L'albero della storia è sempre verde

L'albero della storia è sempre verde

"Teniamo ben ferma la comprensione del fatto che, di regola, le classi dominanti vincono sempre perché sempre in possesso della comprensione della totalità concettuale della riproduzione sociale, e le classi dominate perdono sempre per la loro stupidità strategica, dovuta all’impossibilità materiale di accedere a questa comprensione intellettuale. Nella storia universale comparata non vi sono assolutamente eccezioni. La prima e l’unica eccezione è il 1917 russo. Per questo, sul piano storico-mondiale, Lenin è molto più grande di Marx. Marx è soltanto il coronamento del grande pensiero idealistico ed umanistico tedesco, ed il fondatore del metodo della comprensione della storia attraverso i modi di produzione. Ma Lenin è molto di più. Lenin è il primo esempio storico in assoluto in cui le classi dominate, sia pure purtroppo soltanto per pochi decenni, hanno potuto vincere contro le classi dominanti. Bisogna dunque studiare con attenzione sia le ragioni della vittoria che le ragioni della sconfitta. Ma esse stanno in un solo complesso di problemi, la natura del partito comunista ed il suo rovesciamento posteriore classistico, individualistico e soprattutto anti- comunitario" Costanzo Preve da "Il modo di produzione comunitario. Il problema del comunismo rimesso sui piedi"

sabato 3 luglio 2021

Il sottobosco alla guerra della monnezza - Virginia Raggi - La violenza compatta delle critiche nei suoi confronti ha raggiunto punte di sadismo compulsivo. I giornali, i partiti, l’associazionismo generalmente verniciato dal bon ton di prammatica hanno condotto una campagna di ineffabile virulenza nella quale d’incanto è scomparso il linguaggio tanto per bene del politically correct. Indimenticabili i riferimenti alla lascivia del sindaco, alla sua mediocrità, alla sua inferiorità intellettiva

Roma, monnezza ed elezioni

di Ferdinando Pastore
27 giugno 2021

Per parlare delle comunali di Roma è necessario partire da una premessa di carattere generale. Nell’ormai lontano 1992, durante la sbornia anti-partitica che modellò il consenso alla spoliticizzazione delle istituzioni, la riforma delle elezioni locali – comunali e regionali – funse da modello per la verticalizzazione del sistema politico. Attraverso le competizioni maggioritarie passò la vulgata secondo la quale la sfera pubblica dovesse affidarsi alle tecniche gestionali dell’impresa e ai criteri valutativi del benchmark. Gli enti pubblici dovevano essere assorbiti nelle dinamiche concorrenziali. Così il sindaco o il governatore non si dovevano più rapportare con le assemblee legislative, le giunte non potevano più essere scelte dalle organizzazioni collettive. Il dovere era formare le cosiddette “squadre” (o “team”) costruite a chiamata diretta del capo che affrontavano il giudizio degli investitori privati. I partiti venivano trasformati in comitati elettorali permanenti dove gli aspiranti manager concorrevano per ottenere le grazie del futuro amministratore delegato. Efficienza, razionalizzazione, merito le nuove parole d’ordine dei programmi elettorali. La Governance il simbolo della nuova funzione pubblica.

La spoliazione delle prerogative keynesiane o socialdemocratiche dello Stato fu portata a compimento da un doppio movimento. Il primo verso le strutture sovranazionali che coniavano la nuova Costituzione economica, quel quadro generale e immutabile di norme utili alla irreggimentazione del sistema concorrenziale e mercantilistico. Il secondo verso il basso con la cessione di fondamentali attività pubbliche agli enti locali, dove il boss di turno aveva finalmente mano libera per trattare direttamente con i privati.

A Roma le giunte Rutelli, Veltroni e Alemanno hanno avuto proprio questa funzione. La formazione di cricche destinate all’intermediazione con il mondo dell’impresa per gestire “razionalmente” l’azienda locale. Queste consorterie si sono appoggiate negli anni alle aziende partecipate dal Comune. Così si è formata una fitta rete di contatti, di rapporti, di servizi amichevoli che ha avuto la prontezza di farsi percepire come la manifestazione plastica della “buona amministrazione”.

Ma dopo la giunta Alemanno sono iniziati i cosiddetti incidenti di percorso. Il primo è coinciso con l’elezione di Marino. Lungi dall’essere un critico della razionalità neoliberale, Marino non era legato a piene mani alle filiere dell’amichettismo di potere. Lo si considerava inizialmente un tecnico “governabile” dall’esterno. Nonostante i suoi intendimenti si connotassero per un liberismo becero e irrazionale, le cricche romane iniziarono a storcere il naso, fino ad arrivare alla sua defenestrazione per mano di un notaio.

Il secondo intoppo, ben più grave secondo il giudizio dei faccendieri assoldati dai cartelli elettorali, ha coinciso con il plebiscito popolare che ha portato Virginia Raggi al Campidoglio. Anche in questo caso nessun mutamento d’indirizzo politico. Le dinamiche di gestione restavano intatte. Il sindaco conferisce ai privati lo scettro regale per modellare la città secondo le loro ragioni di profitto. Ma in questo caso i privati non erano affiliati ai prestigiosi think tank dove scorre solo sangue blu, certificato di affidabilità amministrativa. La violenza compatta delle critiche nei suoi confronti ha raggiunto punte di sadismo compulsivo. I giornali, i partiti, l’associazionismo generalmente verniciato dal bon ton di prammatica hanno condotto una campagna di ineffabile virulenza nella quale d’incanto è scomparso il linguaggio tanto per bene del politically correct. Indimenticabili i riferimenti alla lascivia del sindaco, alla sua mediocrità, alla sua inferiorità intellettiva.

Il mandato della Raggi ha dimostrato una semplice equazione. Conquistare il governo non vuol dire conquistare il potere. Nell’era dello spirito d’impresa, della privatizzazione della sfera pubblica, solo la formazione di potenti cricche assicurano la continuità di gestione. Sin dal momento in cui si comprese che la Raggi avrebbe stravinto il ballottaggio del 2016, l’azienda preposta alla raccolta dei rifiuti AMA, con un vero e proprio messaggio in codice, smise improvvisamente di pulire la strade dalla monnezza. L’Atac, l’azienda del trasporto pubblico, dimezzò da un giorno all’altro le sue corse. Oggi appena iniziata la campagna elettorale i rifiuti tornano a gonfiarsi in numerosi quartieri della città. Non ai Parioli o al Centro Storico per intendersi. Anche questo è un avvertimento. Roma deve tornare a essere gestita con competenza. Da chi sa come vanno le cose nel mondo.

Questo sottobosco di potere è assecondato anche dall’estrema sinistra romana. Esiste un composito puzzle di associazioni culturali, di circoletti Arci, di comitati, di centri sociali che vivono grazie alle prebende della buona amministrazione. Tutto quel mondo che spazia dal post-operaismo ai diritti delle minoranze per arrivare ai festival culturali, nel quale si vaneggia di spazi sociali indipendenti dallo Stato, vive e vegeta grazie alle concessioni gratificanti della consorterie manageriali. Piccole imprese tra le imprese. Peccato che tra le imprese di maggior fatturato della capitale, da qualche anno, prospera quella criminale. Ma questo penso non sia un gran segreto.

Mai come quest’anno serve un voto ideologico. In grado di contestare la radice del problema. Slegato dal nome del sindaco di turno, ma che affronti di petto il sistema nella sua interezza e in tutte le sue articolazioni. E che soprattutto impedisca al partito che da trent’anni abbraccia con protervia la piovra romana di tornare al governo della città. Il Partito Democratico.

Vero o falso

“I vaccinati hanno meno anticorpi”

“Il messaggio fondamentale è che abbiamo scoperto che i destinatari del vaccino Pfizer, quelli che hanno ricevuto due dosi, hanno quantità da cinque a sei volte inferiori di anticorpi. Questi sono il tipo di anticorpi del sistema immunitario che bloccano il virus dall’entrata nelle cellule”. [Prof. David Bauer, Francis Crick Institute].

Qui potete leggere il profilo del prof. David Bauer (https://www.crick.ac.uk/research/find-a-researcher/david-lv-bauer) sul sito del Francis Crick Institute.

(Fonte: Daily Mail (https://www.dailymail.co.uk/video/coronavirus/video-2433559/Dr-David-Bauer-Pfizer-vaccine-produces-fewer-key-antibodies.html), via canale Eventi Avversi Vaccino Covid (https://t.me/evncov/3081))


https://www.maurizioblondet.it/i-vaccinati-hanno-meno-anticorpi/

Stati Uniti dove dominano le Consorterie della Guerra

Biden… lo stiamo perdendo



A Biden non era bastata la gaffe sulle elezioni truccate in altri Paesi detta contro Putin dopo l’incontro di Ginevra ma che è stata un terribile boomerang visto che gli Usa hanno alterato dal dopoguerra ad oggi le elezioni in oltre 100 Paesi in ogni modo possibile. No, ha dovuto capitombolare ancora in maniera disastrosa proprio tra fine giugno e primi di luglio con una serie infinita di dichiarazioni prive di senso. Per commentare il fatto che in giugno la disoccupazione è arrivata al 9,5% ha detto che erano stati creati 850 mila posti di lavoro, il primo luglio ha detto ai giornalisti di non accettare più domande sull’Afganistan “perchè è il 4 luglio” e nella stessa occasione, in risposta a una domanda sulle vaccinazioni ha detto che coloro che non si sono vaccinati “moriranno presto a causa della variante Delta e persino trasmetteranno il virus ai loro animali domestici “. Forse non sa che i gatti sono i portatori del maggior numero di coronavirus, ma obiettivamente sarebbe chiedere troppo a una mente che non ce la fa più. Il giorno dopo questa mirabile prestazione ha fatto sapere con infinito orgoglio che la tradizionale grigliata per la festa nazionale costerà quest’anno 16 centesimi in meno di quella offerta dallo spendaccione Trump.

Ora si potrà anche ridere di tutto questo, ma in realtà siamo di fronte a sintomi inquietanti: innanzitutto perché una persona combinata a “chesta manera” come si direbbe a Napoli non avrebbe mai potuto essere eletta senza la campagna truffaldina dei media e di Internet e senza giganteschi brogli, anzi nemmeno avrebbe potuto diventare il candidato del Gop o se è per quello nemmeno di un comitato per i festeggiamenti del Ringraziamento se non ci fosse stato un immenso “lavoro” dietro le quinte per spingere un personaggio con problemi cognitivi più che evidenti a seguito dei quali era già stato “pensionato” dall’establishment. Ma poi occorre domandarsi a chi convenga una presidenza “vuota” che deve essere sorretta in ogni momento e leggendo di questi scivoloni che giorno in giorno si aggravano mi chiedo se la scelta di Biden non sia stata funzionale a una sorta di golpe istituzionale. E’ per questo che ieri ho voluto sottolineare il ruolo di Rumsfeld nella creazione e messa a punto di meccanismi di soppressione costituzionale e istituzionale in seguito a una qualche emergenza. Non vorrei che mentre il presidente cerca di raccapezzarsi con la date, il governo reale fosse nelle mani di un comitato tecno pandemico , nel senso che riunisce tutti i soggetti economici interessati al grande reset. Sta di fatto, per esempio, che i famosi 2300 miliardi di dollari ricavati da nuove tasse ai ricchi con cui Biden o chi per lui voleva dare un nuovo impulso all’economia diffusa, a quella della gente, sono diventati nel frattempo 560 mentre il resto guarda caso andrà come contributo e aiuto ai grandi gruppi, mentre di aumento delle tasse non si parla più.

E poi chi ha voluto l’incidente di Crimea? Putin Stesso, durante una delle conversazioni televisive che tiene con una certa regolarità ha rivelato che non si è trattato di una deplorevole e insensata iniziativa inglese, ma di un piano preparato dalla Nato e concepito a Washington: infatti il cacciatorpediniere britannico si è avventurato nelle acque territoriali della Russia durante il giorno, mentre la mattina presto, alle 07:30, un aereo da ricognizione strategico statunitense è decollato da una delle basi aeree della NATO in Grecia, a Creta in maniera da studiare la reazione russa alla violazione della nave britannica. Lo scopo era quello di controllare i sistemi di difesa della Crimea, solo che non si aspettavano la reazione russa così pronta e le cannonate. Per fortuna Putin non è apparso per nulla tubato dall’episodio: “Anche se avessimo affondato quella nave, sarebbe comunque difficile immaginare che il mondo sarebbe sull’orlo della terza guerra mondiale Perché quelli che stanno facendo questo sanno che non possono uscire vittoriosi da questa guerra”.

Ora il problema è di capire chi sono “Quelli che stanno facendo questo” chi agisce dietro il presidente demidiato. sono gli stessi che mettono le censure sui social, che possiedono tutti giornali e le televisioni dell’occidente, che impongono i vaccini e le narrazioni terroristico- sanitarie. Agiranno sempre dietro il pupazzo Biden, oppure alla prima occasione si inventeranno una qualche emergenza e un nuovo assetto per gestire lo stato di eccezione? Ha ragione Putin che ha seguito i miei consigli (non sono impazzito, mi va solo di scherzare un po’): forse l’affondamento di qualche tafano armato della Nato non farebbe scoppiare una guerra, ma di certo potrebbe indurre i poteri che stanno dietro alla Casa Bianca a fare a meno dell’ologramma Biden per prendere direttamente il potere. Dopotutto siamo o non siamo in un mondo malato?

L'assalto dei dati personali fatto dalle multinazionali della grande tecnologia rende loro miliardi MA diventa argomento di pubblico interesse di cui non possiamo ne dobbiamo demandare la gelosia custodia

Privacy, le questioni irrisolte tra Ue e Usa per il Garante italiano

3 luglio 2021


Che cosa ha detto il presidente Pasquale Stanzione nel corso della relazione annuale 2020 dell’Autorità Garante per la protezione dei dati personali

L’attenzione riservata, tanto dalla Corte di giustizia quanto dal legislatore europeo ai requisiti di effettiva libertà e consapevolezza del consenso dimostra quanto l’autodeterminazione informativa sia determinante per un governo sostenibile della società (e dell’economia) delle piattaforme. Una più netta presa di coscienza del valore dei propri dati è, infatti, l’unico, effettivo baluardo contro il rischio della monetizzazione della privacy, che rappresenta oggi la vera questione democratica nel governo della rete.

Da un lato, infatti, la zero price economy ha reso prassi ordinaria lo schema negoziale ‘servizi contro dati’; dall’altro, riconoscere la possibilità della remunerazione del consenso rischia di determinare una rifeudalizzazione dei rapporti sociali, ammettendo che si possa pagare con i propri dati e, quindi, con la propria libertà. Su questo “pendio scivoloso” è in gioco, forse più che in ogni altro campo, l’identità europea come “Comunità di diritto”, fondata sulla sinergia tra libertà, dignità, eguaglianza, quali presidi essenziali che nessuna ragion di Stato o, tantomeno, di mercato può violare.

È significativo che l’Unione Europea abbia negli ultimi cinque anni (a partire, in particolare, dal nuovo quadro giuridico sulla privacy, sino al recente schema di regolamento sull’intelligenza artificiale) messo al centro della propria agenda politica la regolazione del digitale, consapevole che l’anomia cui altrimenti sarebbe consegnata la rete non esprime libertà, ma soggezione alla lex mercatoria, tanto quanto alla lex informatica. Se “code is law” è perché il digitale esprime un nuovo paradigma di senso, un nuovo ordine antropologico e simbolico che va coniugato con il sistema, anzitutto di valori, proprio del rule of law cui s’ispira la costruzione europea. E proprio sul governo antropocentrico del digitale l’Unione europea sta promuovendo – adesso anche con lo schema di regolamento citato – uno sviluppo sostenibile dell’innovazione, che la renda funzionale al progresso sociale.

Questa vocazione personalista contraddistingue, certamente, le politiche dell’innovazione europee dall’“imperialismo digitale” cinese, con la sua pericolosa alleanza tra potenza di calcolo e potere coercitivo, di cui il social credit system e il riconoscimento facciale (persino “emotivo”) sono un esempio emblematico. Ma la “differenza” europea connota, ancora una volta sul terreno della privacy, anche il rapporto con gli Stati Uniti, sia per l’approccio liberistico all’innovazione, sia per il rapporto tra garanzie individuali e sicurezza nazionale.

Con la sentenza Schrems II del luglio 2020, infatti, la Corte di giustizia europea ha invalidato anche il Privacy Shield e la conseguente decisione di adeguatezza dell’ordinamento americano in ragione della carenza, per i dati lì trasferiti, di garanzie sostanzialmente equivalenti a quelle sancite dalla disciplina dell’Unione. Importante anche che la Corte abbia subordinato la validità, ai fini del trasferimento dei dati all’estero, di strumenti privatistici (pur eteroregolati), quali le clausole contrattuali standard, a un sistema di rimedi effettivi nell’ordinamento di destinazione. Ciò dimostra come la privacy necessiti di una tutela “oggettiva”, che non si esaurisce nella fase negoziale rimessa alla sola disponibilità delle parti, ma esige tutele pubblicistiche effettive.

La privacy, come è stato detto, appare paradossalmente sempre meno una mera questione “privata” e, sempre più, un tema di rilievo pubblico centrale, su cui si misura, anche in termini geopolitici, la tenuta dello Stato di diritto.

(estratto dal discorso del presidente dell’Autorità Garante per la protezione dei dati personali; qui il testo integrale)

Ivermectina. farmaco a basso costo per combattere l'influenza covid a casa NON si deve usare, Google censura senza pietà. Tutto quello che è inerente alle cure poco costose cade sotto la scura di You Tube

You tube censura il premio nobel che ha inventato l’ivermectina



“L’importanza della .. per migliorare la salute e il benessere di milioni di persone , è incommensurabile“. Questa era scritto nel 2015 nel comunicato stampa con cui il comitato del Nobel conferiva il premio per la medicina dato a Satoshi Ōmura e William C. Campbell. Ho tralasciato il nome del farmaco per creare un’effetto sorpresa, l’effetto wow per chi non conosce l’italiano elementare e non riesce ad articolare distinzioni fra i diversi tipi di stati d’animo. Lo dico perché questa stupidità emotiva non è poi così lontana dalle ragioni per cui una così assurda mistificazione pandemica sia potuta passare senza sostanziale resistenze. Ma il farmaco era la tanto demonizzata ivermectina che solo a nominarla si va all’inferno per aver bestemmiato Big Pharma e i suoi maledetti profitti: in appena sei anni tutto si è ribaltato attraverso la lente deformante del denaro e si è passati dal nobel alla condanna senza appello e infatti qualche giorno fa Satoshi Ōmura è caduto vittima dei fascisti di You Tube – Google i quali lo hanno espulso con la solita formula della “violazione delle linee guida della community” per aver discusso dell’Ivermectina.

Ovviamente ci sono state delle reazioni qui e là: “Quando i fascisti di YouTube censurano il vincitore del Premio Nobel Dr. Satoshi Omura, un uomo le cui scoperte hanno salvato più di cento milioni di persone dalla cecità, il mondo è entrato in un luogo molto, molto oscuro”, ha twittato il membro del Parlamento australiano Craig Kelly. “Non posso esprimere a parole quanto tutto questo mi renda arrabbiato e triste e timoroso per il futuro.” E ha fatto eco Frontline Covid-19 Critical Care, un’alleanza di medici e studiosi che si è impegnata a “ricercare e sviluppare protocolli salvavita per la prevenzione e il trattamento di COVID-19 in tutte le fasi della malattia”, che si è espressa contro la censura avvertendo che “brillanti scienziati e la stessa e la scienza salvavita vengono sistematicamente imbavagliati”. Ma il fatto che manchi una ribellione generale del mondo della ricerca ci fa capire che esso è troppo dipendente dai soldi di Big Pharma e dai loro amici tecnocrati di rete per essere autonoma, ma a questo punto anche credibile. E’ probabile che la mistificazione pandemica finirà con l’arenarsi in qualche modo, ma rimangono in campi tutti i problemi di una società occidentale in mano a pochi ricchi che tengono le file del discorso pubblico e della conoscenza. All'uomo della strada potrà sembrare quasi impossibile, eppure basta capire come si svolge la ricerca e quanti pochi soldi vengano dal pubblico per comprendere come con investimenti relativamente modesti, si possano legare e collegare decine di centro di ricerca, università e centinaia di ricercatori che se solo parlassero e dicessero la verità verrebbero tagliati fuori.

Non si uscirà fuori da tutto questo se non si affronteranno in maniera strutturale questi problemi, vale a dire se non si farò una rivoluzione.

Nulla è un caso

SPY FINANZA/ Pandexit e Conte blindano Qe e Draghi

Pubblicazione: 02.07.2021 - Mauro Bottarelli

Il rischio Pandexit delineato dalla Bri e il divorzio tra Grillo e Conte aiutano rispettivamente le Banche centrali e il Governo Draghi

Giuseppe Conte (LaPresse,)

Un vecchio playboy del mondo del cinema una volta disse che un vero gentiluomo non lascia mai una donna, si fa lasciare. Tradotto, si comporta in modo tale da costringere la poveretta di turno a prendere la decisione. Salvando forme e apparenze. Ho ripensato spesso a questo strano galateo di fine rapporto, negli ultimi due giorni. Perché non so a voi, ma per quanto mi riguarda, il divorzio Conte-Grillo appare quantomeno inusuale. Se non totalmente inspiegabile.

Ovviamente, il mio giudizio sconta la non conoscenza diretta e interna dell’accaduto, quindi potrebbe risultare suscettibile di carenze strutturali. Cosa sappiamo, però? Beppe Grillo è stato l’artefice numero uno della nascita del Conte-bis e dell’alleanza con il Pd, già mal digerita da ampi strati del partito. Poi, è stato l’entusiasta sponsor della partecipazione grillina all’esecutivo Draghi. Insomma, un governista ante litteram. Inoltre, è stato proprio lui a incoronare Giuseppe Conte nuovo capo del Movimento, dopo averne tessuto pubblicamente le lodi. Quindi, sorge un dubbio: era annebbiato nel giudizio quando lo ha benedetto come nuova guida o lo è adesso, quando le definisce inadeguato e senza doti manageriali?

Cos’è accaduto, però, nel mezzo? Di fatto, Giuseppe Conte ha dedicato mesi alla stesura del nuovo statuto, a detta di molti osservatori il processo che avrebbe – di fatto – tramutato definitivamente il Movimento in partito. Apparentemente, sostenuto da tutti nel suo sforzo. Poi, di colpo, la rottura totale. Per carità, trattandosi di esseri umani, tutto può essere. Ivi compreso l’esplodere di incomprensioni, fraintendimenti e gelosie personali maturate sottotraccia nei giorni. Ma nessuno mi toglie dalla testa quell’aforisma iniziale: Giuseppe Conte, forse, ha fatto di tutto per farsi lasciare e uscire pulito da una storia che lo stava compromettendo troppo, avendo già chiaramente in mente un progetto parallelo di partito personale? Oltretutto, forte della convinzione che una crisi con il Garante gli avrebbe recapitato in dote – a costo zero – un apparentemente nutrito drappello di deputati e senatori. Ma, soprattutto, nulla mi toglie dalla testa una sorta di possibile punto di snodo di questa crisi: la famosa visita di Beppe Grillo all’ambasciata cinese di Roma, in contemporanea con la presenza di Mario Draghi al G7, prima uscita ufficiale in un consesso internazionale di primo piano. Giuseppe Conte avrebbe dovuto accompagnare il Garante, invece all’ultimo momento si sfilò, adducendo motivi personali. Sicuramente, tutto vero. Ma nessuno mi toglie dalla testa che quanto sta accadendo in questi giorni, abbia vissuto la sua accelerazione e il suo punto di partenza proprio lì. Ma probabilmente, covava da tempo. E vedeva nello statuto in elaborazione il casus belli per la rottura: se si sottopone a un Movimento nato sul vaffa e l’infantilismo iconoclasta, un piano di rinascita che lo vedrebbe trasformarsi nella versione green e un po’ descamisada della Democrazia Cristiana, qualcosa rischia di non funzionare. Anzi, di rompersi.

E come mai in un momento simile, si fa notare proprio il rumorosissimo silenzio di Alessandro Di Battista, il più vicino alla posizioni anti-atlantiste e filo-cinesi di Beppe Grillo in politica estera, ad esempio? Strano, perché ha parlato per giorni in televisione. Poi, mentre la casa va in fiamme, si volta dall’altra parte. Invece di portare secchi d’acqua o di benzina, in base ai desiderata del caso. I Cinque Stelle stanno implodendo. Un po’ come è accaduto con i Gilet Gialli, seppur con le debite differenze fra un movimento di base rimasto tale e uno diventato il primo gruppo parlamentare italiano. Per i contestatari francesi, fatale fu la deflagrazione contemporanea di troppi ego in vista delle ultime elezioni europee, rivelatesi un flop per le liste nate dalla protesta anti-Macron. Per i Cinque Stelle, apparentemente, alla base della frattura ci sarebbe uno statuto. Cui, sempre apparentemente, Giuseppe Conte avrebbe lavorato in gran segreto fino all’altro giorno, evitando di far filtrare alcunché all’esterno. Persino nei confronti del Garante, quantomeno a giudicare dalla sua reazione.

Possibile che un partito nato e cresciuto in Rete e basato sulla condivisione e il plebiscitarismo più smaccati, accetti di colpo di affidarsi alle cure personali di un uomo che presenterà il suo progetto a scatola pressoché chiusa, senza un minimo di confronto in progress? Scusate, è difficile crederci. Come è difficile pensare che nessuno avesse capito, da tempo, come l’arrivo della variante Delta non fosse ascrivibile unicamente all’ennesima, diabolica mutazione che sfugge a vaccini e cautele ma a un’ineluttuabilità economica.

Mercoledì, la Banca per i regolamenti internazionali ha presentato il suo report annuale e il titolo era tutto un programma: Central banks facing Pandexit challenges, le Banche centrali affrontano le sfide del Pandexit. È anche già stato coniato il neologismo: il rischio ora non è più la pandemia, bensì quello di coordinare un’uscita ordinata da programmi di stimolo e sostegno senza precedenti. Pandexit, appunto. E infatti, ormai da un trimestre il dibattito attorno al quale ruota tutto è quello relativo a tempi e modi dei vari taper, stante i dati macro che testimoniano una ripresa più forte e sostenuta del previsto. Insomma, la Banca centrale delle Banche centrali, a modo suo e molto diplomaticamente sembra voler dire che questa volta si è messo in campo davvero troppo. E il rischio connaturato a un suo ritiro – anche parziale – che non sia eseguito con perizia chirurgica, paradossalmente appare più alto anche di quello del virus stesso.

Contemporaneamente, nell’arco di pochi giorni, mezzo mondo si richiude. Prima l’Australia, poi la stessa Israele delle vaccinazioni record rimette l’obbligo di mascherina, Spagna e Portogallo in piena stagione turistica rivedono alcune restrizioni, la Russia segna tre giorni di decessi e contagi da record. E l’epicentro, la Gran Bretagna. Sullo sfondo, il detonatore molto mediatico ed emotivo degli Europei. Sempre mercoledì, fra i 26.000 nuovi contagiati britannici figuravano 2.000 tifosi scozzesi. Downing Street chiede ai supporters dei Tre Leoni di non recarsi a Roma per i quarti di finale e la stessa Ue muove ufficialmente dubbi e timori sullo svolgimento della finale a Londra, addirittura con la Germania che taccia pubblicamente di irresponsabilità la Uefa. E nel silenzio generale, il Giappone ormai alla vigilia dei Giochi Olimpici, mette in dubbio la cerimonia della torcia e il numero massimo di 10.000 spettatori per competizione, oltre a estendere il lockdown in vigore a Tokyo e in altri otto distretti.

Europei nel mirino, Olimpiadi blindate. E in Italia, salta anche un altro totem: la riapertura delle discoteche, addirittura con il Governo che già pensa a nuovi ristori. Ieri, poi, un Mario Draghi in versione pompiere degli entusiasmi da antologia. Di fatto, piaccia o meno, la pandemia è di nuovo tra noi. E con essa, il sostegno economico e finanziario che porta in dote. Volete sapere perché? Non solo a fine 2020, le principali Banche centrali vedevano i loro stati patrimoniali combinati superare la quota di 20 triliardi di dollari ma lo sforzo fino ad allora messo in campo – e, nel frattempo, aumentato di parecchio, quantomeno per Fed e Bce – era già il doppio di quanto stampato durante la Grande Crisi Finanziaria scatenata dal crollo Lehman Brothers. E per quale ragione, stante la continua necessità di supporto evidenziata e l’impennata dell’inflazione?

Primo, sostenere i mercati azionari. Secondo, schiacciare i rendimenti obbligazionari – in questo caso, sovrani – che casualmente nel marzo 2020 erano cominciati ad andare fuori controllo. Ovvero, nel periodo in cui partirono i mega-programmi di contrasto alla pandemia. Punto. Nulla capita a caso. Né la variante Delta, né quella Cinque Stelle. Perché se la prima può garantire un alibi e uno strumento di proroga propedeutico a un’uscita ordinata o quantomeno meno problematica di quella di un taper tout court, l’esplosione/implosione dei Cinque Stelle può garantire al governo Draghi orizzonti di navigazione ben più sereni e di lungo periodo di quanto non si pensasse.

Altro che esecutivo a rischio e fibrillazioni nella maggioranza: Giuseppe Conte e il suo strappo rappresentano una polizza assicurativa sulla vita per palazzo Chigi, un contratto con degli immaginari Lloyds della governabilità a cui pagheranno dazio soprattutto Lega e Pd. Ma, soprattutto, la prima. Non a caso, Giorgia Meloni da qualche giorno tace. Come Alessandro Di Battista. Lavori in corso, signori. E non semplici ritocchi, vere ristrutturazioni di sistema. Stile 1992. Le crisi, d’altronde, servono a questo.

Musk bravissimo a vendere fumo incassando miliardi

Musk: a Starlink servono fino a 30 miliardi di investimenti per evitare la bancarotta

1 Luglio 2021, di Alberto Battaglia

Starlink, la divisione più economicamente rilevante di SpaceX, avrà bisogno di investimenti compresi fra i 20 e i 30 miliardi di dollari per restare in orbita. “Se riusciremo a non andare in bancarotta allora bene, potremo andare avanti da lì”, ha dichiarato il fondatore e ceo della società spaziale, Elon Musk, nel corso del Mobile World Congress di Barcellona. Nei giorni scorsi lo stesso imprenditore aveva già prospettato, per il futuro, la possibile quotazione in Borsa del servizio di connettività Internet veicolato da satelliti.

Il servizio Starlink, che ha già piazzato in orbita 1500 di questi satelliti, punta a fornire una connettività Internet in ogni punto del globo, che potrà essere sfruttata tramite un apposito ricevitore. Si tratta di un servizio pensato per le aree remote e rurali, in cui Internet ancora fatica ad arrivare – ma non è ancora chiaro se la sfida si dimostrerà economicamente redditizia.
Evitare la bancarotta, il primo obiettivo

Secondo il presidente di TMF Associates, Tim Farrar, Starlink avrebbe bisogno di alcuni milioni di utenti, con un canone mensile da un centinaio di dollari, per recuperare in un anno investimenti per 5 miliardi di dollari. Il fatto che il servizio si destinato ad aree generalmente poco popolate introduce elementi di dubbio in alcuni analisti.

“Non è impossibile ottenere questo numero (pochi milioni di subscriber) per fare in modo che il sistema non vada in bancarotta. Ma ciò non è sufficiente per giustificare la valutazione di SpaceX”, ha detto Farrar, citato da Reuters, “più Elon Musk parla di investire decine di miliardi, più diventa difficile [farlo] per gli altri. Ovviamente, questa è la grande parte dell’obiettivo di Musk: limitare la concorrenza”. Stalink non è la sola società che punta a offrire un servizio di connessione Internet analogo: in particolare sono in partita anche la sussidiaria di Amazon Kuiper, Telesat e altre ancora.

Musk, da parte sua, ha affermato che la sua Starlink avrebbe già stretto “due partnership piuttosto significative con due grosse società telefoniche” che potrebbero aiutare la divisione di SpaceX a colmare le lacune nella copertura delle reti mobili e cellulari di quinta generazione.

Se a un giovane non gli si presenta la possibilità di un progetto di vita come puoi pensare che aspiri a quel lavoro?

Assunzioni pubblica amministrazione: stipendi bassi, la sfida di Brunetta per attrarre talenti

2 Luglio 2021, di Mariangela Tessa

Assunzioni pubblica amministrazione: stipendi bassi, la sfida di Brunetta per attrarre talenti

Per rendere la pubblica amministrazione più appetibile agli occhi dei giovani talenti, c’è solo una strada, aumentare gli stipendi. Senza una mossa del genere, si rischi di restare a secco di professionisti. Soprattutto quelli di cui lo Stato ha al momento più bisogno, alla vigilia della partenza dei progetti del Recovery plan, ovvero ingegneri, informatici, esperti di analisi dei dati.

Lo ha evidenziato il ministro per la Pubblica amministrazione Renato Brunetta, ieri parlando in Commissione Affari Costituzionali al Senato, dove è in discussione la conversione in legge del decreto sul reclutamento nella pubblica amministrazione.

“Se offri un contratto a termine e livelli salariali non di mercato il professionista super-qualificato ti fa un sorriso e ti dice no grazie”. Per Brunetta “questo è il problema dei problemi”.

Una chiara testimonianza arriva dal flop registrati dal mega concorso per il Sud, quello per la ricerca di 2.800 tecnici qualificati per spendere bene i fondi di coesione. Gli idonei, nonostante la procedura sia stata riaperta ammettendo allo scritto tutti quasi i 100 mila partecipanti, sono stati poco più della metà. Il 47% dei posti è rimasto scoperto.
Assunzioni pubblica amministrazione: le proposte di Brunetta

Diverse le strade proposte da Brunetta. A partire dai percorsi di carriera interni, per passare da un’area a quella superiore senza dover fare un concorso pubblico ma solo con una valutazione del merito. C’è poi il salario accessorio: premi e produttività possono contribuire ad aumentare le retribuzioni dei più meritevoli.

”Dobbiamo assumere velocemente i tecnici necessari per la gestione dei progetti del Pnrr con un rafforzamento della capacità amministrativa e quindi assunzioni per la transizione digitale e la giustizia. Alla fine del contratto a tempo determinato 3+2, questo verrà considerato titolo valido per una sorta di stabilizzazione del 40% per poter fruire nella Pa di queste competenze”, ha sottolineato Brunetta. “Stiamo realizzando un portale di collocamento tipo Linkedin. Stiamo definendo un protocollo di intesa con gli ordini professionali per avere una collaborazione e trasfusione dei curricula per averli a disposizione. Avremo un portale di offerta e domanda di lavoro. Il portale partirà da settembre e chiederemo a giovani di mandare curriculum e partecipare a questo matching di domanda e offerta”.

"pubblicità basata sulla sorveglianza" è profondamente sbagliato, scorretto a livello etico, fatto solo per fare più profitti, NON si accontentano mai! Non hanno nessun senso della misura e del rispetto dell'umana specie. Cannibalizzano le società con voracità crescente

È ora di vietare la pubblicità basata sulla sorveglianza

Di recente, il Consiglio norvegese dei consumatori ha pubblicato un rapporto che chiede il divieto della pubblicità basata sulla sorveglianza. Il co-fondatore e CEO di Vivaldi, Jon von Tetzchner, sostiene questa iniziativa e spiega perché è tempo di liberarci dalla sorveglianza costante e dal targeting altamente personalizzato degli utenti su Internet.

pubblicato su 28 giugno 2021 - Di Jon von Tetzchner 


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Contenuti

Per anni, Big Tech ha cercato di parlare per noi. Dicono a chiunque ascolterà che tutti noi vogliamo che i nostri dati vengano raccolti, in modo da poter ottenere "annunci pertinenti". Allo stesso tempo, ci hanno detto che, senza il diritto di raccogliere e sfruttare i nostri dati, non potevano fornirci gratuitamente tecnologia di qualità. Purtroppo, nel tempo, sono riusciti a convincere molte persone ad accettare questo falso patto.

Avrebbero ottenuto lo stesso successo nei loro sforzi se avessero chiamato più onestamente quello che stanno facendo "pubblicità basata sulla sorveglianza" invece di "annunci rilevanti"?

Ora, le persone si stanno rendendo conto di quanti dei loro dati vengono raccolti. E mentre rivelazioni drammatiche di violazioni dei dati potrebbero essere state ciò che lo ha messo sul loro radar, è l'estensione della pubblicità basata sulla sorveglianza e della raccolta di dati che dovrebbe attirare la loro attenzione. Perché queste pratiche sono diventate così diffuse che il danno non colpisce solo gli individui, ma anche la società stessa.

O, più chiaramente: il modello di business tossico di Big Tech basato sulla pubblicità basata sulla sorveglianza sta minando la democrazia. Hanno avuto più che sufficienti possibilità per ripulire il loro atto. Ora è il momento di regolamentarli.

Il Consiglio norvegese dei consumatori si batte per ciò che è giusto

Fortunatamente per tutti noi, gli enti e le organizzazioni governative stanno iniziando ad agire per guidare un cambiamento positivo sulla pubblicità basata sulla sorveglianza, che il Consiglio norvegese dei consumatori definisce come "pubblicità mirata basata sul monitoraggio e sulla profilazione dei consumatori", nonché sui relativi problemi di privacy .

Ad aprile, ad esempio, gli organismi di vigilanza sulla privacy dell'UE hanno chiesto il divieto della tecnologia di riconoscimento facciale nei luoghi pubblici, un segnale positivo che la marea della "privacy è morta" sta iniziando a cambiare.

Il Consiglio norvegese dei consumatori ha pesato la scorsa settimana, pubblicando un documento completo che afferma chiaramente che la pubblicità basata sulla sorveglianza è andata troppo oltre. La loro richiesta di divieto è sostenuta da 54 organizzazioni in tutto il mondo. Consiglio a tutti di leggere questo documento di approfondimento, per avere un'idea della portata del problema e come iniziare ad affrontarlo.

Il documento tratta direttamente molte affermazioni che Big Tech rilascia quando sostiene o difende le proprie pratiche di sorveglianza e guidate dalla sorveglianza.

Descrive varie sfide causate dalla pubblicità basata sulla sorveglianza come violazione della privacy e della protezione dei dati, modelli di business opachi, manipolazione e discriminazione su larga scala, gravi rischi per la sicurezza e altro, comprese anche frodi e altre attività criminali.

Sottolinea come il modello di pubblicità online dominante di oggi sia una minaccia per i consumatori, le società democratiche, i media e persino per gli inserzionisti che presumibilmente il modello trarrebbe vantaggio.

Le questioni sollevate sono abbastanza significative e serie da giustificare il divieto di queste pratiche dannose.

A sostegno della posizione del Consiglio, il documento verifica molte delle affermazioni di Big Tech sull'atteggiamento dei consumatori nei confronti della pubblicità basata sulla sorveglianza e si conclude con i seguenti risultati:

Sta diventando chiaro che la maggioranza dei consumatori non vuole essere tracciata e profilata per scopi pubblicitari. In un sondaggio sulla popolazione condotto da YouGov per conto del Norwegian Consumer Council, solo un intervistato su dieci è stato positivo per gli attori commerciali che raccolgono informazioni personali su di loro online, mentre solo uno su cinque ha ritenuto accettabile pubblicare annunci basati su informazioni personali. Questo assomiglia a sondaggi simili da entrambe le sponde dell'Atlantico e indica che i consumatori non considerano la sorveglianza commerciale come un compromesso accettabile per la possibilità di vedere annunci personalizzati".

A seguito della pubblicazione del giornale, i politici norvegesi sono stati interrogati a verbale su ciò che pensano. Finora, tutti si sono espressi a favore del divieto degli annunci basati sulla sorveglianza. Speriamo che anche i politici di altri paesi agiscano. Credo che dovrebbero e lo faranno, a patto che ci assicuriamo che sappiano che li sosteniamo per fare la cosa giusta.

Insieme, possiamo invertire la rotta e aiutare a riformare e liberare Internet dall'avanzare di violazioni dei dati, invasione della privacy, distorsione delle informazioni e puro sfruttamento.

Vivaldi ha a lungo sostenuto contro le pratiche guidate dalla sorveglianza

Per anni abbiamo comunicato chiaramente che gli annunci basati sulla sorveglianza dovrebbero essere vietati. Ci siamo mobilitati contro le pratiche non etiche e nocive di Big Tech attraverso i nostri valori, servizi e prodotti. Non è mai stato un ripensamento per noi.

Quindi, è gratificante vedere questa questione guadagnare terreno nella sfera politica e oltre. È troppo importante per evitarlo, e sono lieto di vedere altri parlare così pubblicamente.

Ho dedicato gran parte della mia vita a Internet. E, come tanti in questa posizione, sono preoccupato per dove sta andando Internet . Per molti anni Internet è stato sinonimo di libertà di espressione, contribuendo a migliorare la comunicazione e a sviluppare la democrazia in tutto il mondo. Purtroppo il panorama è drasticamente cambiato in peggio.


In un'intervista con Wired alcuni anni fa, ho espresso le mie preoccupazioni sull'uso improprio del Web e ho chiesto il divieto degli annunci personalizzati. Ma siamo ancora seguiti ogni minuto. Le tecnologie invasive osservano ogni nostra mossa.

Tuttavia, non c'è motivo per cui le aziende raccolgano grandi quantità di dati sui propri utenti. Potrebbero e dovrebbero tenere al sicuro tutti i dati che hanno sui loro utenti. Potrebbero e dovrebbero evitare di utilizzare tali dati per qualsiasi scopo al di fuori della fornitura del servizio. Va da sé che non dovrebbero utilizzare i profili utente per scopi pubblicitari. Questi profili non dovrebbero esistere in primo luogo.

È semplicemente sbagliato.

La posta in gioco: Big Tech guadagna miliardi, mentre la società ne paga il prezzo.

Nel tempo, Big Tech ha accumulato un potere incredibile grazie al suo accesso a un tesoro di dati utente. Mentre Google, Facebook e altri giocatori cercavano nuovi modi per monetizzare i propri servizi e soddisfare la domanda degli investitori, non hanno potuto resistere. I dati erano facilmente disponibili, quindi perché non raccoglierli? Perché non utilizzarlo per generare ancora più entrate, ad esempio offrendo annunci altamente mirati? Gradualmente, la tattica, la raccolta e l'uso dei dati si sono espansi, fino a quando queste aziende hanno raccolto praticamente ogni mossa di tutti su Internet, e oltre. Il problema più grande è che queste aziende non solo raccolgono dati, ma poi forniscono i dati o la possibilità di sfruttarli a terze parti disposte a pagare.

Le aziende hanno sempre avuto accesso alle informazioni sui propri clienti. Il tuo falegname potrebbe raccogliere molte informazioni su di te e sulla tua famiglia da casa tua. Le società di telecomunicazioni potrebbero ascoltare le tue conversazioni. Il tuo postino potrebbe leggere la tua posta. Queste aziende e fornitori di servizi non lo fanno, perché sarebbe sbagliato.

Big Tech non ha questi scrupoli. Per loro, l'informazione è lì per essere presa, a meno che la regolamentazione e l'etica si intromettano. E fino ad ora, ignorando entrambi, queste aziende hanno ottenuto enormi vantaggi, che hanno usato per uccidere la concorrenza e cambiare interi settori.

Rifiuta "E' proprio così".

La missione di Big Tech è stata convincerci che è necessario pagare per servizi gratuiti permettendo loro di rintracciarci. Ma Internet andava bene senza tutta questa sorveglianza.

Queste aziende affermano che i loro servizi sarebbero più costosi se non potessero raccogliere dati. Questo non ha senso. Potrebbe essere meno redditizio per loro, ma la maggior parte di loro rimarrebbe sufficientemente redditizia con gli annunci tradizionali.

Inoltre, fornendo i propri servizi “gratuitamente”, in cambio di dati, rende più difficile la competizione per le altre aziende. Finché il consumatore è il prodotto, le aziende etiche saranno svantaggiate, riducendo la scelta del consumatore. In altre parole, il vero costo per i consumatori e per la società nel suo insieme è molto più alto quando i consumatori sono costretti a pagare con i propri dati.

Un certo numero di piccole e grandi aziende che si affidano al monitoraggio e alla sorveglianza affermeranno che l'industria non sopravviverà senza di essa, ma la realtà è che gli annunci esistevano online anche prima del monitoraggio. E possono sopravvivere senza di essa.

Possiamo guarire Internet

C'è un barlume di speranza?

Infine, le cose vengono prese sul serio. Speriamo di vedere il cambiamento. Molte persone credono che la Big Tech non possa essere fermata, ma nulla è impossibile. Nel corso degli anni, altre cose altamente nocive sono state regolate per il bene pubblico. Un esempio che il documento cita è l'amianto e, francamente, il confronto è piuttosto accurato.

Quando è stato lanciato per la prima volta, l'amianto è stato annunciato come un materiale meraviglioso in grado di proteggere dal fuoco case, scuole e aziende. Ci sono voluti decenni prima che i rischi per la salute dell'amianto venissero alla luce. L'eventuale divieto di ciò che era stato considerato per decenni un materiale da costruzione necessario, desiderabile e inarrestabile ha portato all'uso di materiali meno pericolosi al suo posto. Questo, a sua volta, ha migliorato la vita di coloro che altrimenti avrebbero potuto soffrire dei suoi effetti a lungo termine.

Allo stesso modo, gli annunci basati sulla sorveglianza sono pericolosi per la salute di Internet e della nostra società.

Il divieto della pubblicità basata sulla sorveglianza costringerà a un cambiamento e a ripensare ai modelli di business delle aziende dipendenti dal monitoraggio a scopo di lucro.

Di conseguenza, contribuirà a rinvigorire la crescita di tecnologie che rispettano i diritti dei consumatori e fondamentali e a ripristinare la fiducia dei consumatori nei servizi digitali nel lungo periodo.

Questa follia deve finire

La situazione di oggi è spaventosa. Sempre più dati su ciascuno di noi vengono raccolti e utilizzati alla velocità della luce.

Consapevole del fatto che gli utenti sono sempre più attenti alla privacy, Big Tech sta diventando più creativo per evitare che il flusso di dati si prosciughi. Ad esempio, iniziative come FLOC di Google , che si autodefinisce una "tecnologia per la privacy" rivoluzionaria, nonostante sia progettata per raccogliere i dati degli utenti a vantaggio di Google e per eludere le impostazioni del browser che potrebbero impedirlo.

Abbiamo bisogno che i nostri rappresentanti si concentrino su queste questioni a beneficio delle persone. Lo status quo è una partita persa per noi, la nostra economia e la società. È necessario un cambiamento radicale per garantire la nostra privacy a lungo termine, ripristinare la concorrenza su Internet e invertire il danno causato da queste pratiche non etiche.

Bandire la raccolta non necessaria di dati utente. Smetti di costruire profili mirati di persone. Fine della pubblicità basata sulla sorveglianza.


Siria è stata una grande palestra dove l'Occidente il Qatar, la Turchia, Emirati Arabi Uniti, Arabia Saudita, ebrei sionisti hanno fatto esercitare la feccia della feccia in cambio di soldi veri, ha sdoganato i peggiori istinti dei mercenari tagliagola terroristi, ha sdoganato l'ideologia della forza e prepotenza che ha invaso buona parte dell'intera Africa e che si è scagliata contro i propri genitori, ripeto l'Occidente tutto che non riesce più a controllare queste forze uscite dal vaso di Pandora e certamente non riuscirà a contenerle neanche la Turchia una volta che Erdogan uscirà di scena

Tempeste di sabbia e jihad sul Sahel

2 luglio 2021


I margini di manovra sono ristretti al punto da non consentire ulteriori dilazioni pena un caos fuori controllo e la probabile vittoria delle minoranze radicali sui governi deboli dei Paesi saheliani ad oggi alleati dell’Occidente. Le conseguenze più drammatiche degli attacchi jihadisti le subiscono e le subiranno le popolazioni locali la cui maggioranza è ben lontana da un’ortodossia radicale, violenta, dominatrice, arcaica.

Dal punto di vista geo-politico una sconfitta della Francia, della Ue, degli Usa, della Coalizione per il Sahel e dei governi filo-occidentali del gruppo G5 Sahel (Mauritania, Mali, Niger, Burkina Faso, Ciad) aprirebbe scenari imprevedibili comunque catastrofici sia per i Paesi Africani, anche per quelli limitrofi al gruppo G5, che per la Ue e gli alleati occidentali coinvolti.


Come si è giunti ad una degenerazione tanto repentina da rischiare concretamente il ribaltamento di equilibri, stabilità, influenze, alleanze tradizionali consolidate nel tempo?

Ricordando l’origine del disordine regionale iniziato nel 2011 con l’attacco alla Libia e l’uccisione del colonnello Muammar Gheddafi (su iniziativa di Francia e Regno Unito) cerchiamo di ripercorrere, pur non esaustivamente, gli avvenimenti più recenti che, ad avviso di chi scrive, hanno oggettivamente contribuito all’accelerazione delle dinamiche della crisi.

La sconfitta dell’ISIS e gruppi apparentati in Siria e Iraq ha prodotto il ricollocamento di combattenti e affiliati ben organizzati nel continente dei deserti, degli spazi dove potersi muovere più agevolmente con il fine di perseguire concretamente la realizzazione del Califfato in Africa (Sahel e Africa Occidentale inclusi Mozambico, Camerun i territori privilegiati), la lotta ai nemici occidentali e loro alleati, incrementare i finanziamenti attraverso traffici di tutti i generi, fra cui le migrazioni di massa verso l’Europa.

Accese rivalità

Altro elemento destabilizzante emerso prepotentemente negli ultimi anni è il ruolo chiave giocato dalla Turchia, dal suo principale finanziatore, il Qatar, non solo in Libia ma anche nei Paesi saheliani e nel Corno d’Africa, Somalia “docet”.

La Turchia finché resterà al potere l’attuale presidente Erdogan molto difficilmente rinuncerà alla sua politica espansionistica in Africa iniziata da almeno dieci anni con risultati del tutto favorevoli grazie, va ribadito, ai cospicui finanziamenti del Qatar, alle indubbie capacità diplomatico-militari turche, all’autonomia di azione (decide uno solo, assieme agli uomini a lui fedeli) a tutto campo, senza remore, nell’esclusivo interesse nazionale, alla fede islamica vicina ai Fratelli Musulmani ben vista dai radicali.

Questo ha consentito e consente alla Turchia un espansionismo vincente basato su diversi punti:
  • accordi favorevoli con i Paesi “beneficiari” del sostegno turco, (come Libia e Somalia)
  • riduzione al minimo di influenze indesiderate come quella italiana (ma anche la Francia è oggi nelle sue aree privilegiate)
  • impiego bilaterale oltreconfine di consiglieri e militari turchi
  • ingaggio di mercenari
  • fornitura di armi anche in presenza di embarghi Onu
  • ambiguità nelle relazioni con i partner Nato.
Gli unici potenziali freni ad ulteriori progressi espansionistici neo-ottomani potrebbero venire da qualche avvertimento più serio da parte degli Stati Uniti Usa o, soprattutto, da una situazione economico-sociale interna sempre più difficile, fonte di malcontento popolare e di una forte svalutazione della lira turca.


Attacchi e attentati sono sempre più frequenti e sanguinari da parte di Aqmi (Al Qaeda nel Maghreb islamico) e Isis nel Sahel. Privilegiata la zona delle tre frontiere Mali, Niger, Burkina Faso ma da qualche anno anche Paesi come Mozambico, Camerun, Benin, Costa d’Avorio senza contare le nefande azioni di Boko Haram, affiliata all’Isis dal 2015, in Nigeria del nord, sud Niger e Lago Chad.

Le due organizzazioni eversive, Aqmi e IS, come riportato in precedenti articoli su Analisi Difesa, sono rivali in competizione nella caccia ai finanziamenti eppure spesso anche alleate in diverse operazioni. Il fine comune resta comunque la cacciata degli infedeli occidentali e dei governi locali a loro alleati, le conquiste territoriali e il Gran Califfato africano.

Un programma sempre più minaccioso per le popolazioni saheliane in primo luogo, per l’instabilità generalizzata che creerebbe in Africa occidentale, per gli interessi occidentali e degli stessi Stati africani coinvolti.

Una realtà oggettiva da considerare seriamente al di là delle demagogie, del dialogo a tutti i costi persino in presenza delle minacce sociali e culturali alle popolazioni locali in larga maggioranza ben lontane da rigide Shaaria, fanatismi, addirittura intolleranze alla musica e ai balli.

Il Sahel nel caos?

La morte ad aprile di quest’anno del “presidentissimo” del Ciad Idriss Deby Itno, fedelissimo della Francia e dell’Occidente al potere per oltre trent’anni, ha causato forte preoccupazione non solo in Ciad ma in tutto il Sahel, fino alla Nigeria, aumentando esponenzialmente la percezione di ulteriore instabilità regionale.

Il Ciad (ricco di uranio per le centrali atomiche di Francia) è stato sempre un pilastro fondamentale della politica africana francese dal 1980 in poi, dalla lontana operazione Epervier del 1986, intervento militare transalpino a sostegno dei ciadiani contro i libici e la loro politica aggressiva dell’epoca. Dal 1986 i francesi hanno sempre mantenuto basi e cospicui contingenti militari in Ciad consolidando ulteriormente i rapporti dalla presa del potere di Idriss Deby nel 1991.


Non è un caso che ai giorni nostri il quartier generale dell’Operazione Barkhane, 5.100 militari francesi in fase di ridimensionamento, velivoli, elicotteri, droni, supporto carri e logistica dislocati in vari Paesi saheliani, sia installato a N’Djamena la capitale.

Nel corso degli anni militari ciadiani, noti per la loro combattività, sono stati utilizzati non solo nelle missioni Onu, ma anche a supporto bilaterale di Paesi vicini e alleati nella lotta contro il terrorismo (con finanziamenti dell’alleato francese).

L’ambigua versione ufficiale sulla morte del Presidente Deby, caduto in combattimento contro forze ribelli ciadiane provenienti dalla Libia, non ha convinto. La versione ufficiosa narra invece che un generale dell’esercito considerato fino all’episodio delittuoso graniticamente fedele, ne sia il responsabile. Comunque sia andata l’evento va considerato come un brutto colpo per Francia, il gruppo dei Paesi G5 e la Coalizione per il Sahel di cui fa parte anche l’Italia.

La transizione militare di almeno 18 mesi prima delle elezioni assicurata, per ora, dal figlio di Deby non può rassicurare. Se un alleato di prim’ordine come il Ciad barcolla e serpeggiano tensioni nelle Forze armate considerate fra le migliori sia nella lotta al terrorismo che come affidabilità e preparazione, le certezze di ieri rischiano di vacillare in tutto il Sahel.

Inaffidabilità e debolezze oltre ogni previsione di Paesi come il Mali e la Repubblica Centroafricana entrambi oggetto della recente, drastica decisione francese di sospendere la cooperazione militare in atto da anni. Paradossale la parabola maliana che andrebbe oltre l’immaginario di un film se non si trattasse, purtroppo, di una situazione molto seria.


Due colpi di Stato in meno di 12 mesi, agosto 2020 e maggio 2021, entrambi guidati dal colonnello Goita, con il sostegno (va ricordato) di larghe fette della popolazione civile, raccontano più di qualsiasi analisi la carenza dell’amministrazione locale, le debolezze di governi incapaci di unire il Paese e le sue etnie, la corruzione, il tentativo di negoziare con i jihadisti sottobanco.

Negoziati che cozzano contro gli accordi e le aspettative degli alleati e dell’Onu, presente in Mali con ben 13.000 caschi blu dell’operazione Minusma in aggiunta alle missioni di formazione militare, sicurezza interna e giustizia della Ue, ai francesi dell’operazione Barkhane e dal 2020 ai contingenti di vari Paesi europei, fra cui l’Italia dell’operazione Takuba.

Debolezze strutturali

La domanda lecita da porsi sarebbe come sia possibile che una tale concentrazione di forze, di finanziamenti e di sforzi non riesca a stimolare il governo maliano ad una gestione amministrativa più trasparente, efficace, unitaria ad una maggiore presenza e offerta di servizi di base a supporto di popolazioni deluse e stremate nei territori più lontani, periferici. La carenza di servizi, di lavoro per le fasce più giovani della popolazione, i soprusi e la corruzione costituiscono terreno sempre più fertile per l’offerta e la penetrazione jihadista.


Il governo maliano ha richiesto addirittura maggiore sostegno ai russi, ben felici di incrementare le presenze di consiglieri militari e forniture connesse.

All’origine della decisione francese di sospendere la cooperazione militare, pur senza rimuovere gli assetti militari presenti in Mali, vi è anche l’attivismo russo peraltro sollecitato sia dal Mali che dalla Repubblica Centroafricana, dove è in atto una campagna mediatica antifrancese, con lo zampino dei russi probabilmente, che è riuscita con oculata disinformazione a mobilitare una buona parte della popolazione.

L’attivismo russo dalla Libia al Corno d’Africa ma soprattutto in forte espansione in Africa Occidentale (Mali e Repubblica Centroafricana i casi più eclatanti), ha provocato forte irritazione e risentimento francese. Vacilla l’influenza transalpina anche nelle aree considerate strategiche economicamente e militarmente, feudo della francofonia.

Già da anni impegnata a contrastare la penetrazione del gigante cinese, la crescente influenza americana, a frenare velleità di altri alleati occidentali, con cui tuttavia qualche accordo si trova, la Francia difficilmente potrà assorbire un ulteriore fronte di contrasto dal forte ascendente su alcuni governi locali.


Al di là delle questioni elettorali in Francia, da almeno tre anni il Presidente Macron sembra cerchi una via d’uscita onorevole da una politica africana le cui contraddizioni risultano sempre meno sopportabili economicamente e militarmente. Si tratta principalmente di costi, di un rapporto oneri/ benefici sempre più difficile da sostenere. Mantenere influenze, una politica di presenza bilaterale costante, di “grandeur”, pur ridimensionata dai tempi, nelle ex colonie e in Libia, in competizione con l’Italia, non ha prodotto i risultati desiderati.

Al contrario in alcuni casi ha generato risultati opposti, forse non adeguatamente preventivati, quali l’ascesa nelle aree africane d’interesse di due potenze non proprio amiche di Parigi come Russia e Turchia. Un ridimensionamento nei fatti che ha portato la Francia a richiedere un maggior coinvolgimento europeo sia a livello Ue che dei singoli Stati nella lotta al terrorismo (legasi interessi francesi) ed un maggiore sostegno sul campo agli stati saheliani del gruppo G5.

La Coalizione per il Sahel, ideata e proposta da Parigi, risponde alle improcrastinabili esigenze della lotta al terrorismo e richiede una divisione dei costi per assicurare stabilità ai governi saheliani esposti più che mai agli attacchi jihadisti ed alle influenze anti occidentali.

Assisteremo probabilmente ad un’accelerazione degli impegni dei partner europei anche sul piano della cooperazione civile oltre a quella militare a seguito delle recenti dichiarazioni del mese di giugno del Presidente francese relative alla sospensione dell’operazione Barkhane, preavviso di un sostanziale ridimensionamento delle 5100 unità francesi schierate nei Paesi saheliani.


D’altronde pur criticata, non senza qualche ragione, la presenza francese in Africa Occidentale ha garantito oltre alla salvaguardia dei propri interessi economici e strategici, una certa stabilità e, pur sotto tutela, una difesa degli interessi degli stessi Stati africani francofoni. Non sono state preparate e formate adeguatamente le nuove classi dirigenti africane che avrebbero dovuto sostituire nel segno della trasparenza, della modernità, della lotta alle disuguaglianze, alla corruzione, le vecchie consorterie del potere dell’interesse personale, etnico, dei clan, delle tribù di appartenenza, anteponendo tali interessi allo Stato, allo sviluppo e al benessere delle popolazioni.

Ora in un periodo di crisi, instabilità, attacchi senza precedenti da parte di un fanatismo islamico d’importazione i nodi vengono al pettine in modo tanto repentino quanto imprevisto.

Malgrado i gravi errori di valutazione commessi negli anni, il Presidente Macron ha forse centrato il problema principale nel giustificare la sospensione dell’operazione Barkhane. Perché continuare un’assistenza tanto impegnativa quanto costosa se poi diversi Stati africani non mostrano una chiara volontà di dare seguito agli impegni presi, assumendosi responsabilità incombenti politiche e militari privilegiando piuttosto i benefici senza limiti temporali delle assistenze esterne?

La questione non sembra campata in aria, pur riconoscendo i gravi errori commessi dalla Francia, dagli interlocutori occidentali, dalle organizzazioni internazionali.


Inoltre il fallimento delle costosissime operazioni internazionali “multidimensionali” di stabilità a guida Onu si è accentuato in tempi recenti pur con la presenza di decine di migliaia di caschi blu e agenzie di sviluppo. Tali operazioni, in teoria sicuramente condivisibili, hanno prodotto più instabilità e scandali che apprezzamenti, al punto da generare proteste popolari (in Congo e Mali ad esempio) da parte delle stesse popolazioni che avrebbero dovute essere protette, senza peraltro risolvere i problemi atavici delle amministrazioni locali, della sicurezza, della formazione delle nuove classi dirigenti, di uno sviluppo visibile, sostenibile, vicino alle fasce più deboli delle popolazioni.

In un precedente articolo su Analisi Difesa ne abbiamo scritto più diffusamente segnalando anche i parziali fallimenti delle operazioni Ue e delle Ong.

Paradossi e azioni concrete

Un primo paradosso sarà la necessità di stringere alleanze concrete con i rivali di ieri che prevedano anche implicazioni in azioni coperte, non convenzionali in risposta alle azioni altrui, pur di giungere agli obiettivi della tutela degli interessi nazionali, delle frontiere minacciate, del riequilibrio dei ruoli nel Mediterraneo.


Per l’Italia, pienamente coinvolta nel Sahel e nel Mediterraneo un paradosso pregnante e una lezione appresa dagli smacchi ricevuti quasi senza reazioni dalla Turchia in Libia e Somalia. Una delle prime azioni pragmatiche e concrete fatte dal nuovo Presidente del Consiglio, Mario Draghi, è stata l’avocazione a sé della questione libica commissariando in pratica un debole ministro degli esteri non così autorevole, a livello internazionale, da tutelare le posizioni e gli interessi italiani in modo adeguato e determinato.

Il risultato è stato il riavvicinamento in Libia fra ENI e Total, intese per frenare l’aggressività turca, azioni comuni con il rivale competitore, la Francia, che fino a ieri ha tramato contro di noi. Le posizioni anti italiane francesi in Libia e nel Sahel sono note ma nel contesto attuale risulta producente e pragmatico stringere alleanze sul campo, non lasciare solo, come forse avrebbe meritato, il rivale alleato transalpino sostenendone le richieste di aiuto nel Sahel.


Con la recente messa a punto di una visione italiana finalmente strategica sulle aree di interesse in Africa (auspicata per molti anni da chi scrive e da Analisi Difesa), partecipiamo all’operazione Takuba (nessuna logica abbiamo lasciato la Libia in mano alla Turchia per andare nel Sahel, avevamo l'opportunità di spostare dall'Afghanistan i nostri soldati, con qualche mese di anticipo e portarli a Misurata prima dell'intervento turco a Tripoli ma i nostri strateghi militari e politici hanno ignorato quello che era scritto), base in Mali, accanto a contingenti francesi e di altri stati Ue, con un importante contributo di uomini e mezzi da prima linea.

In sintesi appare giustificato e dettato dagli eventi il sostegno dei paesi alleati alla Francia in Africa Occidentale. Un interesse comune (?!?!), un aiuto da far comunque riconoscere ai nostri cugini per la reciprocità di sostegno a nostro favore quando verrà il momento.

Altro paradosso di una situazione degenerata sarà garantire maggiormente la stabilità dei Paesi saheliani sotto attacco dei jihadisti e dei loro finanziatori, alleati indiretti, occulti o noti come il Qatar, influenti come la Turchia. Pur se diverse ragioni lo giustificherebbero non è il momento di lasciare ulteriori margini di manovra alle forze ostili jihadiste.

In caso di instabilità del Ciad andrebbe ulteriormente rafforzato l’impegno occidentale in Niger, ad esempio, tutelando il nuovo presidente Mohamed Bazoum, uomo forte e rispettato di altra pasta rispetto ai deboli governanti maliani da anni in balia dei ricatti jihadisti e delle questioni etniche e tribali mai risolte con spirito unitario. Il Niger appare sempre più cruciale nello scacchiere saheliano.


Ad integrazione dell’assistenza militare andrebbe perlomeno iniziato con azioni preliminari un vero piano di sostegni alla cooperazione civile nel Sahel.

Il Piano Marshall saheliano per essere efficace soprattutto visibile e benefico per le fasce deboli delle popolazioni, raggiungere villaggi e periferie dovrebbe comportare una particolare attenzione alla sicurezza dei civili prevedendo nuove modalità di esecuzione di progetti e programmi attraverso task force civili-militari unite nelle realizzazioni.

Minore burocrazia e impatti concreti su disoccupazione giovanile, strutture sanitarie periferiche, scuole, infrastrutture, strade rurali, acqua, agricoltura. Una tale prospettiva sarebbe la via per indebolire, fino a ridurre al minimo le influenze jihadiste e affiliati vari.

Risposte militari

Constatate le spese folli e i fallimenti delle missioni Onu e in subordine Ue, una revisione delle procedure delle modalità di esecuzione e delle risorse umane messe in campo risulta più che necessaria. Come si è ormai appurato che la cooperazione militare non è sufficiente per sconfiggere il terrorismo così bisognerebbe assumere che risulta molto più efficace un’assistenza militare da parte di contingenti occidentali, europei, canadesi o statunitensi ad esempio, piuttosto che impiego in Africa di truppe del Bangladesh, del Pakistan o delle Isole Figi….


Questo tipo di contingenti distanti dalle realtà africane accettano le missioni principalmente per le diarie non per raggiungere gli obiettivi di protezione e tutela delle popolazioni assumendosene quotidianamente i rischi di eventuali combattimenti contro fanatici agguerriti. Allo stesso tempo è poco opportuno utilizzare truppe africane in contesti continentali in cui ragioni etniche rendono difficile instaurare un buon rapporto con la popolazione.

Una svolta negli aiuti dovrebbe anche comportare sia a livello Ue che bilaterale degli Impegni formali, stringenti e verificabili da far assumere ai Paesi saheliani riguardo i rimpatri di migranti economici e illegali nonché installazione di hub e campi decorosi di accoglienza temporanea per i respinti, vittime dei trafficanti.

Sul fronte dei migranti illegali l’Italia dovrà molto probabilmente prendere coscienza pragmaticamente del disinteresse Ue e degli Stati membri e attrezzarsi a fare da sola o al massimo condividere le stesse misure, sarebbe già un gran passo avanti, adottate da tempo da Spagna e Grecia per frenare sbarchi e forzature illegali delle rispettive frontiere terrestri e marittime.


Su richiesta forte, interessata e accorta della Germania, si finanzierà ancora per 3,5 miliardi di euro la Turchia affinché mantenga i suoi campi di rifugiati, a spese nostre, e freni i flussi illegali lungo la rotta balcanica.

Altri miliardi di euro verranno mobilitati non prima di ottobre prossimo per nuovi accordi con Libia, e altri paesi per frenare le partenze, accettare rimpatri e ricollocamenti veloci e allestire in teoria hot spot locali. Per questa estate pandemia, pericoli e rischi d’importazione terroristica saranno ancora a carico esclusivo di Italia, Spagna, Grecia. Ognuno per sé a dispetto di retoriche dichiarazioni, promesse mai mantenute, fallimenti ripetuti della burocrazia e della Commissione Ue.

Sembra giunto veramente il momento che un Presidente del Consiglio esperto ed autorevole come Draghi, in assenza di azioni condivise da parte Ue, “passi all’incasso” come da lui stesso dichiarato tempo addietro, con azioni pragmatiche non eclatanti ma efficaci e chiare per tutti a difesa degli interessi nazionali, dei confini e anche dei rischi pandemici d’importazione.

Una ripresa del ruolo italiano nel Mediterraneo passa anche per la credibilità del Paese nella difesa dei propri interessi prioritari e nella capacità di reazione a provocazioni ad eventuali atti ostili quando richiesto dalle circostanze.

Foto: Operation Barkhane (Ministero delle Forze Armate Francese)