre il 40% a seguito della quotazione di Lucid Motors, casa automobilistica Usa specializzata in veicoli elettrici e da molti ritenuta antagonista potenziale proprio di Tesla.

Un’operazione di fatto perfetta, stante la valutazione da 24 miliardi che supera e non di poco i 15 attesi da Wall Street.

Goldman Sachs

C’è però un problema, esiziale e rappresentato dai prossimi grafici.

Se infatti la Spac che ha curato il collocamento era la seconda preferita dagli hedge funds, gli stessi che in alcuni casi stanno ancora leccandosi le ferite per il caso GameStop e che potrebbero aver mal calcolato i tempi di uscita, gli altri due grafici sembrano palesarsi come il più chiaro dei segnali di allarme in codice.

Tradotto, la giostra che pare in piena corsa, invece potrebbe essere in via di rallentamento. O, peggio, talmente su di giri da schiantarsi del tutto. Nei soli primi 45 giorni del 2021, infatti, le nuove Spac sono state 145: un media di quasi 5 al giorno. Nel 2020 hanno fatto il loro debutto a Wall Street 237 di questi veicoli di investimento, in grado di generare capitale per 83 miliardi di dollari: quest’anno sono 54 quelle già operative nel trading.

Bloomberg

E il terzo grafico mostra il vero rischio, parallelo a quello che il mercato comincia a prezzare rispetto all'operatività pressoché unidirezionale di Ark Invest sul compart tech: l’abuso di Etf dedicati alle Spac.

Ovvero, la quantomeno discutibile idea – in un mercato ideale che ancora avesse dei fondamentali – di puntare tutto sulla gestione passiva tipica di un Etf che investa su compagnie che ancora non hanno business, né operatività. Di fatto, un fondo che traccia una sorta di bancomat itinerante.

Il problema è che in molti, stante i tassi a zero garantiti dalla Fed con orizzonte temporale illimitato, hanno ritenuto assolutamente geniale l’idea partorita lo scorso aprile da Julian Klymochko con il suo Accelerate Arbitrage Fund: abbandonare quella noia mortale del vecchio arbitraggio per sfruttare al meglio la Spac-mania. Detto fatto, l’Etf che traccia i veicoli di collocamento alternativo ha garantito il 42% di return dal 7 aprile scorso contro l’8,9% offerto nel medesimo arco temporale dal più establishment S&P Merger Arbitrage Total Return Index.

Bloomberg


E lo SPAK, un altro Etf che opera sul NYSE, dal lancio lo scorso ottobre ha già segnato un +17%.

Il rischio? Duplice.

Primo, a detta di Matt Waddell, analista presso la United First Partners di New York, è ormai questione di giorni prima che il mercato cominci a focalizzarsi maggiormente sulla qualità delle compagnie in via di collocamento bypassando la classica Ipo. Penso che a breve le quotazioni passeranno al massimo a un paio a settimana dalle dozzine al giorno del 2020.

Secondo, lo mostra questo grafico, il quale mostra – attraverso la linea rossa, da leggere invertita – il livello di indebitamento raggiunto da Wall Street per continuare a operare su questi livelli.

Finra/Nyse

Di fatto, una camminata sempre più sul filo del rasoio, visto il continuo cumulo di criticità che giornalmente allunga la lista dei tail risks all’orizzonte. E attenzione, perché il dato del margin debt della Finra, l’autorità di regolazione finanziaria Usa, calcola solo il livello di leverage prezzato nelle valutazione delle equities e non incorpora quello – attualmente, monstre – delle opzioni, il volume delle quali nell'ambito rialzista delle call sta aggiornando nuovi massimi da un anno questa parte.

A questo punto, la domanda da un milione di dollari: cosa ha evitato finora il tonfo storico, il nuovo 1929?

Una risposta e una parola di rassicurazione è arrivata dall'ultimo report di Jim Reid, capo analista di Deutsche Bank, sintetizzato in questo grafico: in un arco temporale di oltre 200 anni, gli unici intervalli in cui i tassi reali sono rimasti negativi per un certo periodo di tempo è stato durante stagioni di altissimo indebitamento.

Deutsche Bank

Al livello attuale, quindi, appare pressoché impensabile un intervento della Fed e, paradossalmente, quanto sta accadendo ai rendimenti sovrani sarebbe da ascrivere unicamente a pressioni cicliche. Ecco la conclusione di Jim Reid: Any return to something close to long-term averages would have grave consequences for debt sustainability. The Fed would likely step in well before this point. Financial repression and QE will likely be alive and well for the rest of most of our careers.

Di fatto, successo dei mercati finanziari e monetizzazione dei debiti sovrani per finanziare politiche in deficit vanno di pari passo. Insomma, finché il concetto di QE perenne non sarà messo in discussione, ogni azzardo è consentito. Il mercato continuerà a pensarla così anche con il decennale Usa all’1,50%, in piena area di VaR shock su quella montagna di assets iscritti a bilancio su valutazioni totalmente e unicamente prone alle mosse della Fed? La risposta a questa domanda, di fatto, divide in due il mondo fra ribassisti e rialzisti. In mezzo, Jerome Powell in versione pompiere. Ma tutt’intorno, focolai.


a) strumento finanziario, per raccogliere denaro, in un arco di tempo circoscritto, che serve a comprare una società, alla fine dell'operazione questa viene quotata in borsa. Al momento della raccolta di denaro quale tipo di investimento si farà è sconosciuto, è fatto al buio.

b) Fondo che ha come riferimento un'insieme di società precostituite, e che segue l'andamento medio di queste, in maniera automatica 

Ridare linfa verde all'Africa è una priorità, le bombe umanitarie democratiche NO

La Grande muraglia verde è l'ultima speranza di salvare l'Africa?


Un lungo corridoio verde, largo 15 chilometri e lungo circa 8mila chilometri che colleghi l’Africa da Ovest ad Est: è l'ultimo (benché non recentissimo) sforzo per evitare che il continente si arrenda alla desertificazione e ai cambiamenti climatici

La desertificazione, il cambiamento climatico e il degrado dei suoli stanno mettendo a dura prova la vita di milioni di persone in Africa. Il futuro del Sahel, territorio semi-arido che taglia orizzontalmente il continente, delimitato a nord dal deserto del Sahara e a sud dalla savana del Sudan, è strettamente legato a doppio filo alla Grande muraglia verde africana, un colossale progetto di riforestazione e gestione sostenibile del suolo.

Proprio in quella porzione di terra, il deserto ha guadagnato terreno costantemente per diversi decenni, poiché le aree boschive sono diminuite drammaticamente, portando anche un massiccio esodo rurale. La sfida posta è notevole, ovvero quella di invertire questa tendenza ri-creando una nuova foresta e facendola scorrere come una grande cintura verde attraverso l’intero continente africano. L’idea è quindi quella di creare artificialmente un lungo corridoio verde, largo 15 chilometri e lungo circa 8mila chilometri che colleghi l’Africa da Ovest a Est, da Dakar alla Repubblica del Gibuti. L’area, che accoglie oltre 228 milioni di abitanti, si estende su 780 milioni di ettari, più del doppio rispetto alla superficie dell’India. Circa il 21% di queste zone deserte potrebbero essere salvate se venissero piantati nuovi alberi, foreste e terreni coltivabili. Queste nuove aree porterebbero a un ripopolamento importante con conseguente creazione di occupazione, grazie a un mosaico di progetti agricoli rispettosi dell’ambiente e della biodiversità.

L’idea di questa immensa foresta verde non è nuova. Nel 1952, infatti, l’esploratore inglese Richard St. Barbe Baker si imbarcò in una lunga traversata del Sahara, lanciando un’idea folle per l’epoca: combattere la desertificazione costruendo un gigantesco muro verde che potess dividere in due il deserto del Sahara. Ma il piano Baker venne ritenuto troppo vasto, troppo costoso, nonché inattuabile dagli esperti e quindi fu presto dimenticato.

Bisogna aspettare il 2004 per il passo successi: è in questa data che 11 paesi africani – Senegal, Mauritania, Mali, Burkina Faso, Niger, Nigeria, Chad, Sudan, Eritrea, Etiopia, Repubblica del Gibuti – decidono di unirsi e raccogliere questa sfida, creando l’Agenzia panafricana della Grande Muraglia Verde. Nel 2007 poi il progetto vede la luce ufficialmente e nel 2030, secondo i piani, i lavori dovrebbero arrivare a conclusione. Cosa che sembra non essere possibile poiché, secondo le stime, in tredici anni di lavori solo 4 milioni di ettari sono stati restaurati (anche se altre stime più ottimistiche parlano di 18 milioni di ettari). 

Il ritardo nei lavori è dovuto a molteplici fattori. Uno su tutti, quelli legati ai variegati disordini interni (guerre e povertà) dei paesi africani interessati dal progetto. Ma anche sul versante economico le cose non sono andate meglio: negli anni, i finanziamenti annunciati dai donatori non sono stati né rispettati, né si sono rivelati sufficienti. Dei 4 miliardi di dollari previsti nel 2015 al momento dell’accordo di Parigi sul clima, solo 870 milioni sono stati realmente pagati. E proprio questi elementi hanno fatto pensare ad un possibile fallimento dell’iniziativa. 

Ma durante la recente quarta edizione del One Planet Summit for Biodiversity, il presidente francese Emmanuel Macron ha ribadito invece l’impegno di “proteggere e ripristinare la biodiversità è nel nostro interesse. Oltre a creare milioni di posti di lavoro tra oggi e il 2030, il mondo naturale offre molti vantaggi. Le foreste intatte e gli ecosistemi oceanici possono aiutare a raggiungere gli obiettivi climatici agendo come serbatoi di carbonio. La natura offre soluzioni per sviluppare un’agricoltura sostenibile, per i servizi economici e finanziari, aiutandoci a preservare i nostri patrimoni e le nostre culture”. E proprio parlando del progetto ha ribadito che “ci sono stati alti e bassi ma il Grande muro verde fa parte delle soluzioni per fornire un futuro sostenibile alle popolazioni del Sahel”. Per questo motivo, sono stati promessi circa oltre 14,3 miliardi di dollari (circa 11,8 miliardi di euro) in cinque anni, nel periodo 2021-2025. Questo incentivo economico è stato introdotto anche per dare nuova linfa ai vecchi e nuovi finanziatori, tra i quali troviamo la Banca mondiale, l’Unione europea e l’Agenzia francese per lo sviluppo (gli Stati Uniti preferiscono usare le loro bombe umanitarie, quelle che uccidono)

Inoltre, sempre Macron, per permettere un maggior controllo dei progetti in corso, ha istituito e nominato un segretario per la Grande muraglia verde, legato direttamente alla Convenzione delle Nazioni Unite per combattere la desertificazione. Una nuova figura professionale essenziale per la buona riuscita del progetto.

venerdì 26 febbraio 2021

Solo degli euroimbecilli possono pensare che quei trenta miliardi l'anno per i sei complessivi possono essere la panacea per risolvere la distruzione del tessuto industriale dell'Italia ha subito da quando è in vigore il Progetto Criminale dell'Euro accelerata dall'influenza covid gestita come la stiamo vivendo

Cosa succede con i licenziamenti dal 1 aprile? Lo spiega Cesare Damiano

Di Gianluca Zapponini | 26/02/2021 - 


Intervista all’ex ministro del Lavoro: un errore sbloccare i licenziamenti adesso, le misure di emergenza vanno mantenute ancora qualche mese per evitare un bagno di sangue. Le imprese hanno ragione, serve una transizione senza strappi verso la ripresa che eviti shock ai danni di tutti. Il Recovery Plan? Un mix di investimenti e tutele

Un mese, giorno più, giorno meno. Il 31 marzo scade ufficialmente il blocco dei licenziamenti, imposto un anno fa a mezzo decreto da parte dell’allora governo Conte, in pieno lockdown di primavera. Dal 1 aprile per le imprese sarà possibile avviare delle ristrutturazioni le quali porteranno quasi certamente a numerosi esuberi. C’è dell’altro. Sempre a fine marzo scade uno dei principali ammortizzatori sociali pandemici, la Cassa integrazione Covid. Uno uno-due che rischia di tramutarsi in un bagno di sangue.

Scenario che gli imprenditori italiani vorrebbero scongiurare, come dimostra la proposta giunta da Confindustria per mezzo del presidente, Carlo Bonomi. E cioè una norma transitoria ad hoc, che eviti lo shock e accompagni il sistema industriale verso un ritorno alle normali condizioni di libero mercato. Niente strappi, insomma, come fa capire anche Cesare Damiano, economista, già deputato dem e ministro del Lavoro (2006-2008) durante il secondo governo Prodi.

Damiano, il 31 marzo scade il blocco dei licenziamenti. Il rischio di una mattanza sociale c’è. Che si fa?

Conosciamo tutti questa scadenza, con la quale il governo dovrà fare presto i conti. Stando ai dati del mio Centro studi (Associzione Lavoro&Welfare, ndr) la Cassa integrazione nel 2020 è aumentata del 1.467% sul 2019, con 360 milioni di ore mediamente autorizzate al mese. E anche a gennaio il trend è rimasto alto, con 217 milioni di ore autorizzate. Alla luce di tutto questo, nonostante la situazione abbia registrato dei miglioramenti, siamo ben lontani dalla normalità. Per tutti questi motivi, interrompere la Cassa Covid e sbloccare i licenziamenti vorrebbe dire andare incontro a mezzo milione-un milione di potenziali disoccupati. Uno tsunami, ingovernabile.

Un bagno di sangue. Allora bisogna prorogare le misure in essere…

Questo mi pare evidente. Però la soluzione ottimale sarebbe prorogare queste misure almeno per un medio termine, diciamo fino all’autunno o a fine anno, non all’infinito. Questo dipende certamente dall’andamento della situazione generale, ma per il momento mi pare assurdo interrompere di botto due misure così importanti per i lavoratori.

Blocco dei licenziamenti e Cassa Covid. Cosa è più essenziale?

Tutte e due, anche se ci sono delle differenze. La Cassa Covid viene pagata dalla fiscalità generale, soccorre le imprese anche con un dipendente, ed è necessaria sia ai lavoratori, sia agli imprenditori, anche se non copre tutto il salario. Le dico solo che un dipendente che fa, mediamente, un mese di Cassa lascia per strada in media 460 euro circa. Dunque è una tutela necessaria. Il blocco dei licenziamenti è anche esso importante, ma vanno fatti dei distinguo.

Quali sarebbero?

Sulla moratoria dei licenziamenti le parti sociali devono confrontarsi con il governo. Perché la misura in questione può anche non essere erga omnes, ma dosata a seconda dell’andamento produttivo del settore. Voglio dire: chi produce vaccini, per esempio, più che di licenziare ha bisogno di assumere personale. Ma poi c’è chi appartiene ai settori più colpiti, il ristorante, la discoteca. E qui non c’è bisogno di passare ai licenziamenti di massa. Ma come ho detto serve un valutazione e soprattutto una decisione condivisa, non certo unilaterale. Un abito su misura settore per settore.

Insomma, Damiano, soluzioni su misura, in tema di licenziamenti.

Esatto, il succo è questo. Una valutazione del governo con le parti sociali che tenga conto delle diverse situazioni.

C’è chi pensa che il libero mercato debba tornare ad agire. E che i lavoratori licenziati debbano un domani essere riassorbiti grazie agli investimenti del Recovery Fund. Lei che dice?

Sarebbe un grande errore utilizzare le risorse del Recovery Fund e in generale tutte le risorse messe a disposizione dall’Europa, esclusivamente per gli investimenti. L’azione va pensata in due parti. Da un lato le tutele immediate, dall’alto gli investimenti futuri. Perché vede, per riassorbire i lavoratori con gli investimenti futuri bisogna traghettarli dall’attuale situazione di crisi, verso una di ripresa. Questo è il senso, occorre traghettare le persone, con degli strumenti appositi, come la Cassa Covid e il blocco dei licenziamenti. Ma tutto va graduato.

Cioè al diminuire della crisi si possono a loro volta eliminare progressivamente queste misure?

Sì. In altre parole, mano a mano che torniamo a rivedere le stelle, togliamo l’assistenza. Non ci può essere un primo tempo e un secondo tempo, serve gradualità. E su questo si può ragionare. Anzi, si deve.