L'albero della storia è sempre verde

L'albero della storia è sempre verde

"Teniamo ben ferma la comprensione del fatto che, di regola, le classi dominanti vincono sempre perché sempre in possesso della comprensione della totalità concettuale della riproduzione sociale, e le classi dominate perdono sempre per la loro stupidità strategica, dovuta all’impossibilità materiale di accedere a questa comprensione intellettuale. Nella storia universale comparata non vi sono assolutamente eccezioni. La prima e l’unica eccezione è il 1917 russo. Per questo, sul piano storico-mondiale, Lenin è molto più grande di Marx. Marx è soltanto il coronamento del grande pensiero idealistico ed umanistico tedesco, ed il fondatore del metodo della comprensione della storia attraverso i modi di produzione. Ma Lenin è molto di più. Lenin è il primo esempio storico in assoluto in cui le classi dominate, sia pure purtroppo soltanto per pochi decenni, hanno potuto vincere contro le classi dominanti. Bisogna dunque studiare con attenzione sia le ragioni della vittoria che le ragioni della sconfitta. Ma esse stanno in un solo complesso di problemi, la natura del partito comunista ed il suo rovesciamento posteriore classistico, individualistico e soprattutto anti- comunitario" Costanzo Preve da "Il modo di produzione comunitario. Il problema del comunismo rimesso sui piedi"

sabato 8 maggio 2021

Lo "stregone maledetto mantiene quello che ha garantito ai suoi padroni fin dal 1992, la spoliazione dell'Italia dei suoi migliori assets

Draghi e Ouroboros: l’eterno ritorno

di Alessandro Testa
29 aprile 2021

Recovery Fund: nuova strada per privatizzare e distruggere il welfare

Corre il 2 giugno 1992: mentre da pochi anni il muro di Berlino è crollato, segnando l’inizio della fine dell’Unione Sovietica e l’inchiostro è ancora fresco sul trattato di Maastricht che istituisce l’Unione Europea, sul panfilo Britannia, nave di rappresentanza della regina Elisabetta II d’Inghilterra, un giovane Mario Draghi, direttore del Tesoro e membro del consiglio d’amministrazione dell’IRI, garantisce davanti al gotha della comunità finanziaria internazionale ivi riunita che l’Italia attuerà una radicale campagna di privatizzazioni che gli permetterà di ridurre l’esposizione debitoria, mettere in ordine i conti ed entrare “a testa alta” nel nascente carrozzone della moneta unica europea.

Cosa sia poi successo lo sappiamo tutti: l’Italia entrò in effetti nella moneta unica europea, il famoso (o meglio famigerato) Euro, ma le privatizzazioni, che avrebbero dovuto far affluire ingenti risorse nelle casse dello stato e di pari passo in quelle delle sue “ex aziende”, si risolsero in una tragica farsa di spregiudicate operazioni finanziarie, dilapidazione di assets ed esperienze professionali, mancati investimenti, perdita di controllo su settori strategici ed incredibili inefficienze, i cui nefasti effetti perdurano ancor oggi.

Ma lo si sa, come da miglior letteratura poliziesca il colpevole torna sempre sul luogo del delitto.

Ed ecco un Draghi ben invecchiato, onusto di cariche e glorie accumulate in una lunghissima carriera sempre all’ombra dei poteri forti finanziari globali, chiamato da pochi giorni all’improbo ruolo di “salvatore” di un’Italia che si dibatte disperatamente nella morsa di una crisi economica e politica vieppiù aggravata dall’emergenza pandemica, torna a rivestire lo sfavillante abito di “garante” del sistema Paese e con un’accorata telefonata alla signora van der Leyen sblocca magicamente il malloppo del Recovery Fund da tempo congelato e messo in forse, promettendo l’impegno del governo sulle riforme ed assicurando un cambio di passo per il rilancio.

Ma cosa ha promesso davvero Draghi all’establishment europeo?

A giudicare dai suoi trascorsi, può aver promesso solo una cosa: l’ulteriore smantellamento del welfare e la svendita di ciò che ancora rimane di qualche valore nelle disponibilità dello Stato.

Non è un caso, infatti, che si sia immediatamente cominciato a parlare di riforma pensionistica, ovviamente con l’abbandono immediato dal meccanismo della quota 100 col conseguente allontanamento dell’età pensionabile, un probabile “scalone” di cinque anni e presumibili sforbiciate al valore di pensioni già erose da quell’aumento del costo della vita che l’ISTAT si affanna a negare ma tutti noi percepiamo ogni volta che mettiamo mano al portafoglio per pagare le bollette di casa o la spesa al supermercato.

Probabilmente seguiranno a ruota ulteriori tagli: sanità (anche se è già oggi risibile la quota di Recovery Fund che questo governo riserva al comparto, e ciò la dice lunga sulla feroce spietatezza di questa politica di fronte ai morti ed alla sofferenza popolare causata dalla pandemia, gestita con risorse economiche, logistiche ed umane insufficienti che hanno finito per peggiorare il già fatiscente servizio sanitario nazionale), ammortizzatori sociali, servizi e pubblica amministrazione, tutti ovviamente travestiti da “razionalizzazioni” e “semplificazioni”.

Cosa possiamo dunque evincere da quanto detto sopra? Almeno tre cose.

Primo, che il governo italiano ha definitivamente abdicato ad ogni sia pur minima parvenza di governance su quei temi di fondamentale importanza politica e sociale che sono alla base stessa del contratto sociale; ormai ogni diritto, ogni equità, ogni giustizia sono sacrificabili al mostro cieco e famelico del “libero mercato”, abdicando, peraltro, ad ogni ruolo sovrano per il nostro Paese, come l’adesione all’UE contempla e severamente non manca di ricordarci.

Quest’ultima riflessione, se non bastassero gli innumerevoli episodi nei quali il governo italiano si è sottomesso senza alcun moto di ribellione ai diktat provenienti da Bruxelles, ci fa capire in maniera adamantina quanto sia urgente e necessaria l’uscita dell’Italia da un Euro e da una UE ormai irriformabili.

Il secondo punto è forse più raffinato, ma probabilmente di non minore importanza.

Anche ponendosi dal punto di vista del capitale, oggigiorno a dettar legge non sono più le realtà produttive, le industrie, i mercati, ma le oligarchie finanziarie; ad un capitalismo “all’antica” ove a contare era la capacità di produrre e commercializzare merci ricavandone il maggior profitto possibile, si è sostituito il meccanismo perverso del debito in perenne espansione.

Approfondiamo un attimo questo concetto: ormai tutto il sistema capitalista funziona sostanzialmente sulla base del debito, debito che dev’essere ripagato, ovviamente non solo nella sua componente di conto capitale anche in quella di cespiti d’interesse, obbligando così il sistema ad una continua, incessante ed infinita espansione.

È però facile da capire come nessuna espansione può essere eterna: i mercati si saturano, le risorse scarseggiano o diventano sempre più costose e difficili da ottenere, il saggio tendenziale di profitto cala mentre gli investitori richiedono performance sempre più esagerate e insostenibili.

Allora non resta che rifinanziare conto capitale ed interessi contraendo ulteriore debito, ma dopo un certo numero di cicli economici neppure questo basta più: chi si trova dalla parte perdente di questa equazione, sia egli un imprenditore, un investitore o persino uno Stato, si trova costretto a vendere i suoi assets più preziosi e a tagliare tutti i costi che può: salari, qualità, welfare ed in ultima analisi, cessione totale di potere.

Vale appena il caso di ricordare che anche “l’elargizione” UE del Recovery Fund diverrà un immenso e nuovo debito: esso non è infatti un regalo, come si vuol far credere, ma porta con sé tutti i nodi scorsoi che hanno già in passato impiccato la Grecia e ridotto il suo popolo alla misera e alla distruzione sociale.

Draghi vuole dunque ripercorrere oggi lo stesso rovinoso cammino imboccato dall’imbelle e subordinato Tsipras?

Il risultato inevitabile di queste politiche è dunque chiaro: la concentrazione della ricchezza nelle mani di sempre meno persone, impoverimento delle masse, preparazione di crisi future ancor più dure e dalle ancor più tragiche conseguenze.

Se volessimo spingerci oltre, potremmo ragionare sulla trasformazione del denaro da mera unità di conto, merce numeraria che serve in buona sostanza per facilitare gli scambi tra molteplici prodotti, a feticcio recante un valore proprio, del tutto distaccato sia dal valore d’uso che da quello di scambio; ma tale riflessione, gravida di conseguenze antropologiche, politiche ed economiche, ci condurrebbe forse troppo lontano, e sarà probabilmente meglio affrontarla in futuro con la dovuta ponderazione ed ampiezza.

Il terzo ed ultimo punto, conseguenza inevitabile di quanto detto sopra, è lo scivolamento graduale e sempre più scoperto del potere dalla politica e dall’economia alla finanza, fino al punto in cui a guidare i governi vengono chiamati direttamente gli esponenti più in vista dell’élite finanziaria globale, i più diretti e intimi servitori di coloro che detengono il vero potere, che è quello di creare moneta-debito con un semplice atto di volontà.

E qui, come il mitico Ouroboros, il serpente – in altre culture il drago – che in eterno si morde la coda formando un cerchio senza fine, torniamo all’inizio della nostra riflessione, ovvero a quel giovane banchiere che, in un pomeriggio del giugno 1992, promise al ragguardevole consesso riunito sul panfilo della regina d’Inghilterra che avrebbe garantito la spoliazione dell’Italia dai suoi migliori assets, promessa che evidentemente ha preso estremamente sul serio, visto che ha continuato e continua a mantenerla a tutt’oggi.

Lo "stregone maledetto" si impiccia con le parole e il suo lessico è illogico

L’Italia del concorri, competi, crepa

di Marco Bersani
30 aprile 2021

Un paese allo sfascio, molto vulnerabile dal punto di vista ambientale, del tutto diseguale dal punto di vista sociale, con un settore pubblico ridotto ai minimi termini ed espropriato della sua primaria funzione. Durante la pandemia abbiamo potuto toccare con mano i disastri sanitari, sociali e ambientali prodotti dall’idea di società fondata sulla solitudine competitiva, sul profitto e sulle privatizzazioni, ma il pifferaio Draghi continua a suonare la stessa sinfonia del mercato, mentre partiti politici di ogni colore e media di ogni collocazione lo seguono incantati. Si potrebbe liquidare l’intero PNRR con un unico dato lessicale: nelle 337 pagine del piano le parole “competizione” e “concorrenza” ricorrono 257 volte, la parola “diseguaglianze” 7. Era chiaro sin dall’inizio come la pandemia costituisse uno spartiacque e ponesse tutte e tutti di fronte a un bivio: proseguire con un modello capitalistico dentro un quadro molto più autoritario o dichiararne la totale insostenibilità sociale e ambientale e intraprendere la sfida per un’alternativa di società. Il governo non ha avuto alcuna esitazione.

* * * *

Come ampiamente previsto, la discussione parlamentare del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) del Governo Draghi si è trasformata in una cerimonia celebrativa da far invidia al governo nord-coreano.

Un intero arco parlamentare, trattato a pesci in faccia dal ‘governo dei migliori’ al punto da aver ricevuto il testo definitivo del piano un paio d’ore prima dell’inizio della discussione, si è allineato con dichiarazioni imbarazzanti e prive di nessi logici.

Una per tutte, le parole del neo segretario Pd, Enrico Letta: “Verde, sociale, inclusiva, competitiva, solidale. Questa l’Italia che potremo avere se diventerà realtà il PNRR presentato in Parlamento da Draghi”.

Inutile spiegare a Letta, dizionario alla mano, l’antagonismo tra la parola “competitiva” (‘che tende a competere, che è e vuol essere in competizione’) e la parola “solidale” (‘che instaura rapporto di fratellanza e di reciproco sostegno fra i componenti di una collettività’).

D’altronde, anche allo stesso Draghi andrebbe regalato un dizionario, dopo aver letto quanto scrive nell’introduzione al Piano: “Un fattore essenziale per la crescita economica e l’equità è la promozione e la tutela della concorrenza. La concorrenza non risponde solo alla logica del mercato, ma può anche contribuire ad una maggiore giustizia sociale”.

Salvo poi aggiungere poche righe sotto: “Il Governo s’impegna a presentare in Parlamento il disegno di legge annuale per il mercato e la concorrenza (e) si impegna a mitigare gli effetti negativi prodotti da queste misure (..). Quanto più si incoraggia la concorrenza, tanto più occorre rafforzare la protezione sociale”.

Forse basterebbe liquidare l’intero PNRR con un unico dato lessicale: nelle 337 pagine del piano le parole “competizione” e “concorrenza” ricorrono 257 volte, la parola “diseguaglianze” 7 volte.

Di fatto, l’intero Piano, dentro il quale, sempre secondo il Presidente del Consiglio, “non ci sono solo numeri e scadenze, ma le vite degli italiani e il destino del Paese” è fortemente ancorato all’impianto della dottrina liberista, per la quale il pubblico deve mettersi al servizio dell’economia di mercato, dalla cui competitività si misura il benessere del Paese.

Da non credere. Come se non fosse stato proprio questo meccanismo a portarci alla drammatica crisi resa evidente dall’esplosione della pandemia.

Basta leggere l’introduzione al PNRR per rendersene conto. Anche queste sono parole di Draghi: “La pandemia si è abbattuta su un Paese già fragile dal punta di vista economico, sociale, ambientale (..) tra il 2005 e il 2019 il numero di persone sotto la soglia di povertà assoluta è salito dal 3,3 per cento al 7,7 per cento della popolazione, prima di aumentare ulteriormente nel 2020 fino al 9,4 per cento (..) l’Italia è il Paese dell’UE con il più alto tasso di ragazzi tra i 15 e i 29 anni non impegnati nello studio, nel lavoro o nella formazione (NEET) (..) il tasso di partecipazione delle donne al lavoro è solo il 53,8 per cento, molto al di sotto del 67,3 per cento della media europea. E questi problemi sono ancora più accentuati nel Mezzogiorno (..) l’Italia è particolarmente vulnerabile ai cambiamenti climatici con il 12,6 per cento della popolazione che abita in aree classificate ad elevata pericolosità di frana o soggette ad alluvioni”.

E’ stata provocata da uno spropositato ruolo del pubblico questa situazione?

E’ sempre il nostro Draghi a rispondere di no. Dice infatti il PNRR: “Nell’ultimo decennio l’evoluzione della spesa pubblica, con il blocco del turnover, ha generato una significativa riduzione del numero dei dipendenti pubblici in Italia. La Pubblica Amministrazione italiana registra oggi un numero di dipendenti (circa 3,2 milioni in valore assoluto) inferiore alla media OCSE (13,4 per cento dell’occupazione totale, contro il 17,7 per cento della media OCSE, secondo i dati del 2017)”.

Non solo. “In 10 anni gli investimenti in formazione dei dipendenti pubblici si sono quasi dimezzati, passando da 262 milioni di euro nel 2008 a 164 milioni nel 2019: una media di 48 euro per dipendente”. Il tutto affiancato da una drastica riduzione degli investimenti pubblici, fin quasi al loro azzeramento.

Draghi la racconta come un dato oggettivo, ma tutti sappiamo che l’azzeramento della funzione della Pubblica Amministrazione è stata il frutto di scelte ben precise, dettate dai vincoli di Maastricht, dal patto di stabilità e dal Fiscal Compact; ovvero dalle misure di austerità applicate utilizzando la trappola ideologica del debito pubblico per favorire le privatizzazioni e la messa sul mercato di beni comuni e servizi pubblici che prima ne erano esclusi.

Ricapitolando: l’Italia è un paese allo sfascio, pesantemente vulnerabile dal punto di vista ambientale, drammaticamente diseguale dal punto di vista sociale e con un settore pubblico ridotto ai minimi termini ed espropriato della sua primaria funzione pubblica e sociale.

Come pensa di affrontare questa situazione il piano di Draghi?

Attraverso la rimozione delle barriere all’entrata dei mercati e promuovendo “dinamiche competitive finalizzate ad assicurare anche la protezione di diritti e interessi non economici dei cittadini, con particolare riguardo ai servizi pubblici, alla sanità e all’ambiente”.

Mentre le persone durante la pandemia hanno vissuto sulla propria pelle (e 120.000 di queste ci hanno lasciato) i disastri sanitari, sociali e ambientali prodotti dall’idea di società fondata sulla solitudine competitiva, sul profitto e sulle privatizzazioni, il pifferaio Draghi suona la sinfonia del mercato e partiti politici di ogni colore, mass media di ogni collocazione lo seguono incantati.

Draghi racconta di un PNRR che porterà un bastimento carico di miliardi in cambio di qualche riforma, la realtà dimostra che il PNRR è un piano che ridisegna il Paese con le riforme in cambio di qualche soldo. I 205 miliardi da investire in sei anni sono inferiori a quanto già speso dal governo italiano nei primi 15 mesi di pandemia (210 miliardi), mentre le riforme –condicio sine qua non per averli- sono finalizzate a stabilizzare un modello fondato sulla predazione della natura, sull’espropriazione sociale e sulla precarietà.

La ripresa di cui si parla è il rilancio dell’economia dei profitti. La resilienza che si auspica è la rassegnazione che si chiede alle persone.

A tutto questo va aggiunto che questo PNRR blinderà qualsiasi scelta politica – elezioni o meno – per i prossimi sei anni. Come ha esplicitato il commissario europeo Paolo Gentiloni, il PNRR è come un contratto tra l’Unione europea e ciascuno stato membro e “probabilmente due volte l’anno, la Commissione europea dovrà decidere se erogare la parte di finanziamento che il paese aspetta” e lo farà, oltre che sulla base della spesa sostenuta, “sul rispetto degli impegni presi nelle riforme indicate nel Piano”.

Era chiaro sin dall’inizio come la pandemia costituisse uno spartiacque e ponesse tutte e tutti di fronte a un bivio: proseguire con un modello capitalistico dentro un quadro molto più autoritario o dichiararne la totale insostenibilità sociale e ambientale e intraprendere la sfida per un’alternativa di società.

Il PNRR del governo Draghi ha imboccato senza indugi la prima direzione.

Centinaia di realtà associative e di movimento hanno intrapreso con determinazione la seconda, avviando il percorso di convergenza per la “Società della cura”.

La partita è aperta è in gioco c’è il diritto al futuro. Nessuno pensi di poterla stare a guardare.

Nota di servizio

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mar.te.lun.

Magistratura organica all'interno del Sistema massonico mafioso politico istituzionalizzato

La magistratura ostativa

Maurizio Blondet 7 Maggio 2021
Ostativo
(Elogio di 1500 ergastolani)

Il procuratore per cui i politici sono tutti “ corrotti che non sono stati ancora scoperti”, è stato scoperto al centro del più ripugnante sistema di corruzione della corrottissima magistratura d’accusa. Procure nidi di vipere, dove tutti sono nemici di tutti, e il capo deve guardarsi dalle manovre del vice che vuol far carriera a sue spese. Carrierismo delirante senza alcun freno morale o di dignità personale. Magistrati che si fanno le scarpe l’un l’altro; che violano il segreto istruttorio scambiandosi dossier – reato per il quale puniscono spietatamente i giornalisti nemici, e “non vedono” nei giornali amici. Consiglio superiore della Magistratura muto per omertà che non può che definirsi mafiosa, per mantenere il sistema di potere senza autorità etica attuale, contando che della scandalo i giornali resi amici non parleranno quasi.

Il capo siculo del medesimo Consiglio che dovrebbe dire una parola, più muto di tutti: sia taccia perché il Procuratore ha a carico suo e della sua “famiglia” nel genere di “concorso esterno”, reato creato dai procuratori e mai ben definito, onde possa essere usato contro chiunque non piaccia alla Procura Suprema, sia che resti muto perché non sa adottare le nobili parole e l’alta accusa etica che la situazione richiede, per mancanza dell’una e dell’altra, nobiltà e pubblica moralità; sia che taccia perché non gliene frega nulla del popolo italiano e non sente il dovere di dargli risposte. Una carattere che accomuna tutti i protagonisti della storiaccia: non la minima traccia della coscienza che una dirigenza pubblica deve spirito di servizio verso il popolo italiano. Qui, nessun senso di responsabilità, nemmeno un briciolo di volontà di servizio: nudo potere esercitato senza remore etiche e nemmeno professionali, e senza più alcuna autorità e dignità. A cui non danno alcun valore.


Mi è venuto da pensare che questa gente è anche quella che punisce con l’ergastolo “ostativo” delinquenti che – loro, assassini – hanno le qualità che i giudicanti ed accusanti hanno gettato nel cesso.

L’ergastolo ostativo, anch’esso invenzione delle procure pseudo giustificato dalla “Lotta alla mafia” e beninteso dalla “emergenza” con cui questi si sono dati a tutti gli arbitrii, “ esclude dall’applicabilità dei benefici penitenziari (liberazione condizionale, lavoro all’esterno, permessi premio, semilibertà) mafiosi che non accettano di farsi “pentiti”, ossia di tradire l’organizzazione che guidavano e vendere un po’ di compagni per ottenere attenuazioni della pensa. L’ergastolo ostativo infatti è tale che “la perpetuità di tale pena detentiva può essere vinta solamente mediante la collaborazione con la giustizia”. Insomma solo facilitano il lavoro a questi ricchi di Stato che sono i procuratori, spiattellando nomi e chiamate in correità da trascinare davanti a “Questi giudici”.


Dunque un numero di ergastolani – pare ben 1500 – resiste alla tentazione corruttrice di addolcimenti della pena, di sconto, di semilibertà e tornare qualche giorno a casa – tentazione che de’essere terribile per questi sepolti vivi – e si sconta tutti i 35 anni senza piegarsi.

Che volontà d’acciaio. Che fedeltà alla comunità cui appartengono, che abnegazione, senso di responsabilità verso di essa. Che spirito di sacrificio. Che fermezza. Che carattere. Che spina dorsale.

Che senso altissimo della propria dignità. Metteteli a confronto non solo coi Palamara e coi Mattarella-muto, ma con i Salvini che passano dall’esaltare Putin ad approvare le sanzioni a Mosca, senza nemmeno un passaggio intermedio: conferma di un’assenza totale di “spina dorsale”, di personalità etica e politica, e di rispetto di sé. Ma di Letta, Zingaretti, Speranza possiamo dire lo stesso: nessuno ha dimostrato questo carattere essenziale degli uomini di Stato.

In fondo, lo sappiamo. E’ connaturato alla Grande Impostura che il regime più oppressivo della storia sia completamente occupato e gestito da “ ominicchi, (con rispetto parlando) pigliainculo e i quaquaracquà” (Sciascia) e i veri uomini rimasti siano all’ergastolo.

Ostativo.

Destra/sinistra due facce della medesima medaglia, uniti solo a succhiare sangue alle masse proletarizzate

La destra addomesticata

Maurizio Blondet 7 Maggio 2021
di Roberto PECCHIOLI

Deplorevoli: così Hillary Clinton definì nel 2016 i sostenitori di Donald Trump. Qualche anno prima, il presidente socialista François Hollande, alla vigilia di subire una sconfitta elettorale da cui il suo partito non si è più ripreso, chiamò “sdentati” i suoi avversari politici, specie gli elettori di Marine Le Pen.

Analogo disprezzo, con l’accusa di essere vecchi e ignoranti, fu lanciata in Inghilterra ai sostenitori della Brexit. Fatto sta che Trump vinse le elezioni e probabilmente fece lo stesso nel novembre scorso, quando i brogli elettorali hanno messo le ali a Joe Biden. Hollande è un ricordo, il suo partito arranca.

La Brexit funziona e ha portato alla ribalta un politico conservatore senza complessi, Boris Johnson. Nonostante la demonizzazione, Marine Le Pen è ancora in sella e il suo partito è il più votato dagli operai e dalla classe medio bassa francese, esattamente come Trump e Johnson hanno cambiato pelle all’elettorato dei rispettivi partiti, una volta campioni dei ceti abbienti.

Anche da noi, Lega e Fratelli d’Italia riuniscono l’anima delle piccole e medie partite Iva con quella popolare e identitaria. Il disprezzo progressista e comunista nei confronti dei loro elettori è uguale a quello del resto del resto d’Occidente: analfabeti, rozzi, incolti, eccetera.

L’orribile “destra” degli sconfitti della globalizzazione, di chi lavora faticosamente
e non ha dimenticato le tradizioni morali, civiche, spirituali del popolo cui appartiene.
Mancava all’appello la Spagna, ma la lacuna è stata colmata. Le elezioni della regione di
Madrid- centro motore culturale, politico ed economico della nazione iberica- hanno
inflitto una storica stangata alle sinistre. La vincitrice, Isabel Diaz Ayuso, è la beniamina
della Madrid popolare, dei commercianti, dei tassisti, di chi vive di turismo, della piccola e
media impresa, titolari e dipendenti, e, pare, dei baristi. Male gliene è incolto: il presidente
dell’Istat spagnolo, José Tezanos, un barbuto, accigliato intellettuale legato al partito
socialista, ha trattato da ignoranti – come di consueto – gli elettori della Ayuso e di Vox- il
partito più conservatore – con una significativa novità: li ha accusati di frequentare le
osterie, di essere degli avvinazzati “tabernarios”, spregevole gente da taverna.
Evidentemente, le taverne sono amatissime dai castigliani, poiché i socialisti sono crollati
al minimo storico e i comunisti hanno subito una batosta che ha fatto abbandonare la
politica al loro capo, Pablo Iglesias.

La sinistra di ieri non avrebbe disprezzato con tanta acredine i ceti popolari che le hanno voltato le spalle. Nel caso delle taverne, demonizzate perché di destra o senz’altro “fasciste”, avrebbe almeno preso atto che si tratta di luoghi di socializzazione, di incontro, chiedendosi perché le classi popolari non credono più alle vecchie parole d’ordine.

A furia di disprezzo, derisione e odio il progressismo ha ottenuto
di vedersi restituito il rancore sotto forma di voti al “nemico di classe”.
Ma quale classe? Se lo domandino i signorini viziati della sinistra progressiva, progressista,
benestante, colta, tollerante e ragionevole, che sta sempre dalla parte degli “altri” e mai del
suo popolo, come intuì Carlo Marx; lavorano per il re di Prussia. Tanta gente comune lo ha
capito, ma se la realtà non va nelle direzione “radiosa” voluta da lorsignori e lorcompagni,
abbasso la realtà. Il popolo è l’avanguardia rivoluzionaria e progressista se si fa dirigere da
loro: in caso contrario, torna ad essere un branco di pezzenti, straccioni, deplorevoli,
sdentati, ignoranti e ora anche di loschi frequentatori di osterie.
Che cosa fa, tuttavia, la cosiddetta destra per cambiare le cose e rovesciare l’agenda dei
progressisti, sostenuta e finanziata dai piani alti della finanza, dell’industria, delle
multinazionali, Big Tech, Big Pharma? Poco o nulla, è una destra domestica, di servizio, o
meglio addomesticata, che accetta di essere figlia di un Dio minore e non combatte
battaglie di principio. Quando lo fa, guarda caso, vince o diventa credibile alternativa. La
destra addomesticata ha accettato di essere l’altra faccia della luna, quella oscura e
invisibile. Quel che le interessa, alla fine, è continuare a fare affari (business, as usual!),
godere di paradisi fiscali e alimentare l’egoismo individuale e mercantile.

Lenin diceva che l’ultimo capitalista avrebbe venduto la corda con cui i rivoluzionari si accingevano ad impiccarlo. Detestano lo Stato, ma invocano la questura in difesa dei loro interessi, la
“roba” di verghiana memoria, salvo detestare le uniformi se appartengono alla Guardia di
Finanza.
E’ per questi motivi che chi scrive, con grande meraviglia di amici e conoscenti, rifiuta
fieramente l’etichetta di uomo di destra. Evitiamo i discorsi sociologici e le teorizzazioni. Il
potere vincente – liberista in economia e libertario libertino nei costumi, cosmopolita e
mondialista- ha scelto il sedicente progressismo come aiutante di campo ed alleato
preferenziale a ragion veduta. Da quella parte hanno rinunciato a stare dalla parte del
popolo, preferendo l’individualismo esasperato dei “diritti” e l’identitarismo diversitario
delle minoranze. Chi sta dalla parte degli ultimi e, soprattutto, dei penultimi, ovvero la
maggioranza stragrande delle nostre società?
Gli spazi di libertà si restringono ogni giorno. Siamo già rinchiusi in un recinto nel quale
diventa oro colato l’affermazione del misterioso Bansky, l’ignoto artista di strada, dipinta
con inchiostro color sangue su un anonimo muro metropolitano: if graffiti changed
anything, it would be illegal. Se i graffiti cambiassero qualcosa, sarebbero illegali.
L’affermazione è rilevante poiché esprime una verità che unisce sinistra e destra di
sistema, allegramente riunite al centro, il luogo degli affari e dell’indicibile: non esiste
possibilità di cambiare la nostra società dall’interno. Tutt’al più sono ammesse alcune zone
franche, rari luoghi di dibattito libero, di elaborazione critica, giusto per non far saltare la
pentola a pressione. Graffiti sui muri che, quando il proprietario deciderà, verranno ripuliti
con spese a carico degli autori.
La speranza si spegne giorno dopo giorno insieme ai diritti sociali, alla sicurezza, alla
libertà concreta e quotidiana, alla giustizia, alle comunità, alla sovranità popolare. E’ tutto
troppo complicato, difficile: bisogna rassegnarsi, abbozzare, accettare le briciole del
banchetto dei signori. Su questo concordano la destra, la sinistra, il centro e le persone “di
buon senso”.

Chissà se ci salveranno i deplorevoli o le taverne. Un’ affermazione ci è
rimasta conficcata come una spina: chi guadagna novecento euro al mese è uno sciocco se
pensa e vota a destra. Ha torto per il gelido materialismo dell’asserzione e perché i princìpi
non dipendono dal reddito: la destra “morale” è spesso formata da persone di modesta
condizione economica. Ha purtroppo ragione se analizziamo l’istinto delle destre “reali”
alla prova dei fatti: privatizzazioni, vantaggi per chi ha di più, egoismo mascherato da
libertà.
Chi scrive non nasconde la propria ammirazione per José Antonio Primo de Rivera,
fucilato dai socialcomunisti, appassionato difensore di una Patria che dà ai suoi figli “pane
e giustizia”. Lo gridò in faccia ai suoi assassini, davanti al plotone di esecuzione: “Vi hanno
detto che sono un avversario da uccidere, ma voi ignorate che il mio sogno era Patria, pane
e giustizia per tutti gli spagnoli, specie per i miseri e i diseredati. Dovete credermi, quando
si sta per morire non si può mentire”. Del resto, che senso ha amare la propria terra, i suoi
costumi e sentimenti, se non si ama innanzitutto chi ne fa parte, il popolo per il quale si
desidera benessere, libertà, un futuro migliore? Romanticismo politico, sentimenti
incapacitanti, incompatibili con la battaglia quotidiana, forse, ma è ai quei sentimenti
elementari che deve il suo successo l’avversario.
C’è un aspetto da salvare del liberalismo originario, sgominato dal liberismo economico e
dal libertarismo/libertinismo sociale diventato proibizionista. Sta in quella parte del
Trattato del governo civile in cui John Locke difende la sfera intangibile dei diritti naturali
di ogni persona, definita dalla triade “vita, libertà, averi”. Nessun governo, nessuna
ideologia è accettabile se non salvaguarda questi principi ed è legittimo opporre a chi li
infrange il diritto naturale di resistenza. Locke trasse quei fondamenti dalla tradizione
tomista del De regimine principum. La triade lockiana è stata sostituita dall’equivoco
rivoluzionario francese: libertà, (la libertà borghese degli affari), ma anche uguaglianza – che è il suo contrario e ha senso solo come isonomia, uguaglianza davanti alla legge – e
l’equivoca fraternità.

Prendiamoli in parola: fratelli sono coloro che hanno gli stessi genitori, i connazionali, coloro che condividono un sistema di valori, una lingua, un territorio. La parentela con tutti gli altri umani è meno stretta ed è legge di natura amare di più la propria gente che gli estranei.
Locke ci richiama innanzitutto a difendere la vita, ossia a rivendicare lo spazio personale, intimo e inviolabile della prima sovranità, quella su se stessi.

La post modernità è potere sulla vita, biocrazia. Si è impadronita dei nostri corpi ed entra sempre più nelle nostre anime. Vaccinazioni, chip, indottrinamento martellante della comunicazione, sorveglianza continua da remoto, telecamere, tecnologia, dati e metadati che “profilano” proprio me e te.

In più il tecno-feudalesimo decide per noi se possiamo muoverci, lasciare la nostra casa
(quando ce l’abbiamo, l’obiettivo è che non dobbiamo possedere nulla, poiché tutto è “cosa
loro”), lavorare in un ufficio, un commercio o una fabbrica oppure restare inchiodati in
casa davanti allo schermo. Decide perfino di impartire l’educazione scolastica a distanza,
tra opuscoli d’istruzioni, tutorial, filmati, pulsanti e tasti nella solitudine incomunicabile di
una celletta dell’alveare, il “loro” alveare.
Difendere la vita concreta è dunque centrale, a partire dal dovere di dare una chance di
esistenza a chi non è ancora nato, a non essere considerato un grumo di cellule da
espellere, rifiuti da trattare o conservare per essere utilizzati nell’industria estetica o come
componenti dei vaccini di ultima generazione. Senza vita non c’è libertà. Habeas corpus: il
mio corpo fisico e il mio spirito sono miei e non possono essere penetrati, espropriati,
violati, una forma post moderna di stupro. Libertà significa innanzitutto poter pensare,
imparare, confrontare, dibattere, liberi da censure e dal bisogno materiale. Nessuna
proibizione, rivendichiamo noi il “vietato vietare” del Sessantotto.
Fermo restando il rigetto della violenza, non vi è idea, opinione e parola che non abbia
diritto di cittadinanza. Libertà è anche il diritto di lavorare, scegliere un’attività e svolgerla
senza interferenze. Lo Stato non è il mio padrone, piuttosto il mio difensore.

La proprietà privata – chi scrive lo affermava anni fa nello stupore generale – va difesa non dal comunismo, ma dal liberalismo degenerato. Se mi tolgono vita e libertà mi negano l’essere. Se non posso possedere qualcosa – a partire dal denaro contante che mi tolgono dalle tasche per trasferirlo nella loro insindacabile disponibilità- mi proibiscono di avere.

Ci vogliono poveri, immobili, ignoranti, dipendenti.

Dalla loro “benevolenza”, dalla loro tecnologia, dalle loro terapie che invadono il corpo per impadronirsi dell’anima.

Animali con reddito minimo universale elargito da lorsignori previa richiesta all’ufficio competente, da spendere con apposita carta di credito, utilizzabile per i beni e i servizi ammessi da loro.

Questa è vita, è libertà, è “avere” ed “essere”? Non sappiamo se stiamo esponendo principi di destra, di centro o di sinistra. Meglio sarebbe dimenticare questi termini, frutto di stagioni passate e rammentare che José Ortega y Gasset considerava destra e sinistra forme speculari di emiplegia mentale, ossia di paralisi del cervello.

Fatto sta che la destra reale è addomesticata. Non fiata sui principi, non crede più alla
triade Dio, Patria e famiglia, non ha più rispetto per legge e ordine (tranne che per
difendere la proprietà e gli interessi oligarchici), ride di vecchi valori come lealtà, fedeltà,
rispetto della parola data, onore. Non vi si può applicare il cartellino con il prezzo, dunque
non valgono nulla sul mercato. Quanto al pane e la giustizia sociale, “se non ce la fai,
peggio per te”. Diventa imprenditore di te stesso, credi nelle tre “I” come Silvio: Internet,
inglese, impresa. Mezzi, non fini, strumenti per avere successo, il modo ipocrita per dire
“fare soldi”. E chi se ne frega se gli altri, i risvegliati (il progressismo ultimo chiama così se
stesso, woke) impongono le parole vietate e quelle obbligatorie, negano per legge il diritto
a dire ciò che si pensa di un numero impressionante di cose, distruggono quel che resta
della comunità, della famiglia, della legge naturale, cancellano la civiltà in nome del nulla.
Essenziale è che si possano fare affari. Anzi, adesso è meglio: se tutto è ridotto a cosa, se
tutto è compravendibile, si allarga il giro d’affari.

Nuove opportunità per chi è furbo, svelto, cinico. Camminano insieme, la destra e la sinistra, e insieme tolgono la vita, la libertà, gli averi e la dignità.

Occorre una nuova teoria sociale, morale e politica, ma se vogliamo mantenere in piedi l’edificio fatiscente della destra e della sinistra, basta con la versione “domestica” di entrambe. La sinistra, almeno, consegue con moto accelerato il suo obiettivo di demolire il mondo e costruirne uno nuovo, peggiore.

E’ la sua ragion d’essere, la ostentarono dopo la Bastiglia, sedendosi a sinistra nell’assemblea nazionale, affinché tutto quanto era sempre stato “diritto”, ovvero giusto e naturale, fosse capovolto.

La loro missione è compiuta, in gran parte a spese di chi non chiedeva che pane e giustizia, gli sdentati, i deplorevoli, gli ignoranti, i tipi da taverna.

La destra addomesticata è la versione senza maschera della sinistra neo liberale in campo economico sociale, un po’ più lenta nella distruzione dei principi fondanti, come dimostra l’iniziativa di Lega e FI sulla legge anti omofobia, formulazione light di principi analoghi a quelli del ddl Zan. E’ l’”opposizione di Sua Maestà” in un mondo simile al muro dei graffiti: un angusto recinto di libertà vigilata. Come i graffiti, se la destra domestica contasse qualcosa non esisterebbe o la vieterebbero d’autorità.

Spetta a noi cancellare i graffiti e rifare il quadro; spetta a chi crede nella Vita, nella Libertà e nell’Essere, agire perché ci siano pane e giustizia, ossia dignità, presupposti di un mondo fondato su Dio, Patria, famiglia, comunità, identità, morale e legge naturale. Il fronte di chi non sarà mai domestico.

Ebrei sionisti attaccano la moschea

L’esercito israeliano attacca moschea di Al Aqsa

Sono in corso violenti disordini nella moschea di Al Aqsa da parte di centinaia di arabi, la Polizia ha fatto irruzione nella moschea e l’IDF ha inviato le brigate di fanteria Golani e Kfir nel luogo degli scontri e nei territori circostanti. Sono stati avvistati 4 elicotteri d’attacco AH-64A Peten in volo sulla moschea e nei territori vicini. Fonte: Lion Ulder / Twitter

Le forze dell’IDF hanno iniziato a sparare sulla folla e ad usare granate nella moschea di Al Aqsa contro centinaia di arabi. Fonte: Intel Slava

La situazione nella moschea di Al Aqsa è critica, le porte sono chiuse, l’IDF sta assediando la moschea e sta usando armi letali e granate contro la folla, inclusi i minorenni.

Sono inoltre stati riportati diversi pestaggi da parte delle forze israeliane contro i palestinesi, e ci sono molti corpi a terra.  Le forze dell’IDF stanno continuando ad aprire il fuoco anche contro i corpi già a terra, e contro i palestinesi che cercavano di portarli via. La porta della moschea, in cui sono barricati i palestinesi, è stata incendiata dalle forze dell’IDF.  Fonte: IWC

https://twitter.com/Partisangirl/status/1390847420884340747

https://www.maurizioblondet.it/lesercito-israeliano-attacca-moschea-di-al-aqsa/

Attenti attenti ai vaccini con modificazioni genetiche

Nuove pesanti ombre sui vaccini: “sono parte della malattia”



Oggi mi limito a riportare, sia pure in estrema sintesi, un inquietante studio condotto dai ricercatori del prestigioso Salk Institute il quale insinua indirettamente molti dubbi sui vaccini a mRna e rimette completamente in gioco la questione da un nuovo punto di vista. L’articolo, intitolato ” La proteina spike del nuovo coronavirus gioca un ruolo chiave aggiuntivo nella malattia”, pubblicato il 30 aprile scorso sul sito del Salk mostra che la “proteina spike distintiva” di SARS-CoV-2 “danneggia le cellule, confermando COVID-19 come una malattia principalmente vascolare”. Sebbene il documento si concentri strettamente sulle questioni relative a Covid, e non affronti in maniera diretta gli interrogativi sui vaccini solleva inevitabilmente domande sui nuovi nuovi preparati per un motivo evidente: “Nel nuovo studio, i ricercatori hanno creato uno” pseudovirus “circondato circondato dalla classica corona di proteine ​​spike SARS-CoV-2, ma senza contenere alcun virus effettivo. L’esposizione a questo pseudovirus ha provocato danni ai polmoni e alle arterie di un modello animale, dimostrando che la sola proteina spike era sufficiente a causare la malattia. I campioni di tessuto hanno mostrato infiammazione nelle cellule endoteliali che rivestono le pareti delle arterie polmonari.”

Come è noto i vaccini a mRna contengono istruzioni genetiche grazie alla le quali le cellule dell’organismo dei vaccinati producono appunto la proteina spike del Sars Cov 2 in maniera che poi questa attivi il sistema immunitario preparando difese contro il virus vero. Si può contestare il fatto che l’immunità conseguente a questa azione sia scarsa e di breve durata non coinvolgendo i linfociti T, si può temere che queste istruzioni genetiche possano creare problemi all’intero sistema immunitario indebolendolo e quindi rendendo il vaccinato più esposto a tutte le infezioni, si può anche pensare che questi vaccini posano anche influenzare il Dna delle cellule, ma lo studio dell’istituto Salk dimostra che la proteina spike, anche da sola e senza il resto del virus, danneggia di per sé le cellule endoteliali umane ( quelle dei vasi sanguigni da cui poi le trombosi) e quindi “svolge un ruolo aggiuntivo” e autonomo nella malattia. Cosa pensare perciò di un vaccino che stimola la produzione di una proteina dannosa?

Cerchiamo di fare ordine: lo studio del Salk offre prove concrete che:
Covid-19 è principalmente una malattia del sistema vascolare e non del sistema respiratorio.
Il principale colpevole è la proteina spike che si fonde con i recettori sulla superficie delle cellule, consentendo al codice genetico del virus di invadere la cellula ospite.
Se Covid-19 è principalmente una malattia vascolare e se lo strumento principale del danno fisico è la proteina spike, allora perché stiamo iniettando alle persone preparati che ordinano all’organismo una grande quantità di tale proteina?

Il rischio concreto secondo altri ricercatori è che i vaccini di questo tipo ( non quelli cinesi, russi o cubani di diversa concezione) possano creare i presupposti per il sopravvenire di gravi malattie autoimmuni, magari a distanza di anni o reazioni anomale di fronte a un’infezione da coronavirus. Si tratta di ipotesi che avrebbero dovuto essere verificate prima di procedere a una prematura vaccinazione universale, ma adesso bisognerà vedere se i produttori di vaccini prenderanno in considerazione lo studio del Salk e condurranno le opportune ricerche o se ancora una volta faranno finta di non sentire e di non vedere nascondendo tutto sotto il tappeto, anche grazie alla criminale leggerezza con la quale tutti gli stati occidentali ha sollevato i produttori dei vaccini da qualsiasi responsabilità.

Colombia - governare significa ascoltare il popolo e fare il proprio massimo per onorarlo, non per schiacciarlo

Colombia

07.05.2021 - Bogotà, Colombia - Gloria Arias Nieto

Quest'articolo è disponibile anche in: Spagnolo

(Foto di conant.kimberly)

4 maggio 2021 el Espectador

Al contrario del suo presidente, la Colombia è capace di ascoltare e di sentire la voce e la pelle del suo popolo, il dolore degli stracci rossi appesi alle finestre affamate, il contrasto tra la verità cruda e tagliente e le falsità fatte di superbia e mediocrità. Sa guardare davvero e fino in fondo la grandezza della discriminazione e dell’iniquità. La Colombia non mente a se stessa, perché è stanca che le si menta per condurla alla guerra, per instupidire le urne e sostenere i cavalieri d’argilla che non sono in grado di sopportare il confronto con la realtà.

La Colombia è inferocita, in lutto, mal governata e sprofondata nell’incertezza. Però è audace, e più la violano e ne offuscano la democrazia, più consolida il bisogno di affermare la propria dignità.

Nelle privazioni dei suoi 21 milioni di poveri c’è più coraggio che nel suono feroce degli ajuas [grida emesse durante danze popolari NdT], quelli che rimbombano quando il potere si esprime con le pallottole e non con la capacità di mettersi nei panni degli scomparsi, dei profughi, degli infelici, della classe media che è sempre più povera e dei poveri che mangiano sempre meno.

Alla Colombia si spara negli occhi, si insegue con robocop in armatura nera e si seppellisce nel fango dei sentieri e nei muri rotti dei cimiteri. Vogliono sottometterla con la paura, fratturarle la fiducia e il cranio, ma se qualcosa abbiamo imparato, in questo paese che amiamo, e che ci svela e ci reclama e forse potrà perdonarci, è persistere e resistere; resuscitare a modo nostro tra tamburi e epidemie, tra montagne, fiori bianchi e carri armati, tra padrenostri, tiranni e proclami.

In mezzo al caos e alle fiamme che non avrebbero mai dovuto esserci, in mezzo a una protesta che non si ferma né si fermerà finche i governanti non si degneranno di guardare la realtà, tra le sirene rosse e le finestre rotte giacevano i manifestanti morti: “quello che c’è è un proiettile”. Nelle piazze piene e nelle vecchie strade la vita si è spezzata – l’hanno spezzata – e i ragazzi senza vita sono rimasti con gli occhi immobili guardando il nulla, addio a tutto quanto. Non si combattono i calci con il piombo, né la gioventù con i proiettili. Non siate infami! Non lo vedete che la morte è così atrocemente irreversibile?

È tanta l’indignazione di fronte a questo governo arrogante e lacrimoso, che è quasi passato inosservato un fatto importantissimo, conseguenza della firma dell’Accordo di Pace: venerdì – mentre tutto andava fuori controllo – gli ex comandanti delle vecchie Farc hanno presentato alla JEP un documento nel quale riconoscono la propria responsabilità e forniscono informazioni dettagliate riguardo ai sequestri commessi durante la guerriglia; non pretendono di giustificare quello che è ingiustificabile, riconoscono i trattamenti infami a cui furono sottoposte le vittime, chiedono perdono e offrono oltre 300 pagine di verità. Bene, visto che la guerra non è stata un monologo né è accaduta alle nostre spalle, si spera che gli altri protagonisti, registi e suggeritori, sceneggiatori e produttori, sponsor, tecnici e complici, abbiano il coraggio di rivelare – pure loro – la propria partecipazione a questa storia di sangue, abbandono e morte.

Al momento dell’invio di questo articolo la Colombia sta ancora protestando, e il governo sperperando repressione e indolenza. L’annuncio del presidente di militarizzare il paese è un colpo per la democrazia e la premessa per una tragedia incalcolabile. Eppure Iván Duque sembra non avere neanche un amico capace di spiegargli che governare significa ascoltare il popolo e fare il proprio massimo per onorarlo, non per schiacciarlo.

Traduzione dallo spagnolo: Manuela Donati. Rrevisione: Silvia Nocera

NON produrre, consuma e crepa. Per ora, tutti paiono convinti che funzioni. Ma in cuor loro, tutti sanno altresì che finirà male. Molto male.


Non produrre, consuma e crepa. Negli Usa mancano operai ma non carte di credito

8 Maggio 2021 - 13:00

Wall Street festeggia la delusione del dato occupazionale: fino al quarto trimestre, nessuna discussione sul taper. Ma le PMI non trovano lavoratori, perché i sussidi a pioggia garantiscono redditi più alti. Il tutto, mentre l’inflazione continua a galoppare. E se qualcosa costringesse il governo a frenare l’assistenzialismo? Le banche hanno già provveduto: oggi come mai, ottenere credito con pagamenti elettronici è la regola.


Quando lo scorso 10 febbraio Jerome Powell prese la parola all’Economic Club di New York, nessuno si attendeva granché dal suo intervento. Certamente non un annuncio market-mover. Invece, il numero uno della Fed dimostrò di avere lo sguardo lungo. Commentando il dato del 6,3% di tasso di disoccupazione, Powell infatti definì quell’indicatore non realistico rispetto al contesto economico Usa e sottolineò come, nonostante tutto, gli Stati Uniti scontassero ancora un deficit di 10 milioni di posti di lavoro rispetto all’anno precedente. Insomma, la pandemia aveva colpito duro. E, quindi, occorreva continuare lungo la strada dello stimolo straordinario intrapresa nel marzo 2020.

Questo, nonostante le dinamiche inflazionistiche già allora cominciassero ad andare in ebollizione e i breakevens segnalassero il possibile superamento di quota 2% nel mese di giugno: That won’t mean much, la risposta di Jerome Powell. Insomma, ciò che contava era il numero di occupati da recuperare per colmare il gap pre-Covid, l’inflazione ormai andava intesa come preistoria. Ora schiacciamo un immaginario tasto fast forward e arriviamo al 7 maggio, giorno della grande delusione: il dato dell’occupazione Usa, atteso oltre il milione di unità, segnava soltanto +266.000, la seconda peggior delusione delle attese da quando vengono tracciate le serie storiche. La reazione del mercato? Dow Jones e Standard&Poor’s 500 sui nuovi massimi storici.

Il motivo? Semplice e contenuto in questo grafico

Fonte: Bloomberg

e nella vecchia formula magica che sovrintende il mondo fatato del Qe: Bad news is good news. Appena diffuso il dato, le probabilità di un aumento dei tassi prima del dicembre 2022 sono precipitate sotto quota 50%. Bye bye taper, almeno fino al quarto trimestre di quest’anno la discussione - ancorché solo teorica - su un graduale processo di normalizzazione monetaria è congelata. E il mercato festeggia. Nasdaq in testa, dopo sette sedute consecutive di vendite da parte degli hedge funds e il più classici degli short squeezes innescato proprio dal pessimo dato occupazionale.

Jerome Powell ha avuto ragione lo scorso 10 febbraio, chapeau. C’è però un problema, racchiuso in questi due grafici,
Fonte: NFIB/Deutsche Bank
Fonte: BLS

i quali mettono in prospettiva quale sia il reale stato di salute del mercato del lavoro Usa, al netto delle tracciature ufficiali. Stando all’ultimo sondaggio condotto dalla NFIB fra i titolari di piccole e medie imprese lo scorso aprile, ben il 42% ha segnalato l’impossibilità di trovare dipendenti per coprire le nuove posizioni aperte grazie a stimoli e fine del lockdown. E la seconda immagine contestualizza il tutto: su oltre 100 milioni di americani fuori dalla forza lavoro ufficiale, attualmente solo 6,85 stanno cercando un’occupazione. Gli altri? Chiunque guadagnasse meno di 32.000 dollari l’anno prima della pandemia, attualmente ritiene conveniente stare a casa e beneficiare dei sussidi federali, piuttosto che accettare un lavoro, conferma Joe Song, economista di Bank of America.

Non a caso, la scorsa settimana lo Stato del Montana ha deciso di cancellare alcuni benefit legati alla disoccupazione, stante l’altissimo numero di posizioni da coprire. Al netto di tutto, il quadro apre alcuni quesiti inquietanti. Con il reddito dei percettori di sussidi che oggi dipende per il 34% del totale dai trasferimenti statali e una forza lavoro che sconta un deficit di quel livello, davvero l’America necessita di un piano infrastrutturale da 1,8 trilioni di dollari? Per cosa, creare posti di lavoro che non servono, ghost-town in stile cinese o proverbiali buche keynesiane da ricoprire? Oppure garantire in tandem una politica di sostegno all’economia che è divenuta parassitaria ed esiziale?

Perché questi due grafici
Fonte: Fao
Fonte: Fao

parlano chiaro, mostrando i dati ufficiali degli indici di tracciamento del prezzi agricoli e alimentari della FAO: se il dato di aprile su base annua ha segnato un +30,7, il tasso di crescita più veloce dal 2011 (Do you remember primavere arabe?), a trainare gli aumenti sono stati beni come olio, cereali, latticini, carne e zucchero. Quindi, non solo legname da costruzione o rame: bensì, qualcosa che può operare da detonatore di tensioni sociali su larga scala e non solo criticità produttive e settoriali.

Ecco quindi che appare più chiaro il perché della perpetuazione dell’emergenza da Covid, nonostante i tassi in calo e le vaccinazioni record: da un lato la Fed deve rinviare l’appuntamento con il redde rationem su tassi e controvalore di acquisti, dall’altro il governo deve evitare che - di colpo - i cittadini prezzino la perdita reale del loro potere d’acquisto rispetto a un’inflazione sempre più galoppante e diffusa, non potendo più contare sul sussidio federale permanente. La conferma? Ce la offre questo ultimo grafico,

Fonte: Goldman Sachs/Bloomberg

dal quale si evince come negli Stati Uniti - già patria del pagherò e del credito al consumo - non sia mai stato così semplice ottenere una carta di credito, almeno in base all’indice di tracciamento di Goldman Sachs.

Et voilà, quando anche si dovesse giocoforza ritirare un po’ di grandeur assistenzialista, l’americano medio potrà comunque indebitarsi allegramento su una o più carte di credito/debito fresche di concessione. E le banche, quasi certamente, già pregustano una Fed immobile che garantirà l’habitat perfetto per cartolarizzare con il badile tutto quel debito privato. Negli anni Settanta, era di moda lo slogan Produci, consuma e crepa, cruda messa in guardia dai principi cardine dell’alienazione capitalista. Oggi il Qe perenne e il miraggio dell’helicopter money ci hanno regalato una nuova versione: Non produrre, consuma e crepa. Per ora, tutti paiono convinti che funzioni. Ma in cuor loro, tutti sanno altresì che finirà male. Molto male.

Gli Stati Uniti sanno perfettamente che l'Ucraina nella Nato è la linea rossa della Russia e devono essere pronti a una guerra calda

Dalla Serbia all’Ucraina, come manovrano Russia e Cina nell’Europa dell’est

8 maggio 2021


L’articolo di Giuseppe Gagliano sulle mosse di Russia e Cina nell’Europa dell’est

Difficile negare come la presenza russa e cinese si faccia sempre più pervasiva e capillare nel cuore dell’Europa dell’est.

L’ennesima dimostrazione è data dal fatto che il 3 maggio il presidente della Serbia ha incontrato sia il rappresentante cinese a Belgrado Chen Bo che l’ambasciatore russo in Serbia, Aleksandr Bozan Kharchenko.

Se queste due nazioni rappresentano una presenza inquietante per l’alleanza atlantica non si non si può dire lo stesso per il presidente serbo visto che gli investimenti cinesi si aggirano intorno ai 10 miliardi mentre quelli della Russia intorno ai 4 miliardi.

Per quanto riguarda la Russia i suoi investimenti sono concentrarti prevalentemente nel settore del petrolio e del gas: infatti il principale azionista della multinazionale serba Naftna Industrija Srbije (NIS) è Gazprom Neft.

In secondo luogo un altro aspetto importante di questa sinergia è rappresentato dal gasdotto BAlkan Stream.

Per quanto riguarda la Cina abbiamo già avuto modo di sottolineare come la Serbia rappresenti il cavallo di Troia per consentire al Dragone di entrare nell’Europa.

Per quanto concerne la situazione politica ancora instabile tra Ucraina e Russia questa ha avuto degli sviluppi di grande rilevanza proprio giovedì 6 maggio quando vi è stato l’incontro tra il segretario di Stato degli USA, Anthony Blinken e il presidente dell’Ucraina, Volodymyr Zelensky, a Kiev.

Scontati i temi affrontati dai due uomini politici: la sicurezza nel Donbass e nelle aree del Mar Nero e Mar d’Azov, il Nord Stream 2 e soprattutto le riforme necessarie da porre in essere in Ucraina per entrare nella Nato.

A tale proposito, al di là della scontata richiesta da parte del segretario di Stato americano in relazione alle riforme di politica interna che dovranno essere attuate per consentire all’Ucraina di entrare a pieno titolo all’interno della Nato, è evidente che se una eventualità di tale natura dovesse verificarsi le tensioni con la Russia non solo avrebbero un incremento rilevantissimo ma potrebbero costituire la premessa per un conflitto.

Recovery Plan - gli investimenti e le riforme devono essere determinate verso la direzione non necessarie alla crescita del paese MA a quelle che Euroimbecilandia ritiene indispensabili ed opportune omologando le diverse necessità ad un modello inventato e che esiste solo nella sua testa. E gli euroimbecilli italiani proni e pronti ad accettare tutto a cominciare dallo "stregone maledetto"

Che cosa non va a Bruxelles sul Recovery Plan secondo il Financial Times

7 maggio 2021


L’articolo di Giuseppe Liturri

Quando si muove l’editorial board del quotidiano britannico, significa che la vicenda è della massima importanza. Qui si parla del tempo necessario per consentire un idoneo controllo sui meccanismi di spesa. È necessario raffinarli ex-ante perché sono ben note le difficoltà che gli Stati membri incontreranno per soddisfare le gravose condizioni imposte per ricevere i fondi. Ed allora meglio perdere del tempo in questa fase, per evitare di rincorrere debitori indisciplinati in futuro. Nel frattempo (e chissà per quanto) gli Stati (Italia e Spagna fra tutti) possono spendere emettendo debito nazionale. Se ci fosse chi ha ancora dubbi circa la vera natura del Recovery Fund, con questo articolo potrebbe cessare di averne.

[Articolo tratto dal Financial Times]

È passato quasi un anno da quando il presidente francese Emmanuel Macron e la cancelliera tedesca Angela Merkel hanno spinto con forza l’idea di un fondo per la ripresa finanziato dal debito dell’UE.

Quell’intesa ha aperto la strada a un accordo, due mesi dopo, tra tutti i 27 membri dell’UE per dotare il blocco per la prima volta di uno strumento di emergenza in deficit come strumento di gestione macroeconomica.

È stato un coraggioso passo avanti nell’integrazione dell’UE, compiuto con notevole rapidità per un’organizzazione nota per spostare solo il problema più avanti nei periodi di crisi. È stato inoltre un riconoscimento della gravità dello shock economico derivante dalla pandemia e dei suoi effetti particolarmente dannosi sui paesi dell’Europa meridionale.

Diversi paesi dell’UE devono ancora ratificare la cosiddetta decisione sulle “risorse proprie”, che prevede l’emissione di debito comune che è alla base del programma. Molti Paesi non sono riusciti a rispettare la scadenza del 30 aprile per la presentazione dei piani di spesa accompagnati dagli impegni ad attuare le riforme economiche. La Commissione europea impiegherà due mesi per esaminare le proposte di ciascun Paese.

Bruno Le Maire, ministro delle finanze francese, la scorsa settimana si è lamentato del fatto che l’UE ha perso troppo tempo dopo l’accordo politico iniziale. Ha già rischiato di finire fuori strada nella corsa con l’economia statunitense già in forte espansione e la Cina che ha già riguadagnato il suo livello di produzione pre-crisi. L’Europa sta certamente soffrendo nel confronto transatlantico dato l’enorme stimolo fiscale che l’amministrazione Biden ha fatto passare al Congresso in tempi rapidi.

Gli europei, tuttavia, contestano comprensibilmente il fatto che i confronti debbano venir effettuati in base alle dimensioni, sottolineando la scarsa rete di sicurezza sociale degli Stati Uniti. Inoltre, per l’UE sarebbe stata necessaria una grande quantità di tempo per mettere in atto un’innovazione istituzionale come questa e per soddisfare le inevitabili condizioni legate a un fondo da 750 miliardi di euro, gran parte dei quali saranno elargiti in sovvenzioni.

L’insistenza della Commissione sulla destinazione del denaro dell’UE verso digitale e green è probabilmente la causa dell’irritazione diffusa proveniente dalle capitali nazionali. Bruxelles sta anche spingendo i Paesi ad adottare riforme economiche e amministrative per contribuire ad aumentare la crescita e migliorare la sostenibilità fiscale a lungo termine, come concordato la scorsa estate. Alcune capitali sostengono che queste riforme siano irrilevanti per la ripresa. Anche se ogni anno sottoscrivono questi obblighi nell’ambito di un processo di revisione economica dell’UE, privo però di sanzioni.

La Commissione deve definire in anticipo il maggior numero possibile di questi impegni per investimenti e riforme, deve inoltre specificare in maniera più chiara come sospendere i pagamenti ai governi che non si conformano e garantire che gli organismi di controllo nazionali siano solidi. Bruxelles non avrà le risorse per gestire a livello micro questo programma una volta che i soldi inizieranno a fluire. Sarebbe un disastro per l’UE se fosse speso male. Il piano dell’Ungheria, ora abbandonato, di utilizzare i fondi per le sue nuove fondazioni universitarie, imbottite di amici del governo, mostra quali potrebbero essere i rischi.

I governi che hanno bisogno di stimolare le loro economie a breve termine ora possono prendere in prestito per spendere, utilizzando lo spazio fiscale che il recovery fund ha offerto loro. La Spagna e l’Italia lo stanno già facendo. È meglio che Bruxelles si prenda tutto il tempo necessario per far funzionare bene il fondo.

Le scelte ideologiche concorrono a far salire la febbre dell'inflazione. Barriere, sanzioni, chiusure, protezionismo, tutte insieme a impedire di crescere, si stanno preparando coscientemente alla distruzione volontaria di uomini, mezzi di produzione, capitali e merci a livello globale

ENERGIA
Perché i prezzi di rame e minerali ferrosi stanno schizzando

di Giusy Caretto
7 maggio 2021



Nuovi record per i prezzi di rame e minerali ferrosi. I fatti analizzati da Torlizzi, direttore generale di T-Commodity

10.260,50 dollari la tonnellata: al London metal exchange, il rame supera il precedente record toccato nel febbraio 2011. Performance ottima anche per i minerali ferrosi, che toccano il massimo dal 2008.

E la rotta rialzista, spinta anche da un dollaro non fortissimo, sembra essere oramai segnata.

I PREZZI DEL RAME

Il rame continua a scambiare oltre 10mila dollari per tonnellata al London Metal Exchange (Lme). Il metallo rosso ha anche toccato la soglia di 10.260,50 dollari la tonnellata, superando il precedente massimo, toccato nel febbraio 2011, e segnando una vera e propria corsa al rialzo dopo che il costo a tonnellata ha toccato il suo minimo a 4.371 dollari.

IL RECORD DEI MINERALI FERROSI

Aumenta anche il prezzo dei minerali ferrosi, che tocca quota 202,65 dollari, il massimo dal 2008 secondo l’indice di riferimento redatto da S&P Platts.

I MOTIVI DEL RALLY

Il rally è dovuto alla forte domanda, soprattutto cinese. Il Paese del Dragone, infatti, assorbe metà della produzione mondiale e dopo qualche giorno di pausa dopo il primo maggio, la domanda ha avuto una forte ripresa-

Incide sul prezzo dei metalli anche il dollaro debole, che ha perso circa lo 0,5% del suo valore rispetto a un paniere di valute nelle ultime tre sedute.

COSA ACCADE IN CILE

A fronte di una domanda che cresce, c’è un’offerta che diminuisce. Come si legge su Energia Oltre, in Cile, il maggiore produttore al mondo di rame, l’output è calato per il decimo mese consecutivo. Nel mese, secondo l’Instituto Nacional de Estadísticas (INE), la produzione di rame è diminuita dell’1,3 per cento, arrivando a 491.720 tonnellate.

LE IPOTESI DI BANK OF AMERICA

Tutti fattori, questi, che porteranno il costo del rame, materia prima utilizzata in innumerevoli prodotti industriali, a salire fino a 13.000 dollari, secondo Bank of America.

UN TREND (ANCORA) AL RIALZO

A sostenere che la corsa continui è anche Ji Xianfei, di Guotai Junan Futures: “E’ difficile prevedere che i prezzi del rame possano invertire l’attuale atmosfera rialzista”.

“Le prospettive a lungo termine per i prezzi dei metalli sono troppo buone e indicano prezzi più alti nei prossimi anni”, rimarca Daniel Briesemann di Commerzbank AG. D’altronde la spinta alla decarbonizzazione e l’elettrificazione dell’automotive aumenteranno ancora la domanda.

LE MOSSE DELLA CINA

Non solo legge del mercato. Ad influire sui prezzi delle materie prime, fa notare su Twitter Gianclaudio Torlizzi, già caporedattore a Dow Jones, ora direttore generale di T-Commodity, società di consulenza finanziaria, è anche la “decisione da parte del governo cinese di sospendere a tempo indeterminato tutte le attività collegate al ‘China-Australia Strategic economic dialogue mechanism'”.

Torlizzi a Start aggiunge: “Il rame beneficia di una concomitanza di fattori: da un lato la forte domanda cinese. Pechino sta sfruttando la pandemia per affermare lo status di prima economia a livello mondiale e per finanziare questa dinamica necessita di ingenti quantità di materia prima. Dall’altro lato contribuisce la politica di stimolo monetaria molto aggressiva della Federal reserve incurante delle crescenti pressioni inflazionistiche. Nel mezzo ad acuire la pressioni sui prezzi giunge l’Ue che su alcune tipologie di materiali come gli acciai mantiene le misure di salvaguardia che disincentivano l’import”.

Quando si tratta della Francia che fa razzia sul nostro territorio lo "stregone maledetto" non fa una piega e accetta disciplinatamente non avoca il potere di interdizione che il governo ha

Come i francesi di Crédit Agricole banchettano in Italia

7 maggio 2021


Il gruppo bancario Credit Agricole Italia ha messo a segno un utile netto di 83 milioni di euro (+71% rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso). Tutti i conti del gruppo francese in Italia.

I francesi del gruppo bancario francese Crédit Agricole galoppa sempre più in Italia facendo registrare conti scintillanti

Ecco tutti i dettagli.

I CONTI DEL CREDIT AGRICOLE IN ITALIA NEL PRIMO TRIMESTRE

Crédit Agricole chiude il primo trimestre dell’anno con utili raddoppiati a 1,75 miliardi dai 908 milioni dello stesso trimestre del 2020.

I RICAVI DEL CREDIT AGRICOLE

Il gruppo transalpino ha registrato ricavi per 9,05 miliardi in crescita dell’8,2% registrando un’attività solida in tutti i suoi comparti di attività.

L’OPA OK SUL CREVAL

Crédit Agricole, che nelle scorse settimane ha concluso con successo l’Opa sul Credito Valtellinese, ha spiegato presentando i risultati trimestrali che conta di fondere la banca italiana nel gruppo entro quest’anno.

IL RISULTATO NETTO

Nel primo trimestre il Gruppo Credit Agricole in Italia ha fatto registrare un risultato netto aggregato di 230 milioni di euro (+58% rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso), di cui 173 milioni di pertinenza del gruppo (+58%).

L’ATTIVITA’ COMMERCIALE

L’attività commerciale continua a essere dinamica, con una crescita del totale dei finanziamenti all’economia che sale a 78,2 miliardi (+1,6% rispetto al primo trimestre 2020) e una raccolta totale a 276,5 miliardi (+14,1%).

LA PRESENZA IN ITALIA DEL CREDIT AGRICOLE

Credit Agricole è presente in Italia, oltre che con il gruppo bancario Credit Agricole Italia, con una serie di società che si occupano di corporate e investment banking, servizi finanziari specializzati, leasing e factoring, asset e services management, assicurazioni e gestione patrimoniale.

GLI UTILI IN ITALIA

In particolare, il gruppo bancario Credit Agricole Italia ha messo a segno un utile netto di 83 milioni di euro (+71% rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso) e ricavi in aumento del 9,4%, trainati dall’apporto positivo del comparto commissionale (+12%).

I CONFRONTI

Inoltre, l’attività commerciale è tornata i livelli ante crisi, con nuovi prestiti per acquisto abitazione in aumento del 27% e il collocamento di prodotti legati al risparmio gestito in crescita del 55%. I finanziamenti a imprese e famiglie sono saliti del 7,2%, con un’espansione del bacino di raccolta diretta (+5,8%) e del risparmio gestito (+15,1%).

IL CREDITO

La società ha visto migliorare la qualità del credito (Npe ratio netto in riduzione al 2,8% e coperture del portafoglio non performing che si portano al 52,4% e quelle delle sofferenze al 69,6%).

LA LIQUIDITA’

L’istituto ha mostrato inoltre un elevato livello di liquidita’ con Lcf pari a 275% e una solida posizione patrimoniale con un Cet 1 Ratio pari a 13,7% e Total Capital Ratio al 19,4%. Da segnalare che Credit Agricole Italia ha concluso con successo l’Opa volontaria su Credito Valtellinese e controlla ora il 91,167% del capitale di Creval.