L'albero della storia è sempre verde

L'albero della storia è sempre verde

"Teniamo ben ferma la comprensione del fatto che, di regola, le classi dominanti vincono sempre perché sempre in possesso della comprensione della totalità concettuale della riproduzione sociale, e le classi dominate perdono sempre per la loro stupidità strategica, dovuta all’impossibilità materiale di accedere a questa comprensione intellettuale. Nella storia universale comparata non vi sono assolutamente eccezioni. La prima e l’unica eccezione è il 1917 russo. Per questo, sul piano storico-mondiale, Lenin è molto più grande di Marx. Marx è soltanto il coronamento del grande pensiero idealistico ed umanistico tedesco, ed il fondatore del metodo della comprensione della storia attraverso i modi di produzione. Ma Lenin è molto di più. Lenin è il primo esempio storico in assoluto in cui le classi dominate, sia pure purtroppo soltanto per pochi decenni, hanno potuto vincere contro le classi dominanti. Bisogna dunque studiare con attenzione sia le ragioni della vittoria che le ragioni della sconfitta. Ma esse stanno in un solo complesso di problemi, la natura del partito comunista ed il suo rovesciamento posteriore classistico, individualistico e soprattutto anti- comunitario" Costanzo Preve da "Il modo di produzione comunitario. Il problema del comunismo rimesso sui piedi"

lunedì 9 maggio 2022

E' solo una questione di tempo e il conflitto ucraino è un forte acceleratore

Perché il rublo resiste alle sanzioni anti-Putin
di Friedrich Magnani
Pubblicato il
06/05/2022 13:38

Ecco perché il possibile default della Russia, indotto dal congelamento delle riserve in valuta detenute all’estero non ha intaccato il grado di solvibilità del debito di Mosca. E qualcuno vi vede anche l’alba di una nuova Bretton Woods, un nuovo ordine monetario mondiale

La guerra in Ucraina e le sanzioni imposte alla Russia stanno smuovendo l’equilibrio mondiale fondato sul dominio del dollaro? In realtà, è un movimento già iniziato alcuni anni fa: a sostenerlo, è il capo economista del Fondo Monetario Internazionale, Gita Gopinath, in un intervista al Financial Times. La constatazione della lenta erosione del dollaro è provata dal fatto, secondo Gopinath, che negli ultimi due decenni, la percentuale di detenzione della valuta americana sulle riserve mondiali delle banche centrali sia scesa dal 70 al 60%.

Recentemente la Banca Centrale israeliana, secondo quanto riportato dal Bloomberg a fine aprile, avrebbe ridotto l’esposizione sul dollaro e sull’euro a favore dello yen, dei dollari canadesi e australiani, e soprattutto, del renminbi cinese.

Tuttavia, secondo Gopinath, il renminbi è ancora ben lontano dal raggiungere l’importanza del dollaro, rimanendo ancora a un 3%, delle riserve mondiali. Per poter essere concorrenziale, la valuta cinese avrebbe bisogno della piena convertibilità, liquida e flessibile come quella del dollaro e dei titoli di stato americani, di un mercato dei capitali aperto e di istituzioni che siano in grado di garantirne l’uso a livello globale, negli scambi commerciali, nei prestiti e nelle riserve.

Il dollaro e i T-bond americani sono ancora molto usati dalle grandi banche centrali, come quelle di Cina e Giappone, per stabilizzare la propria moneta. Nessuno di questi Paesi avrebbe interesse a scaricarli, perché ci sarebbe sempre qualcuno interessato ad acquistarne. Non c’è per ora migliore offerta di titoli di stato, così variegata e liquida, come quella americana. Per di più, se la Cina, che detiene il 7% del debito sovrano Usa, vendesse improvvisamente l’intera quantità di treasuries (per 1200 miliardi di dollari), si sparerebbe sui piedi, perché la fuga di capitali ne danneggerebbe la valuta e l’economia.

Il mercato dei titoli del Tesoro Usa vale circa 16 mila miliardi di dollari, il doppio di quello dell’Eurozona e di quello giapponese, e più del triplo di quello cinese. Infine, il dollaro è ancora molto usato negli scambi commerciali, per un 75% dai Paesi emergenti dell’Asia, e per un 100% dai Paesi dell’America Latina, secondo quanto riporta l’Economist in una intervista allo storico ed economista dell’Università di Berkeley, Barry Eichengreen.

C’è un però. La pulce nell’orecchio viene dall’analista del Credit Suisse di New York, Zoltan Pozsar, conosciuto per essere una voce fuori dal coro. La sua tesi estrema è che si stia venendo a creare, con la guerra in Ucraina e la recente spaccatura tra l’Occidente e il resto del mondo, una nuova Bretton Woods. Ad emergere, sarebbero le economie ricche di materie prime agricole, energetiche e minerarie che, stanche del predominio delle vecchie istituzioni (Fondo Monetario, Banca Mondiale, etc.) starebbero riflettendo a un nuovo ordine mondiale. L’istituzione finanziaria dei BRICS, la New Development Bank di Shanghai, con una dotazione di soli 100 miliardi di dollari, che dovrebbe servire da contraltare, è ancora lontana dall’avere un peso economico, ma qualcosa si starebbe avverando.

Il temuto default della Russia, indotto dal congelamento delle riserve in valuta detenute all’estero, necessarie per ripagare i propri creditori, non avrebbe intaccato il grado di solvibilità del debito di Mosca, malgrado il downgrade delle agenzie di rating.

Primo, perché solo la metà dei 640 miliardi di dollari di riserve estere sarebbe stato congelato. Nel 2018, la Russia avrebbe venduto la quasi totalità della quota di treasuries americani in dollari, per evitare un eventuale confisca. Secondo, perché, l’avanzo delle partite correnti, indotto dalle esportazioni di energia (321 miliardi di dollari per il 2022) garantirebbe il flusso di cassa e la valutazione del rublo. Terzo, perché Mosca è il terzo estrattore di oro al mondo, e il quinto detentore di riserve auree, custodite entro i confini. Di recente, la Banca Centrale russa avrebbe inoltre stabilito la convertibilità dei rubli in oro. Quarto, e infine, perché il controllo dei propri capitali adottato da Mosca e la richiesta di pagamenti energetici in rubli al tasso di cambio deciso dalla banca centrale, manterrebbero rivalutata, la valuta nazionale.

Secondo Pozsar, il possesso delle materie prime, come quelle agricole, avvantaggerebbe anche la Cina, che attualmente deterrebbe in stoccaggio la metà delle riserve di grano mondiali e il 70% di quelle di mais, contro gli Stati Uniti, che ne controllerebbero rispettivamente, solo il 6 e il 12%.

Qualcosa si sta muovendo anche dal lato valutario. L’Arabia Saudita starebbe studiando la possibilità di vendere il proprio petrolio in yuan, e la Russia avrebbe accettato di far pagare il proprio petrolio in rupie, all’India, a un prezzo inferiore di 50 dollari rispetto a quello del Brent.

Una cosa è certa, gli embargo e i blocchi, con i relativi aumenti dei costi, non più votati all’efficienza di mercato ma dettati da motivazioni politiche, finiranno col penalizzare maggiormente i Paesi importatori di materie prime, soprattutto quelli più poveri, che non troverebbero il senso di una deglobalizzazione da loro non voluta, e forzata, dai grandi interessi geopolitici mondiali. Lo testimonia il recente caso dello Sri Lanka, che ha dovuto sospendere i pagamenti in dollari del proprio debito, con rischio default, per far fronte, al forte rialzo dei prezzi alle importazioni.

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