L'albero della storia è sempre verde

L'albero della storia è sempre verde

"Teniamo ben ferma la comprensione del fatto che, di regola, le classi dominanti vincono sempre perché sempre in possesso della comprensione della totalità concettuale della riproduzione sociale, e le classi dominate perdono sempre per la loro stupidità strategica, dovuta all’impossibilità materiale di accedere a questa comprensione intellettuale. Nella storia universale comparata non vi sono assolutamente eccezioni. La prima e l’unica eccezione è il 1917 russo. Per questo, sul piano storico-mondiale, Lenin è molto più grande di Marx. Marx è soltanto il coronamento del grande pensiero idealistico ed umanistico tedesco, ed il fondatore del metodo della comprensione della storia attraverso i modi di produzione. Ma Lenin è molto di più. Lenin è il primo esempio storico in assoluto in cui le classi dominate, sia pure purtroppo soltanto per pochi decenni, hanno potuto vincere contro le classi dominanti. Bisogna dunque studiare con attenzione sia le ragioni della vittoria che le ragioni della sconfitta. Ma esse stanno in un solo complesso di problemi, la natura del partito comunista ed il suo rovesciamento posteriore classistico, individualistico e soprattutto anti- comunitario" Costanzo Preve da "Il modo di produzione comunitario. Il problema del comunismo rimesso sui piedi"

sabato 9 ottobre 2021

‘Sostenibilità insostenibile’

Il n. 3 della Rivista FUOCO

Maurizio Blondet 6 Ottobre 2021

Lo speciale di questo numero, ‘Sostenibilità insostenibile’, smaschererà la truffa della transizione ecologica e dell’ecologismo di Greta e soci.

Articoli di Massimo Fini, Federico Palmaroli ‘Osho’, Eduardo Zarelli, Maurizio Martucci, Renzo Giorgetti, Cristiano Puglisi, Daniele Dell’Orco, Emanuele Merlino e tanti tanti altri.

Nell’attesa potrai leggere qui l’editoriale.


O Gualtieri o Michetti povera Roma, cinque anni di saccheggio assicurato, l'assalto alla diligenza è assicurato

Roma, Buzzi ‘saluta’ Raggi su Facebook. La sindaca uscente: “Sono già tornati”


f.caruana@agenziadire.com
L'imprenditore condannato nel processo 'Mondo di mezzo' punge la sindaca che ha chiuso quarta alle Comunali. E lei replica

ROMA – Un breve video su Facebook fa scoppiare la polemica tra Virginia Raggi e Salvatore Buzzi. L’imprenditore, condannato per associazione a delinquere a dodici anni e dieci mesi nel processo ‘Mondo di mezzo’, in cui in Cassazione è però caduta l’aggravante mafiosa, ha postato sul proprio profilo un video con le immagini montate al contrario dell’arrivo al Campidoglio nel 2016 dell’ormai ex sindaca. Sulle note di ‘Ciao’ di Lucio Dalla, si vede Raggi che, per effetto del montaggio, si toglie la fascia tricolore anziché indossarla. Un modo, insomma, per ‘pungere’ l’esponente del Movimento 5 Stelle, finita quarta alle elezioni comunali che si sono appena tenute a Roma.

LA RISPOSTA DI RAGGI

Il video ‘ironico’ non è certo piaciuto a Raggi, che lo ha rilanciato sul proprio profilo Facebook, con una breve ma eloquente didascalia: “Sono già tornati”. La sindaca uscente in campagna elettorale ha spesso parlato di un sistema di potere criminale che la sua amministrazione aveva allontanato da Roma. Dopo la caduta dell’aggravante mafiosa, Buzzi aveva annunciato azioni legali contro Raggi.


BUZZI E I PANINI CON I NOMI DEI CRIMINALI

Buzzi negli ultimi giorni è tornato agli onori delle cronache per la decisione di aprire una panineria a Tor Vergata in cui gli hamburger hanno i nomi di criminali, reali o di fantasia: da Gomorra a Suburra, fino a Romanzo Criminale. L’ex capo della cooperativa 29 giugno, personaggio di spicco dell’inchiesta ‘Mafia capitale‘ insieme a Massimo Carminati, ha già scontato parte della pena e adesso è in attesa del ricalcolo complessivo.

Monti e Draghi, lo stregone maledetto, entrambi sono i rappresentanti di banche d'affari statunitensi, scopo di far disinvestire sul mattone gli italiani e indirizzarli agli investimenti in titoli finanziari in modo che così possono papparsi i loro risparmi. La patrimoniale sulla casa già esiste e da 51 miliardi di euro ogni anno al fisco

Catasto, ecco il modo per vedere a che gioco gioca il governo


9 ottobre 2021

Che cosa farà il governo davvero sulla riforma del catasto? L’intervento di Corrado Sforza Fogliani, presidente del centro studi di Confedilizia

Patrimoniale sì o patrimoniale no? Questo pare essere il problema oggi all’ordine del giorno. Il Governo dice naturalmente che non la metterà, e ha ragione: c’è già infatti, non occorre metterla, se del caso si tenta solo di aumentarla.

Il gettito dei tributi gravanti sul comparto immobiliare ascende oggi a 51 miliardi di euro l’anno. Una somma che si è raddoppiata di punto in bianco e al cui aumento ha dato un colpo importante (mortale per molte imprese) il Governo Monti, 10 anni fa.

I 51 miliardi sono così divisi: 9 di tributi reddituali (Irpef, addizionale regionale Irpef, addizionale comunale Irpef, Ires, cedolare secca); 22 di tributi patrimoniali (Imu); 9 di tributi indiretti sui trasferimenti (Iva, imposta di registro, imposta di bollo, imposte ipotecarie e catastali, imposta sulle successioni e donazioni); 1 di tributi indiretti sulle locazioni (imposta di registro, imposta di bollo); 10 di altri tributi (Tari, tributo provinciale per l’ambiente, contributi ai Consorzi di bonifica).

Come detto, un colpo decisivo a questa patrimoniale l’ha data Monti, e fra Draghi e Monti c’è solo, di differente, il cognome. Entrambi sono stati i rappresentanti di banche d’affari statunitensi, il cui unico scopo è sempre stato (ed è tutt’ora) quello di diminuire il “vizio” italiano di investire nel mattone (così, hanno trasformato la casa da aspirazione, tipica nostra, in incubo) e quello di costringere i risparmiatori del nostro Paese ad investire nei titoli finanziari. Il risultato è stato in gran parte ottenuto, le proporzioni tra i due investimenti sono state praticamente invertite, ma banche d’affari e istituti finanziari e monetari newyorchesi (considerati erroneamente terzi, ma invece partecipati – e diretti – dalle banche d’affari), non ne hanno ancora a sufficienza e – con l’appoggio dei giornaloni, sempre per la stessa ragione e sempre dagli stessi motivi condizionati – anche ora che Draghi ha fatto il suo compitino (come lo aveva fatto Monti) hanno sempre nel mirino l’Italia e gli italiani.

Il gioco è, anch’esso, ben conosciuto e già ripetutamente propalato: scovare gli immobili “nascosti”, procedere ad un “corretto classamento”, scoprire i terreni edificabili (ma chi mai edifica, oggi?) risultanti al Catasto agricoli. Tutte storie che fanno solo sorridere, i competenti.

Se questi fossero i veri motivi della sceneggiata catastale in corso di questi tempi, ci sono molteplici strumenti nella nostra legislazione già ben presenti, per rivedere il classamento così come i quadri di classificazione e così via.

Quanto poi ai terreni edificabili (per i quali si paga un’Imu straordinaria, perfino se sono teoricamente edificabili solo ad iniziativa pubblica) i Comuni sono pieni di proprietari di fondi rustici in fila a chiedere, senza essere accontentati, di eliminare “l’edificabilità” dei loro terreni. La propaganda governativa è talmente distante dal vero (altro che l’ottocentesca distinzione, e divisione, Stato/Paese…) che fa perfino compassione!

Come per i valori catastali. Già, un Catasto patrimoniale è in sé, a fini tributari, senza senso e di per sé, sempre surrettiziamente espropriativo (nei Paesi civili, come la Germania, se il Fisco colpisce un bene oltre il reddito che esso produce – l’inizio dell’esproprio – la cosa è di per sé considerata una iniquità e una illegittimità). Erano patrimoniali, infatti, i catasti preunitari. Con lo Stato unitario, la classe politica liberale introdusse un Catasto reddituale (e in quello rustico, più annualmente si produceva, più si guadagnava e meno si pagava, perché voleva dire che si erano messi a coltivazione terreni già incolti). Questa era onestà e cura di perseguire i progressi e il bene della comunità. Oggi, pur di far cassa, siamo tornati indietro di quasi 200 anni: Draghi conferma e potenzia il sistema patrimoniale, dicendo comunque – bontà sua – che i nuovi estimi partiranno solo fra 5 anni. Certo, prima di allora il nuovo Catasto non sarà pronto…

È la prova stessa che il Catasto che si prepara, più per i nostri figli che per noi, è un Catasto che aumenterà le imposte. Se no, parliamoci chiaro, perché dovrebbero rifarlo? E perché patrimoniale? Perché se fosse reddituale, oltre che giusto sarebbe anche tale da non comportare l’assunzione clientelare – come certo si farà – di nuovi dipendenti dell’Agenzia delle entrate (perché è essa paradossalmente, che eliminerà le iniquità …) per fare il nuovo Catasto. Infatti, basterebbe che i proprietari di immobili fossero tenuti a dichiarare il loro reddito – come era nello storico periodo liberale –, sotto comminatoria di sanzioni penali. Il valore di un bene, invero, è sempre opinabile (come invece non è il reddito incassato) e si può quindi farlo stabilire, alla bella e meglio, da un algoritmo, magari anche non rendendo nota (come si prevederà di fare) la formula di questo strumento risalente alla Bagdad dal 500 d.C. … Ma tant’è, questo dell’algoritmo è diventato un mantra dal quale il Fisco non vuole demordere. Per la ragione detta.

C’è però una carta vincente (contro la nuova patrimoniale aggiuntiva che si vuole varare), che i tassatori infatti non accetteranno mai. Se davvero – come sostengono i giornaloni – l’attuale valore catastale è di gran lunga inferiore al valore di mercato, il Fisco ha un modo semplicissimo per dimostrare di aver ragione: si impegni ad acquistare gli immobili al valore che sarà stabilito nel nuovo Catasto! Non lo farà mai.

Stagflazione 33 - sempre in ritardo, siamo già in staflazione

Il mondo rischia la stagflazione, l'allarme del Financial Times

L'economia e i mercati rischiano dopo il Covid il ripetersi delle condizioni seguite alla seconda guerra mondiale e alla guerra dello Yom Kippur

aggiornato alle 14:47 08 ottobre 2021

© COUNTRYLONDON, UNITED KINGDOM
- Financial Times

AGI - I mercati mondiali nelle ultime settimane non nascondono una certa agitazione, spaventati dal rischio di stagflazione, ossia da una fase economica in cui le pressioni inflazionistiche rimangono alte ma la crescita ristagna.

Il timore degli operatori è che le spinte inflattive possano, da una parte, spingere le banche centrali verso una normalizzazione della politica monetaria e, dall'altra, avere un impatto negativo sulla crescita, producendo appunto il fenomeno della stagflazione.

Ci troveremmo così di fronte, rileva il Financial Times, ad una situazione che riflette quella che si registrò all'indomani della seconda guerra mondiale: quel che è certo è che i banchieri centrali devono ora camminare su una corda tesa e tenere d'occhio contemporaneamente i dati economici, i rapporti qualitativi sulle catene di approvvigionamento e i sondaggi sulle aspettative di inflazione.

"Le circostanze storiche non si ripetono mai perfettamente e forniranno, nel migliore dei casi, una guida imperfetta al percorso dell'economia nei prossimi anni" scrive il Ft. Però sono valide nel fornire "un esempio" di quanto costerebbe un "passo falso".

Certo che poche prospettive sono peggiori per un'economia della stagflazione: questo perché i valori delle attività sono rapidamente erosi dall'inflazione, così come i rendimenti del capitale, ma, a differenza dell'inflazione che potrebbe accompagnare l'alta occupazione, l'impatto sul mercato del lavoro è negativo in quanto i salari scenderebbero.

"Fortunatamente è chiaro che l'economia globale non sta ancora sperimentando questo esito infelice" scrive il Financial Times: quello che preoccupa quindi è solo un orizzonte temporale nel lungo termine, in quanto le economie sono ora sostenute da una massiccia quantità di stimoli. Mentre l'inflazione è in rialzo con la riapertura delle economie, lo stesso vale per la crescita. Certo, è da aspettarsi una leggera decelerazione nel ritmo di espansione nel momento in cui le economie vanno normalizzandosi dopo la pandemia.

Tuttavia, gli investitori sono in allarme per la combinazione di interruzione della catena di approvvigionamento, alti prezzi del petrolio e carenze di manodopera. Le pressioni temporanee sui prezzi potrebbero essere incorporate in aspettative a più lungo termine e durare anche quando la spinta alla crescita dalla riapertura svanisce.

Per il momento, tutto quello che le banche centrali possono fare è essere attente ai rischi e continuare con i loro piani per allentare gradualmente i loro programmi di stimolo. Secondo il Ft, da parte loro i governi dovrebbero valutare ora le necessarie riforme sul lato dell'offerta per allentare i colli di bottiglia.
Gli anni '70 dello shock petrolifero

La stagflazione è comunemente associata agli anni '70, quando gli alti tassi di crescita del dopoguerra iniziarono a svanire e l'inflazione aumentò, in particolare dopo lo "shock petrolifero" seguito alla guerra dello Yom Kippur del 1973. Il mondo, tuttavia, è molto diverso oggi.

Cinquant'anni fa, il tipo di spirale salari-prezzi che fu portata avanti dai sindacati, cercando di tenere il passo con la corsa dei prezzi, "è improbabile che si ripeta". Anche i banchieri centrali sono meno tolleranti nei confronti dell'inflazione e hanno molto spazio per inasprire la politica monetaria, non solo aumentando i tassi di interesse ma anche ritirando il quantitative easing.

Secondo il Ft, "un inasprimento prematuro, tuttavia, potrebbe portare le banche centrali a provocare la stagnazione che temono: soffocare la crescita proprio mentre l'economia si sta riprendendo". Lo stesso Jerome Powell, presidente della Fed, la scorsa settimana ha osservato come le banche centrali stiano sottovalutando la necessità di continuare gli stimoli.

L'autorevole testata britannica fa quindi un confronto con il periodo dopo la seconda guerra mondiale, "un parallelo storico migliore degli anni '70". Inizialmente l'inflazione aumentò considerevolmente negli Stati Uniti e nel Regno Unito, ma poi scese rapidamente.

Come ha sottolineato la società di consulenza Capital Economics, all'epoca in Gran Bretagna la necessità di milioni di soldati congedati di trovare rapidamente nuovi posti di lavoro portò a carenze di manodopera in mezzo alla crescente disoccupazione. "La fine della pandemia ha prodotto una dinamica simile" segnala il Ft.
La tempesta perfetta

Di sicuro, se l'inflazione dovesse assumere un aspetto più strutturale, il rischio stagflazione si farà più concreto anche perché, come ha avvertito pochi giorni fa lo stesso Powell, non siamo tornati alla piena occupazione che sarebbe l'anello mancante per iniziare il tapering.

Ma il ritiro degli stimoli è ormai messo in calendario per fine 2021, e un rialzo dei tassi americani è previsto per la metà del prossimo anno.

Cosa succede in questa che gli analisti, interpellati da Reuters, definiscono la "tempesta perfetta?". Non si arresta la corsa del dollaro, che seppur indicatore di un'economia forte, rischia di danneggiare soprattutto gli esportatori americani.

La divisa americana si sta apprezzando in modo notevole, alimentata anche dall'aumento dei rendimenti dei Treasury Usa e dalle preoccupazioni sulla possibile battaglia per alzare il tetto del debito degli Stati Uniti. Il suo rally può avere implicazioni per l'economia americana, dal momento che rende i suoi prodotti meno competitivi all'estero e più costoso per le multinazionali riconvertire i loro fondi nella valuta nazionale.

A dare slancio al rally del dollaro sono anche i timori per il crollo di China Evergrande Group, così come i timori per l'aumento dell'inflazione e la crescita potenzialmente più lenta. Sono questi i fattori, secondo gli analisti, ad indicare un ambiente macro più stagflazionistico e a spingere gli investitori, soprattutto quelli più timorosi, a rifugiarsi nel dollaro. Altri investitori credono che la forza del biglietto verde non sia invece destinata a durare.

Come prevedibile 11 repubblicani hanno votato insieme ai democratici per alzare il livello di indebitamento smorzando la meteorite in arrivo. P.S. c'è da aver paura di questi cinici pusillanimi al governo

SPY FINANZA/ Debito Usa, una falsa emergenza che svela gli effetti del Qe perenne

Pubblicazione: 07.10.2021 - Mauro Bottarelli

Si torna a parlare dell’emergenza dovuta al necessario innalzamento del tetto del debito Usa. Una vicenda che rivela però risvolti piuttosto interessanti

Janet Yellen, segretaria Tesoro Usa (LaPresse)

Un meteorite sta colpire l’economia statunitense, Joe Biden. Gli Stati Uniti affronteranno una recessione, se il Congresso non innalzerà il tetto di debito entro due settimane, Janet Yellen. Signore e signori, il nuovo babao è servito: il debt ceiling. Ovvero, la necessità di alzare il livello massimo di indebitamento degli Stati Uniti, al fine di evitare il default. Chi mi segue sa che questa barzelletta si ripropone in questi termini tragicomici ogni quattro, cinque anni: solitamente, si arriva alla notte precedente all’armageddon e per magia le parti trovano un’intesa in nome del bene superiore della nazione. Nel frattempo, politica e mercato hanno solitamente beneficiato di almeno un mese e mezzo abbondante di titoli roboanti su giornali, siti e tv, lasciando che l’opinione pubblica fantastichi in negativo sulla prospettiva argentina che sta per toccare al loro grande Paese.

Ora, al netto della narrativa, questa volta c’è dell’altro. A partire da questo grafico, il quale mostra la correlazione fra il corso attuale dello Standard&Poor’s 500 e quello del 1987, l’anno del Black monday, quando il mercato crollò in un giorno del 20%. Era il 19 ottobre 1987, per l’esattezza.


Quest’anno, la data fatidica potrebbe essere anticipata di un giorno: il 18 ottobre, infatti, rappresenta la deadline imposta dal Tesoro Usa per innalzare il tetto di debito ed evitare il default. E il 18 ottobre cadrà di lunedì. Tutte coincidenze, ovviamente. Ma non basta. Perché la realtà sottostante alle fanfare mediatiche è ben più grave di quanto appaia. Ce lo mostra questo secondo grafico, il quale fissa plasticamente il momento: il GDPNOW, il tracciatore in tempo reale del Pil statunitense della Fed di Atlanta, ha appena aggiornato la sua previsione per il terzo trimestre, scendendo addirittura all’1,3% dal 2,3% solo del 1 ottobre. Di più, soltanto il 24 di agosto il medesimo proxy della crescita economica Usa segnava +6%.


Vi ricorda qualcosa? Rimanda qualche eco sinistro rispetto ai trionfalismi di casa nostra? Sarà per questo che, con rituale ciclicità, una farsa come il rischio di default degli Usa è tornata in auge, divenendo di colpo protagonista assoluta del palcoscenico? Temo di sì. Chiamatelo redde rationem, chiamatelo giorno del giudizio, chiamatelo banchetto di conseguenze come fece Louis Stevenson, ma la sostanza non cambia: dopo mesi e mesi, addirittura interi trimestri, in cui il Covid con le sue politiche emergenziali ha garantito un doping permanente dei proxies macro-economici, ora l’attesa per una nuova emergenza strutturale che garantisca altro Qe segna il passo. E viene riempita da una falsa emergenza sulla tenuta dei conti che nasconde però un quadro decisamente inquietante: al netto di migliaia e migliaia di miliardi spesi da Fed e Tesoro per mantenere ai massimi Wall Street e sul divano con assegno federale milioni di cittadini, ecco che l’economia Usa mostra la sua vera faccia. E questi due grafici finali paiono intenti a piantare il proverbiale chiodo nella bara delle fandonie espansive e neo-keynesiane che la stampa vi ha rifilato senza vergogna fino all’estate: non solo il tasso di inflazione statunitense, escludendo gli effetti di base e su arco temporale di 24 mesi, oggi è al massimo addirittura dal 1994 (anno di stretta sui tassi da parte della Fed e di conseguente tantrum sui rendimenti obbligazionari), ma la prospettiva di stagflazione, ovvero il diabolico combinato di crescita bassa o assente con dinamica dei prezzi in ebollizione, è ormai divenuta mainstream, stando almeno al picco di ricerche sui motori on-line seguito all’impennata dei prezzi energetici.



Ora, al netto di tutto questo, al netto di numeri e percentuali, dati e previsioni ufficiali, non vi pare che più di qualcuno dovrebbe darvi conto delle fandonie che ha spacciato finora? E non parlo solo delle magnifiche sorti e progressive vendute come sostenibili, quanto del magnificare il processo sistemico di politiche espansive e auspicarne la normalizzazione come risposta a ogni crisi futura. Non pensate che il partito trasversale del debito che non esiste o è comunque buono, perché creato dalla stessa Banca centrale che può cancellarlo con un tasto, debba quantomeno un mea culpa alla collettività? Non pensate sia giunto il momento di dare vita a una bella lavagna simbolica dei buoni e dei cattivi, a un name and shame di quei soloni dell’economia che hanno contrabbandato mistificazioni fino all’altro giorno?

Andate e prendere una pagina a caso di qualsiasi sito Internet di informazione, persino questo, risalente alla scorsa tarda primavera o inizio estate. E non serve andare tanto indietro, ovvero a quando la macchina dell’helicopter money era a forza quattro in tutto il mondo a causa della pandemia al suo acme, bastano poche settimane. Com’è stato possibile passare da uno scenario globale di crescita cinese a questo sprofondo in un arco temporale così limitato? Solo colpa della variante Delta? Non scherziamo. Forse è colpa del combinato di inflazione e supply chain in ginocchio, lo stesso che veniva derubricato a profilo di mero allarmismo, visto che avrebbe dovuto rispondere a una logica transitoria. Se ben ricordate, qualcuno vi disse da subito che non era così. E che occorreva stare molto, molto attenti con certi ottimismi interessati.

Signore e signori, benvenuti alla prova del nove. Magra consolazione, certo. Ma di questi tempi, chi si accontenta, gode. In attesa che le code avvelenate di certe follie monetarie spacciate per salvezza del mondo inferiscano il colpo finale.

P.S. Un ritorno della pandemia metterebbe a rischio i conti, ha dichiarato ieri il ministro dell’Economia nel corso dell’audizione parlamentare sulla nota di aggiornamento del Def. Lockdown in vista per salvare la faccia ed evitare la Troika?

E' nostra responsabilità di italiani che abbiamo mandato in Parlamento uomini che si sono venduti l'anima ad Euroimbecilandia e difendono gli interessi di questi contro quelli di noi popolo italiano. Il credito d'imposta è MONETA PARALLELA e per questo il governo degli euroimbecilli non lo vuole boicottandolo

Che cosa c’è (e non c’è) nelle risoluzioni parlamentari sulla Nadef


7 ottobre 2021

L’approfondimento di Giuseppe Liturri

Ieri pomeriggio le Camere hanno votato, con ampia maggioranza, le rispettive risoluzioni relative all’esame della Nadef approvata dal governo qualche giorno fa.

I parlamentari hanno articolato in un elenco di dieci punti gli impegni da porre a carico del governo e – trascurando i passaggi in cui c’è la scolastica trascrizione dei soliti mantra calati da Bruxelles, come “l’aumento delle entrate fiscali attraverso il contrasto all’evasione”, l’attuazione del Green New Deal e della transizione ecologica e l’abito buono per tutte le stagioni degli “interventi a finalizzati a invertire il trend demografico e sostenere il Mezzogiorno e le aree svantaggiate del Paese” – sono degni di nota:
  1. “La proroga dei vari bonus edilizi e, segnatamente, della misura del superbonus del 110%, ivi incluso il rinnovo del cosiddetto “sconto in fattura” e “cedibilità del credito”, valutando di includere altre tipologie di edifici”;
  2. L’azione di contrasto al “caro energia”, con l’adozione di “politiche pubbliche che tutelino e mettano al riparo da oscillazioni eccessive del prezzo dell’energia elettrica, microimprese e clienti finali”, sempre “rispetto degli obiettivi di finanza pubblica della Nadef 2021”. Inoltre si valuta la promozione di “interventi a livello europeo per contenere gli effetti del rincaro dei prezzi delle materie prime, scongiurando il pericolo che detto rincaro possa pregiudicare il conseguimento degli obiettivi stabiliti con il PNRR e le relative funzionalità anticicliche”;
  3. Interventi di “potenziamento del sistema sanitario nazionale” sempre “compatibilmente con gli obiettivi di finanza pubblica della Nadef 2021”.
Sul primo punto è intervenuto subito a raffreddare gli entusiasmi il ministro dell’Economia, Daniele Franco, sottolineando i pericoli per l’equilibrio del bilancio pubblico. Ma dietro questo paravento si nasconde l’atavica contrarietà di Bankitalia (da cui Franco proviene) per strumenti come la cessione del credito che sono di fatto una moneta parallela, in grado di fungere da mezzo di pagamento con effetto liberatorio riconosciuto dalle parti. Gli ultimi due punti si commentano da sé, perché dominati dalla premessa del “rispetto degli obiettivi di finanza pubblica della Nadef” che, tradotto, significa che non c’è un euro.

Hanno invece accuratamente sorvolato sull’”elefante nella stanza” che troneggia al centro della Nadef: il deficit/Pil tendenziale per il 2021 che – grazie al numeratore, sceso per le maggiori entrate e le minori spese rispetto alla previsione di aprile e al denominatore, salito per la crescita del PIL più sostenuta – è sceso dal 11,8% al 9,4%. 2,4% del PIL (circa 40 miliardi) che avrebbe potuto essere usato in questo ultimo scorcio del 2021 per abbassare la pressione fiscale, viene offerto in omaggio alla disciplina di bilancio senza che i parlamentari abbiano battuto un solo colpo. Silenzio assoluto.

Le stesse perplessità sorgono per il 2022: il deficit/PIL tendenziale (cioè a legislazione vigente) ad aprile era pari al 5,9% ma le nuove previsioni lo portano al 4,4% e il governo compie il “titanico” sforzo di portarlo al 5,6% programmatico. Un 1,2% in più, ma sempre meno del 5,9% pianificato ad aprile, i famosi 20-22 miliardi su cui da qualche giorno è scattato l’assalto alla diligenza. Da considerare che il 2022 sarà l’ultimo anno che beneficerà della clausola di salvaguardia che disattiva il Patto di Stabilità. Allora perché non approfittarne per abbassare la pressione fiscale in modo significativo, sia pure con misure di stimolo una tantum? Nella risoluzione regna il silenzio.

Stesso percorso nel 2023 e 2024, quando il deficit/PIL programmatico è previsto al 3,3%, vicino al 3,4% fissato ad aprile. Il rispetto dei desiderata di Bruxelles emerge chiaramente per stessa ammissione dei parlamentari secondo i quali questi nuovi saldi “lasciano inalterato il percorso di avvicinamento del saldo strutturale all’obiettivo di medio termine” (quello caro alla Commissione che, per la cronaca, è pari a un avanzo del 0,5% del PIL, roba da mettere in ginocchio il Paese) e, “ a partire dal 2024, includerà interventi mirati a ridurre il deficit strutturale e ricondurre il debito/PIL intorno al livello precrisi entro il 2030”.

Sembra scritto a Bruxelles, invece è un testo firmato dai nostri parlamentari. Ai quali deve essere sembrato troppo azzardato chiedere un sollievo fiscale di 30/40 miliardi e portare il deficit/Pil del 2021 al 11,8% – già promesso da Draghi ad aprile per il 2021 – a favore di un Paese il cui PIL è ancora al di sotto di quello del 2007 e che ha visto dal 2011 la pressione fiscale aumentare senza sosta e gli investimenti pubblici ridotti al lumicino.

Primo non è responsabile Putin se gli euroimbecilli prima hanno costruito il Nord Stream 2 e poi non lo fanno funzionare. Secondo non è responsabile Putin se gli euroimbecilli hanno voluto i contratti Spot e non quelli a lunga scadenza, preferiti per altro dai russi, e che oggi hanno centuplicato i prezzi. Terzo non è responsabile Putin se gli euroimbecilli hanno voluto tassare le aziende che usano l'elettricità data dal carbone, petrolio, gas in maniera sconsiderata ed azzardata

Perché Putin sfotticchia l’Ue sui prezzi del gas


7 ottobre 202

Le associazioni industriali temono che il forte aumento dei prezzi del gas possa compromettere la produzione e la ripresa economica. Intanto, Putin spinge l’Europa ad approvare in fretta il Nord Stream 2

“È uno choc terribile sui prezzi, l’impatto sui costi di tutte le aziende è davvero estremo. Rispetto all’anno scorso, stiamo quintuplicando. Se prosegue, è un rischio per la ripresa”. Lo ha detto al Corriere della Sera Emma Marcegaglia, già presidente di Confindustria e di Eni e oggi del B20, il vertice delle associazioni industriali delle prime venti economie del mondo.

LA SITUAZIONE IN EUROPA

Marcegaglia si riferiva all’aumento dei prezzi dell’energia nel mondo, e in particolare di quelli del gas naturale in Europa. Ieri i contratti europei del gas con consegna a novembre sono cresciuti del 25 per cento, arrivando a 155 euro al megawattora, contro gli appena 18 di sei mesi fa.

Nel Vecchio continente (Regno Unito incluso), i livelli delle scorte sono mediamente al 76 per cento, quando la media decennale è del 90 per cento circa. Considerati i consumi energetici nella stagione invernale, quando la domanda aumenta per il riscaldamento, in primavera i siti di stoccaggio potrebbero ritrovarsi pieni al 19 per cento, un valore molto basso e preoccupante.

L’IMPATTO SULL’INDUSTRIA CHIMICA

L’impennata dei prezzi del gas naturale, come riconosciuto anche dalla Commissione europea, minaccia di compromettere l’attività industriale e la ripresa economica.

Repubblica riporta oggi il caso dello stabilimento di Yara – azienda chimica norvegese che produce fertilizzanti e composti a base di azoto – a Ferrara, che sospenderà la produzione per 6-8 settimane a causa proprio degli alti costi della materia prima. L’industria chimica è “energivora”, cioè consuma grandi quantità di energia con cui alimentare i suoi processi; quella italiana è la terza più grande in Europa per produzione (51 miliardi di euro nel 2020) e la decima a livello globale.

LE PAROLE DI FEDERACCIAI E FERALPI

Alessandro Banzato, presidente di Federacciai, la federazione delle imprese siderurgiche italiane, ha detto che “se la crescita delle quotazioni [del gas, ndr] continuerà come in questo ultimo periodo, è una questione di giorni valutare se e come fermare gli impianti per il livello eccessivo dei costi di produzione”. Ha poi invitato a prestare attenzione, “perché le recenti impennate dei costi del gas e dell’energia elettrica potrebbero frenare, se non compromettere, il trend positivo dell’economia italiana, così come quella europea”.

Secondo Giovanni Pasini, amministratore delegato di Feralpi, azienda lombarda specializzata nell’acciaio per l’edilizia, “siamo arrivati al punto in cui non sono da escludere blocchi della produzione nelle fasce orarie della giornata in cui i prezzi dell’energia sono più alti”.

L’APPELLO DI CONFINDUSTRIA CERAMICA

Giovanni Savorani, presidente di Confindustria Ceramica, ha rivolto un appello al governo di Mario Draghi: “Così come ci sono stati interventi sulle bollette dei cittadini per congelare una parte degli aumenti di luce e gas”, ha detto, “allo stesso modo bisognerebbe intervenire in favore delle imprese, almeno fino a quando i prezzi non scenderanno. Altrimenti fermarsi sarà inevitabile, basti pensare che molte delle nostre imprese sottoscrivono contratti annuali per la fornitura di gas e ora dovrebbero andare a ricontrattarlo mentre le quotazioni sono ai massimi”.

Savorani propone “un intervento per sterilizzare una parte dell’Iva o i costi dei permessi a inquinare”, ovvero le quote di emissione di CO2 scambiate nel mercato europeo ETS, anch’esse cresciute di prezzo: lo scorso agosto è arrivato a 60 euro per tonnellata di CO2; a settembre del 2020 era di circa 28 euro. Il rincaro pesa ovviamente di più sui settori energivori, che consumano grandi quantità di combustibili fossili.

LO SCAMBIO DI ACCUSE EUROPA-RUSSIA SUL GAS

L’Europa dipende pesantemente dalle importazioni di gas naturale per soddisfare il suo fabbisogno energetico, e si rifornisce principalmente dalla Russia. La commissaria europea all’Energia, Kadri Simson, ha recentemente ricordato che Mosca sta sì rispettando i contratti di fornitura a lungo termine, ma non ha prenotato nuova capacità di esportazione nonostante l’aumento dei prezzi (dal quale potrebbe trarne un vantaggio economico).

“Siamo molto grati che la Norvegia stia aumentando la sua produzione [di gas, ndr], ma non sembra essere questo il caso della Russia”, ha aggiunto la presidente della Commissione, Ursula von der Leyen.

In risposta, il presidente russo Vladimir Putin ha dato la colpa della situazione alla transizione energetica dalle fonti fossili a quelle rinnovabili, alle “decisioni sbilanciate” delle autorità europee e all'”isteria” dei mercati del continente. Ieri ha detto che la Russia potrebbe potenzialmente esportare volumi record di gas naturale verso l’Europa.

Le sue dichiarazioni, però, per poter essere comprese, vanno giudicate nella loro interezza e contestualizzate.

COSA HANNO DETTO PUTIN E NOVAK SUL NORD STREAM 2

Il vice-primo ministro russo Alexander Novak, già ministro dell’Energia dal 2012 al 2020, ha detto che un’approvazione rapida del gasdotto Nord Stream 2 tra Russia e Germania permetterebbe di far abbassare i prezzi del combustibile. Si tratta però di una condotta molto controversa, perché consegnerebbe a Mosca maggiore potere sull’Europa e le permetterebbe di isolare l’Ucraina, fino ad oggi importante territorio di transito del gas russo.

Molti analisti – e le parole di Novak sembrano confermarlo – pensano che la Russia stia volontariamente riducendo le forniture di gas all’Europa per “spingere” il Nord Stream 2, presentandolo come un’infrastruttura necessaria alla sicurezza energetica del Vecchio continente. A differenza di Novak, Putin non ha fatto collegamenti espliciti tra l’aumento delle forniture e il Nord Stream 2, ma ha detto che le rotte passanti per l’Ucraina sono più costose e più inquinanti (Bruxelles è attenta a entrambe le cose).

I CONTRATTI DEL GAS

Putin pensa che l’Europa abbia sbagliato a distaccarsi dagli accordi di fornitura di gas a lungo termine, optando piuttosto per il mercato spot (dove la compravendita è immediata): un “errore”, secondo il presidente russo.

Alla società energetica statale del gas Gazprom non piace il mercato spot, preferendo i contratti a lungo termine, che possono durare anche venticinque anni.

Come riconosciuto anche dalla Commissione europea, Gazprom sta rispettando i contratti a lungo termine, ma non ha prenotato nuova capacità di esportazione. Di recente, ad esempio, ha prenotato solo un terzo della capacità di transito messa a disposizione per ottobre dal gasdotto Yamal-Europe (31,4 milioni di metri cubi su 89) e nessuna capacità di transito extra tramite l’Ucraina (non è la prima volta).

Putin ha detto che, per la società, sia economicamente svantaggioso trasportare gas naturale per le condotte vecchie, come quelle sul territorio ucraino; le nuove tubature, sostiene, permettono inoltre di ridurre le emissioni di CO2 nell’atmosfera di 5,6 volte.

Io che fino a ieri potevo accedere ad un’infinità di luoghi, spazi e e situazioni liberamente, senza identificarmi, senza limiti, quando era il caso pagando un biglietto, oggi posso esserne precluso. Oggi è il Passaporto dei vaccini sperimentali e domani vattelappesca

Col sistema green pass il potere ci spegnerà con un clic
 



Quando ci accorgeremo di cosa è il green pass sarà troppo tardi, lo strumento va molto oltre al discorso sul vaccino, di fatto si è dotati gli italiani di un codice con il quale perdono di colpo la qualità di cittadini che fino ad ora coincideva abbastanza con quella di esseri umani.

Parliamo di una condizione a prescindere, parliamo di quella condizione frutto di una concezione per la quale la nuda persona era sempre e comunque titolare di diritti, quella concezione muore con il green pass.

Non sono più un cittadino, la mia cittadinanza è subordinata alla mia adesione a questo o a quel trattamento sanitario e poi chissà a che cosa. Se domani fossi ritenuto un evasore, una persona dalla condotta sessuale, religiosa o politica non conforme, un soggetto antisociale, se semplicemente fossi un contestatore dell’ordine costituito cosa accadrebbe?

Semplicemente con il green pass un governo potrebbe con un clic spegnere la mia vita sociale, la mia vita lavorativa anche la mia possibilità di accedere al sistema sanitario.

Io che fino a ieri potevo accedere ad un’infinità di luoghi, spazi e e situazioni liberamente, senza identificarmi, senza limiti, quando era il caso pagando un biglietto, oggi posso esserne precluso. Domani avremo il green pass verde per quelli davvero buoni, quello giallo per quelli un po’ meno buoni e quello rosso per i cattivi, poi ci saranno quelli senza, i nuovi paria.

Una società di caste nella quale il discrimine è l’obbedienza. Per alcuni questa è un’utopia lo sappiamo, nessun complotto, perché utopia può essere l’assenza di malattia, l’assenza di conflitto, l’assenza di disabili praticata con l’eugenetica, la possibilità di stabilire la propria morte, il controllo sociale più estremo attraverso il quale si permetterà di azzerare tutti quei fastidiosi inconvenienti, quegli errori di sistema chiamati anche vita umana, potremmo superare tutti questi fastidi attraverso la nostra compenetrazione con le macchine che ci perfezionerà.

Il green pass è il primo tassello di questo mondo nuovo. Proviamo a pensare a quali implicazioni potrebbe avere questo strumento abbinato alla scomparsa del contante. Con green pass e con il denaro interamente in mano alle banche verrà a mancare anche quel piccolo margine di possibilità di autonomia e resistenza di fronte al potere che potrà facilmente spegnerci, comminare la morte sociale.

Ai beoti che rispondono: ma che problema c’è, se non hai niente da temere perché ti poni questi problemi? Se hai in programma di essere sempre e comunque allineato, pienamente identificato e naturalmente supino di fronte ai comandamenti del potere, giustamente non avrai niente da temere. Se non hai pensiero critico, autonomia, personalità, volontà, spirito proprio allora hai scelto la schiavitù volontaria permanente, è una condizione di estrema comodità, è innegabile e non ti devi preoccupare di niente.

Potresti vivere a tuo agio in Cina, negli Emirati, in Corea del Nord, in Egitto, avresti potuto vivere a tuo agio in qualsiasi regime totalitario del secolo scorso.

Chi come me ha vissuto per gli ultimi vent’anni post 11 settembre additato come potenziale minaccia sociale dal racconto della macchina propagandistica del potere, chi come me ha visto come un intero sistema economico, politico, mediatico, repressivo e giudiziario si è allineato su parole d’ordine false per combattere guerre umanitarie e indicare al mondo un nuovo nemico, ha dovuto per forza informarsi, scoprire i meccanismi che stanno dietro al potere non può permettersi, come cantò De Andrè: di diventare così coglioni da non riuscire più a capire che non ci sono poteri buoni.

Le piccole realtà contro Google uno dei rappresentanti della tecnologia informatica del CAPITALISMO GLOBALE TOTALIZZANTE

DuckDuckGo, Ecosia, Qwant, Lilo: tutti contro Google


DuckDuckGo, Ecosia, Lilo e Qwant sono i quattro piccoli motori di ricerca che hanno scritto al Parlamento Europeo per chiedere maggiori limiti per Google.

Giacomo Dotta
7 ottobre 2021

Quattro piccoli motori di ricerca si scagliano contro Google chiedendo alla Commissione Europea di agire per limitarne la sfera d'azione. Non bisogna sottovalutare questo intervento sulla base delle dimensioni di queste piccole realtà, perché al cospetto delle istituzioni possono essere proprio le recriminazioni degli esclusi a poter fare la voce grossa contro il “big tech” degli Stati Uniti.

Tutti contro Google

I motori a firmare questa richiesta sono DuckDuckGo (statunitense), Ecosia (tedesco) e Qwant e Lilo (francesi). Nella missiva, indirizzata al Parlamento Europeo, i quattro motori chiedono al legislatore di incidere maggiormente su un mercato che ad oggi non ha avuto ancora alcuno scossone nonostante i precedenti interventi di facciata che avrebbero dovuto aprire la libertà di scelta in relazione alle ricerche online. Google ha già anticipatamente risposto in modo indiretto a queste accuse facendo notare come l'utenza vada su Bing per cercare Google, argomentazione con cui si vorrebbe sottolineare come di fronte ad una libera scelta il mercato ha già orientato le proprie preferenze in modo naturale.

L'obiettivo dei firmatari è riuscire a portare all'interno del Digital Market Act (DMA) specifiche prescrizioni utili a forzare ulteriormente la mano nei confronti di Google, evitando che la posizione assunta sul mercato (sia quello dei motori che quello dei browser con il dominio di Chrome) possa bloccarne le dinamiche e creare insormontabili barriere all'ingresso. Secondo i quattro piccoli motori, insomma, ad oggi non c'è modo di sfidare Google poiché il confronto non è esclusivamente sul piano qualitativo, ma in un contesto senza margini di disequilibrio. Una partita persa, insomma, che solo la Commissione Europea potrebbe avere la possibilità di scardinare se supportata dal necessario indirizzo parlamentare.

Fonte: Reuters

Il servizio meteorologico ci avvisa che sta piovendo quando ci siamo già bagnati e usciti di casa con gli infradito. La fiducia è un valore serio e duraturo

SPY FINANZA/ Le verità scomode (per Usa e Ue) sul caso Evergrande

Pubblicazione: 08.10.2021 - Mauro Bottarelli

Si continua a parlare del caso Evergrande per via dei downgrade delle agenzie di rating, senza porsi una domanda cruciale per il destino di Usa e Ue

(LaPresse)

Tocca ritornare sul tema Evergrande. Perché è facile occuparsi di una materia, quando questa monopolizza le prime pagine dei giornali. Più difficile – e, a volte, scomodo – farlo quando invece i riflettori si abbassano e il sipario appare in fase calante. Non tanto perché scemi l’interesse della gente, quanto perché rischiano di emergere le verità nascoste. E, spesso, scomode. Il gigante cinese, di fatto, è stato messo in stato di relativa sicurezza: per quanto le agenzie di rating facciano a gara a operare downgrade tardivi e ormai inutili delle varie unità del conglomerato, declassando a strascico su tutto il comparto immobiliare in base alla logica del lanternino rispetto alle scadenze dei coupon, il mercato non si permetterà mai di aggredire Evergrande in stile Lehman, quando alle spalle c’è un’operazione di salvataggio di Stato sotto copertura.

La vendita di assets ad aziende a controllo governativo, di fatto, è un bailout mascherato: guarda caso, nessuno grida alla mano invisibile di Pechino che manipola il paradiso liberale. Va bene a tutti che Xi Jinping rompa gli indugi e mostri la luce verde a regolatori e Pboc. Già questo, dovrebbe far riflettere. Come d’altronde il fatto che proprio le agenzie di rating si siano svegliate solo ora, quando ormai i buoi non solo solo usciti dal recinto ma scorrazzano a livello globale come cinghiali per le vie di Roma.

Che Evergrande fosse sistematicamente esposta a leva, lo sapevano da sempre anche i sassi. Che prima o poi la festa dello shadow banking in Cina dovesse finire, pure. Certo, Xi Jinping ha sfoderato il machete quando tutti si attendevano un intervento chirurgico con il coltellino svizzero, ma quando la scorsa primavera è cominciata l’offensiva regolatoria contro Jack Ma e la sua spericolatezza finanziaria, le agenzie di rating – il cui unico compito al mondo è appunto valutare lo status creditizio delle aziende e degli Stati – avrebbero dovuto da subito attenzionare il più grande conglomerato economico-finanziario del Paese. Perché per quanto il mercato possa essere volatile, le scadenze sui coupon sono note all’atto stesso di emissione dell’obbligazione: tradotto, non ci voleva un genio per capire che la fine di settembre avrebbe potuto presentare sgradevoli sorprese.

Eppure, l’estate è passata serena. La Fed continuava ad annunciare il taper, calciando però il barattolo, la Bank of Japan addirittura parlava di aumento degli acquisti per contrastare la variante Delta che aveva imposto un nuovo lockdown post-olimpico al Paese, la stessa Bce si nascondeva dietro alla terza ondata per continuare a dilatare all’infinito il suo stato patrimoniale, ormai degno di un hedge fund. Perché preoccuparsi di Evergrande, quindi. Per una ragione semplice: io investitore voglio sapere in anticipo se e quando potenzialmente può arrivare la tempesta, perché poco mi interessa di ricevere la notizia quando ormai sono uscito di casa senza ombrello e con le infradito ai piedi. Ecco, i continui downgrade che gli organi di stampa riportano con grande clamore, equivalgono appunto all’avviso di pioggia quando ormai siete fradici. Perché nessuno si chiede come mai, per l’ennesima volta, le agenzie di rating abbiano suonato l’allarme a cose pressoché fatte, gridando al fuoco mentre ramazzavano la cenere? Delle due, l’una: o non sanno fare il loro lavoro oppure, in cuor loro, sapevano che Evergrande era soltanto l’ennesima distrazione di massa per il mercato e che Pechino non avrebbe mai lasciato fallire un gigante simile.

Ora, guardate questi due grafici: il primo ci mostra come il tanto vituperato indice tecnologico della Borsa di Hong Kong abbia appena conosciuto un rimbalzo. Notevole. Ennesimo gatto morto? Difficile escluderlo a priori, stante il mercato in cui ci muoviamo. Ma resta un fatto: se la Cina, come sottolinea da settimane George Soros, equivale alla criptonite per Superman, quando si parla di libero mercato, perché un tale afflusso di capitali in acquisto sui minimi? Tutto retail cinese? Difficile. Non fosse altro perché la Cina continentale è stata chiusa fino a ieri per la Golden Week. Se ho la certezza che quel mercato è in bolla, manipolato, basato su leva a debito non rimborsabile, a rischio di crollo in stile 2016 e, oltretutto, ho la certezza che la campagna di regolamentazione del Governo proseguirà in maniera sempre più stringente e repressiva, chi me lo fa fare di mettere del denaro – fosse anche solo 1 dollaro – su un’impresa che fin dal principio porta impressa la scritta epic fail? Forse perché non è così?



Il secondo grafico è ancora più interessante. Ci mostra come dei 107 miliardi di controvalore di debito legato a imprese di costruzioni cinesi e denominato in dollari, quello in mano agli investitori esteri, solo il 29% sia investment grade. In altre parole, il 71% di quella carta è junk. E non da oggi a causa di Evergrande e dei downgrade a catena, fin da principio. Da sempre. Ovvero, chi si è lanciato in quell’acquisto lo sapeva benissimo, conosceva i rischi. Non fosse altro, perché i rendimenti offerti – implicitamente – li confermavano. Quindi, cerchiamo di mettere la questione in prospettiva: al netto dell’atteggiamento a dir poco irresponsabile tenuto dalla Cina per un decennio abbondante di abuso di shadow banking e leva creditizia/finanziaria, davvero il cosiddetto libero mercato ora può mettere sul banco degli imputati Evergrande e le sue colleghe per quei mancati pagamenti di coupon? Davvero hanno un senso quei tardivi downgrade a livello di default selettivo, visto che parliamo per la stragrande maggioranza di aziende che emettevano ex ante debito senza investment grade e con alto profilo di rischio?

Ma, soprattutto, chiediamoci una cosa: l’intero castello di carta legato a Evergrande è emerso nella sua drammaticità mediatica (più che di mercato) semplicemente per la scelta politica di Xi Jinping di drammatizzare la sua campagna moralizzatrice e regolatrice. Insomma, un taper politico. Cosa accadrebbe al sicurissimo e liberale debito corporate Usa ed europeo, se davvero si arrivasse al punto di svolta della fine di un regime manipolatorio di Qe perenne come quello in cui viviamo, con differenti sfumature, dal 2011?

Rifletteteci, prima di dividere aprioristicamente il mondo in buoni e cattivi. E, soprattutto, prima di farvi irretire nel guardare il dito e non la Luna.

Stop perentorio alla concorrenza e all'abbondanza lo vuole il CAPITALISMO GLOBALE TOTALIZZANTE

Perché le carenze sono permanenti: le carenze di approvvigionamento globale hanno un fantastico senso finanziario

DI TYLER DURDEN
GIOVEDÌ 7 OTT 2021 - 15:55

L'era dell'abbondanza è stata solo un artefatto di breve durata della fase iniziale di spinta della globalizzazione e della finanziarizzazione.


Le corporazioni globali non hanno fatto tutto lo sforzo di stabilire quasi-monopoli e cartelli per nostra convenienza - lo hanno fatto per garantire profitti affidabili dal controllo e dalla scarsità. Non tutte le scarsità sono artificiali, cioè il risultato di cartelli che limitano l'offerta per mantenere alti i prezzi; molte scarsità sono reali e molte di queste scarsità possono essere ricondotte alla rimozione della ridondanza / più fornitori di elementi essenziali industriali per semplificare l'efficienza ed eliminare la concorrenza.

Ricordiamo che la concorrenza e l'abbondanza sono un anatema per i profitti. L'ampia concorrenza aperta e l'abbondanza strutturale sono l'ambiente meno favorevole per generare profitti ampi e affidabili, mentre i quasi-monopoli e i cartelli che controllano le scarse forniture sono le macchine ideali per generare profitti.

Gli incentivi per ampliare il numero di fornitori, cioè aumentare la concorrenza, sono di fatto pari a zero. Le società americane hanno speso 11 trilioni di dollari per riacquistare le proprie azioni negli ultimi dieci anni; che è uguale al PIL combinato di Giappone, Germania e Italia. Se l'aggiunta di nuovi fornitori alla catena di approvvigionamento globale fosse redditizia, alcuni di quegli 11 trilioni di dollari avrebbero sfruttato quei vasti profitti.

La realtà finanziaria sta tentando di competere con un cartello consolidato che ha catturato meccanismi normativi e politici è uno spreco avventato di capitale. Se accendere un nuovo fornitore di solventi essenziali, ecc. fosse così accattivante e redditizio, perché Google e Apple non dovrebbero prendere una fetta dei loro miliardi in contanti e andare a fare soldi facili?

Le barriere all'ingresso sono elevate e i mercati sono limitati. Un gran numero di lubrificanti speciali, solventi, leghe, fili, ecc. sono essenziali per la produzione di tutti i prodotti di consumo e industriali che provengono da tutto il mondo, ma i mercati sono ristretti: i produttori hanno bisogno di X quantità di un solvente speciale, non 10X.

Ai bei vecchi tempi prima che la globalizzazione e la finanziarizzazione conquistasse il mondo, le aziende mettevano in fila tre fornitori affidabili per ogni componente critico, poiché questa ridondanza alleviava le strozzature della catena di approvvigionamento. Ma per mantenere questi tre fornitori in attività, è necessario distribuire il libro degli ordini tra tutti e tre. Nessuno manterrà una struttura aperta se viene utilizzata solo occasionalmente quando il fornitore principale si imbatte in un punto di disturbo.

E così ora siamo tutti seduti al banchetto delle conseguenze derivanti dall'uscita dalla ridondanza e dalla concorrenza e dalla cessione del controllo delle catene di approvvigionamento a quasi monopoli e cartelli. Le scarsità sono la loro fonte di profitti, e poiché non ha alcun senso finanziario spendere una fortuna per costruire un impianto per produrre solventi, lubrificanti, leghe, ecc. in quantità limitate in mercati dominati da quasi-monopoli e cartelli, le carenze sono una caratteristica permanente dell'economia globale del 21 ° secolo.

L'era dell'abbondanza è stata solo un artefatto di breve durata della fase iniziale di spinta della globalizzazione e della finanziarizzazione; ora che il consolidamento è completo, le carenze hanno un fantastico senso finanziario.

Con tutti i mezzi ringrazia Corporate America per aver sperperato $ 11 trilioni per arricchire ulteriormente lo 0,1% superiore e gli addetti ai lavori. Ahimè, non c'era uso migliore per tutti quei trilioni che arricchire ulteriormente i già super-ricchi.

Impedire fin dalla nascita la formazione di qualsiasi tipo di opposizione, partendo semplicemente da idee e curiosità. Il potere costituito, sotto qualsiasi latitudine lavora metodicamente su questo fronte

"Keyword Warrants" - Feds ha segretamente ordinato a Google di identificare chiunque cerchi determinate informazioni

DI TYLER DURDEN
GIOVEDÌ 7 OTT 2021 - 05:24

Un documento giudiziario accidentalmente non ri-sigilato rivela che il governo federale ha segretamente ordinato a Google di fornire dati sulle persone che cercano parole o frasi di ricerca specifiche, altrimenti note come "mandati per parole chiave", secondo Forbes .

Secondo il rapporto, il Dipartimento di Giustizia ha inavvertitamente svelato i documenti a settembre (che sono stati prontamente ri-sigillati), che sono stati esaminati da Forbes. In diversi casi, gli investigatori delle forze dell'ordine hanno chiesto a Google di identificare chiunque cerca parole chiave specifiche..


Il primo caso è stato nel 2019, quando gli investigatori federali erano a caccia di uomini che credevano trafficassero sessualmente un minore. Secondo un mandato di perquisizione, il minore è scomparso ma è riapparso un anno dopo e ha affermato di essere stato rapito e aggredito sessualmente. Gli investigatori hanno chiesto a Google se qualcuno avesse cercato il nome del minore. Il gigante della tecnologia ha risposto e ha fornito agli agenti delle forze dell'ordine account Google e indirizzi IP di coloro che hanno effettuato le ricerche.

Ci sono stati altri rari esempi di cosiddetti mandati per parole chiave, come nel 2020 quando la polizia ha chiesto a Google se qualcuno avesse cercato l'indirizzo di una vittima di incendio doloso nel caso di racket del governo contro il cantante R Kelly. Poi, nel 2017, un giudice del Minnesota ha chiesto a Google di fornire informazioni su chiunque abbia cercato il nome di una vittima di frode.

Forbes ha anche aggiunto questo aggiornamento post-pubblicazione:

Dopo la pubblicazione, Jennifer Lynch, direttore del contenzioso di sorveglianza presso la Electronic Frontier Foundation (EFF), ha evidenziato altri tre mandati di parole chiave di Google che sono stati utilizzati nelle indagini sugli attentati seriali di Austin nel 2018, che hanno provocato la morte di due persone.

Non ampiamente discussi all'epoca, gli ordini appaiono ancora più ampi di quello sopra, chiedendo indirizzi IP e informazioni sull'account Google di individui che hanno cercato vari indirizzi e alcuni termini associati alla fabbricazione di bombe, come "esplosivi bassi" e "pipe bomb". Ordini simili sono stati serviti su Microsoft e Yahoo per i rispettivi motori di ricerca.

Per quanto riguarda i dati che le aziende tecnologiche hanno fornito agli investigatori, tali informazioni rimangono sotto sigillo.

Puoi leggere gli ordini su Google qui, qui e qui. Gli ordini Microsoft e Yahoo possono essere trovati qui e qui.

Ogni anno, Google risponde a migliaia di ordini di mandato, ma l'ultima parola chiave warrant è una strategia completamente nuova da parte degli investigatori governativi e sta diventando sempre più controversa.

"Sfogliare il database della cronologia delle ricerche di Google consente alla polizia di identificare le persone semplicemente in base a ciò a cui avrebbero potuto pensare, per qualsiasi motivo, ad un certo punto in passato", ha detto a Forbes Jennifer Granick, consulente per la sorveglianza e la sicurezza informatica presso l'American Civil Liberties Union. "Questa tecnica mai prima possibile minaccia gli interessi del Primo Emendamento e inevitabilmente spazzerà via persone innocenti, specialmente se i termini delle parole chiave non sono unici e il lasso di tempo non è preciso. A peggiorare le cose, la polizia sta attualmente facendo questo in segreto, il che isola la pratica dal dibattito pubblico e dalla regolamentazione ", ha aggiunto.

Google ha risposto alle notizie sui mandati segreti per parole chiave e ha difeso la sua decisione:

"Come per tutte le richieste delle forze dell'ordine, abbiamo un processo rigoroso progettato per proteggere la privacy dei nostri utenti supportando al contempo l'importante lavoro delle forze dell'ordine", ha detto un portavoce di Google.

I documenti giudiziari esaminati da Forbes mostrano che Google ha fornito dati su persone che hanno cercato parole chiave specifiche, il che è un'ulteriore prova che gli Stati Uniti si stanno trasformando in uno stato autoritario di monitoraggio e sorveglianza delle attività online proprio come quello cinese.

Le STANGATE sulla casa le chiamano riforme e se poi le posticipano al 2026 non cambia la sostanza. Gli italiani devono diventare poveri e senza casa lo vuole Euroimbecilandia

Riforma del catasto: ecco le città dove sarà più forte la stangata

8 Ottobre 2021, di Mariangela Tessa

La riforma del catasto, resta una delle priorità del governo Draghi. Una riforma fortemente richiesta dall’Europa già qualche anno fa e bloccata dall’allora Governo Renzi. Si tratta di una riforma i cui effetti i cui effetti non si vedranno prima del 2026 e che in questa prima fase si limiterà a fare solo una ricognizione dell’esistente, per fotografare lo stato del nostro sistema immobiliare.

Il valore di reddito potrebbe essere affiancato da quello medio di mercato, le molte categorie catastali potrebbero essere drasticamente semplificate, fino al punto di cancellare la separazione tra case popolari e di lusso con “immobili ordinari” e immobili speciali”.

E l’impatto non riguarderà solo le tasse che gravano sulla casa (IMU, Imposte ipocatastali, imposta di registro ecc.), ma anche sull’ISEE l’indicatore che consente di ottenere agevolazioni e sconti (dalle bollette alle rette per i servizi quali asili, mense, RSA ecc.), con la conseguenza di un aumento delle rette o di un’uscita dalla protezione sociale.

Riforma: dove si sentirà di più la stangata

La UIL Servizio Lavoro, Coesione e Territorio ha elaborato delle simulazioni prendendo in considerazione i valori OMI (Osservatorio Mercato Immobiliare) sulle compravendite degli immobili aggiornati al secondo semestre del 2020 di un appartamento ubicato in zona semi centrale, mettendo a raffronto tali dati con le rendite catastali medie attuali (A/2 e A/3), nelle Città capoluogo di Regione.

L’elaborazione ha poi riguardato gli effetti sull’IMU sulle seconde case e l’impatto sull’ISEE di una prima casa.

Dall’elaborazione emerge che a livello nazionale con i nuovi valori catastali mediamente le rendite aumenteranno del 128,3% con punte del 189% a Trento, 183% a Roma, 164% a Palermo, 155% a Venezia, 123% a Milano.

L’impatto dei nuovi valori sull’IMU sulle seconde case vede un aumento medio a livello nazionale di 1.150 euro passando dagli attuali 896 euro a 2.046 euro.

A Roma il rincaro dell’IMU sarà di 3.648 euro passando dagli attuali 1.992 euro a 5.640 euro; a Venezia l’aumento sarà di 2.341 euro; a Milano di 2.260 euro.

Mentre una prima casa ai fini del calcolo dell’ISEE aumenterà mediamente di 75 mila euro con punte di 213 mila euro a Roma, di 142 mila euro a Milano e Venezia, 99 ila euro a Trento, 76 mila euro a Palermo.


Per Ivana Veronese – Segretaria Confederale UIL

“la riforma sarebbe necessaria per riportare equità nella tassazione sul mattone. Una riforma attesa da più di 30 anni, dato che l’ultima revisione degli estimi catastali è datata 1989, partendo da una revisione dei valori catastali vecchi, iniqui e che non corrispondono al reale valore degli immobili, eliminando i paradossi attuali per cui case di pregio nei centri storici hanno rendite catastali basse, mentre immobili situati in periferia e costruiti più recentemente hanno rendite catastali alte. Prestando, però, molta attenzione perché questo processo di riforma non dovrà significare maggiori prelievi, ma una diversa e più equa ripartizione del prelievo fiscale sugli immobili.
Ovviamente, sempre accompagnando questi percorsi ad una lotta “senza se e senza ma” all’evasione fiscale sulla tassazione immobiliare che ogni anno produce un minor gettito pari ad oltre 1 miliardo di euro”.

Che cosa è la riforma sul catasto

Molti governi hanno da anni tentato invano di attuare la riforma del catasto per raggiungere maggiore equità fiscale in Italia.
L’ultimo tentativo risale al 1989, tra il 1996 e il 1997 le rendite catastali sono state alzate del 5%. A partire dal 2005, i Comuni possono chiedere all’Agenzia il “riclassamento” di singoli immobili o di intere aree.

Adesso rispunta, tra le righe, della Legge delega di riforma del sistema fiscale e oggi come allora le indicazioni sono che i vani catastali lasceranno lo spazio ai metri quadrati per avvicinarle ai valori di mercato.

Obiettivo dichiarato è far emergere gli immobili non dichiarati, attribuendo ad ogni immobile caratteristiche corrette, verificando dimensioni, posizione geografica, quotazioni di riferimento, titolari di diritti e quote. Le informazioni vanno usate, si legge sempre nel documento del Mef, “integrando le banche dati immobiliari con le informazioni desunte dalla dichiarazione dei redditi, anche nell’ottica di una più equa imposizione fiscale”.

Molto spesso accade che il valore di mercato di un immobile non coincide con quello catastale. Le rendite catastali difatti fotografano il mercato di fine anni ’80 e da allora ci sono città e quartieri in cui i prezzi sono cresciuti o diminuiti per questo si è resa necessaria una riforma.

Ma a Draghi, lo stregone maledetto, e al suo governo non gli ne frega niente di sviluppare il Meridione vuole solo rapinarlo imbrigliarlo e farlo servo di un nord che a sua volta e servo da una parte della Germania e dall'altra della Francia

Porto di Gioia Tauro, una eccellenza italiana da promuovere

-4 Ottobre 2021


Gioia Tauro, uno scalo così importante in un territorio così depresso: sembra quasi un ossimoro e forse lo è, ma dietro questa apparente contraddizione si cela un grande potenziale di sviluppo. Il porto di Gioia Tauro con i suoi due terminalisti – uno che si occupa del trasbordo di contenitori, l’altro del trasporto di autoveicoli – è, infatti, il centro dei traffici di merci containerizzate del Mediterraneo, destinati non solo al mercato mitteleuropeo, ma anche a quello dell’Est e dell’Ovest. Sono infatti 120 i porti in tutto il mondo collegati settimanalmente con i servizi di transhipment che transitano da Gioia Tauro: una rete di connessioni davvero impressionante.

Opera unica nel suo genere in Italia e nel Mediterraneo

Il porto, nato inizialmente con altre destinazioni d’utilizzo negli anni Settanta, ha cambiato per svariate ragioni la sua destinazione d’uso divenendo, sul finire degli anni Ottanta, una infrastruttura dedicata al trasporto marittimo. L’opera, imponente, unica nel suo genere non solo in Italia, ma nel Mediterraneo, è oggi divenuta – grazie alla gestione di MCT e del Gruppo Msc – l’Hub di transhipment più importante del nostro Paese, nonché uno tra i maggiori in Europa, movimentando più di 3,2 milioni di TEUs e avendo in programma di movimentarne 4,5 milioni entro due anni.

Tuttavia, questa grande realtà si scontra con un territorio povero di infrastrutture e iniziative che dovrebbero invece contribuire alla creazione di una catena del valore nel territorio, generando immediate ricadute positive sia a livello locale che nazionale. I problemi che frenano questo sviluppo sono tanti, da quelli legati alla nostra macchina pubblica, a quelli legati al territorio, a volte ostile e ostruzionista (per assurdo) proprio verso quei soggetti che, per primi, danno occupazione e futuro a migliaia di famiglie.

Il porto di Gioia Tauro rappresenta attualmente la via più rapida per raggiungere i mercati del Nord

MCT ha messo in opera importanti piani di sviluppo economico non solo via mare – implementando investimenti per oltre 110 milioni tra attrezzature di banchina e di piazzale – ma ha altresì permesso di creare un business nave/ferro attraverso la realizzazione di un moderno gateway ferroviario dotato di aste da 800 metri di lunghezza che potranno lanciare treni merci verso i mercati del Nord del Paese. Il prodotto, a cura delle società del Gruppo che operano nei mercati della logistica terrestre, è ancora in fase embrionale e come tale va sviluppato passo a passo, ma darà sicuramente i risultati attesi nel prossimo futuro. Se si volessero sintetizzare i punti di forza e di debolezza del porto di Gioia Tauro, il primo aspetto da prendere immediatamente in considerazione sarebbe la sua posizione: baricentrica nel Mediterraneo, equidistante da Suez e da Gibilterra. Questo Porto rappresenta un’infrastruttura unica nel suo genere, sia in termini di dimensioni del porto-canale (lunghezza 3,4 km, larghezza 250 mt. e profondità 16,5 mt.), sia in termini di dimensione dei piazzali (più di 150 ettari in concessione), caratteristiche, queste, che permettono la promozione e la gestione di traffico intermodale sia nave/ferro che ferro/gomma. Il porto di Gioia Tauro rappresenta attualmente la via più rapida per raggiungere i mercati del Nord, sia attraverso feederaggio sia attraverso ferro. Si pensi, ad esempio, che la Spagna adotta ancora per la stragrande maggioranza delle linee uno scartamento non standard, comportando – al confine con la Francia – una “rottura” del carico a causa dello spostamento dello stesso da un treno all’altro, con perdite in termini di tempo e denaro. Il Porto, inoltre, possiede un enorme retroporto pianeggiante, una risorsa invidiabile e al tempo stesso rara, che se ben sfruttata comporterebbe notevoli vantaggi economici. A ciò si aggiunga il bacino di carenaggio per navi fino a 366 metri di lunghezza, che sarà realizzato prossimamente a cura dell’AdSP.

Lo sviluppo del porto dipende dalla crescita sociale e infrastrutturale del territorio

L’altro lato della medaglia può essere facilmente sintetizzato in quelle che sono le debolezze che tutti conoscono e che hanno storicamente caratterizzato quest’area: un territorio povero, carente di infrastrutture e collegamenti; la presenza di organizzazioni criminali capaci di infiltrarsi nel tessuto economico e sociale; la presenza di una struttura industriale imperniata su micro imprese che non interagiscono, dal punto di vista commerciale, con il Porto. È chiaro che lo sviluppo di questo territorio non può che passare attraverso l’implementazione di strutture che hanno a che fare con la collettività, come scuole, aziende, servizi, strutture alberghiere e così via, contribuendo al generale sviluppo del Sud. Anche le ZES costituirebbero una straordinaria opportunità di sviluppo, in quanto motore primario di una crescita territoriale e regionale, con ricadute sull’intero apparato nazionale. In tal senso, la presenza del porto di Gioia Tauro è essenziale per il territorio, poiché in grado di competere con gli altri porti del Mediterraneo proprio grazie alle sue peculiari conformazioni (come il bacino di carenaggio o il retroporto) e resistere agli attacchi della concorrenza da parte dei principali porti di Grecia e Spagna e in maniera minore di quelli del Nord Africa (Tangeri, Marocco).

Il porto di Gioia Tauro e il sistema-Paese

Da questa sintetica analisi emerge chiaramente che gli aspetti sicuramente positivi che caratterizzano il porto di Gioia Tauro battono quelli potenzialmente negativi. Parallelamente alla sua crescita, però, il Porto necessita inevitabilmente di un efficace sistema-Paese, che operi nell’interesse del Porto come elemento fondante dello sviluppo del territorio. A tal proposito si possono citare le parole di Gianluigi Aponte, fondatore e Presidente di Mediterranean Shipping Company (Msc), che in una recente intervista ha sostenuto: «Lavoriamo in tutti i continenti e in ogni Paese c’è un modo differente di concepire il rapporto fra gli imprenditori e lo Stato. In Italia, ad esempio, non c’è un dialogo stretto, eppure c è molto da fare nel nostro settore perché cooperando potrebbero nascere grandi opportunità economiche che si tradurrebbero in migliaia di posti di lavoro e stipendi. Specialmente nella logistica dove, però, servono infrastrutture all’avanguardia e al passo con gli altri Stati».

Regno Unito e Polonia accomunati dal medesimo destino. Entrambi culturalmente più attrezzati per resistere ed evidenziare le contraddizioni di Euroimbecilandia. La prima proveniente dal suo essere stato IMPERO, la seconda in quanto capace di resistere, contrastare efficacemente il potere sovietico della Russia e sopravvivere alla sua morte

Come la Corte costituzionale polacca prepara l’uscita dall’Ue



La Corte costituzionale polacca ha affermato che le istituzioni europee agiscono oltre il loro ambito di competenza. L’approfondimento di Enrico Martial

Il 7 ottobre 2021, la Corte costituzionale polacca ha stabilito che alcune norme europee sono in conflitto con la Costituzione nazionale e ha affermato che le istituzioni europee agiscono oltre il loro ambito di competenza.

È un passo importante verso una possibile seconda uscita di uno Stato membro dall’Unione europea, dopo il Regno Unito, per quanto articolato e previsto dall’art. 50 dei Trattati. La questione riguarda la natura stessa dell’Unione, cioè la sua dimensione sovranazionale o parafederale, e non di semplice organizzazione internazionale, capace di produrre (in comune) una legislazione che si applica direttamente o con recepimento negli Stati membri.

L’affermazione del primato della legislazione europea su quelle nazionali risale al 1964, alla sentenza Costa contro Enel, e in qualche occasione è stata messa in dubbio: al netto del caso del Regno Unito – che ha preferito uscire direttamente dal perimetro del diritto comune – dalla stessa Corte costituzionale tedesca prima con la sentenza Lisbona del 2009 che aveva affermato un limite alle competenze dell’Unione, e poi con la sentenza del 5 maggio 2020 sul Quantitative Easing che l’avrebbe violato.

Tuttavia, la questione polacca è più profonda per il contenzioso aperto, con peggioramenti negli ultimi mesi, anche se in Italia se ne è parlato poco. Jaroslaw Kaczynski, vice primo ministro e leader del PIS, il partito di maggioranza in Polonia, il 15 settembre scorso ha affermato da un lato che “non ci sarà una Polexit, un’invenzione della propaganda che è stata usata più volte contro di noi” ma che la Polonia “non può essere oggetto del tipo di interferenze che sono attualmente in corso”, ribadendo da un punto di vista politica il primato del diritto nazionale su quello europeo.

Sullo stato di dritto il contenzioso è iniziato nel 2017, riguardo a minacce all’indipendenza della magistratura e ai diritti civili. Da un lato sono partite le procedure di infrazione e, dall’altro, nel dicembre 2020, gli Stati membri hanno condizionato con voto a maggioranza il NGEU, cioè i 750 miliardi del piano di rilancio europeo, al rispetto dello stato di diritto. Il risultato è che il piano polacco non è ancora stato approvato. In risposta, il premier Mateusz Morawiecki ha dichiarato in una intervista radiofonica il 4 settembre a RMF FM che la Polonia “ha il diritto di avvalersi dei delle misure del piano di rilancio”, e che non ha “rapporti di vassallaggio” con l’Unione europea.

La libertà di informazione presenta anch’essa diversi casi critici: tra i più recenti, l’acquisizione da parte della partecipata pubblica PKN Orlen di un centinaio di giornali locali dalla tedesca Verlag Passau, e il progetto di una tassa sulla pubblicità sui media. Inoltre, una proposta di legge prevede i mezzi di informazione in Polonia non possano essere detenuti per più del 50%, in modo diretto o indiretto, da soggetti esterni allo Spazio economico europeo (SEE): un modo per barricarsi rispetto a possibili TV russe o cinesi, ma che in concreto farebbe passare di mano TVN24, il principale canale di informazione in continuo, e la proprietà del terzo gruppo dei media in Polonia, ora controllate dalla statunitense Discovery.

Non riconoscere il primato del diritto europeo su quello nazionale conforta anche il rigetto polacco della multa da 500mila euro al giorno inflitta il 20 settembre 2021 dalla Corte di Giustizia per il mancato adeguamento ambientale per la miniera di carbone Turow, 20 kmq a cielo aperto, fino a 200 metri di profondità, 7% del fabbisogno nazionale. L’impianto si trova al confine con la Repubblica ceca e ne inquina le acque di prossimità, generando anche un contenzioso bilaterale.

La questione polacca non va tuttavia semplificata nel rapporto con la sola Unione europea: il Pis e una parte della cultura nazionale hanno elaborato specifiche politiche interne (per le zone rurali, le famiglie, con un modello di società) ed esterne, tra cui un proprio posizionamento geopolitico su Russia, Stati Uniti, Israele, Bielorussia, con una propria visione, su cambiamento climatico e multilateralismo, con argomenti spesso affini ai neo-nazionalisti o sovranisti.

Per altro verso, un sondaggio IPSOS, reso noto il 5 ottobre, pur su un campione limitato di 1000 persone intervistate in Polonia tra il 21 e il 23 settembre, mostrava che l’88% degli intervistati vuole rimanere nell’Unione, ma il 48% non teme di uscirne, e di questi l’89% vota Pis.