L'albero della storia è sempre verde

L'albero della storia è sempre verde

"Teniamo ben ferma la comprensione del fatto che, di regola, le classi dominanti vincono sempre perché sempre in possesso della comprensione della totalità concettuale della riproduzione sociale, e le classi dominate perdono sempre per la loro stupidità strategica, dovuta all’impossibilità materiale di accedere a questa comprensione intellettuale. Nella storia universale comparata non vi sono assolutamente eccezioni. La prima e l’unica eccezione è il 1917 russo. Per questo, sul piano storico-mondiale, Lenin è molto più grande di Marx. Marx è soltanto il coronamento del grande pensiero idealistico ed umanistico tedesco, ed il fondatore del metodo della comprensione della storia attraverso i modi di produzione. Ma Lenin è molto di più. Lenin è il primo esempio storico in assoluto in cui le classi dominate, sia pure purtroppo soltanto per pochi decenni, hanno potuto vincere contro le classi dominanti. Bisogna dunque studiare con attenzione sia le ragioni della vittoria che le ragioni della sconfitta. Ma esse stanno in un solo complesso di problemi, la natura del partito comunista ed il suo rovesciamento posteriore classistico, individualistico e soprattutto anti- comunitario" Costanzo Preve da "Il modo di produzione comunitario. Il problema del comunismo rimesso sui piedi"

sabato 10 luglio 2021

I vaccini sperimentali colpiscono duro

Pfizer | muore il giorno dopo il vaccino a Macerata La moglie | ' Si faccia chiarezza' La Procura dispone l' autopsia

Sarà eseguita domani mattina alle 9.30 all'obitorio dell'ospedale cittadino l'autopsia sul corpo di ...

Autore : corriereadriatico

Pfizer, muore il giorno dopo il vaccino a Macerata. La moglie: 'Si faccia chiarezza'. La Procura dispone l'autopsia (Di giovedì 8 luglio 2021) Sarà eseguita domani mattina alle 9.30 all'obitorio dell'ospedale cittadino l'autopsia sul corpo di Luciano Bettucci , il 59enne morto improvvisamente martedì scorso nella sua abitazione in via Pace a ...

Gli statunitensi hanno perso il senso e il senno, fuori da qualsiasi realtà

Fuga dall’Afghanistan e operazione Arpa birmana: il declino dell’occidente



Si potrebbe dire che l’Occidente è impazzito o meglio sono impazzite le elite che detengono il potere reale attraverso il sempre più labile schermo delle ritualità democratiche: la loro totale incapacità di abbandonare la vecchia mentalità del dominio e la strategia imperniata sugli atti di forza, unita all’impossibilità intrinseca del neoliberismo di ricercare armonia e cooperazione, ne stanno erodendo la credibilità e le possibilità di successo. Eppure non c’è modo di togliere dalla testa delle classi di comando, di fatto tutte americane, questo modus operandi anche in mondo profondamente mutato da quello in cui esso si è sviluppato. La situazione parallela e antitetica insieme di Afghanistan e Birmania ne sono un esempio perfetto (scusate se uso Birmania, ma mi viene più facile e poi è il nome popolare del Paese: Myanmar è un nome artificiale dato dalla giunta militare nel 1988) . Gli Usa escono totalmente sconfitti da un conflitto nel quale il “nemico” ovvero i talebani controlla ormai l’85% del territorio e si avvicina sempre più a Kabul e a Kandahar, la città fondata da Alessandro Magno (Iskandar in persiano) stringendole dentro un assedio che in realtà nessuno vuole salvo Washington il cui interesse è rallentare al massimi i tempi della sconfitta perché non sembro tale: è solo questione di tempo, probabilmente solo di mesi per vedere l’ultimo elicottero che lascia il Paese come a Saigon e del resto basta vedere come gli Usa abbiano già abbandonato di notte e alla chetichella la base aerea di Bagram, teatro anche di torture e prigionia, per toccare con mano questa epopea in negativo. Può anche darsi che la fine definitiva dell’conflitto sia ancora più vicina del prevedibile visto che i talebani hanno invitato per fine luglio il governo di Kabul a una trattativa generale per arrivare alla pace. E sarebbe davvero il colmo scoprire che sono proprio i vassalli degli Usa i più interessati ormai a fare la pace.

La sconfitta è totale, ma anche clamorosa perché nel frattempo l’Afghanistan è diventato ,lo spazio essenziale per il corridoio economico Cina-Pakistan (CPEC) da 62 miliardi di dollari, uno dei progetti di punta della via della seta che implica la costruzione dell’autostrada Kabul – Peshawar e quella dell’aeroporto ultra-strategico di Tashkurgan vicino aull’autostrada del Karakorum nello Xinjiang, a soli 50 chilometri dal confine pakistano e vicino anche all’Afghanistan, nonché al porto di Gwadar in Belucistan. Pechino ha perfettamente compreso ciò di cui ha bisogno l’Afghanistan non di bombe e discorsini political correct, ma strade, elettricità, cure mediche, fabbriche, telecomunicazioni e istruzione. E le darà in cambio della stabilità e della fine delle turbolenze jahdiste al confine con lo Xinjiang, mettendo così fine alla balla uigura. Sarà affascinante vedere come Cina, Pakistan, Iran, Russia e persino India riempiranno il vuoto nell’era post-Guerra eterna in Afghanistan. È molto importante ricordare che tutti questi attori, più i centroasiatici, sono membri a pieno titolo della Sco ( Shanghai Cooperation Organization). A quel punto e ancora una volta gli Usa e l’Occidente potranno solo minacciare con le bombe che partono da qualche emirato corrotto, come del resto ha fatto sapere Biden o meglio chi per lui.


Ma mai imparare la lezione e ora tutto questo si sta spostando in Birmania, anche se la stampa occidentale ne parla poco e fino alla primavera scorsa ha cercato di minimizzare per quanto possibile. Dunque adesso si sta creando una guerra civile in Birmania portata avanti da diversi gruppi armati etinci, alcuni, come il Kndo, sostenuti e organizzati dagli Usa da anni e altri di più recente creazione il cui scopo finale e soltanto impedire che l’attutale governo o anche governi alternativi a questo, conservino il controllo del territorio: solo con una balcanizzazione o libizzazione del Paese gli Usa possono sperare di sottrarlo all’influenza cinese visto che comunque non offrono o non vogliono offrire investimenti alternativi rispetto a quelli di Pechino. Interessante è notare come i campioni di un’ideologia che si vuole senza confini, senza discriminazioni, senza identità scelga sempre l’elemento etnico, ovvero quello esattamente contrario all’ideologia di facciata, per le sue operazioni di dominio. Comunque a meno di non tentare una palese occupazione del territorio che farebbe perdere agli americani qualsiasi residua simpatia in Asia. Ma prima o poi anche il terrorista prezzolato si accorge che tutto questo è privo di senso e di scopo, prima o poi anche il signore della guerra capisce che il controllo di un territorio impoverito lo rende un temporaneo padrone del nulla e si rivolgerà altrove. Anche qui si sente già da ora l’odore di una sconfitta.

C'è un dissenso diffuso sui vaccini sperimentali

Medici americani contro le vaccinazioni di massa



La burocrazia medico sanitaria mente costantemente quando si tratta di accreditare i vaccini, anche quando parla di cose che la riguardano direttamente. o quanto meno tende a non discostarsi da quelle che sono le tesi e gli indirizzi ufficiali. L’ American Medical association ( Ama) la più grande associazione di medici e studenti di medicina degli Stati Uniti aveva diffuso una sorta di indagine secondo la quale il 96% dei camici bianchi del Paese si sarebbe completamente vaccinato. Sebbene il campione fosse ristrettissimo, appena 300 persone, tendeva sostanzialmente a isolare quei medici che invece sono contrari alla vaccinazione e almeno a tacitare le differenze che esistono tra professioni. Infatti una seconda indagine l’Associazione dei medici e dei chirurghi americani (Aaps) ha dato risultati radicalmente differenti: su 700 professionisti, dunque su un base su una base più ampia, è venuto fuori che solo poco più del 40% dei medici si è completamente vaccinato mostrando che il sostegno dei medici alla campagna di vaccinazioni di massa è tutt’altro che unanime. Il sondaggio AAPS ha anche mostrato che il 54% dei medici intervistati era a conoscenza del fatto che molti pazienti avevano sofferto o soffrivano di una “reazione avversa significativa”. Dei medici non vaccinati, l’ 80% ha dichiarato “Credo che il rischio di iniezioni superi il rischio di malattia ” e il 30% sostiene “Ho già avuto il COVID”.

Ora entrambi questi sondaggi sono puramente indicativi e non hanno una stretta validità statistica, come del resto molte delle ricerche o ricerchine d’occasione che ci vengono vendute come la verità suprema, ma appare molto chiaramente che la comunità medica americana è tutt’altro che unanime riguardo alla vaccinazione di massa e che ci sono molti camici bianchi i quali nutrono forti dubbi. Appare anche chiaro come le posizioni critiche, anche quando sono maggioritarie, non riescono a sfondare la crosta mediatica che si è creata sulle vaccinazioni di massa e la loro presunta necessità e o sulla presunta sicurezza. Del resto sorprende che l’American Medical Association abbia voluto creare questa sensazione di unanimismo con un “sondaggio” che coinvolge un numero di camici bianchi davvero esiguo, come se avesse paura di trovarsi di fronte a risultati non voluti, per cui si è limitata al compitino che permettesse di fare un titolo sui giornali, ma soprattutto che facesse notizia sulle riviste specializzate. L’Aaps che invece è una associazione tradizionalmente disobbediente alla verità ufficiale, nel bene e nel male, non ha avuto affatto questa paura.

“È sbagliato chiamare una persona che rifiuta una vaccinazione un ‘anti-vax” – afferma il direttore esecutivo dell’Aaps Jane Orient – “Praticamente nessun medico è ‘anti antibiotico’ o ‘antichirurgico’, mentre tutti sono contrari a trattamenti che ritengono non necessari, con più probabilità di nuocere che di apportare beneficio a un singolo paziente, o testati in modo inadeguato”.

venerdì 9 luglio 2021

3 luglio 2021 - News della settimana (26 giu - 2 lug)

8 luglio 2021 - Donald Rumsfeld: guerrafondaio, criminale, traditore

Altri milioni a quei traditori parassiti della Fiat

Quanti soldi pubblici incasserà Stellantis per la gigafactory a Termoli


9 luglio 2021

Nel Pnrr l’Italia ha stanziato 600 milioni per la gigafactory, ma il governo pensa a una partnership pubblico-privato con Stellantis per portare gli investimenti fino a 1 miliardo. Parteciperà anche Cdp? Ecco numeri, indiscrezioni e scenari

L’annuncio di Stellantis sull’apertura in Italia, a Termoli, della sua terza fabbrica di batterie per le auto elettriche (gigafactory) in Europa è stato accolto molto positivamente dai sindacati e dal governo. Si tratta di “un passo importante nella direzione giusta”, ha dichiarato la Fim-Cisl. Per il ministro dello Sviluppo economico Giancarlo Giorgetti (Lega) è invece una “bella e attesa notizia”: “come Mise”, ha detto, “abbiamo lavorato affinché questo accadesse. Ora deve proseguire il confronto sul piano industriale con le parti interessate”.

LE TRATTATIVE TRA STELLANTIS, MiSE E MiTE

Ad aver mediato con Stellantis – con l’amministratore delegato Carlos Tavares e con il presidente John Elkann – non è stato soltanto il Mise di Giorgetti ma anche il Mite, il ministero della Transizione ecologica retto da Roberto Cingolani. Che infatti, solo pochi giorni fa, ricordava che “sono mesi che parliamo sia con l’Europa sia con Stellantis” in merito all’apertura di una fabbrica di batterie in Italia.

FONDI PUBBLICI PER LA GIGAFACTORY DI STELLANTIS?

Fonti anonime hanno rivelato all’agenzia Bloomberg che all’inizio di questa settimana Elkann si è riunito a Roma con dei funzionari del governo. Nell’articolo si legge che il progetto di Stellantis a Termoli sarà sostenuto da fondi pubblici, ma la somma esatta non è chiara.

Nel Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR) l’Italia ha stanziato circa 600 milioni di euro per la costruzione della gigafactory. Nelle intenzioni del governo, la cifra dovrebbe poi crescere fino a 1 miliardo grazie agli investimenti di partner industriali privati.

PARTNERSHIP PUBBLICO-PRIVATO CON CDP?

Come scriveva Reuters a inizio giugno sulla base delle informazioni ricevute, Roma punta alla creazione di un grande schema pubblico-privato, con Stellantis che dovrebbe possedere una quota di questa entità. Il Sole 24 Ore parla anche della “ipotesi di una newco in cui potrebbe avere un ruolo anche la Cassa Depositi e Prestiti”. Prima di procedere, però, sarà necessaria l’approvazione delle autorità di Bruxelles, che dovranno valutare il rispetto delle regole europee sugli aiuti di stato.

L’intenzione della partnership è stata in un certo senso confermata da Cingolani qualche giorno fa, quando il ministro ha detto che, sulle fabbriche di batterie, ci “sono grandi partnership pubblico-privato che non possono essere fatte a livello nazionale, ma devono essere realizzate filiere europee, come ha fatto la Germania, come ha fatto la Francia, e dobbiamo allinearci a questo modello”.

INVESTIMENTO TOTALE DA 1,5 MILIARDI

Una delle fonti di Bloomberg ha detto che l’investimento totale per la gigafactory di Stellantis a Termoli ammonterà a 1,5 miliardi di euro.

DI COSA HA PARLATO ELKANN

Bloomberg riporta che il progetto di cui Elkann ha discusso questa settimana con il governo è simile alla joint venture sulle batterie formata l’anno scorso da Psa – uno dei due gruppi automobilistici dietro la nascita di Stellantis – con la società energetica francese TotalEnergies: si chiama Automotive Cells Company. Le due aziende, al tempo, parlarono della necessità di investimenti pubblici e privati per oltre 5 miliardi di euro per garantire la fornitura di abbastanza batterie per alimentare un milione di veicoli elettrici all’anno.
L’APPROCCIO DI STELLANTIS ALLE BATTERIE

Stellantis costruirà cinque fabbriche di batterie tra Europa (Italia, Germania e Francia) e Nordamerica che le garantiranno una capacità di oltre 260 gigawattora entro il 2030. Le batterie saranno realizzate assieme ad aziende partner: la casa automobilistica francese Renault segue lo stesso approccio; la tedesca Volkswagen, al contrario, vuole produrre da sé le batterie che poi monterà sulle proprie vetture.

La società di analisi RBC Capital Markets stima che per la fine del decennio i veicoli elettrici rappresenteranno il 55 per cento delle vendite di Stellantis nel mercato europeo; le ibride plug-in avranno una quota del 15 per cento, e la restante parte del 30 per cento andrà ai modelli con motore a combustione interna.

COSA VUOLE L’ITALIA

Nel PNRR l’Italia punta a una capacità di produzione di batterie per 37 GWh al 2030, con cinquecento nuovi posti di lavoro negli impianti. Nel documento si menziona l’obiettivo di generare finanziamenti per 1,8 miliardi di euro entro la fine del decennio: una somma però improbabile, come detto da una fonte governativa a Reuters.

Stati Uniti e Nato scappano dall'Afghanistan, la Cina si propone di aiutare i talebani nella ricostruzione i quali accettano

09/07/2021 16:50 CEST
L'Occidente lascia l'Afghanistan, parte subito in missione la Cina

Strategia d'attacco, si muove il ministro Wang. Pechino vuole un ruolo da protagonista nella ricostruzione afgana con i talebani


JADE GAO VIA GETTY IMAGESChinese Foreign Minister Wang Yi (R) chats with guests after the opening ceremony of the Lanting Forum in Beijing on June 25, 2021. (Photo by Jade GAO / AFP) (Photo by JADE GAO/AFP via Getty Images)

Ha tutta l’aria di una “strategia di guerra”, in tempo di pace, quella portata avanti dalla Cina in Afghanistan, il “giorno dopo” la ritirata militare americana. Pechino vuole partecipare alla ricostruzione afgana con i talebani e rivendica un ruolo da protagonista nel “paese dei barbuti”. Da quando Washington ha annunciato il ritiro delle truppe, infatti, il futuro dell’Afghanistan è al centro della politica estera del Dragone.

Da qualche tempo, la questione afgana si è fatta sempre più strada nei pensieri e nei programmi futuri della diplomazia pechinese, almeno da quando i talebani hanno preso il controllo della provincia di Badakhshan, al confine con la Cina. Senza contare la volontà, da tempo manifesta, di includere il paese nel grande progetto della “Belt and Road Initiative” - la Nuova Via della Seta – con voci insistenti che si rincorrono negli ultimi giorni, circa una possibile estensione del corridoio Cina-Pakistan in territorio afgano. Pechino, insomma, starebbe puntando a ricostruire le infrastrutture devastate dalla guerra, in stretta collaborazione con i talebani, veicolando gli ingenti fondi stanziati allo scopo attraverso il Pakistan.

La strategia di Pechino è tutta “in attacco”. E non sarebbe un mistero - almeno dando retta ad alcune fonti credibili provenienti dal governo indiano - che ormai la Cina sarebbe convinta della sostanziale incapacità dell’attuale governo, capeggiato dal premier Ghani, di mantenere il controllo del Paese. Si tratta, del resto, di andare a colmare un vuoto politico e militare lasciato dall’America, e al tempo stesso riaffermare con decisione la nuova leadership che Pechino pretende di avere negli assetti e negli equilibri geopolitici internazionali, e particolarmente dell’area del Sudest asiatico. Una fetta di Mondo in cui la nuova superpotenza asiatica ha sempre rivendicato – anche storicamente – una sorta di “diritto di esclusiva”: e l’influenza di Pechino in Myanmar rappresenta l’esempio più eclatante di questa strategia di controllo, attraverso i finanziamenti e le influenze politico-militari strategiche.

Lo scorso fine settimana gli Stati Uniti hanno abbandonato la base aerea di Bagram, palcoscenico di lunga data per le operazioni militari nel paese, ponendo effettivamente fine alla guerra più lunga d’America.

Le forze governative afghane, non più sostenute dalle truppe Nato guidate dagli Stati Uniti, hanno mostrato segni di cedimento, con i soldati che hanno abbandonato le loro postazioni e spesso hanno dovuto ritirarsi, a volte nei paesi vicini come il Tagikistan, mentre il Pentagono afferma che il ritiro delle forze statunitensi è ormai completo al 90%.

Cogliendo al volo questa e altre opportunità – e non ultimo il 70mo anniversario dell’istituzione delle relazioni diplomatiche con il Pakistan - il ministro degli Esteri cinese Wang Yi ha subito espresso la necessità di “difendere insieme la pace” attraverso il dialogo, annunciando la sua partecipazione alla prossima riunione dei ministri degli esteri del Gruppo di contatto SCO-Afghanistan e alla conferenza internazionale “Asia centrale e meridionale: connettività regionale. Sfide e opportunità”, oltre a una sua visita ufficiale nell’area tra il 12 e il 16 luglio prossimi, quando sarà in Turkmenistan, Tagikistan e Uzbekistan su invito dei ministri degli esteri dei tre paesi.

La mossa ha suscitato l’immediata reazione dei talebani i quali, secondo quanto riportato dal Wall Street Journal, in un inedito sfoggio di realpolitik, avrebbero messo da parte le vecchie ostilità con il regime cinese, da tempo direttamente nel mirino del radicalismo islamico per la repressione delle minoranze musulmane dello Xinjiang e, indirettamente, per quella contro gli islamici Rohingya in Myanmar, faccenda nella quale Pechino avrebbe molte responsabilità. “Ci preoccupiamo dell’oppressione dei musulmani, in Palestina, in Myanmar e in Cina, così come dell’oppressione dei non musulmani in qualsiasi parte del mondo” ha dichiarato il portavoce dei talebani, Suhail Shaheen, da Doha, in Qatar, dove il gruppo ha la sua sede politica “ma non interferiremo negli affari interni della Cina“. Insomma, sembra che gli intolleranti barbuti abbaino deciso di firmare un’alleanza opportunistica con quello che era sempre stato un vecchio nemico. Ma i “barbuti” si son o spinti anche più in là.

Suhail ha definito la Cina “amica gradita” nella ricostruzione dell’Afghanistan ed ha affermato che il suo gruppo accoglie favorevolmente gli investimenti cinesi, garantendo la sicurezza di investitori e lavoratori. In un’intervista telefonica esclusiva a This Week in Asia , ha ricordato che attualmente i talebani controllano l′85 per cento del paese ed ha ripetuto più volte che sono pronti a garantire la sicurezza degli investitori e dei lavoratori cinesi se dovessero tornare. “Diamo loro il benvenuto” ha insistito il portavoce, “se faranno investimenti, ovviamente garantiamo la loro sicurezza. La loro sicurezza è molto importante per noi”, ha continuato Suhail, che ha anche affermato che i talebani non consentiranno più ai combattenti separatisti uiguri cinesi, alcuni dei quali avevano precedentemente cercato rifugio in Afghanistan, di entrare nel paese, insistendo sul fatto che impediranno anche ad al-Qaeda, o a qualsiasi altro gruppo terrorista, di operare dal territorio afgano. “Abbiamo permesso ad al-Qaeda di rimanere in Afghanistan perché non avevano posto in nessun altro paese” ha ammesso il capo talebano, insistendo sul fatto che ora non ci sarebbero più membri di al-Qaeda in Afghanistan, ricordando anche come, in base all’accordo di pace di Doha, i talebani si erano “impegnati a non consentire” a nessun individuo, gruppo o entità di utilizzare l’Afghanistan per effettuare attacchi contro gli Stati Uniti, i suoi alleati o “qualsiasi altro paese del mondo”. “Non consentiremo alcun reclutamento aperto o alcun centro di formazione o raccolta fondi per nessun gruppo in Afghanistan”, ha insistito Suhail. “Se c’è qualcuno che si nasconde e lo troviamo, gli diremo che non può rimanere [..] Questo è il nostro impegno nell’accordo di Doha. Rispettiamo quell’accordo”, ha detto ancora Suhail, riferendosi all’accordo di pace firmato dal gruppo con gli Stati Uniti nel febbraio 2020 a Doha, che ha aperto la strada al ritiro militare americano dal Paese.

Per quanto riguarda poi i rapporti con Pechino, Suhail ha anche affermato che, in seguito alla partenza delle truppe statunitensi, si è reso “necessario tenere colloqui” con la Cina, il più grande investitore in Afghanistan. “Siamo stati in Cina molte volte e abbiamo buoni rapporti con loro”, ha detto ancora. “La Cina è un paese amico che accogliamo con favore per la ricostruzione e lo sviluppo dell’Afghanistan”.

Le parole del portavoce del gruppo radicale acquistano un peso ancora più importante se si considera che esse arrivano mentre i talebani avanzano nelle province settentrionali dell’Afghanistan in seguito al ritiro quasi completo delle truppe statunitensi dal paese, da quando l’America di Bush lo aveva invaso dopo gli attacchi dell′11 settembre 2001 compiuti da al-Qaeda a New York e Washington, sostenendo che i talebani offrivano rifugio al gruppo terroristico. Ora le agenzie di intelligence statunitensi ritengono che il governo di Kabul vada incontro al rischio concreto di crollare entro sei mesi, consentendo ai talebani di tornare al potere 20 anni dopo esserne stati cacciati.

Per le mire economiche espansionistiche di Pechino, il Paese rappresenta una succulenta opportunità. L’Afghanistan ha le più grandi riserve non sfruttate al mondo di rame, carbone, ferro, gas, cobalto, mercurio, oro, litio e torio, per un valore di oltre 1.000 miliardi di dollari, e nel 2011 la China National Petroleum Corporation (CNPC) ha vinto un’offerta di 400 milioni di dollari per perforare tre giacimenti petroliferi per 25 anni, contenenti circa 87 milioni di barili di petrolio. Le aziende cinesi hanno anche ottenuto i diritti per estrarre il rame a Mes Aynak nella provincia di Logar, circa 40 km a sud-est della capitale dell’Afghanistan, Kabul.

Una sfida comunque difficile per la Cina, che rischia di entrare in rotta di collisione con la presente situazione di forte instabilità afgana ma più ancora con le asserite - da Pechino - attività di fiancheggiamento di gruppi terroristici Uiguri nel paese. La Cina, infatti, da tempo incolpa un gruppo separatista uiguro, il Movimento islamico per il Turkestan Orientale (ETIM) per alcuni atti terroristici che si sono verificati nell’ irrequieta provincia occidentale dello Xinjiang. Ma mentre alcuni esperti hanno messo in dubbio persino l’esistenza di un gruppo con quel nome (l’anno scorso gli Stati Uniti hanno rimosso l’ETIM dalla lista delle organizzazioni terroristiche, suscitando le ire della Cina), è ampiamente accettato che negli anni ’90 alcuni uiguri hanno lasciato la Cina per l’Afghanistan con l’intenzione di riorganizzare una guerriglia contro il governo centrale di Pechino. L’ultima intesa segreta tra Cina e talebani sulla questione uigura risalirebbe agli incontri a Pechino con il mullah Omar, il defunto leader dei talebani, morto nel 2013

Ora resta da vedere come si evolverà questo inedito “idillio” tra quello che resta di un gruppo terroristico ritenuto internazionalmente responsabile di azioni sanguinose e la nuova potenza cinese, decisa a percorrere qualsiasi strada in chiave anti-americana e purché assicuri benefici all'espansionismo globale perseguito dalla nuova Cina aggressiva e assertiva di Xi Jinping.

il baluardo comunista di riferimento del mondo ha salvato il libero mercato, liberale e liberista, dal suo nemico più infido e mortale: se stesso e le sue regole, ormai stipate nel dimenticatoio di un colossale schema Ponzi di indebitamento e leverage

Piaccia o meno, la rossa Cina ha appena salvato il «libero» mercato. Da se stesso

9 Luglio 2021 - 15:46

Con mossa a sorpresa, la Banca centrale di Pechino ha tagliato di 50 punti base i requisiti di riserva degli istituti di credito, liberando liquidità per 1 trilione di yuan. E l’Occidente festeggia


Parafrasando il noto spot di una carta di credito, chi è dittatore ha i suoi privilegi. E quello principale della Cina è di poter evitare l’ipocrisia. Con mossa a sorpresa e per la prima volta dal picco pandemico di inizio 2020, la Banca centrale di Pechino ha infatti appena tagliato di 50 punti base i requisiti di riserva bancari.

Fonte: Bloomberg

Una mossa che implicitamente si traduce in extra-liquidità immessa nel sistema pari a un trilione di yuan (circa 154 miliardi di dollari). Detto fatto, le Borse dell’Occidente liberale e liberista hanno tirato un bel sospirone di sollievo dopo i tonfi di ieri. L’Europa ha accelerato i rialzi e anche Wall Street ha tolto lo champagne dal frigorifero, lasciando che i futures stappassero.

Ci sono però molte criticità legate a quanto messo in campo dalla Cina, paradossalmente travestitasi da super-eroe proprio nel giorno in cui gli Usa mostravano i denti e annunciavano l’ampliamento della black list delle aziende del Dragone quotate. La prima sta alla base della scelta della Pboc: pur premettendo esplicitamente che l’intervento non vada inteso come un ritorno alla politica dello stimolo alluvionale, l’Istituto centrale ha dovuto allentare i cordoni della borsa di fronte agli ultimi dati macro che hanno segnato un marcato rallentamento della crescita economica, soprattutto l’indice dei servizi Caixin, precipitato ai minimi dall’inizio della crisi sanitaria e ben al di sotto delle attese.

Fonte: Bloomberg

Unendo al quadro interno quello di un continente asiatico che comincia a pagare a livello di output la nuova emergenza da variante Delta, con i principali hub produttivi che patiscono stop forzati e rallentamenti, come mostra il grafico.

Fonte: Bloomberg

Insomma, serve un po’ di stimolo. Apparentemente, più giustificato rispetto a quello a getto continuo, nonostante letture macro da record, in atto ormai senza soluzione di continuità in Occidente. Alcuni analisti, poi, fanno notare come questa contingenza sia andata a sommarsi a quella rappresentata da questo grafico,

Fonte: Bloomberg/Zerohedge

il quale mostra come l’impulso creditizio cinese sia già passato in negativo a metà maggio, anticipando il ciclo picco/coda a 6-7 mesi dai 9-12 abituali.

Che il rallentamento registrato dal Pmi sia stato o meno diretta conseguenza di questa dinamica monetaria poco importa, Pechino ha deciso di agire. E qui si apre lo scenario più politico che sottende al quadro generale. La Cina, infatti, può vivere nel mondo del Qe perenne senza ipocrisia: la sua storia è quella di un continuo sostegno statale all’economia, la cosiddetta mano invisibile e paradossalmente il fatto che dopo il 2008 il mondo intero si sia accodato a questo trend, ha permesso a Xi Jinping di smarcarsi, invocando la fine del credito a pioggia. Iniezioni mirate, interventi ad hoc: Pechino lascia a Fed, Bce e Bank of Japan la manipolazione dei mercati in via intensiva.

Il mondo al contrario. E al netto della reazione di giubilo generale, occorre porsi dei seri interrogativi su quanto accadrà nel secondo semestre di quest’anno. A detta di Ken Cheung, strategist valutario presso Mizuho, la Pboc è intervenuta prima del previsto e in maniera molto più drastica di quanto atteso, sintomo di un’urgenza politica di supporto dell’economia. Una mossa simile a livello espansivo potrebbe quindi aumentare i timori per l’outlook di crescita di Pechino nella seconda metà di quest’anno. E, forse, già rispetto ai dati del Pil del secondo trimestre che saranno resi noti la prossima settimana. In punta di ragionamento razionale e teorico, tutto vero.

Ma facendo riferimento al realismo più pragmatico, paradossalmente l’attesa per un dato di crescita minore del previsto potrebbe operare da ulteriore boost per i mercati: in ossequio alla vecchia regola del Qe, bad news is good news, un eventuale e ulteriore segnale di indebolimento potrebbe mantenere la Pboc con la guardia alta fino all’autunno, offrendo al mondo uno scudo difensivo che negli ultimi mesi era venuto a mancare. Insomma, la tanto odiata Cina sta in realtà comportandosi come un prezioso alleato. Semplicemente perché dal 2008 in poi, il mondo intero naviga sulla stessa barca: quella della negazione in nuce dei principi basilari del libero mercato, fair value e price discovery in testa.

Decidono tutto i regolatori, le Banche centrali sono i veri market-makers. Una specialità in cui Pechino è primatista assoluta. Insomma, operando sui requisiti di riserva, il baluardo comunista di riferimento del mondo ha salvato il libero mercato, liberale e liberista, dal suo nemico più infido e mortale: se stesso e le sue regole, ormai stipate nel dimenticatoio di un colossale schema Ponzi di indebitamento e leverage.

Piaccia o meno, l’Occidente ha bisogno della Cina, così com’è. Perché Pechino garantisce equilibrio al nuovo ordine finanziario del Qe perenne, a sua volta unica strategia perseguibile per una stabilità artificiale delle distorsioni sistemiche delle economie sviluppate. Non a caso, poco dopo la decisione della Pboc, il vice-presidente cinese Wang Qishan ha rilasciato alla tv di Stato una dichiarazione che appare come un epitaffio politico: La più grande sfida per gli Stati Uniti non è rappresentata dalla Cina. Ma dagli Stati Uniti stessi. Amen.

il Qe perenne aggrava le diseguaglianze in seno alle economie, basti vedere l’evoluzione della quota di ricchezza in mano al mitologico 1% della società per convincersi. Insomma, alla faccia del debito buono. Quantomeno, così viene spacciato. Ma tale non è.

SPY FINANZA/ Altro che green, il mondo gira ancora attorno a gas e petrolio

Pubblicazione: 08.07.2021 - Mauro Bottarelli

Altro che rivoluzione green e contrasto all’emissione di CO2, il mondo gira ancora – anzi, più che mai – attorno a gas e petrolio

Greta Thunberg al World Economic Forum di Davos (LaPresse)

Se pensate che la politica sia il regno incontrastato dell’ipocrisia, date un’occhiata più attenta al mercato. È da lì che promanano tutte le narrative che poi influenzano legislatori e regolatori. Il mercato detta lo spartito, la politica lo suona. E chi paga la banda, decide la musica. E questo primo grafico ci mostra come a partire dall’instaurazione del regime di Qe perenne post-Lehman, le Banche centrali abbiano scientemente deciso a tavolino di impostare una strategia di lungo termine. Passare una mano di politically correct e impegno sociale sul loro nuovo, vero mandato: la monetizzazione sistematica del debito.


Il grafico mostra il numero di menzioni della parola diseguaglianza nei discorsi tenuti rappresentanti di Banche centrali dei Paesi sviluppati nei vari anni: ormai è un mandato statutario. Di fatto, la prova provata – ancorché implicita – di ciò che è noto da sempre: il Qe perenne aggrava le diseguaglianze in seno alle economie, basti vedere l’evoluzione della quota di ricchezza in mano al mitologico 1% della società per convincersi. Insomma, alla faccia del debito buono. Quantomeno, così viene spacciato. Ma tale non è. E c’è di peggio. Come avrete notato, sentendo il telegiornale o semplicemente fermandovi dal benzinaio per fare il pieno, il petrolio è arrivato ai massimi dal novembre 2014.

Di fatto, l’ultima spinta è stata offerta dal nulla di fatto in sede Opec sull’aumento concordato della produzione. Unite a questo la tensione post-elettorale fra Usa e Iran che ha allontanato di colpo l’ipotesi di eliminazione delle sanzioni sull’export di petrolio di Teheran e la ripresa economica post-Covid che richiede molta più energia e la dinamica è servita. Il ritorno dei fondamentali macro, quasi il titolo di un film. Giova però porsi una domanda: non eravamo nell’era della transizione ecologica e dello sforzo per le emissioni zero entro il 2050? La lotta ai combustibili fossili non era prioritaria esattamente come quella alle diseguaglianze sociali, il green come il gender?

Pare di sì, nel senso che si sta combattendo allo stesso modo: unicamente a parole. Ce lo mostrano questi due grafici, dai quali apprendiamo due importanti nozioni. Primo, i flussi di denaro di investitori che stanno convogliando nel comparto Oil&Gas tramite Etf oggi sono ai massimi da un decennio. Quindi, difficile parlare di trend transitorio legato unicamente alla variabile Covid: di fronte a noi non c’è la contingenza di economie in ripresa da una pandemia senza precedenti che cercano e trovano energia dove questa è maggiore e di più facile reperimento, bensì un qualcosa che mostra profili strutturali. Piaccia o meno, petrolio e gas sono qui per rimanerci. Ancora per molto.



E il secondo grafico appare ancora più esplicativo: mostra il prezzo del barile dall’elezione di Joe Biden alla Casa Bianca (novembre 2020) in poi. Calcolando che gli americani hanno appena festeggiato il 4 luglio con la benzina a 3,90 dollari al gallone come prezzo medio nazionale, +42% di aumento su base annua, qualcosa deve essere sfuggito nei calcoli dell’amministrazione Usa. La quale sicuramente ha sposato la tesi della Fed riguardo la transitorietà di queste dinamiche dei prezzi ma, altrettanto chiaramente, ha operato in modo tale – coi fatti e non a parole, quindi con scelte di politica estera e commerciale – che il petrolio tornasse sugli scudi.

Certo, creare le condizioni perché i Talebani riconquistassero l’Afghanistan e il suo serpentone di pipeline, ha aiutato. La politica verso l’Iran, altrettanto. Per non parlare dei rapporti con i Paesi del Golfo, talmente improntati al continuo do ut des ricattatorio da vedere gli Emirati Arabi Uniti e l’Arabia Saudita – storici alleati americani nell’area – artefici proprio del blocco in sede Opec. Attendono la ricompensa di Washington, prima di prendere una decisione che potrebbe non poco pesare sulle scelte strategiche della Russia. La quale ha appena inviato un bel segnale chiaro all’Europa e al suo no a guida polacca all’apertura di un dialogo bilaterale con Mosca, ipotesi fortemente spinta da Angela Merkel all’ultimo Consiglio europeo e che lo stesso Mario Draghi aveva sposato (seppur tiepidamente).

Nessuna prenotazione di extra-capacity di gas verso l’Europa da parte di Gazprom all’asta tenuta lunedì dal gestore di rete ucraino: da ieri al 10 luglio, poi, interruzione sulla rete ex sovietica. Poi, proprio su quella che passa da Bielorussia e Polonia per arrivare in Germania. Gazprom ha deciso che questo è il momento giusto per dare una controllata alle infrastrutture. E per mandare un bel avviso a Bruxelles in vista dell’inverno. Soprattutto, stante le continue richieste dei Verdi tedeschi di rimettere in discussione Nord Stream 2, la pipeline diretta fra Russia e Germania che bypassa proprio l’Ucraina. Un risiko energetico enorme. Come sempre. Anzi, paradossalmente ancora più stringente da quando la grancassa verde e ambientalista è scesa in campo e ha tramutato la politica in un enorme WWF a cielo aperto. A uso e consumo di interessi inconfessabili.

E quest’ultimo grafico mostra quanto questa partita sia importante per gli Stati Uniti, alla faccia del Trattato di Parigi e delle amenità da greenwash contenute nel piano Biden di monetizzazione del debito tramite infastrutturazione da buca keynesiana di un Paese che già annega nella liquidità da Qe.


La correlazione fra indice Standard&Poor’s 500 e prezzo del petrolio è appena virata in negativo per la prima volta in quattro anni. Tradotto, prezzi delle commodities in continuo aumento significano crescita del costo di beni di prima necessità per cittadini che entro il 6 settembre perderanno anche il supporto dei piani federali anti-pandemia: di fatto, meno consumi. Quindi, un colpo a revenues e utili per la corporate America quotata in Borsa. Qualcosa che, se ancora i fondamentali hanno un residuo di valore per i mercati azionari, potrebbe e dovrebbe tradursi in un segnale negativo per Wall Street.

Insomma, tra petrolio come arma strategica e rischio di correzione equity, la Casa Bianca pare preferire la seconda ipotesi. Forse, conscia che questa – se avvenisse in modo controllato – porterebbe con sé il gradevole effetto collaterale di nuovo Qe della Fed, invece che il tapering. Insomma, la rivoluzione green può attendere. Il mondo gira ancora – anzi, più che mai – attorno a gas e petrolio. Greta Thunberg se ne faccia una ragione.

Continua la rapina al sud con l'avallo dei politici eletti dal sud

Recovery-beffa, il ministro Carfagna ammette: «Cifra per il Sud comprende fondi Ue già programmati»

La responsabile del dicastero per il Mezzogiorno definisce «ideologiche e ragionieristiche» le critiche alla ripartizione delle risorse a vantaggio del Nord ma poi conferma che il computo è frutto della somma con i “vecchi” soldi già stanziati 

di Redazione
8 luglio 2021 13:52

Il ministro Mara Carfagna

Ai numeri, il ministro per il Sud e la Coesione Territoriale Mara Carfagna risponde con le parole. Ma di quelle ce n'erano già tante. Non perde tempo a ribadire la portata degli investimenti destinati al Mezzogiorno dal Piano di Ripresa italiano, dopo che in realtà i calcoli fatti dal docente di Economia applicata dell’Università di Bari, Gianfranco Viesti, hanno fatto emergere che alle regioni meridionali arriverà solo il 10% delle risorse targate Ue. Ma, allo stesso tempo, ammette che nel computo delle risorse che arriveranno al Sud vi sono anche soldi già stanziati.

«Basta - spiega - leggere il testo del nostro Pnrr depositato a Bruxelles per comprendere la solidità del Capitolo Sud. Gli 82 miliardi - cioè il 40% delle risorse territorializzabili del Pnrr e del Fondo complementare - non sono un'astrazione ma il frutto di un calcolo specifico, effettuato dal Governo sulla base dell'esplicitazione della "quota Sud" di tutte le linee di intervento delle 6 missioni del Piano». Un calcolo, quello del Governo - aggiunge Carfagna -, che «ha consentito di stimare anche l'impatto sul Pil e sull'occupazione del Mezzogiorno. Il risultato è stato valutato solido e credibile dalla Commissione Europea, che non solo lo ha approvato ma lo ha espressamente citato nella sua relazione di approvazione del Piano italiano».

«Spiace e preoccupa - continua il ministro in una nota - l'approccio tra l'ideologico e il ragioneristico che alcune voci continuano a utilizzare per valutare il Capitolo Sud del Pnrr, strumentalizzando diseguaglianze e sofferenze dei meridionali per veicolare la tesi che il governo stia mentendo sulla reale consistenza dei fondi. Il calcolo sulla Quota Sud ha attraversato tutte e tre le grandi tipologie di intervento previste dal Pnrr. Per le linee di intervento di natura infrastrutturale come gli investimenti in ferrovie, porti, Zes o gli interventi nelle reti, la quota Sud è data ovviamente dall'addizione dei progetti programmati nel Mezzogiorno. Per le linee di intervento riguardanti incentivi nazionali i calcoli sono stati fondati sulla capacità "storica" di assorbimento al Sud. Ad esempio, è stato "ascritto" al Mezzogiorno solo il 9% dei fondi del superbonus. È evidente che qui, grazie alle riforme in atto la quota Sud potrebbe addirittura crescere, anzi crescerà certamente. Nella terza grande tipologia di interventi, le risorse assegnate attraverso bandi di gara, il calcolo è stato fatto in collaborazione con le diverse amministrazioni competenti e le autorità europee, tenendo conto della popolazione, degli obiettivi di riduzione del divario, delle caratteristiche territoriali. La somma finale è indiscutibilmente solida e fondata».

«Per garantire che i bandi effettivamente riservino al Sud una quota non inferiore al 40% - prosegue Mara Carfagna - stiamo lavorando a un sistema di monitoraggio per il rispetto della destinazione territoriale, incardinato presso la segreteria tecnica del Pnrr della presidenza del Consiglio e presso la struttura del Mef, nonché a una norma che "fissi" questo obiettivo. Come chiunque può capire, si tratta di conciliare la reale ed equa distribuzione delle risorse con il rispetto dei tempi e la riduzione del rischio di mancato utilizzo delle risorse da parte delle amministrazioni territoriali».

Quello che succede in Euroimbecilandia è chiaro, è il Consiglio direttivo della Bce che decide il livello d'inflazione oggi il 2% o più e nulla vieta domani il 3 o il 4% o vattelapesca. NON CI SONO REGOLE INDEROGABILI dipende dal contesto basta la volontà politica di decidere in un senso o nell'altro

BCE: si cambia strategia, target inflazione al 2%. Le parole di Lagarde

8 Luglio 2021 - 15:37

C’è la nuova strategy review della BCE. Nel mirino del dibattito c’è l’inflazione: il target è fissato al 2%. Cosa significa? Le novità.


Per la BCE è il giorno della strategy review e le novità più attese sono state dichiarate sul fronte inflazione.

Nello specifico, il target fissato a Francoforte come riferimento per la stabilità dei prezzi è ora del 2%, non più “al di sotto o vicino” a tale soglia, che alcuni responsabili politici ritenevano definizione troppo vaga.

La questione non è di poco conto e si propone per alcuni versi rivoluzionaria: cosa ha stabilito la strategy review della BCE?

Nella nuova strategia BCE inflazione al 2%

I responsabili delle politiche BCE hanno concordato di aumentare il loro obiettivo di inflazione al 2% e lasciare spazio per superarlo quando necessario.

La decisione segna un cambiamento significativo rispetto al precedente target. Il consenso è emerso in una riunione straordinaria il 6 e 7 luglio per concludere la prima revisione della strategia della BCE in quasi 20 anni, come riferito da Bloomberg.

Nel documento strategico si legge:

“Il Consiglio direttivo ritiene che il miglior modo per mantenere la stabilità dei prezzi sia perseguire un livello dell’inflazione del 2% a medio termine. Il Consiglio direttivo persegue tale obiettivo in modo simmetrico. La simmetria implica che scostamenti negativi e positivi da questo obiettivo siano considerati ugualmente inopportuni.”

Nel dettaglio, se l’inflazione è troppo bassa per un periodo lungo, per evitare che tale andamento diventi strutturale necessariamente ci sarà “un periodo transitorio in cui l’inflazione è moderatamente al di sopra dell’obiettivo.”

La BCE ha affermato anche che quando i tassi di interesse sono vicini al loro limite inferiore effettivo, come ora, l’economia avrà bisogno di uno stimolo monetario “particolarmente forte” che potrebbe “implicare un periodo transitorio in cui l’inflazione è moderatamente al di sopra dell’obiettivo”

La BCE ha quindi ribadito che la politica monetaria sarà definita con lo scopo di garantire la stabilità dei prezzi nel target fissato per il medio periodo.

Con quali strumenti interverrà? Naturalmente con il mezzo primario: l’insieme dei tassi di interesse di riferimento della BCE. Tuttavia, l’Eurotower ha aggiunto:

“Riconoscendo il limite inferiore effettivo dei tassi di riferimento, il Consiglio direttivo ricorrerà altresì, in particolare, alle indicazioni prospettiche sui tassi (forward guidance), agli acquisti di attività e alle operazioni di rifinanziamento a più lungo termine, se opportuno.”

Inoltre, è stato confermato l’indice armonizzato dei prezzi al consumo (IAPC) la misura dei prezzi più adeguata per valutare il conseguimento dell’obiettivo inflazione.

La novità è l’inclusione nello IAPC dei costi relativi alle abitazioni occupate dai proprietari, che meglio può potenzialmente rappresentare il tasso di inflazione rilevante per le famiglie.

Tale cambiamento sarà comunque graduale.

Secondo gli analisti, la rinnovata politica potrebbe fornire ai funzionari la giustificazione per sostenere più a lungo una politica monetaria accomodante, mentre ci si sforza di invertire anni di inflazione al di sotto dell’obiettivo, che hanno pesato sul potenziale economico dell’Eurozona.

Le parole di Lagarde sulla svolta politica

“La stabilità dei prezzi è meglio preservata con un target del 2%. Nessuna ambiguità, ma simmetria nel medio termine”: queste le parole della Lagarde per introdurre la scelta di alzare il target inflazione.

Ma cosa significa? La governatrice ha risposto chiaramente: le oscillazioni negative o positive dall’obiettivo sono entrambe indesiderabili.

Il 2% non sarà un target costante, ma le deviazioni durevoli che rischiano di diventare dei trend saranno affrontati con interventi della BCE, anche quelle negative. Nel breve termine è già in previsione che i prezzi saranno transitoriamente sopra l’obiettivo.

“La nuova formulazione rimuove ogni possibile ambiguità e trasmette risolutamente che il 2% non è un tetto”, ha detto il presidente Christine Lagarde ai giornalisti, aggiungendo che la revisione della strategia è stata concordata all’unanimità. “Quello che vogliamo fare è evitare la deviazione negativa che rafforzerebbe le aspettative di inflazione”.

Lagarde ha anche sottolineato che la decisione di inserire nella misurazione dell’inflazione costi relativi alle abitazioni occupate dai proprietari riguarderà i consumi, non i costi di investimento.

Perché la BCE cambia il target inflazione?

Definire al 2% il target inflazione probabilmente servirà alla banca centrale a enfatizzare la simmetria dell’obiettivo, considerato a medio termine e con la flessibilità di fluttuare in entrambe le direzioni nel breve periodo.

Proprio Lagarge ha affermato il mese scorso che mentre i responsabili politici trattavano in modo simmetrico il target inflazione - nel senso che si impegnavano a rispondere allo stesso modo a risultati troppo bassi e troppo alti - ma la formulazione (al di sotto ma vicino a 2%) potrebbe aver reso il loro impegno “confuso per gli osservatori e per i mercati”.

Tuttavia è improbabile che la BCE si spinga fino alla politica della Federal Reserve statunitense, che si è formalmente impegnata a lasciare che l’inflazione superi il suo obiettivo per compensare un periodo di bassa crescita dei prezzi.

Da ricordare: l’inflazione potenzialmente aumenterà ben al di sopra dell’obiettivo verso la fine di quest’anno, ma Lagarde e i suoi colleghi hanno ripetutamente ribadito che si aspettano che scenda al di sotto del target nel medio termine.

Il cambiamento climatico nella strategia BCE

Un ultimo spazio della strategy review è dedicato al cambiamento climatico, considerato una sfida e una priorità UE.

Pertanto, il documento ha precisato che:

“il Consiglio direttivo si è impegnato a realizzare un ambizioso piano di azione connesso al clima. Oltre a integrare esaustivamente fattori climatici nelle proprie valutazioni di politica monetaria,...adeguerà l’impianto operativo della politica monetaria per quanto riguarda l’informativa, la valutazione del rischio, gli acquisti di attività del settore societario e il sistema della garanzie”

Sono i numeri bruti dell'economia che suggeriscono alla Gran Bretagna e Grecia di uscire fuori dalla narrazione ufficiale dell'influenza covid

SPY FINANZA/ I conti che costringono Uk e Grecia alla “imprudenza” sul Covid

Pubblicazione: 09.07.2021 - Mauro Bottarelli

In Europa, solo due Paesi stanno negando l’evidenza e tirando dritti con il ritorno alla normalità a tutti i costi. E lo fanno per una ragione precisa

Boris Johnson, premier Uk (LaPresse, 2021)

A Tokyo, la situazione è talmente tranquilla rispetto all’allarmismo occidentale per quella che in fondo è solo un’influenza che lo stato di emergenza durerà per tutto il periodo delle Olimpiadi: rinnovo delle limitazioni dal 12 luglio al 22 agosto e gare senza pubblico in determinate aree della capitale, mentre con capienza massima di 5.000 persone altrove. Ma va tutto bene. Non sono un virologo e non mi permetto di dire chi abbia ragione e chi torto. Però una cosa è certa: il mondo sta impazzendo.

Le scene giunte negli ultimi due giorni da Wembley parlano chiaro: la Gran Bretagna apre aver voglia di Covid, brama per contagi di massa. I quali, infatti, tanto per creare aspettativa in vista della gara della nazionale contro la Danimarca sono saliti a 30.000 in un giorno. Poi, la folla allo stadio: non una mascherina a pagarla fra il pubblico. Sessantamila persone. Ed ecco che, di colpo, sale l’allarme per i possibili festeggiamenti in caso di vittoria dell’Italia domenica: «Scendere in piazza senza mascherina è un errore», ha sentenziato Pier Paolo Siileri a RaiNews24. Vero. Io continuo a indossarla e lo farò a oltranza, anche all’aperto. Chi andrà però a controllare, in caso di vittoria? Polizia e carabinieri? Per favore, avremmo la rivoluzione. E poi, sinceramente, con che faccio uno Stato vieta o limita i festeggiamenti per la Nazionale, quando non controlla chi arriva dall’estero con l’aereo, come testimoniano decine e decine di servizi dei tg?

Questa tabella mostra plasticamente l’incedere della variante Delta in Spagna: praticamente, solo giovani i nuovi infettati che stanno facendo salire l’allarme e tornare in campo ipotesi di restrizioni mirate. E qui occorrerebbe un po’ di chiarezza, magari dall’Oms: siamo di fronte a un qualcosa di potenzialmente pericoloso o chi è vaccinato non deve temere? I vaccini proteggono o meno dalle varianti? E, più in generale, quale reale livello di copertura offrono, se già si parla di terza dose necessaria per tutti?


La verità è una sola: nessuno sa nulla. Comunità scientifica in testa. Il mondo va in ordine sparso: l’Australia chiude tutto e rinvia i gran premi di auto e moto, il Giappone sta tramutando le Olimpiadi in un evento per pochi intimi, mentre Boris Johnson va allo stadio vestito da hooligan e conferma il liberi tutti dal 19 luglio con 30.000 contagiati al giorno e il parere contrario dell’associazione dei medici.

In compenso, mentre il mondo provava a capirci qualcosa, Fed e Bce inviavano segnali al mercato. Le minute dell’ultimo board della Banca centrale Usa, infatti, lasciano intendere un primo intervento di taper già dopo l’estate, mentre la due giorni di meeting straordinario dell’Eurotower per la policy review ha portato con sé una novità straordinaria: il target inflazionistico di riferimento non è più attorno ma inferiore al 2%, bensì al 2% e con possibilità di overshoot in determinate condizioni. Ovviamente, come quelle attuali. Transitorietà, questo l’imperativo e il mantra. Praticamente, il nulla partorito dopo due giorni di dibattito. E, soprattutto, un qualcosa di cui il mercato si disinteressa totalmente, stante la reazione di ieri mattina della Borsa: a pesare era certamente la Cina ma anche e soprattutto l’assenza di un annuncio per il Pepp open-ended che il mercato si attendeva, questo sì, da Francoforte.

Non sono un virologo, quindi evito incursioni in campi che non mi competono. Però so una cosa: in Europa, solo due Paesi stanno negando l’evidenza e tirando dritti con il ritorno alla normalità a tutti i costi: Gran Bretagna, europea solo geograficamente e per potenzialità di contagio, e Grecia. I motivi? Per i Regno Unito parlano questi due grafici, freschi freschi di pubblicazione con il report dell’Office for Budget Responsability, documento che immagino Boris Johnson abbia letto prima della sua pubblicazione ufficiale del 6 luglio e che temo sia stato alla base della sua apparentemente scriteriata decisione di togliere tutte le restrizioni fra dieci giorni.



Una sintesi? La Gran Bretagna rischia un colpo finanziario a livello di conti pubblici potenzialmente catastrofico a causa dei sempre crescenti costi della pandemia. Usa proprio quel termine il watchdog governativo per il controllo dei conti: catastrofico. E lo quantifica anche: i costi accessori della pandemia senza copertura, né finanziamento, già oggi ammonterebbero a 10 miliardi di sterline l’anno almeno per i prossimi 3 anni. Ora, al netto del tocco magico che il Brexit garantirà all’agire dell’esecutivo conservatore, capite perché al 10 di Downing Street hanno sfidato l’apparenza di bipolarità nel comportamento e cambiato idea nell’arco di dieci giorni, passando dall’ennesimo rinvio delle aperture a giugno all’attuale, nuovo liberi tutti? Perché al netto di dati di crescita per l’anno in corso che garantiscono titoli a nove colonne agli apologeti sotto copertura dell’abbandono dell’Ue (anche di casa nostra), la realtà è chiara: scambiare un rimbalzo dagli abissi del 2020 per trend di crescita sostenibile e di medio termine equivale a scambiare l’alba con il tramonto. È la logica del gatto morto: il quale, anche se deceduto, cadendo dal quarto piano rimbalza comunque su un tendone. Ma sempre morto rimane. Ecco, l’economia senza più sostegni europei della Gran Bretagna è talmente sana e forte senza i lacci e lacciuoli di Bruxelles da obbligare una mossa suicida come quella compiuta da Boris Johnson. Ammesso che la variante Delta rappresenti un pericolo, poiché in caso contrario il premier britannico merita il Nobel per la Pace e la classe medico-scientifica globale un declassamento al ruolo di portantino del pronto soccorso.

C’è poi la Grecia, la quale continua ad attrarre turisti come un magnete in base a un mantra: venite a frotte, qui nessuna limitazione. E questa grafico mostra plasticamente il motivo per cui Atene proseguirà giocoforza su questa strada, persino se la variante Delta dovesse fare la sua prepotente comparsa. Il tracciatore dei super-yacht di Bloomberg ha fatto una bella fotografia dello status quo relativo alle mete predilette dei natanti da nababbo al 25 giugno scorso. Guardate dov’erano, segnalati dai punti gialli di maggiore intensità: Grecia soprattutto ma anche Liguria e costa tirrenica. E quella è una clientela a cui non si dice di no e che non gradisce limitazioni: paga tutto e vuole tutto. A qualsiasi prezzo. Anche quello della salute collettiva, in caso davvero la variante Delta rischi di farci sprofondare in un déjà vu dell’autunno 2020.


E il motivo è palese: la grandissima parte degli Npl che ancora gravano sui bilanci bancari greci fa riferimento al comparto turistico, voce che pesa per un quinto del Pil. Senza una stagione estiva di urlo a livello di incassi, a settembre altri prestiti e fidi andrebbero in sofferenza. Un doom loop noto alla Grecia, il quale però sconterebbe un aggravante: nell’arco di pochi mesi, se la Bce non cambiasse idea sulla scadenza del 31 marzo per il Pepp, verrebbe meno la deroga di accettazione del debito ellenico come collaterale per operazioni rifinanziamento. E saremmo dentro un’altra crisi del debito del Partenone, aggravata però da leverage molto più alto, detenzioni di debito pubblico da parte delle banche insostenibili e tracollo del Pil da Covid con cui fare i conti come denominatore per mantenere in linea di sostenibilità i costi di servizio di quel debito. Tradotto, in Grecia potrebbe arrivare anche Ebola e non chiuderebbero nulla. Perché l’alternativa è quella di chiudere il Paese per fallimento, dopo averlo scampato dieci anni fa.

Non sono un virologo ma un po’ di economia e finanza ci capisco: la realtà è solo questa. E quando il professor Andrea Crisanti in un’intervista con La Stampa parla di «decisione politica del governo di favorire il contagio, scelta che pagheremo drammaticamente in autunno», nessuno riesce a farmi distogliere lo sguardo da quella mappa e dai punti giallo acceso lungo le coste liguri e tirreniche. Sarà per questo che Mario Draghi, ogni piè sospinto, ci invita a togliere gli occhiali con le lenti rosa dell’ottimismo a oltranza?

Mi raccomando, noi preoccupiamoci di festeggiare la Nazionale e accapigliarci sulla legge Zan. Poi non lamentiamoci, però.

G20 - Debito pubblico alle stelle, investimenti a sostegno della transizione verde e una tassa minima globale sulle multinazionali

G20 ECONOMIA E FINANZA: QUALI PRIORITÀ?

I ministri delle finanze del G20 ei governatori delle banche centrali si incontrano a Venezia dal 9 al 10 luglio. Come sfuggire al destino di nuove crisi finanziarie? Come finanziare una ripresa verde? Verrà approvata una tassa minima globale?


Debito pubblico alle stelle, investimenti a sostegno della transizione verde e una tassa minima globale sulle multinazionali. Questi i temi chiave dell'agenda dei ministri delle Finanze e dei governatori delle Banche centrali del G20 che si riuniranno a Venezia il 9-10 luglio.

Sulla cancellazione del debito per i paesi a basso reddito, il G20 ha già adottato alcune misure ma i dubbi rimangono. Quanto possono durare le misure di cancellazione del debito? Come coinvolgere al meglio i creditori privati? Inoltre, il debito alle stelle è un problema per oltre 40 paesi a reddito medio in tutto il mondo. Quale strategia dovrebbero adottare i paesi del G20 per sfuggire al destino di nuove crisi finanziarie? Come favorire un intervento più forte da parte del FMI?

La Presidenza italiana ha puntato i riflettori anche sul sostegno finanziario alla transizione verde . Resta da vedere come coinvolgere meglio gli investitori privati ​​e il ruolo che devono svolgere le banche per lo sviluppo e regionali anche nell'ottica di aiutare i paesi poveri e in via di sviluppo.

C'è anche molta attesa sulla mossa del G20 sulla tassazione internazionale . Sia i membri del G7 che quelli dell'OCSE hanno raggiunto un accordo sull'introduzione di una tassa minima globale. Riuscirà il G20 a compiere il passo finale? Quando e come implementare la nuova tassa?

Su queste e altre pressanti questioni finanziarie globali, il Think20 (T20) – presieduto da ISPI – riunisce centinaia di importanti think tank in tutto il mondo e funge da “banca delle idee” del G20. Il T20 ha raccolto le sue raccomandazioni politiche in una dichiarazione presentata ai ministri delle finanze del G20.

ISPI G20


Chi non accetta la narrazione covid muore. Nessuna correlazione

ORA HAITI BRANCOLA NEL BUIO

La polizia di Haiti riporta di aver ucciso quattro sospetti dell’assassinio del presidente Moïse. Il premier Joseph dichiara che la situazione è sotto controllo, ma il paese rischia di sprofondare ulteriormente nel caos.


Il presidente della repubblica di Haiti Jovenel Moïse è stato ucciso nella notte tra martedì e mercoledì mentre si trovava nella sua residenza privata con la moglie, che è rimasta gravemente ferita e trasportata in un ospedale in Florida. Secondo il capo della polizia Leon Charles, “quattro mercenari sono stati uccisi e due sono stati arrestati”, mentre sarebbero stati rilasciati tre poliziotti presi in ostaggio durante l’attacco. Gli altri sospetti “saranno uccisi o arrestati”, dichiara Charles. Non sono ancora chiare le dinamiche dell’accaduto, ma il primo ministro ad interim Claude Joseph parla di un commando composto da stranieri che parlavano in spagnolo e inglese. Un indizio che per le autorità locali farebbe pensare ad ingerenze dall’estero, dal momento che nel paese caraibico le lingue ufficiali sono il creolo e il francese.
Joseph ha invitato la popolazione alla calma, rassicurando che la situazione è sotto controllo. Haiti veniva già da un periodo di crisi politica ed istituzionale, di cui sarebbe stato complice lo stesso Moïse, spesso accusato dagli oppositori e da proteste di piazza di corruzione e autoritarismo. Il rischio ora è che il paese più povero del continente americano sprofondi nell’anarchia e nel caos.

ISPI Daily Focus


Anche con questo governo continua imperterrito il saccheggio del Sud

Recovery, il Governo come la Germania con la Grecia: col Pnrr colonizzare il Sud è più facile

Quello che sta accadendo con i soldi del Recovery Fund sottratti al Sud è una lezione di storia coloniale. Dinanzi alla più grande rapina di tutti i tempi, ci si aspetterebbe la levata di scudi dei rappresentanti del Mezzogiorno: presidenti di Regioni, parlamentari, giornali, docenti universitari, imprenditori... Ma quando mai!

di Pino Aprile
8 luglio 2021 21:10

Il direttore Pino Aprile

Al Sud vince chi è più svelto ad arrendersi al nemico, per farsi nominare “capo dei perdenti” (non parlo solo di Recovery Fund): si forma così la classe dirigente subordinata che, in politica, nei giornali, nelle università, antepone il proprio vantaggio ai diritti dell'intera comunità. Le poche, lodevoli eccezioni, sono considerate un disturbo, una forma di infantilismo: “non hanno capito come vanno le cose”. Lenin dei “capitalisti”, diceva: «Ci venderanno pure la corda per impiccarli». Provate ad adattare la frase ai comportamenti dei soliti noti. Tipo: ci chiederanno di votarli ancora, perché sono riusciti a ottenere che le catene siano più leggere e più lunghe.

La Grecia affossata e regalata alla Germania

Ricordate come la Grecia fu domata con la scusa dell'austerità imposta dall'Unione euro-tedesca e regalata (dal Partenone agli aeroporti) alla Germania, che non ha mai pagato ai greci i danni dell'aggressione nazista? Lo ha raccontato Yanis Varoufakis, in “Adulti nella stanza”; io posso aggiungere un tassello che lui ignorava: chi e a che prezzo comprò il Parlamento greco o almeno la maggioranza. Non significa che qualcuno stia comprando i parlamentari del Sud, per far ingoiare al Mezzogiorno la fregatura del Piano Draghi: per vendere qualcosa bisogna conoscerne il valore, e i rappresentanti meridionali non lo sanno (salvo alcuni disperati per quel che vedono e il quasi niente che possono fare per impedirlo).

La beffa del Recovery è una lezione di storia coloniale

Quello che sta accadendo con i soldi del Recovery Fund è una lezione di storia coloniale: l'Italia, per le politiche squilibrate dei governi nazionali da 160 anni (salvo due brevi periodi nei primi anni del Novecento e dopo la seconda guerra mondiale), è al tempo stesso un Paese ricco (il Nord in cui sono concentrati tutte le grandi opere con investimenti pubblici: strade, ferrovie, alta velocità, centri di ricerca, manifestazioni internazionali, sedi di Authority europee, dirottamento di fondi destinati altrove) e un Paese povero (il Mezzogiorno, cui sono sottratti circa 60 miliardi all'anno da dirottare al Nord, come documentano i dati dei Conti pubblici territoriali).

Il Mezzogiorno danneggiato tre volte

“Grazie” a questo, l'Europa dà all'Italia fondi importanti per ridurre il divario Nord-Sud (e sanno perché esiste: andate a leggere i pubblici e ripetuti rimproveri di dirigenti europei, come il direttore generale della Commissione Politiche regionali, Marc Lemaitre). I governi italiani di qualsiasi colore, però, quei soldi per legge “aggiuntivi” alle risorse nazionali, li usano al posto dei finanziamenti statali, danneggiando il Mezzogiorno tre volte: i fondi europei non sono “in più” (ma dimenticano di dirlo quando parlano dei “tanti soldi al Sud”); per scarsità di mezzi e di capacità di spesa (comunque non lontana da quella di altre regioni italiane ed europee e, in qualche caso, superiore) il Sud non riesce sempre a impiegare quelle risorse nei tempi dati e deve restituirle (è un problema anche altrove); i fondi nazionali così sottratti al Mezzogiorno, migrano altrove, dove sono impiegati senza le scadenze strette di quelli europei e non devono essere restituiti per “i ritardi”, incrementando, così, la distanza Nord-Sud e mostrando che altri, invece, “sanno spendere”.

Il circuito diabolico per arricchire il Nord

È un circuito diabolico (le cose sono più complicate, ma tocca riassumere a colpi d'accetta): più il divario cresce, più l'Europa deve intervenire, più ci guadagnano le Regioni del Nord a danno di quelle meridionali. Il Recovery Fund è il più di sempre: l'Italia ottiene un quarto dell'intera somma per far ripartire i 27 Paesi dell'Unione, dopo la furia della pandemia (oltre 200 miliardi su circa 800), solo per portare il Mezzogiorno a livelli europei di strade, treni, reddito, connessioni digitali. Per questo l'Unione calcola le cifre, usando i tre criteri (in base a popolazione, reddito, disoccupazione) poi ribaditi dal voto del Senato e della Camera dei deputati, calpestati dal governo.

Il bluff di Conte e Draghi

Così, prima il governo Conte2, poi, facendo molto peggio, il governo Draghi, invece del 70 per cento (145 miliardi) destinano al Sud il 40 finto (82 miliardi) che si scopre essere il 10 lordo (22), da cui si arriva al 6, perché ogni dieci centesimi investiti a Sud, 4 tornano a Nord. Ci sarebbero altri 13 miliardi che si presume possano andare a Sud, ma si può non considerarli, visto che sono in buona parte usati per sostituire finanziamenti già fatti (più o meno lo stesso trucchetto di prima).

La rivolta dei rappresentanti del Mezzogiorno? Ma quando mai!

Ora, dinanzi alla più grande rapina di tutti i tempi, ci si aspetterebbe la levata di scudi dei rappresentanti del Mezzogiorno: presidenti di Regioni, parlamentari, giornali, docenti universitari, imprenditori... Ma quando mai! Dobbiamo il calcolo dei soldi che spettano al Sud alla Commissione Economia del Movimento 24 Agosto per l'Equità Territoriale: nessun ministro o amministratore meridionale lo aveva fatto; dobbiamo al parlamentare europeo Piernicola Pedicini lo studio che conferma il calcolo e, ha fatto altrettanto la Regione Campania, riuscendo a coinvolgere le altre del Mezzogiorno (il leghista Nino Spirlì, per la Calabria, si è aggiunto dopo averci pensato giorni, e un po' di proteste di calabresi; il leghista presidente della Sardegna, Christian Solinas, non ha aderito); dobbiamo al professor Gianfranco Viesti, docente di economia all'università di Bari, la scoperta che la somma degli addendi di spesa (22 miliardi) non combacia con il totale dichiarato e scritto pure: 82.

I parlamentari del Sud silenti

E i parlamentari del Sud in quale squadra giocano? Pochissimi hanno levato la loro voce contro tale furto, da Bianca Laura Granato a Ernesto Magorno, Sabrina Ricciardi, Francesco Sapia (sono fra quelli che hanno votato contro il PNRR di Draghi o non si sono presentati in aula per votare) o Wanda Ferro. Le liste a sostegno di de Magistris sono intervenute in Calabria. A dirla tutta, temo che specie gli ultimi arrivati, pensino di cavarsela “con il comunicato”. Lo si vedrà. I più incazzati dovrebbero essere i presidenti di Regione del Sud; e sono i più assenti.

Vien voglia di adattare alla politica lo spassionato consiglio di sant'Agostino: «Se proprio dovete peccare, almeno fatelo con gioia» (la vita lui seppe godersela: «Signore, fammi casto. Ma non subito». A queste condizioni mi converto pure io). Così, ai remissivi, distratti, assenti, inutili rappresentanti del Sud, verrebbe da dire: “Se proprio volete assecondare o ignorare la più grande rapina di sempre al Mezzogiorno, almeno fatelo a un buon prezzo, non gratis o per un'auto blu ministeriale con cui impressionare i paesani alle cinque della sera di venerdì”.

La Grecia svenduta dai suoi parlamentari

Quella storia della Grecia...: un amico imprenditore era con investitori arabi in un bar dinanzi alla stazione centrale di Milano; gli chiedono di aiutare un tizio sopraggiunto, che deve trasferire grandi somme a Dubai, ma non parla bene l'italiano. Prima che capisca cosa stia succedendo, il mio amico si trova nel caveau di una banca, con mazzette di banconote da 500 euro tenute con fascette Deutsche Bank e allineate su scaffali. «Almeno 200 milioni», stima, a occhio. «270», precisa il tizio. L'imprenditore inizia a sentirsi inquieto, che c'entro io? Poco dopo sono con un funzionario della banca che, come fosse la cosa più banale del mondo, pochi minuti... «I primi 50 milioni sono andati!».

Il mio amico torna, furente, agli investitori arabi: «Ora mi dite in che pasticcio mi avete infilato». «Quel tale è un sottosegretario del governo greco; sono soldi della Germania; altri 230 milioni, del totale di 500, sono stati trasferiti da Parigi. A Dubai, serviranno per acquistare diamanti, da dare ai parlamentari greci». Il Parlamento greco, lo narra Varoufakis, non fu alleato dei greci ma, per caso o per altro, della Germania.

Al Sud spettano 145 miliardi

Il Recovery Fund e il Pnrr valgono 17 volte il Piano Marshall; non c'è stato, in tutta la nostra storia, un momento più decisivo per unificare il Paese, chiudere la Questione meridionale (sorta con la Mala-Unità), attrezzare il Mezzogiorno con le strade, le ferrovie e il resto mai fatto, in modo che sviluppi tutte le sue potenzialità a beneficio proprio, del Paese, e dell'Europa (è il calcolo fatto dall'Unione, visto il declino del continente). Al Sud spetta il 70 per cento, 145 miliardi; ma la ministra che dovrebbe difenderlo con le armi, Mara Carfagna, ha il coraggio di dire che il 40 (finto) è un successo, nonostante il diritto a quasi il doppio. Spiace vedere tale linea difesa anche dalla sottosegretaria calabrese al Mezzogiorno, Dalila Nesci, e da potentissimi parlamentari del Sud che invece di fare squadra per pretendere il giusto, spiegano che di più il Sud non è capace di spendere, e però al Mezzogiorno andranno, per altri cespiti (non RF), più di 200 miliardi. Il che rende incomprensibile perché dovremmo saper spendere questi e non quelli del RF.

La subordinazione dei politici del Sud

Questo adeguarsi al meno per il Sud è la prova evidente dello stato di subordinazione di chi lo rappresenta (i parlamentari greci, più consapevoli e commercianti, non lo hanno fatto gratis); e se qualcuno stesse per negarlo, prego di replicare dopo aver risposto a questa domanda: un ministro padano avrebbe proclamato una vittoria il 40 per cento (falso) se al Nord spettava quasi il doppio? E perché dovrebbe andar bene per il Sud? Questa battaglia non può essere persa. Seguiremo gli eletti, informeremo gli elettori.