L'albero della storia è sempre verde

L'albero della storia è sempre verde

"Teniamo ben ferma la comprensione del fatto che, di regola, le classi dominanti vincono sempre perché sempre in possesso della comprensione della totalità concettuale della riproduzione sociale, e le classi dominate perdono sempre per la loro stupidità strategica, dovuta all’impossibilità materiale di accedere a questa comprensione intellettuale. Nella storia universale comparata non vi sono assolutamente eccezioni. La prima e l’unica eccezione è il 1917 russo. Per questo, sul piano storico-mondiale, Lenin è molto più grande di Marx. Marx è soltanto il coronamento del grande pensiero idealistico ed umanistico tedesco, ed il fondatore del metodo della comprensione della storia attraverso i modi di produzione. Ma Lenin è molto di più. Lenin è il primo esempio storico in assoluto in cui le classi dominate, sia pure purtroppo soltanto per pochi decenni, hanno potuto vincere contro le classi dominanti. Bisogna dunque studiare con attenzione sia le ragioni della vittoria che le ragioni della sconfitta. Ma esse stanno in un solo complesso di problemi, la natura del partito comunista ed il suo rovesciamento posteriore classistico, individualistico e soprattutto anti- comunitario" Costanzo Preve da "Il modo di produzione comunitario. Il problema del comunismo rimesso sui piedi"

sabato 13 novembre 2021

13 novembre 2021 - NEWS DELLA SETTIMANA (12 nov 2021)

Esselunga ci dice che i prezzi stanno salendo, mentre le istituzioni governative sono solo tese a continuare la campagna di terrore sull'influenza covid e sui provvedimenti per obbligarci senza obbligarci a inoculare i vaccini sperimentali

SPY FINANZA/ La verità di Esselunga che palazzo Chigi non può ancora ammettere

Pubblicazione: 13.11.2021 - Mauro Bottarelli

Con la sua campagna sul carovita Esselunga ha detto ciò che Palazzo Chigi, Palazzo Koch e via XX settembre ancora non possono ammettere

(LaPresse)

C’è la narrativa. Spesso ottimistica per scelta o per obbligo, quasi sempre basata – in politica – su quello che Gramsci definiva appunto l’ottimismo della volontà da contrapporre al pessimismo della ragione. Poi, c’è l’analisi. Ovvero, la comparazione fra l’esistente, lo status quo e i precedenti storici, i trend, i modelli. Anche in quel caso, nonostante si abbia a che fare formalmente con fredde cifre, interviene il discrimine di approccio: anche l’economista o il commentatore più distaccato sconta sempre l’impostazione personale o politica che possiamo semplicisticamente ricondurre alla figura retorica del bicchiere mezzo vuoto o mezzo pieno. Poi, infine, c’è la realtà. E la realtà oggi è questa: l’avrete già vista almeno dieci volte solo nelle ultime due giornate, perché la campagna che rappresenta è a dir poco capillare e pervasiva.


Esselunga ha rotto gli indugi e a poco più di un mese dal Natale, ha deciso di mandare in soffitta i suoi cibi animati con i loro slogan e affondare le mani nel fango dell’attualità: carovita. Da quanto tempo non vedevamo usato questo termine per una campagna pubblicitaria così ad ampio spettro? Siti di informazione, quotidiani, motori di ricerca. E, ovviamente, punti vendita. Ovunque troviamo queste poche parole, semplici e scritte con carattere chiaro e immediato: Esselunga ti viene incontro e in un momento di prezzi in rialzo a causa delle criticità sulla filiera delle materie prime, decide di offrire un paniere di prodotti di base con uno sconto del 6% rispetto a prima della fiammata inflattiva. Sicuramente, a breve anche i competitor della catena italiana di grande distribuzione ne seguiranno l’esempio.

Non a cuor leggero, però. Perché per quanto il messaggio contenuto in quello slogan sia positivo, ovvero nel momento del bisogno puoi contare su di me, dall’altro certifica appunto la difficoltà incombente. Anzi, già sostanziatasi. E se c’è una cosa che deprime i consumi, soprattutto quelli non necessari che diventano invece strutturali per i margini in periodo festivo e pre-festivo (e in un Paese tradizionalista come l’Italia), è l’ansia per il futuro. Bene, Esselunga ci dice che i prezzi stanno salendo. E che, forse, continueranno a salire. Ma che lei, proprio per questo, è al nostro fianco. Tradotto, l’inflazione non è affatto transitoria. Perché altrimenti non si investe tempo, soldi ed energia in una campagna pubblicitaria di questo genere, con forte e implicita carica ansiogena e in grado di incorporare un alto tasso di comunicazione controproducente, almeno a livello potenziale nella percezione di instabilità e precarietà socio-economica del cliente.

Ricordo ancora oggi le parole che mi disse uno dei responsabili marketing di Sainsbury’s, quando ancora vivevo a Londra: In uno slogan puoi dire ciò che vuoi, esiste un’unica regola: mai mettere ansia al cliente, mai indurlo a pensare o instillare dubbi sul suo potere d’acquisto. Il Governo può parlare quanto vuole, il ministro Brunetta può prospettare il Pil al 15% e Confindustria applaudirlo, ma la realtà, purtroppo, sta tutto in quello slogan. E qui il problema si fa duplice.

Primo, nel momento in cui l’economia reale rappresentata dall’avanguardia dei consumi decide che è ora di fare i conti con la realtà, la compattezza riformista e il profilo del fare del Governo pare sfaldarsi. Sotto i colpi di una Manovra che cresce di giorno in giorno a livello di numeri di articoli, ma che ancora il Parlamento, di fatto, non conosce. Perché non l’ha ricevuta. Il Governo, esattamente come fatto con la questione dei balneari, se ne lava le mani: il documento non deve tornare in Consiglio dei ministri, vada direttamente alle Aule. Dove i partiti, già oggi pronti a scannarsi nella corsa affannosa dell’assalto alla diligenza, daranno il peggio di sé e si suicideranno a livello di immagine proiettata all’esterno.

Se il Pnrr si rivelerà un fallimento, se la Manovra subirà ritardi nell’approvazione, se l’Europa ci bacchetterà e minaccerà di bloccare le prossime tranche del Recovery Fund, la colpa sarà ascrivibile in toto alla litigiosità dei partiti. Non a caso, i segnali in tal senso stanno moltiplicandosi. E in maniera preoccupantemente sempre più diretta: Il successo del Pnrr dipende dai sindaci, ha sottolineato Mario Draghi nel suo discorso all’Anci. I quali, soprattutto nel Mezzogiorno, da settimane stanno già anticipando un flop annunciato: mancano forze e competenze, i piani rischiano di non essere rispettati e soldi dell’Europa rimandati al mittente, inutilizzati.

Purtroppo, un grande classico del nostro Paese, bravissimo a imputare all’Europa ogni colpa ma campione assoluto nel non sfruttare le risorse a ciclo continuo che questa ci offre sotto forma di fondi, più o meno strutturali. Pensate che questa brutta aria che comincia a tirare, oltretutto con il nodo Quirinale sempre più incombente, non abbia pesato nella scelta di Esselunga di rompere gli indugi e sparare in faccia ai cittadini/consumatori/clienti la brutale realtà del carovita, retaggio da anni Settanta?

Secondo, lo mostra questo grafico: per quanto tutte le colombe del board Bce continuino a ripetere a macchinetta il mantra della fiammata temporanea, Bloomberg ha gettato un secchio di acqua gelata sulle speranze al riguardo. Se quest’anno l’inflazione dell’eurozona è prevista al 2,4%, ben oltre il target del 2%, la vera criticità sta nella revisione a rialzo toccata al tasso atteso per il 2022: la linea grigia rappresenta la proiezione originaria della Commissione Ue, mentre quella rossa traccia il trend dei nuovi modelli. La media attesa per l’anno prossimo è del 2,2% contro l’1,4% precedente.


Certo, da qui alla fine del prossimo anno molto può cambiare a livello macro. Quasi tutto. Il problema è che il circolo vizioso innescato dal Qe perenne ed esploso nel suo parossismo finale con il Pepp pandemico necessita di inflazione alta per continuare a generare l’effetto manipolatorio sullo spread che tanto interessa a Bce e governi indebitati dell’Eurozona, altrimenti come si finanziano i deficit? Non a caso, l’altro giorno il numero uno della Banca centrale austriaca, il falco Robert Holzmann, è tornato a chiedere una fine più drastica e rapida degli acquisti e un netto cambio di politica sui tassi, in caso l’inflazione mantenga il suo trend anche per il 2022.

Jens Weidmann è in uscita, quindi Austria e Olanda scontano la loro statura non da giganti e il nuovo equilibrio interno al Consiglio direttivo, ufficialmente sbilanciato come non mai su impostazioni espansive. Ma resta il fatto che, quando cominciano a comparire campagne pubblicitarie come quella di Esselunga (già partite in tutta Europa, Germania in testa con il suo complesso weimariano mai risolto) e in contemporanea si è costretti a rivedere drasticamente al rialzo le proiezioni di medio-lungo termine, pensare di poter continuare a vivere nel mondo degli unicorni che negano in nuce la possibilità di tassi da normalizzare per bloccare la spirale dei prezzi appare ogni giorno lavoro più improbo. Esattamente come quello che attende il Governo Draghi, da qui alla partita finale sul Quirinale.

Attenzione, perché Esselunga ha detto ciò che Palazzo Chigi, Palazzo Koch e via XX settembre ancora non possono ammettere. Tutti avvisati.

13 novembre 2021 - Linea rossa - Non toccate i bambini, siete dei folli criminali

 BYOBLU24

“UN CRIMINE SPINGERE I BAMBINI ALLA VACCINAZIONE”, L’INTERVISTA A KENNEDY

Nessuna correlazione è solo contrappasso

Muore dopo il vaccino il cardiologo che offendeva i non vaccinati



Alla volte la legge del contrappasso funziona: un noto cardiologo canadese di 52 anni, Sohrab Lutchmedial di origine indiana, il 10 luglio scorso aveva preso pubblicamente posizione contro gli “egoisti” che rifiutavano la vaccinazione e in maniera molto sgradevole come del resto è tipico delle persone mediocri: in un twitter aveva scritto “Per coloro che non si vaccineranno per motivi egoistici, non piangerò al loro funerale”. Due mesi dopo, il 25 settembre, quando si preparava alla terza dose ha scritto che i vaccini mRna sui dodicenni erano “innegabilmente sicuri”, non si sa bene su quali basi di conoscenza, visto che lo studio clinico peraltro di Pfizer durato appena due mesi, dimostra quanto meno l’inutilità del vaccino sui più giovani. Poi è arrivato il fatale 24 ottobre e il dottor Lutchmedial è corso a farsi la terza dose. Due settimane dopo, l’ 8 novembre, è morto improvvisamente nel sonno. Ovviamente tutti i suoi amici e conoscenti che si può presumere avessero le stesse idee del defunto sono sconcertati e attoniti: difficilmente un cardiologo di 52 anni potrebbe morire per una crisi cardiaca del tutto inaspettata, veramente arduo sostenere che il vaccino non c’entra nulla.

Ora rimane da decidere una cosa: dobbiamo piangere al suo funerale o invece piangere di fronte allo spettacolo di una scienza corrotta al pari della società, di persone incapaci di obiettività di giudizio e di giudizio critico? Chissà poi se il cardiologo aveva preso quella posizione per intima convinzione o per acquistare titoli e meriti presso l’ospedale in cui lavorava. Quindi non sappiano in quale delle malebolge potrebbe essere collocato, ma di certo la sua morte sbugiarda i corrotti che vogliono vaccinazioni a tutti i costi.

Comunione e Liberazione nella sua lunga gestione politica ha gettato le basi strutturali di dare ai privati la sanità distruggendo nel tempo quella pubblica. La Lega e i suoi alleati hanno continuata imperterrito nella distruzione

Riforma sanitaria Moratti-Fontana: un fiume di soldi per la sanità privata e un fiume di code per le liste d’attesa

12.11.21 - Milano - Medicina Democratica

(Foto di Amstead23, Wikimedia Commons)

Iniziato il dibattito al Consiglio Regionale della Lombardia. Le 57 associazioni del Coordinamento Lombardo per il Diritto alla Salute: “In gioco la salvezza del servizio sanitario pubblico e il diritto alla salute dei cittadini: scenderemo in campo contro l’ulteriore deriva della riforma Moratti-Fontana.”

“Hanno fatto un deserto della sanità pubblica, sulla pelle dei cittadini e l’hanno chiamata parità pubblico/privato e libera scelta”, ha dichiarato Marco Caldiroli, Presidente di Medicina Democratica, anche a nome delle associazioni lombarde che hanno manifestato il 23 ottobre in piazza Duomo per il rilancio della sanità pubblica e territoriale. “E’ cominciato in Consiglio Regionale il dibattito per l’approvazione della non-riforma della sanità lombarda. La direzione non cambia, anzi approfittano del PNRR per foraggiare ancora il privato, con gravi conseguenze per il diritto alla salute soprattutto per le fasce più deboli, così come l’emergenza pandemica ha dimostrato con i suoi 35.000 morti anche per le gravi inefficienze del servizio sanitario”.

Il Coordinamento Lombardo per il Diritto alla Salute, con le 57 organizzazioni aderenti, lancia un appello ai cittadini per partecipare a una manifestazione di protesta in concomitanza della discussione consigliare, con modalità che saranno definite a breve.

La Lombardia ha scelto un servizio sanitario ospedalocentrico, ha svuotato i territori di servizi e professionalità. Il risultato è l’utilizzo improprio dei pronto-soccorsi e tempi di attesa lunghissimi per chi non può pagare le prestazioni private. Il top si è toccato con la pandemia su cui il privato ha lucrato, proponendo tamponi e ”pacchetti” di visite domiciliari fino a 450 euro a cittadini “rinchiusi” in casa, nella inutile attesa del servizio pubblico.

Dal 1997 sono stati cancellati 22.239 posti letti nelle strutture pubbliche, mentre in quelle private sono aumentati di 2.553 o trasformati in altre forme di assistenza. Il privato (2017) copre il 54,3 % degli acquisti di servizi sanitari e si è “mangiato” il 62 % degli investimenti strutturali della regione. Gli operatori sanitari pubblici sono diminuiti di 11.768 unità dal 1997 al 2017 con un – 11,9 %, mentre la media italiana è stata del –7,3 %. C’è una grave carenza di medici di base e nei prossimi 5 anni ne mancheranno 4.167 per pensionamento, ma per l’assessora Moratti è soltanto una “percezione” o un problema “organizzativo”, causato dagli stessi medici. Non c’è stata programmazione, né concreti obiettivi di miglioramento della salute pubblica ma solo di incremento di fatturato per i privati.

“Di fronte a tale sfacelo la Giunta regionale ripropone ancora lo sbilanciamento verso il privato anche per le case e degli ospedali di comunità previsti dal PNRR”, sottolinea Angelo Barbato del Forum Nazionale per il Diritto alla Salute. “Come indicato nel documento condiviso da 57 associazioni e dalle opposizioni regionali, proponiamo ben altri obiettivi: un forte governo pubblico della sanità, basato su una chiara programmazione; la medicina territoriale organizzata con bacini d’utenza limitati, per rispondere in modo mirato ai problemi di salute dando priorità alla prevenzione della malattia anche attraverso la partecipazione della cittadinanza.

“Le Case e gli Ospedali di Comunità devono essere esclusivamente pubblici, affinché siano perseguiti risultati reali di salute e non utili economici. Le liste d’attesa devono essere trasparenti e il loro contenimento deve essere un obiettivo primario. Eliminare la libera professione all’interno delle strutture pubbliche. Le RSA devono essere parte del servizio sanitario nazionale e va ritirata la richiesta di autonomia differenziata.”

Dalla civile Austria si ricorre ai bordelli per inoculare le masse dai vaccini sperimentali

Buono bordello per chi si vaccina



Il punto a cui siamo arrivati era inimmaginabile solo fino a qualche anno fa e la gestione della narrazione pandemica rivela un degrado intellettuale e morale così profondo che non sarò possibile risalire senza una integrale rivoluzione sociale ed etica. Visto che ormai, nonostante le costrizioni illegali a cui è sottoposta la popolazione di natura umana e non bovina, è fallito l’obiettivo di portare i renitenti davanti al plotone di esecuzione vaccinale, si tenta di ricorrere oltre che al bastone alla carota anche se nel caso che sto per raccontare forse sarebbe meglio dire alla patata. A Vienna infatti il Funpalast che è ufficialmente un bordello anche se ostenta davanti alla costruzione che lo ospita un monumento a Gustav Klimt, offre ai suoi clienti vaccinati una sessione di 30 minuti nel “sauna club” con una “signora a loro scelta”. In più la stessa struttura offre ai clienti la possibilità di vaccinarsi ogni lunedì di novembre dalle 16:00 alle 22:00 in modo da ottenere dopo la puntura un buono sauna di 40 euro. Anche gli adolescenti dai 14 anni in su possono essere vaccinati nel bordello, purché accompagnati da un adulto anche se poi non si capisce bene a chi vada in questo caso il buono sauna.

E’ del tutto palese che questa iniziativa non nasce dalla direzione del bordello, anche se si dice che la pandemia e poi le restrizioni sui non vaccinati vaccinazioni hanno fatto calare spaventosamente gli incassi, ma da luoghi di perdizione molto peggiori, quali per esempio i corridoi del potere politico che suggerisce e probabilmente paga per gli ” incentivi”. Il governo austriaco così come tutti gli altri esecutivi europei che si sono infangati con la mistificazione pandemica, si trova ad affrontare un problema che forse non si aspettava: nonostante le regole sempre più stringenti, ma completamente al di fuori della realtà, la richiesta di vaccinazioni cala ormai dappertutto, sia perché gli abusi di autorità stanno facendo crescere l’opposizione e la decisione di non farsi pungere, sia perché anche molti vaccinati si stanno accorgendo di essersi prestati non a un’operazione sanitaria, ma a un sistema di ricatto perenne sulle loro vite. Così si ricorre persino ai bordelli per cercare nuovi adepti delle punture geniche non ostante la loro palese inutilità e pericolosità. Inutile ripetere che ormai i veri ammalati di covid sono i vaccinati come le statistiche, inglesi e israeliane, fra le altre, testimoniano a profusione: non c’è miglior indiota di chi non vuole capire, ma occorre puntare il dito sui mezzi che vengono messi in campo per convincere alla vaccinazione che vanno da spot per i bambini nei quali si fa intendere che la vaccinazione conferirà loro dei superpoteri e al bordello gratuito per adulti. Di fronte ad una vera epidemia tutto questo sarebbe assolutamente inconcepibile,, ma nel corso di una psicopandemia dove l’elemento spettacolare, nel senso originario della parola, fa parte della mistificazione, è quasi naturale registrare questi eccessi. Dopotutto il piano è mandare a puttane diritti e libertà.

Che si tengono i loro bordelli perché ho l’impressione che tra poco saranno questi scellerati a sudare come nelle saune.

L'hanno chiamata concorrenza si legge privatizzazione dei servizi pubblici locali, prima ha comprato i sindaci promettendogli aumenti di stipendi

08 Novembre 2021 10:00
Il Grande Liquidatore: la furia cieca delle privatizzazioni è ripresa
Antonio Di Siena

Il ritorno del grande liquidatore.

Il 4 novembre scorso il Consiglio dei ministri ha approvato il DDL per il mercato e la concorrenza.

Un disegno di legge che riporta l’Italia indietro di trent’anni. A quel giorno del ‘92 in cui, a bordo del Britannia, proprio Mario Draghi (guarda caso) diede inizio all’ondata di privatizzazioni massicce delle aziende di Stato.

Una decisione che ha dell’incredibile. Sia perché il popolo italiano si è espresso più volte in favore della gestione pubblica dei servizi essenziali (da ultimo il referendum sull’acqua). Sia perché sono oramai ampiamente conclamati il fallimento dell’amministrazione privatistica e (o soprattutto) le capillari infiltrazioni mafiose negli appalti di gestione. Uno stato di cose che, almeno in teoria, dovrebbe apparire chiaro pure ai sassi: la concorrenza non funziona, anzi spesso peggiora di molto il quadro complessivo. Quantomeno nell’ambito dei monopoli naturali.

E invece niente. La furia cieca delle privatizzazioni ha ripreso nuovo vigore.

A dimostrazione del fatto che scelte politiche di questo tipo non rispondono ad alcuna necessità di carattere generale, ma esclusivamente a una visione ideologica e iper-liberista della società. Per di più in totale assenza di un preciso mandato elettorale in tal senso. Perché questa nuova (ma vecchissima) stagione di privatizzazioni selvagge - stavolta promossa e benedetta dall’agenda europea del PNRR in nome della “crescita” - altro non farà che accrescere ulteriormente i dividendi per gli azionisti a esclusivo detrimento dei cittadini. E sottraendo a questi ultimi i residuali spazi di gestione democratica della res publica. Prepariamoci quindi a nuovi e ulteriori aumenti di tariffe e costi di gestione e azzeramento degli investimenti, col conseguente peggioramento complessivo dei servizi, delle infrastrutture e della sicurezza. Ovviamente a discapito delle fasce più povere della popolazione. Esattamente come accaduto con autostrade e il crollo del ponte di Genova, con Alitalia o con la gestione dei rifiuti urbani, delle risorse idriche e del trasporto pubblico nelle città dove tali servizi sono stati dati in mano ai privati. Il tutto in nome dell’Europa, ovviamente. E dei soldi farlocchi che ci “regala”, nonostante siano soldi nostri ca va sans dire.

L’opposizione a Draghi, quindi, passa necessariamente dal rimarcare con forza una proposta politica totalmente antitetica a tutto ciò che egli rappresenta. Rafforzamento normativo della gestione pubblica dei servizi essenziali, disarticolazione del principio secondo cui gli stessi debbano operare secondo le leggi di mercato (quindi non in perdita) e non in funzione di un miglioramento della qualità dei servizi stessi, aumento dei finanziamenti statali e maggiore potere e controllo da parte degli enti locali. La via per rendere più efficienti e moderne le nostre città passa necessariamente da qui. E non continuando a regalare a loschi affaristi beni che appartengono alla collettività tutta. Anche perché far passare una roba del genere significa spalancare le porte al cavallo di Troia della privatizzazione della sanità.

Certo anche la gestione pubblica è foriera di innegabili storture (i carrozzoni e le assunzioni pre-elettorali ad esempio). Ma con ogni evidenza la stessa classe politica che usa certi mezzi di fatto illeciti (sarebbe voto di scambio) li sfrutta come alibi perfetto per giustificare le privatizzazioni in nome di malfunzionamenti che essa stessa ha causato per finanziare la sua auto replicazione parassitaria.

È urgentissimo quindi ampliare il terreno dello scontro, riportando al centro della proposta politica il ruolo essenziale dello Stato e la funzione progressista della spesa pubblica. Chiunque difenderà queste posizioni sarà un alleato, gli altri inevitabilmente nemici. Non avversari, ma reale e concreta minaccia alla Repubblica e ai suoi principi fondanti. O col mercato o col popolo. E magari sarà la volta buona che viene giù pure qualche maschera.

A buon intenditor…

I paesi con una percentuale più elevata di popolazione completamente vaccinata hanno casi Covid-19 più elevati per 1 milione di persone.

DALLA GERMANIA/ Vaccinati e contagi, attenti all’errore di giornali & politica

Pubblicazione: 13.11.2021 Ultimo aggiornamento: 08:30 - Edoardo Laudisi

In Germania la vaccinazione anti-Covid viene perseguita trascurando ogni cautela, anche quella suggerita dalla scienza. Solo in Germania?

In Germania (LaPresse)

BERLINO – “Io, d’altra parte, vorrei cogliere l’occasione per chiedere espressamente svantaggi sociali per tutti coloro che rinunciano volontariamente alla vaccinazione. Che l’intera Repubblica punti il dito contro di loro”. Nikolaus Blome, giornalista del settimanale tedesco Der Spiegel.

Durante un mio recente soggiorno a Genova, che non visitavo da prima dell’introduzione del green pass, sono rimasto sorpreso dalla quantità di gente che girava con la mascherina. Più o meno metà delle persone che circolavano per strada la indossavano, tanto che successivamente ho chiesto a un mio amico se fosse ancora obbligatoria. Quello mi ha guardato strano, come se avessi appena detto una sciocchezza. Quando gli ho raccontato che la maggioranza delle persone che avevo incontrato indossava una mascherina nonostante dovessero essere quasi tutte vaccinate, ha detto che mi sbagliavo, che probabilmente si trattava di gente appena uscita da un negozio o in prossimità di un assembramento. E quando ho replicato che non era così, che si trattava di persone che camminavano tranquillamente per una strada non particolarmente affollata, ha alzato le spalle come a dire che avevo visto male.

Ora qui non è importante il motivo per cui gente vaccinata decide di indossare la mascherina all’aperto in un luogo non affollato, quanto la negazione di tale comportamento da parte del mio amico. Perché quando si arriva a negare l’evidenza senza fare una piega, senza quel brevissimo attimo di esitazione che avviene quando nel cervello transita la domanda “non sarà troppo?”, significa che la paura ha vinto sulla ragione, che la schiavitù è libertà, la guerra è pace e il green pass non discrimina.

Se si nega una cosa così evidente figuriamoci cosa si fa quando si tratta di quantificare con precisione gli effetti avversi del vaccino o i suoi limiti a contrastare la pandemia. A cominciare dai risultati di questo studio sulla non correlazione tra popolazione vaccinata e aumenti infezioni da Covid, pubblicato il 30 settembre sull’European Journal of Epidemiology. L’articolo apre con questa premessa:

“I vaccini sono attualmente la principale strategia per combattere Covid-19 in tutto il mondo. Ad esempio, la narrativa relativa all’ondata in corso di nuovi casi negli Stati Uniti (Usa) sostiene che essa è causata da aree con bassi tassi di vaccinazione. Una narrazione simile avviene anche in paesi come la Germania e il Regno Unito. Allo stesso tempo, Israele, che è stato preso ad esempio per i suoi alti tassi di vaccinazione, ha visto una sostanziale ripresa dei casi di Covid-19. In questo studio ci occupiamo della relazione tra la percentuale di popolazione completamente vaccinata e i nuovi casi di Covid-19 in 68 paesi (e in 2947 contee negli Stati Uniti).”

Per lo studio sono stati utilizzati i dati Covid-19 forniti dal database Our World in Data, disponibili al 3 settembre 2021. I 68 paesi indagati, tra qui l’Italia, soddisfacevano i seguenti criteri: avevano a disposizione dati completi sulla seconda dose di vaccino e avevano a disposizione dati completi sui casi di Covid-19. L’ultimo aggiornamento dei dati è del 3 settembre 2021. Lo studio, il cui link è riportato sopra, stabilisce che:

A livello nazionale, lo studio trova che non sembra esserci alcuna relazione riconoscibile tra la percentuale di popolazione completamente vaccinata e i nuovi casi di Covid-19 negli ultimi 7 giorni (vale a dire il 3 settembre, Fig. 1 dello studio). In effetti, la linea di tendenza suggerisce un’associazione marginalmente positiva tale che i paesi con una percentuale più elevata di popolazione completamente vaccinata hanno casi Covid-19 più elevati per 1 milione di persone. In particolare, Israele con oltre il 60% della popolazione completamente vaccinata ha avuto i più alti casi di Covid-19 per 1 milione di persone negli ultimi 7 giorni. La mancanza di un’associazione significativa tra la percentuale di popolazione completamente vaccinata e i nuovi casi di Covid-19 è ulteriormente confermata, ad esempio, nei casi dell’Islanda e del Portogallo. Entrambi i paesi hanno oltre il 75% della popolazione completamente vaccinata e hanno più casi di Covid-19 per 1 milione di persone rispetto a paesi come il Vietnam e il Sudafrica che hanno circa il 10% della loro popolazione completamente vaccinata.

Per questo, conclude lo studio, la decisione di puntare alla vaccinazione come strategia primaria per mitigare Covid-19 e le sue conseguenze negative deve essere rivista, soprattutto considerando la variante Delta e la probabilità di varianti future. Potrebbe essere necessario mettere in atto altri interventi farmacologici e non farmacologici insieme all’aumento dei tassi di vaccinazione. Tale correzione di rotta, specialmente per quanto riguarda la narrativa politica, diventa fondamentale alla luce delle prove scientifiche emergenti sull’efficacia reale dei vaccini.

A tale proposito lo studio cita il rapporto pubblicato dal ministero della Salute in Israele, sull’efficacia di due dosi del vaccino BNT162b2 (Pfizer-BioNTech) contro la prevenzione dell’infezione da Covid-19. L’efficacia trovata è stata del 39%, di molto inferiore all’efficacia riscontrata in fase di studio del farmaco, che era del 96%.

Sta anche emergendo che l’immunità derivata dal vaccino Pfizer-BioNTech potrebbe non essere forte quanto l’immunità acquisita attraverso la guarigione dal Covid-19 (ma in Italia le autorità istituzionali preposte obbligano a fare l'inoculazione dei vaccini sperimentali nonostante la guarigione se vuoi avere il Passaporto per una vita sociale). In generale è stato riscontrato un sostanziale declino dell’immunità dai vaccini a mRna 6 mesi dopo l’immunizzazione.

Infine, anche se le vaccinazioni offrono protezione agli individui contro il ricovero grave e la morte, il Cdc (Center for Disease Control and Prevention) ha segnalato un aumento dallo 0,01 al 9% e dallo 0 al 15,1% (tra gennaio e maggio 2021) nei tassi di ospedalizzazioni e decessi tra i completamente vaccinati. Alla luce di questi risultati gli autori dell’articolo concludono che:

“In sintesi, anche se è sensato fare sforzi per incoraggiare le persone a vaccinarsi, questi incoraggiamenti dovrebbero essere fatti con umiltà e rispetto. Stigmatizzare le persone può fare più male che bene. È importante sottolineare che altri sforzi di prevenzione non farmacologica (ad esempio, l’importanza dell’igiene sanitaria pubblica di base per quanto riguarda il mantenimento della distanza di sicurezza o il lavaggio delle mani, o la promozione di forme di test – tamponi – più frequenti ed economiche) devono essere rinnovati al fine di imparare a convivere con Covid-19 allo stesso modo in cui continuiamo a vivere 100 anni dopo con varie alterazioni stagionali del virus dell’influenza del 1918.”

E ora si rilegga la frase del giornalista tedesco dello Spiegel, molto simile alle dichiarazioni di tanti giornalisti e virologhi televisivi nostrani, per capire in che baratro stiamo cadendo. Qualcuno se ne deve essere accorto, almeno in Germania, se un virologo assolutamente pro-vaccino come Christian Drosten si è sentito in dovere di dichiarare al giornale Die Zeit che è assolutamente sbagliato parlare di una pandemia dei non vaccinati, ma che si deve parlare di una pandemia che coinvolge tutti, vaccinati e non.

Se vogliamo uscirne senza distruggere la nostra società dobbiamo ripartire da qui e tornare a usare la ragione, lo spirito critico e il confronto dialettico delle idee, liberandoci dai fanatismi oscurantisti. Questo è uno sforzo che va assolutamente fatto a tutti i livelli e indipendentemente dalla propria posizione sul vaccino. In palio c’è la coesione sociale dei nostri paesi.

I governi europei hanno creato milioni di sfollati dalle loro guerre e macchinazioni criminali insieme agli Stati Uniti

Rifugiati , l’Europa digrigna la dentiera



C’è una costante degli ultimi 30 anni sulla quale si può fare sempre affidamento: l’Europa delude sempre, non è mai all’altezza della situazione e men che meno della coerenza o della verità: E’ ormai un coacervo di ex democrazie fatiscenti tenute assieme da interessi multinazionali e oligarchie, che rimbalza tra pii desideri di autonomia e l’appiattimento sugli Stati Uniti, tra una retorica degli ideali traditi da decenni e l’ossequio devoto all’egemonia culturale neoliberista. In questa orrida palude ormai è tutto fasullo e privo di senso, doppio, ambiguo, volgarmente strumentale, tutti caratteri presenti appieno nella vicenda dei rifugiati che si accalcano sul confine tra Bielorussia e Polonia. si vuole far credere che questa massa di persone tutte provenienti da Siria, Iraq e Afghanistan, ovvero il danno collaterale delle guerre occidentali e operazioni di cambio di regime condotte dagli Stati Uniti e dagli europei, sia quasi una creazione di Putin, mentre è una precisa responsabilità dei Paesi che hanno creato questi conflitti.

Così mentre si guarda dall’altra parte quando si deve parlare di responsabilità il confine con la Bielorussia viene militarizzato, dimostrando l’animus della costruzione europea. Ma come, fino a qualche tempo fa quando c’era la guerra in Afghanistan, in Siria e in Iraq si fingeva di avere massimamente a cuore il destino di questi rifugiati salvo pagare la Turchia per tenerseli in campo di concentramento, si è messo in piedi con tutto il ciarpame culturale disponile un apparto politico – retorico, oltre che propagandistico, sull’accoglienza e sulle società multiculturali che peraltro non esistono visto che ogni società è frutto di una cultura. Ma adesso che quelle guerre sono state perse, non vogliamo proprio più quelli che abbiamo sradicati. I carri armati che affluiscono sul confine e il filo spinato che viene steso per decine di chilometri rappresentano un abominio per i presunti “valori europei” e per il rispetto delle leggi internazionali in materia di asilo. Il fiasco di Bruxelles che sostiene finanziariamente la costruzione di recinzioni di filo spinato è una vergogna internazionale e questo suo muro arriva 32 anni dopo che è caduto il muro di Berlino.

Ma il fatto è che Bruxelles ha una paura folle di una nuova destabilizzazione dopo la grande marea di rifugiati del 2015: in questo momento di follia vaccinale questo potrebbe essere la goccia che fa traboccare il vaso o coagulare una immensa protesta contro la dittatura medicale e le sue conseguenze sociali con la caduta definitiva di elite ormai marce fino al midollo. Ma è chiaro in tutto il resto del pianeta che si sta barando quando si mettono in piedi sanzioni economiche contro la Bielorussia, accusando il suo presidente Alexander Lukashenko di “gangsterismo” e “tratta di esseri umani”, quando questa tratta è una precisa responsabilità europea. Ancor più pretestuosa e scandalosa e si prende in considerazione anche l’imposizione di sanzioni alle compagnie aeree russe che non c’entrano nulla, ma soddisfano le ossessioni degli oligarchi i quali non hanno scrupoli a mettere in piedi una pericolosa escalation di tensioni pur di non mettere in crisi il regno dove imperano e sfruttano. Ciò che si teme e che la Russia possa svolgere un’opera di mediazione visto che già Mosca ha proposto che Bruxelles fornisca aiuti finanziari alla Bielorussia per attuare un sistema razionale di domanda di asilo e reinsediamento. Ma questa è l’ultima cosa che l’UE vuole fare, vuole semplicemente bloccare qualsiasi migrazione per evitare conflitti politici interni. Per fare ciò, deve bloccare la Bielorussia con un impatto deleterio sull’economia del Paese. Ma che importa: basta fare vaccini distruggendo l’economia piccola e media come vogliono le multinazionali che hanno il vero potere dietro la farsa delle istituzioni europee e dunque si ricorre ai carri armati. In base al diritto internazionale, l’UE è obbligata ad accogliere i richiedenti asilo e allora fa carte false per non farli entrare. I governi europei hanno creato milioni di sfollati dalle loro guerre e macchinazioni criminali insieme agli Stati Uniti, ma Bruxelles si sta sottraendo ai suoi obblighi anche legali e nella sua codardia morale e politica dell’Europa cerca di dare la colpa agli altri.

L'incongruenza elevata all'ennesima potenza. L'insieme è maggiore della somma delle parti, ma non è dote comune saper vedere la totalità, neanche di quel centinaia di ricconi capaci solo di vedere il loro ombelico. Ci vuole esercizio, dedizione, passione, sacrificio, tempo per intravedere lontanamente l'INSIEME

L’incompetenza dei tecnocrati

di Massimo Cacciari
3 novembre 2021

Perché le grida dei Grandi su catastrofi climatiche, disastri ambientali, crisi energetiche, migrazioni di popoli, disuguaglianze e altre mille sciagure, producono il topolino dei rimandi e rinvii? Due formidabili ragioni lo spiegano: il primo, che si tratta di un’unica, complessa crisi, dovuta all’interazione di processi biologici, economici, sociali, che è impossibile affrontare con interventi separati nel tempo e nello spazio, e tantomeno per mezzo di apocalittici allarmi. La tendenza alla riduzione di crisi multidimensionali a una sola, di volta in volta, delle sue componenti e a prendere una parte del problema isolandola dal tutto, è giunta al suo trionfo con la gestione della pandemia Covid, come Edgar Morin ha sostenuto con meridiana evidenza.

Il secondo, che crollato l’Ordine planetario prodotto dalla fine della seconda Grande Guerra, nessun nuovo Ordine, e neppure un solido Patto, lo ha sostituito – e le crisi da risolvere parlano invece soltanto un linguaggio globale. La politica ha con questo linguaggio un’interfaccia debole, occasionale, e soprattutto è costretta a svolgersi secondo ritmi, tra Paese e Paese, che sembrano non armonizzabili. Ciò non genera soltanto interventi inefficaci, ma, prima ancora, conoscenze erronee, poiché una questione in sé complessa non può neppure essere davvero conosciuta se la si affronta a pezzi, senza visione di insieme.

E qui veniamo ai sintomi sempre più evidenti di una trasformazione in corso nei sistemi politici delle democrazie occidentali, che, di nuovo, la crisi da Covid ha messo a nudo e forse reso inarrestabile, non certo prodotto. Nessuno ha notato lo stupefacente paradosso (tanto ormai nel senso comune paradosso non suona più): il premier, buon per noi, più omaggiato e stimato dai Grandi capi politici (molti dei quali Grandi sul serio) non solo non è un politico, ma ha dichiarato di non sognarsi neppure di “fare politica”. L’autorevolezza di cui gode, anche presso il pubblico, pare inversamente proporzionale al suo “tasso di politicità”. Il “popolo sovrano”, dopo sciagurate guerre, immigrazione senza governo, pandemie curate a base esclusiva di lockdown e vaccini, si fida soltanto dei “competenti”. E ora anche lo stesso ceto politico passa il testimone. Le competenze si fanno sovrane. Un male o un bene? La regola anche in questo caso è sempre quella: né detestare né esaltare, ma cercare di comprendere. Quale sovranità può essere quella delle competenze? Ognuna di esse è specialistica o non è. Il virologo non è uno statistico, l’economista non è un medico, l’ingegnere non è un biologo, lo psicologo non è un fisico. La specializzazione più spinta, piaccia o no, è l’anima della scienza moderna. Se lo scienziato è intelligente riconosce il proprio limite, e cioè come la sua competenza sia lungi dal poter affrontare l’intero – ma non è affatto necessario che intelligente sia, e allora è inevitabile che assuma il proprio parziale punto di vista come quello fondamentale e che tenda a collocarsi nell’ombelico del mondo. Ne abbiamo avuto esperienza a iosa nei due ultimi, sciagurati anni. Disporre di competenze tecnico-scientifiche è essenziale per un’efficace azione politica, ma nessuna di esse né il loro insieme potranno mai decidere come i diversi aspetti di una crisi possono essere connessi tra loro, in base a quale ordine si debbano affrontare e in vista di quali fini tentare di risolvere. Possiamo avere la più alta fede nelle scienze (e lasciamo perdere il fatto che fede e scienza non vanno proprio d’accordo), ma è vera superstizione pensare che esse possano esercitare una qualche forma di sovranità o decidere su ciò che deve essere.

Una pura tecnocrazia è perciò altrettanto probabile della nascita di un cavallo alato. Ma possiamo facilmente concepire una situazione in cui il Politico, la funzione di governo, la produzione di leggi, il tutto opportunamente centralizzato, si svolgano all’unico fine di rendere il sistema produttivo ed economico, dentro cui vivono oggi tecnica e scienza, il più efficiente possibile, rimuovendo tutto ciò che ne zavorra e ostacola l’indefinito progresso. Il “capitalismo politico” cinese ne è già un esempio? Quel che è certo è che la “pulsione” a diventare parte integrante di un simile sistema da parte di vari settori dell’intellighentsia culturale e scientifica occidentale ha assunto dimensioni insospettabili fino a pochi anni fa. I margini per l’esercizio anche di una modesta funzione critica si vanno liquidando non per qualche intervento autoritario – parlare di minacce fasciste oggi è pura e arcaica retorica, chiunque sia a farla -, ma proprio perché tale esercizio non riveste più alcun interesse da parte di quelle “competenze” che oggi agiscono, di fatto, per assumere il massimo ruolo, la massima autorità (e la fetta più cospicua di risorse) all’interno del sistema. Ho scritto un libretto, pre-Covid, che conteneva tra le righe una modesta utopia: che i saperi scientifici (il lavoro dello spirito) potessero stringere un’alleanza con un’azione politica capace di affrontare le tremende disuguaglianze del mondo contemporaneo, le nuove forme di sfruttamento e di alienazione, costringendo a patti in questo senso le grandi potenze economico-finanziarie che oggi dominano, ma non ordinano, non sono capaci di un nuovo Nomos della Terra. Forse oggi non lo scriverei più. Nei dossier che i competenti hanno predisposto ai politici del G20 c’era l’universo e qualcos’altro, ma non una parola su quali leggi debbano governare il rapporto tra gli elementi – c’era l’universo, ma nessun cosmo. E ancora meno si accennava al fatterello per cui negli Usa qualche centinaio di persone gode di un reddito pari al 65% degli appartenenti ai ceti più deboli. Il sistema funziona anche con queste piccole contraddizioni, il Pil va bene anche se milioni di ragazzi non lavorano o sono precari o sottopagati o mantenuti dalle famiglie. Basta ci sia la salute.»

Il CROLLO CLIMATICO parte già zoppo

FLOP26 e lo spettro dell'Apocalisse

di Moreno Pasquinelli
2 novembre 2021

La grande kermesse Cop26 sul clima si è svolta all’insegna del più allarmistico catastrofismo. L’annuncio più tenebroso l’ha fatto Boris Johnson: “L’apocalisse climatica è vicina”. I cronisti ci informano che c’è voluta tale smisurata profezia per risvegliare un Joe Biden in sonno profondo.

Logica vorrebbe che davanti ad una simile epocale minaccia sarebbero state adottate misure salvifiche eccezionali. Colpisce invece la sproporzione tra il paventato pericolo e gli impegni annunciati. Dalle parti degli ambientalisti assatanati è un coro di lagnanze e proteste. Nella gara a chi è più catastrofista, i gretini hanno parlato, riguardo al summit di Glascow, di “fallimento catastrofico”.

Non entriamo qui nel merito — se l’aumento della temperatura abbia, come ci viene detto, “cause antropiche” o se sia manifestazione delle cicliche alterazioni climatiche del pianeta (rimandiamo agli studi critici di Leonardo Mazzei pubblicati su questo sito). Segnaliamo l’inganno semantico che si nasconde dietro all’aggettivo: non il sistema sociale fondato sull’industrializzazione forsennata, non il consumismo scriteriato, non un modello di sviluppo paranoico, sarebbero eventualmente responsabili dei cambiamenti climatici; colpevole sarebbe l’uomo, sotto accusa è posta l’intera umanità — compresi i paesi del terzo e quarto mondo che dell’inquinamento sono solo vittime in quanto vere e proprie discariche di quell “sviluppati”.

La domanda che ci si dovrebbe porre è la seguente: suscitare questo luterano senso di colpa, questo catastrofismo apocalittico, nascondono forse qualcosa? Sono forse funzionali ad un disegno politico dell’élite mondialista? La risposta è un doppio sì.

E’ una novità che essi, le classi dominanti, che solitamente governano all’insegna del motto tranquillizzante e soporifero delle “magnifiche sorti e progressive”, di recente abbiano radicalmente cambiato la narrazione ideologica. Non solo il mondo sarebbe prossimo alla fine, ma da qui alla fine l’umanità sarà devastata da pandemie letali a catena.

Il combinato disposto di catastrofismo sanitario ed ecologistico è anzitutto un gigantesco specchietto per le allodole: serve a spostare l’attenzione dei popoli e dei cittadini, anzitutto occidentali, dalle drammatiche conseguenze della crisi sistemica, facendola focalizzare sugli spauracchi di maligni pericoli extra-storici. L’effetto che essi ottengono è duplice: da una parte terrorizzano e ipnotizzano le grandi masse così da prevenire e spegnere ex ante eventuali pulsioni rivoluzionarie, dall’altra si ergono non più solo come filantropi e benefattori dei popoli, ma come veri e propri salvatori dell’umanità.

L’evocazione dell’apocalisse — intesa non nel senso ebraico-cristiano del maestoso annuncio di salvezza operata dal definitivo intervento di Dio nella storia umana, ma come nichilistica previsione di un grande disastro (ovviamente globale!) — torna infine utilissima per un obiettivo politico per niente escatologico e profano assai: con lo spettro del cataclisma incombente si giustifica l’emergenza permanente, il passaggio ad uno stato d’eccezione, perpetuo; quindi l’edificazione, sulle ceneri delle democrazie parlamentari, di un Leviatano digitale, di un regime politico ibrido che abbiamo chiamato liberal-fascista.

Serve infine, il catastrofismo, a convincere le genti che la “salvezza” potrà essere ottenuta solo grazie alla loro scienza, con sempre più massicce dosi di tecnologia poiché, come ha affermato proprio Draghi, “solo la tecnica ci salverà”. Col che si svela, last but not least, un ulteriore funzione della narrazione catastrofistica, giustificare e spingere fino in fondo il Grande Reset, rigenerare cioè il sistema capitalistico in grave affanno avviando, grazie a massicci investimenti, un nuovo ciclo espansivo. Sempre Draghi infatti ci dice che “non è un problema di soldi…Ci sono decine di trilioni di dollari disponibili se coinvolgiamo il settore privato”. Ecco quindi che si parla di una “santa alleanza globale” tra stati desovranizzati e giganti privati — sodalizio che è alla base del cosiddetto stakeholder capitalism. Si sono già fatti avanti, in odore di colossali profitti, filantropi e benefattori della stazza di Rockefeller e Bill e Melinda Gates….

E’ una vecchia storia che si ripete ad ogni tornante. I borghesi giunsero al potere combattendo sotto la bandiera dell’emancipazione e della liberazione dell’umanità. Oggi i loro ultimi eredi rispolverano quella maschera logorata e se la indossano. Strappategliela e scoprirete che non è l’umanità che davvero vogliono salvare ma solo il loro patologico sistema di dominio. E se essi evocano una disastrosa apocalisse è forse perché vogliono effettivamente causarla come extrema ratio: scatenare il caos per edificare la dittatura dispiegata impedendo così all’umanità di salvarsi dalla effettiva minaccia che essi rappresentano.

Mattarella Mattarella decreti legge differiti nel tempo è tutto costituzionale vero? Il garante batta un colpo

Per una critica politico-giuridica del "green pass"

di Giorgio Agamben, Massimo Cacciari, Giuliano Scarselli
3 novembre 2021

Non si tratta di prendere posizione in favore o contro il green pass, o in favore o contro la vaccinazione obbligatoria; si tratta, più precisamente, di esercitare quel senso critico e quella libertà di pensiero che appare necessaria affinché una società possa continuare a dirsi viva e democratica.

Si ricorda, ancora una volta, che lo Stato non ha resa obbligatoria la vaccinazione poiché la scelta sarebbe stata molto probabilmente contraria alla costituzione (Corte Cost. 22 giugno 1990 n. 307; Corte Cost. 23 giugno 1994 n. 258; Corte Cost. 18 gennaio 2018 n. 5), trattandosi di un vaccino che ancora non ha finito il suo corso di sperimentazione e che può recare danni, anche gravi, a chi lo riceve, come riconosciuto dallo stesso art. 3 del dl 44/2021.

Però lo Stato ha voluto egualmente ottenere il medesimo risultato, e lo ha fatto con lo strumento indiretto del green pass, che da un lato ha indotto grandissima parte dei cittadini a vaccinarsi per non essere esclusi dalla vita sociale, e dall’altro ha consentito parimenti allo Stato di non assumersi alcuna responsabilità in punto di vaccinazione, in quanto atto formalmente non obbligatorio e rimesso alla libera scelta di ognuno.

Il green pass trova la sua regolamentazione in decreti legge, e ad oggi si contano ben sei decreti leggi in materia (dl. 52, 105, 111, 122, 127 e 139 del 2021). È evidente che se lo Stato, invece di dare disciplina normativa ad un fenomeno, interviene sul quel fenomeno ogni 15 giorni/un mese, quel fenomeno non risponde più ad un principio di legalità, perché di fatto è invece rimesso alla libertà del potere pubblico, che si attribuisce il diritto di cambiare le regole in ogni momento.

Da precisare, poi, che l’estensione del green pass al lavoro, alle università, alla magistratura, non ha eguali in nessun paese d’Europa.

Inoltre la vaccinazione attiene ad un facere irreversibile, cosicché doveva apparire conforme a buon senso non porre doveri di fare irreversibili con provvedimenti instabili quali sono i decreti legge, in quanto gli obblighi di fare irreversibili non hanno alcuna possibilità di sottostare alla retroazione della decadenza a fronte di una eventuale mancata conversione in legge del decreto da parte del Parlamento.

Il Parlamento, infatti, non è stato preso in nessuna considerazione, e ciò nemmeno nel momento della conversione dei decreti leggi, che sono avvenuti e avvengono sempre su fiducia governativa, e quindi con l’impedimento di ogni discussione.

Ed ancora, gli ultimi decreti legge, ovvero i decreti leggi da quello del 23 luglio 2021 n. 105, non hanno più fatto nemmeno riferimento alla situazione sanitaria, ne’ ad avvisi del comitato tecnico scientifico del dipartimento della Protezione civile per giustificare la necessità ed urgenza.

Addirittura, gli ultimi decreti legge hanno previsto una loro entrata in vigore differita nel tempo.

Ad esempio, il dl. 105/2021 del 23 luglio è entrato in vigore il 6 agosto, il dl. 111/2021 del 6 agosto è entrato in vigore il 1 settembre, il dl. 122/2021 del 10 settembre è entrato in vigore il 10 ottobre, e infine il dl. 127/2021 è entrato in vigore il 15 ottobre 2021; e come si possa coniugare l’urgenza con il differimento dell’entrata in vigore di un decreto, non è dato capire.

È stato poi soppresso il segreto medico (art. 17 bis dl 27/2020), è stata soppressa la riservatezza dei dati personali tra cittadini e Stato (art. 9 dl. 139/2021), e oggi così lo Stato può acquisire ogni informazione di ogni cittadino determinando unilateralmente la finalità del trattamento, anche in assenza di una legge che lo preveda.

Sono stati dati contributi pubblici a emittenti televisive e radiofoniche che si rendessero oggetto di messaggi di comunicazione istituzionale del Governo (DM 12 ottobre 2020).

È stata fatta una legge chiamata di “scudo penale” (dl. 44/2021) con la quale si è previsto che nessuno, e non solo i medici, passano incorrere in responsabilità penale per morte o lesioni dei vaccinati quando l’uso dei vaccini sia stata conforme ai protocolli istituiti; e da quel momento i morti per vaccino sono così diventati invisibili, un fatto giuridicamente inesistente, sul quale non vale la pena fare indagini, perché non si fanno indagini per fatti che non costituiscono reato.

Infine, la traduzione italiana della legge del Parlamento europeo 15 giugno 2021 n. 953, in punto di divieto di discriminazione diretta o indiretta tra persone vaccinate e non vaccinate non conteneva, stranamente, l’inciso “che hanno scelto di non vaccinarsi” (ou ne souhaitent pas le faire); inciso poi, a seguito di proteste, inserito successivamente il 5 luglio 2021 nella Gazzetta Ufficiale per lo Stato italiano, ma non accorpata in correzione nel testo originario della legge.

Dunque, a fronte di queste circostanze, si tratta, soprattutto, tutti, vaccinati e non vaccinati, di vigilare affinché le regole della nostra costituzione, e i delicati equilibri tra i poteri dello Stato, soprattutto nei rapporti con i cittadini, non si alterino oltre i limiti consentiti.

Piero Calamandrei, sulla rivista Il Ponte nel 1945 scriveva: “La giustizia sociale non è pensabile se non in funzione della libertà individuale”; e v’è da chiedersi se noi ancora viviamo in una società in cui l’uomo e la sua libertà sono messi al centro del sistema.

Gli USA, “paese di nessun popolo” sono visti come i principali propugnatori dell’offensiva mondialista attraverso l’imposizione della loro lingua, della loro sovranità militare e della loro egemonia finanziaria

Da Wallerstein a de Benoist: la globalizzazione alla prova dei suoi critici

di Andrea Muratore
3 novembre 2021

Il connubio tra scienze sociali e globalizzazione ha proceduto sulla scia di una precisa periodizzazione cronologica. I processi storici hanno conosciuto una repentina accelerazione nel mondo globalizzato: modifiche importanti nei modi di vita delle persone, dei rapporti economici e dei rapporti tra le nazioni hanno preso piede in pochissimi anni.

A partire dagli Anni Sessanta e Settanta sociologi, storici, politologi ed economisti iniziarono a tematizzare il fenomeno “globalizzazione”, a causa dell’incedere di nuove tematiche categorizzate per la prima volta da Marshall McLuhan, che nel 1964 di fronte all’incedere del progresso tecnologico teorizzò il “villaggio globale”, un mondo ristretto dalla velocizzazione dei processi di comunicazione.

Dopo la caduta del Muro di Berlino e del bipolarismo il dibattito si ampliò. La contrapposizione USA-URSS aveva caratterizzato l’ordine delle cose a livello planetario, dividendo nei due blocchi l’egemonia internazionale; caduto il sistema comunista il dibattito sulla globalità prese inesorabilmente piede.

Wallerstein e il sistema-mondo

Una serie di teorie si affermarono a partire dalla nascita del concetto di World-System, che reputava la fine della dialettica bipolare come il guado tra due ere storiche. Processi come la riorganizzazione del sistema produttivo mondiale, sempre meno centralizzato sulla fabbrica fordista, erano tuttavia già in atto da decenni. La fabbrica fordista rappresentava un retaggio del mondo precedente, e attorno ad essa si caratterizzava una dialettica di classe e, soprattutto, un’identificazione sociale per i lavoratori: dall’industria dell’automobile, tuttavia, negli USA Anni Sessanta cominciò ad affermarsi la produzione in rete, che spezzettava la produzione con una sofisticazione della logistica, mentre al tempo stesso iniziò la parcellizzazione fiscale.

La razionalizzazione della produzione aprì la strada al post-fordismo ma, contemporaneamente, la ramificazione iniziò a rompere le conflittualità di fabbrica e il nucleo identitario in cui la galassia circostante l’impresa si identificava. Questa dimensione “logistica” si aggiungeva alla sempre più palese crescita tecnologica e alla finanziarizzazione dell’economia: oggigiorno nelle Borse valori si scambiano valori otto volte maggiori di quelle circolanti nell’economia reale. Molti studiosi delle scienze sociali contestavano il fatto che fosse stato il crollo del Muro a imporre la nascita del World-System, dato che Immanuel Wallerstein, professore a Yale, lo teorizzava già dal 1974. Wallerstein, che preferiva parlare di “mondialità”, asserì che essa rappresentava una caratteristica fondante del capitalismo dal XVII secolo, e che la globalizzazione della produzione aveva già preso piede dall’Ottocento. Inoltre, scrisse Wallerstein, anche la tendenza alla flessibilizzazione del mercato del lavoro rappresentava una dimensione già presente nel sistema. Wallerstein, di conseguenza, non ritenette il crollo del comunismo come una causa scatenante di un cambio di paradigma: la sua visione era quella più propriamente “anglosassone”, basata sullo studio della storia dell’Impero Britannico e della sua mentalità a lungo “globale” in anticipo sul resto dell’Occidente.

L’economia globale, per Wallerstein, era caratterizzata dal Mercato Unico, dominato dal principio della massimizzazione del profitto e dalla logica dell’infinita accumulazione del capitale, dunque dalla tendenza a una continua, rapace tesaurizzazione. Inoltre, essa avrebbe portato a una riqualificazione delle strutture statali: nell’economia globalizzata la nazione tradizionale avrebbe conosciuto forte limitazioni, dato che il conflitto tra realtà statali e sovranazionali sarebbe stato continuo. Il tema della contrapposizione “globale-locale” è, al giorno d’oggi, attualissimo: dal WTO alla NATO, dal FMI all’ONU, le organizzazioni statali si trovano sempre di più ad essere influenzate dalle scelte di organizzazioni di dimensioni più grande. Wallerstein negli Anni Settanta intuiva la frattura che si sarebbe venuta a creare tra il World System e i singoli Stati. Per quanto concerne il mercato del lavoro, Wallerstein teorizzava tre cerchie: un nucleo di Stati “privilegiati”, una cerchia di nazioni “semiperiferiche” e una grande maggioranza di “nazioni periferiche”.

Il World System di cui parlava Wallerstein era definito come “un Sistema Interstato fatto da un mercato globale (Spazio Economico Universale), in conflitto con tanti Stati Nazionali e il loro principio del monopolio della forza legittima”. Nell’ottica di Wallerstein, il conflitto si sarebbe esemplificato come una continua e accesa dialettica sulla base dell’ambivalenza di nazionale e sovranazionale, e si sarebbe ripercosso sugli assetti sociali interni a seguito dello scontro tra le scelte economiche definite a livello internazionale e le scelte politiche nazionali.

Da Bretton Woods in avanti, in effetti, scelte economiche, finanziarie e monetarie internazionali influenzano sulla realtà locale, e ciò ha sempre causato spaesamento: i cittadini si sono sempre chiesti chi fosse, in ultima istanza, a decidere per loro. Wallerstein predisse come nel World System si sarebbe assistito a una grande polarizzazione tra grandi accumulazioni di ricchezze e spaventose povertà, la reazione alla quale sarebbe stata un’opposizione identitaria di natura localista, religiosa ed ecologica. La dimensione ecologica, oggi ampiamente affermata, era una lettura assolutamente nuova negli Anni Settanta: Wallerstein percepì l’esistenza di impellenze ecologiche di carattere globale. Altro elemento che Wallerstein riteneva connaturato allo sviluppo globale erano, a suo parere, le migrazioni connesse ai movimenti della forza lavoro, del capitale e alla sempre maggiore facilità di comunicazione tra le diverse aree del mondo nel sistema interstatale. Wallerstein accettò il termine “globalizzazione”, al massimo, come un nuovo sinonimo per il suo concetto di World System.

Robertson e l’antropologia del mondo globale

Roland Robertson, sociologo all’Università di Pittsburgh, fin dagli Anni Sessanta teorizzò la teoria della modernizzazione a partire dall’analisi di civiltà basata sui suoi studi religiosi. Robertson focalizzò i suoi studi sui cambiamenti culturali ed antropologici connessi all’affermazione della modernità, prendendo i rapporti tra l’uomo e la società sulla base degli approcci predominanti verso le religioni. A suo parere, la rigida separazione tra discipline come le Relazioni Internazionali e la Sociologia ha spesso ostacolato la comprensione della realtà e dei fenomeni globali, per il cui studio bisognava sviluppare una concezione multidisciplinare, non più basata su una rigida e stagna compartimentazione. Un’interpretazione corretta della globalizzazione, secondo Robertson, l’avrebbe contestualizzata come un sistema socioculturale prodotto dalla compressione di culture connesse a civiltà, società nazionali, movimenti e organizzazione intranazionali e transnazionali, subsocietà e gruppi etnici ed individui. Questo, secondo Robertson, implica che la globalizzazione crei delle identità “a strati”, degli elementi terzi creati come risultante dell’incontro tra identità e subidentità, peculiari sotto il profilo socio-culturale. Due elementi dialettici importanti andavano considerati: il rapporto universale-particolare e quello locale-globale, interazioni fondamentali per il dialogo alla base dello sviluppo della realtà globalizzata.

La multidimensionalità è frutto, infatti, dell’ambivalenza. Il pensiero multidisciplinare teorizzato da Robertson, infatti, è oggigiorno accettato e applicato praticamente in tutti i contesti accademici. Egli concepì anche la nascita di movimenti e gruppi sociali connessi al “Mondo come insieme” legati da interessi e obiettivi comuni (pacifismo, ecologia, diritti umani ecc.) e l’inizio di processi di ricerca esasperata e radicale di identità specifiche (fondamentalismi) sulla scia dell’universalizzazione del particolarismo e della particolarizzazione dell’universalismo nell’età dell’incertezza. Dal marketing, Robertson mutuò il concetto di “glocalizzazione” e si dichiarò contrario alla cosiddetta “McDonaldizzazione del Mondo”, ovverosia alla concezione della globalizzazione come un’estensione dell’American Way of Life a tutto il mondo. La multidimensionalità e la sovrapposizione di molte identità avrebbe portato alla nascita dei “paradossi locali” a causa del persistere di vecchie identità nel mondo moderno.

Baumann, Augé, de Benoist: i critici dell’uomo globale

Zygmunt Bauman teorizzò la società liquida, sulla base di un pensiero strutturato su una concezione della globalizzazione come compressione del tempo e dello spazio e radicale ridefinizione delle gerarchie sociali. L’e-mail, secondo Bauman, rappresenta la massima esemplificazione della compressione delle dimensioni nel mondo globale. Nella società liquida finisce la dicotomia “vicino/lontano” nei trasporti e nelle comunicazioni, ma al tempo stesso il mondo si suddivide: i “globalizzati” vivono in un eterno presente, rappresentano una nuova élite fondata sulla mobilità extraterritoriale, mentre al contempo i localizzati rimangono inesorabilmente legati al territorio, vivono nello spazio, non controllano il tempo, non hanno possibilità di viaggiare e non hanno accesso alle informazioni.

Il passaggio dalla modernità alla post-modernità è come il passaggio dallo stato solido allo stato liquido sulla scia del crollo di certezze, perdita di una “bussola” e produzione di un nuovo assetto sociale. Il mondo teorizzato da Bauman è visibile guardando la nuova realtà delle metropoli contemporanee e il proliferare di “Non-Luoghi” intesi nella concezione ideata da Marc Augé. Cambia il concetto di “confine”: il controllo del territorio (solido) diviene una “regolazione delle differenze”. Una dimensione dello sviluppo di un territorio, ad esempio, è connessa al conteggio degli accessi alla rete Internet. I confini nel mondo liquido, molto spesso invisibili, sono più numerosi rispetto a quelli del mondo solido. Si rompe il vincolo capitale-lavoro: la sfida politico-economica diventa una sfida tra la velocità del movimento dei capitali e la capacità di intercettamento dei poteri locali. Nel mondo liquido, i governi possono vincolare i capitali solo accordando loro la libertà di andarsene senza problemi, come detto da Bauman nel 2004. Bauman ha teorizzato l’ascesa del regionalismo e la ricerca di identità più piccole ed omogenee come una risposta allo spaesamento indotto dalla globalizzazione. La società liquida, fondamentalmente, è la società dell’incertezza: dal welfare State si passa al workfare State, che subordina i diritti al possesso di una posizione lavorativa. La solitudine del cittadino globale si manifesta proprio nel dominio assoluta dell’incertezza, nella criminalizzazione e nell’esclusione della povertà, nella sfiducia esistenziale e nella ricerca della Sicherheit (sicurezza esistenziale, personale).

Alain De Benoist, filosofo francese, basa il suo pensiero sull’identità della comunità e sulla rivalutazione della differenza come opposizione naturale alla globalizzazione. Egli è ritenuto il principale referente culturale identitario a livello mondiale. Nella sua opera, De Benoist parla di “mondializzazione” e di “Mondialismo” come minacce frontali all’identità dei popoli europei. Il Mondialismo avversato da De Benoist è visto come sintesi del monoteismo giudaico-cristiano e dell’universalismo liberale. L’esaltazione di un’autoreferenziale uguaglianza tra esseri, secondo De Benoist, rappresenta il presupposto per una grigia omologazione. Egli propugna di conseguenza un ritorno al “paganesimo”, alla difesa dell’identità ancestrale delle comunità. De Benoist parla chiaro: esistono immanentemente un “Noi” e un “Voi”. Gli USA, “paese di nessun popolo” sono visti come i principali propugnatori dell’offensiva mondialista attraverso l’imposizione della loro lingua, della loro sovranità militare e della loro egemonia finanziaria.

La via critica alla globalizzazione ha dunque visto pensatori, più o meno istituzionali, scagliarsi contro le sue forme e le sue strutturazioni. Il Covid-19 e la crisi ecologica impongono di strutturare ulteriori e profonde riflessioni sulle dinamiche che si stanno sviluppando: ora più che mai ci si accorge che il mondo non potrà tornare quello di prima. E che seguire la visione di chi, in passato, ha mostrato le fallacie del sistema avrebbe potuto evitare i disastri del mito secondo cui “There is no alternative”.

Giorgetti tornato dagli Stati Uniti, dove è stato ben indottrinato, ringalluzzito, fa le sue strampalate proposte incostituzionali. Un traditore della Patria da mettere al muro

Proposta di colpo di stato

di Leonardo Mazzei
3 novembre 2021

Ormai non ci sono più freni. Al nuovo duce tutto è dovuto. Ed i suoi scagnozzi non stanno più nella pelle.

Segnalando l’attuale china verso un regime dispotico così ho scritto la settimana scorsa: «La discussione pubblica si riduce ad un’invocazione a Lui, le principali cariche dello Stato spettano a Lui, e peccato che non possa stare contemporaneamente a Palazzo Chigi ed al Quirinale!».

Era un’esagerazione? Evidentemente no, se il tirapiedi in capo, al secolo Giorgetti Giancarlo da Cazzago Brabbia, si è permesso di dichiarare che «Draghi potrebbe guidare il convoglio anche dal Quirinale».

Et voilà! Ecco la soluzione! Perché perdere tempo in tanti discorsi? Mica possiamo aspettare una modifica costituzionale alla francese, che poi magari gli italiani ce la bocciano. Meglio, molto meglio, attuarlo al volo quello stravolgimento. Il momento è favorevole – ecco a cosa serve lo stato d’emergenza infinito alimentato a Covid – e bisogna coglierlo al volo.

Dunque, si mandi Draghi al Quirinale così 7 anni di Troika son garantiti, ma gli si consenta anche di continuare a guidare il governo pure da lì. E’ totalmente incostituzionale? E chissenefrega! Mica abbiamo dichiarato lo stato d’eccezione per pettinar le bambole, come avrebbe detto Bersani.

Il discorso di Giorgetti non si presta ad equivoci. La sua spudoratezza senza limiti lo porta ad esplicitarne la sostanza senza reticenza alcuna: «Sarebbe un semipresidenzialismo de facto» – egli ci dice – «in cui il presidente della Repubblica allarga le sue funzioni approfittando di una politica debole».

Come definire questo disegno, proveniente dall’interno del governo, se non come la proposta di un vero e proprio colpo di Stato? In altri tempi in molti avrebbero suonato l’allarme rosso. Oggi no, oggi al massimo si farfuglia qualche insulsa banalità, magari ricordando (come ha fatto Calenda) che per ora in Italia il presidenzialismo non c’è. Grazie, ma lo sapevamo già. E lo sa bene pure Giorgetti, che però un suo progetto ce l’ha.

Quale sia il suo piano (che non è certo solo suo) è piuttosto semplice a dirsi: draghizzare l’intera politica italiana, accelerare in tutti i modi il processo di accentramento dei poteri già in atto da mesi, disegnare in un colpo solo la maggioranza e l’opposizione, le forze abilitate a governare e quelle che dovranno rassegnarsi obtorto collo al ruolo secondario ma pur sempre ben retribuito di “opposizione di sua maestà”. Una linea di faglia che passa proprio all’interno della Lega.

Giorgetti è appena rientrato da un viaggio negli Usa, dove sia il potere politico che quello finanziario hanno nel “vile affarista” la certezza di avere un loro uomo al comando, mentre “tutto il potere a Draghi” corrisponde al millimetro al programma della marcia cupola eurista che manovra da Bruxelles. Come questi obiettivi di fondo verranno tradotti in pratica, nel decisivo gioco d’incastri che porterà all’elezione del presidente della Repubblica, ancora non si sa. Ma la volontà di lorsignori più chiara non potrebbe essere.

Tuttavia anche questo non basta. Posta la centralità di Draghi, la draghizzazione dell’intero sistema politico ha uno scopo ancora più ambizioso. Il progetto è quello di prendere due piccioni con una fava. Da una parte delimitare il campo dei draghiani senza macchia e senza peccato; dall’altra assegnare a chi resterà fuori (Fratelli d’Italia e presumibilmente la parte della Lega fedele a Salvini) il ruolo di “cara opposizione designata”.

Il sistema ha infatti una sua intelligenza. Ed il movimento contro il Green pass rappresenta una cesura storica giustamente considerata pericolosa nei pensatoi del potere, altro non fosse che per i suoi imprevedibili sviluppi. Occorre dunque riassorbire quella frattura, cercando di delegarne in qualche modo la rappresentanza ad una finta opposizione, a forze politiche strutturalmente interne al sistema ma momentaneamente escluse dal primo cerchio che orbita intorno al Sole Draghi.

Questo a me pare il disegno politico del blocco dominante. Disegno ambizioso e, ove si realizzasse, micidiale. Disegno da contrastare in tutti i modi. Per fortuna il diavolo fa le pentole ma non i coperchi. Toccherà al movimento sceso in campo in questi mesi dare una prima risposta, quella della consapevolezza di chi ha compreso quanto sia decisivo il ruolo dell’attuale presidente del consiglio. E’ lui il nemico principale. Agiamo di conseguenza, trasformando il dissenso in opposizione come primo passo sulla strada dell’alternativa e della liberazione.

Niente di nuovo, AUSTERITÀ ESPANSIVA presentata in veste diversa, questo è Draghi, lo stregone maledetto. Una crescita complessiva modesta, associata alla ricerca di avanzi primari nel giro di pochi anni, dati i saldi dei conti pubblici oggi registrati, non può che ripetere gli andamenti degli ultimi anni: significativi avanzi primari non hanno consentito un’apprezzabile riduzione del rapporto debito prodotto.

Il “modello” dietro la legge di bilancio del governo Draghi

di Roberto Artoni
3 novembre 2021

Dall’analisi della Nadef, risulta chiara l’impostazione del governo Draghi basata sulla crescita del settore privato o meglio ispirata al modello della “supply side economics” che tanti danni ha causato in Italia fino alla pandemia


Negli anni ’60 e ‘70 del secolo scorso la Relazione annuale della Banca d’Italia era oggetto di attenta analisi da parte di illustri economisti: si voleva enucleare il “modello” analitico alla base delle scelte dell’istituto di emissione. Senza pretendere di giungere allo stesso livello di approfondimento, non è forse inutile tentare di evidenziare le linee essenziali dei documenti programmatici alla base del disegno di legge di previsione del bilancio dello Stato per il triennio 2022-202.

Conviene partire dagli obiettivi dell’azione di finanza pubblica chiaramente enunciati nella premessa alla Nadef 2021 (pag. V):

la strategia di consolidamento della finanza pubblica si baserà principalmente sulla crescita del PIL stimolata dagli investimenti e dalle riforme previste dal PNRR. Nel medio temine sarà altresì necessario conseguire adeguati avanzi primari. A tal fine, si punterà a moderare la dinamica della spesa pubblica corrente e ad accrescere le entrate fiscali attraverso il contrasto all’evasione. Le risorse di bilancio verranno crescentemente indirizzate verso gli investimenti e le spese per ricerca, innovazione e istruzione.

Tutto ciò trova conferma nel quadro programmatico di finanza pubblica. All’elevato indebitamento indotto dalla pandemia (9,4% in termini di Pil nel 2021) dovrebbero seguire anni di aggiustamento che nel 2024 ridurrebbero lo squilibrio al 3,3%. Tutti i saldi di finanza pubblica migliorerebbero sensibilmente. Il saldo primario dovrebbe essere nel 2024 marginalmente negativo (-0,8) contro il 6% del 2021. Il rapporto debito prodotto dovrebbe scendere di quasi dieci punti rispetto al massimo raggiunto nel 2020 (155,6). Il riequilibrio dovrebbe poi proseguire negli anni successivi, quando si manifesteranno pienamente, nelle valutazioni del governo, gli effetti del Pnrr, sia per gli interventi diretti, sia per le riforme annunciate in molti settori della vita nazionale.

Ovviamente l’evoluzione macroeconomica dovrà essere favorevole per rendere possibili, anche solo in ipotesi, gli effetti annunciati sui conti pubblici. Il governo prevede per il 2022 una crescita reale del 4,7 % (contro il 6,1% dell’anno in corso). La crescita del Pil continuerebbe anche nei due anni successivi, sia pure a tassi inferiori e decrescenti: 2,8 nel 2023 e 1,9 nel 2024. Si stima poi che al termine del quinquennio coperto dal Pnrr il livello del Pil dovrebbe essere superiore del 3,6% rispetto all’ipotesi base di assenza di sostegno comunitario. Il risultato sarebbe rilevante, ma comunque insufficiente a colmare il divario accumulato dall’economia e dalla società italiana negli ultimi decenni.

Il quadro macroeconomico programmatico proposto dal Governo prevede un sensibile rallentamento dei consumi delle famiglie: da un incremento del 5% nell’anno in corso al 2% nel 2024. Per la spesa della PA dopo un aumento dell’1,7 nel 2022 è ipotizzato un moderato incremento nel 2023 e una diminuzione (-0,2) nel 2024. La crescita del Pil, a tassi comunque in diminuzione, deriverebbe in buona sostanza dagli investimenti, pubblici e privati, per i quali è prevista una crescita che va dal 6,8 al 4,3%.

Una considerazione particolare meritano le previsioni riguardanti gli investimenti pubblici. In una tabella della Nadef (R1, p.66) si stima che gli investimenti fissi lordi delle pubbliche amministrazioni saranno nel prossimo triennio di poco superiori al 3% del Pil. Gli investimenti in opere pubbliche saranno indirizzati, si afferma, al superamento del gap infrastrutturale formatosi nell’ultimo decennio per effetto di politiche restrittive, quando gli investimenti della PA si collocavano fra il 2 e il 2,5%. Al finanziamento degli investimenti dovrebbe concorrere il Pnrr per circa 1/3 (1% del Pil in media all’anno). I fondi del Pnrr destinati agli investimenti pubblici proverrebbero per 1/5 del totale da sovvenzioni e per 4/5 da prestiti, dunque da indebitamento in un paese caratterizzato da un elevato rapporto debito-prodotto. Nel triennio 2022-24 gli investimenti lordi delle pubbliche amministrazioni dovrebbero quindi assorbire circa 1/3 delle risorse rese disponibili dall’Europa (60 miliardi, pari a 1 punto di un Pil, nel triennio di circa 6.000 miliardi). Il costo del lavoro è previsto crescere in media dell’1,3%, associato a un incremento della produttività dello 0,3%. Con un’inflazione al momento stimata all’1,5%, salvo sorprese future di origine internazionale, non sembra che ci sia molto spazio per incrementi salariali di un certo significato.

Alla definizione dei due quadri programmatici, macroeconomico e di finanza pubblica, concorrono le misure modificative della legislazione vigente annunciate dal Governo. Fra le altre, è prevista una consistente riduzione delle imposte sia nel prossimo anno, sia in quelli successivi, compensata dal gettito derivante dalla lotta all’evasione fiscale. Il miglioramento del saldo primario richiederà poi una consistente riduzione della spesa corrente, e quindi della spesa sociale: l’accesso alla pensione anticipata di vecchiaia sarà consentito solo con requisiti anagrafici e contributivi più restrittivi, come sarà ridimensionato il reddito di cittadinanza. Negli interventi sugli ammortizzatori sociali confluiscono due componenti: da un lato, la tutela di lavoratori in difficoltà e, dall’altro, il proposito di rendere sempre più fluido, o meno vincolato, il funzionamento del mercato del lavoro.

Al riguardo, si conferma che la crescita dell’occupazione nell’ultimo anno è stata sostenuta in larghissima misura da contratti a termine, caratterizzati da basse remunerazioni e da elevata precarietà. A questa constatazione non sembra seguire nessuna ipotesi di revisione delle regole del mercato del lavoro che, accumulatesi a partire dagli anni ’90 del secolo scorso, hanno prodotto effetti negativi sotto molti aspetti, dalla distribuzione funzionale e personale del reddito (e quindi del Pil), al deterioramento qualitativo della forza lavoro, oltre ad influire presumibilmente sul tasso di natalità in forte calo nel nostro paese. Non sembrano in questo contesto sufficienti le maggiori risorse destinate all’istruzione (che forse compenseranno parzialmente anni di contrazione degli stanziamenti) o il richiamo alle mitiche politiche attive del lavoro. È infine dato ampio spazio agli incentivi agli investimenti, considerati, come abbiamo visto, fattore essenziale di crescita.

Sulla base della sintetica descrizione qui sviluppata, credo che il “modello” alla base della Nadef possa essere fatto rientrare nel filone dottrinale della supply side economics. La crescita del sistema può derivare solo da un’espansione della capacità produttiva ad opera essenzialmente degli operatori privati, che devono essere opportunamente incentivati e tutelati nei confronti di prelievi tributari e contributivi penalizzanti. Non esistono in questo quadro problemi di insufficienza della domanda aggregata, collocandosi sempre il sistema naturalmente su un sentiero di crescita naturale a condizione che le distorsioni indotte dalla mano pubblica siano circoscritte. Il mercato del lavoro deve essere reso quanto possibile flessibile, circoscrivendo la rigidità attribuibile al ruolo di sindacati. La pressione fiscale deve contrarsi rispetto agli elevati livelli fin qui raggiunti; nella composizione delle entrate le imposte personali devono essere limitate per i loro effetti sulla propensione individuale all’offerta di lavoro e sulla remunerazione netta delle iniziative lato sensu imprenditoriali. Infine, la spesa sociale, in cui la componente assistenziale si ritiene essere dominante, deve essere controllata nella sua dinamica, presupposto per l’equilibrio dei conti pubblici. I mercati finanziari internazionali liberamente funzionanti sono poi essenziale meccanismo di controllo della correttezza delle scelte pubbliche e private.

Molti dubbi, di natura teorica o fondati sull’esperienza storica, possono essere fatti valere nei confronti della visione liberista, o di supply side, del funzionamento dei sistemi economici. Con riferimento al nostro paese, è concordemente sottolineato che la crescita della nostra economia in questo secolo è stata sensibilmente inferiore a quella dei paesi europei a noi assimilabili. La minore crescita è stata a sua volta determinata da una modesta dinamica della domanda interna, il cui ruolo sia dei consumi privati sia di quelli pubblici è stato insufficiente, riflettendosi ovviamente sulla propensione ad investire delle imprese.

Sulla base delle vicende più recenti non sembra che l’ipotesi di una crescita indotta dagli investimenti, fra l’altro sostenuti da indebitamento pubblico nazionale e sovranazionale, possa portare a risultati significativi nel medio periodo. Le stesse previsioni governative al 2024 scontano un significativo rallentamento. In questo senso un maggiore attenzione ai problemi distributivi, su cui incidono sia le regole del mercato del lavoro, sia la dinamica salariale, sia una corretta interpretazione delle essenziali funzioni svolte dalla spesa sociale, appare necessaria per evitare la ripetizione delle esperienze degli anni passati.

Ad elaborazione di questo punto, si deve ribadire che in Italia la spesa sanitaria è stata fortemente penalizzata nel corso degli ultimi anni, per cui i maggiori stanziamenti sono un rispristino di condizioni accettabili, più che un’espansione della funzionalità pubblica. A sua volta il sistema pensionistico italiano è in sostanziale equilibrio e, se correttamente interpretato, allineato a quello dei maggiori paesi europei. Il problema si porrà invece nel medio periodo non tanto per effetto dell’adozione del pur criticabile metodo contributivo, quanto per l’inadeguatezza e la precarietà dei redditi di una parte consistente dei lavoratori oggi giovani (evidentemente non tutelati dallo spostamento in avanti dell’età di pensionamento anticipato).

In questo contesto, comunque problematico, devono essere lette le prospettive della finanza pubblica. È stato affermato correttamente che il problema del debito pubblico può essere risolto solo con la crescita (come è accaduto peraltro nel periodo giolittiano dei primi anni del secolo XX). Ma è evidente che la crescita utile alla diminuzione del rapporto deve essere riferita alla somma di tutte le componenti della domanda aggregata, e non solo a una componente per quanto rilevante come gli investimenti. Una crescita complessiva modesta, associata alla ricerca di avanzi primari nel giro di pochi anni, dati i saldi dei conti pubblici oggi registrati, non può che ripetere gli andamenti degli ultimi anni: significativi avanzi primari non hanno consentito un’apprezzabile riduzione del rapporto debito prodotto.

Le ultime considerazioni ci portano ad affrontare il problema delle regole europee di finanza pubblica. Nella Nadef molte pagine sono dedicate a un’analisi delle scelte effettuate in sede europea nel corso della pandemia. È stata in particolare attivata la Clausola generale di salvaguardia, che ha evitato l’avvio di procedure sanzionatorie per i numerosi paesi che hanno superato i limiti di indebitamento e di debito; sono rimaste peraltro in vigore le procedure del Patto di stabilità e crescita.

Si pone a questo punto il problema della ridefinizione di queste regole per i prossimi anni, sperando che non si voglia ritornare alla semplice riproposizione di quelle preesistenti. Nell’analisi della situazione italiana e delle sue prospettive la Nadef, sotto l’impulso delle istituzioni comunitarie, fa ampio ricorso a numerosi concetti di dubbia qualità, non solo nella loro traduzione quantitativa, ma anche negli effetti derivati dalla loro non sempre meditata applicazione a situazioni concrete: prodotto potenziale, output gap, variazione del prodotto potenziale per effetto degli investimenti, saldo strutturale del bilancio. Si aggiungono poi i problemi riguardanti l’eventuale inserimento dei fondi del Pnrr nel calcolo del debito consentito (punto certamente rilevante per l’Italia dato che il debito da Pnrr ammonta a 120 miliardi). Emerge poi la contrapposizione fra spese in conto capitale (per definizione buone) e spese correnti per definizione cattive. Su questa linea sembra che si sia attestato il nostro governo.

Ma al di là della dubbia qualità di queste elaborazioni o della strumentalità di certe impostazioni, è evidente che il ritorno a impostazioni riconducibili al precedente concetto di austerità non potrebbe che rendere labili, più di quanto non lo siano oggi, le ipotesi di crescita.